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sabato 27 maggio 2017

Letture - 304

letterautore

Arte degenerata – Non era tutta l’arte moderna, Hitler e Goebbels facevano eccezioni. Per gli espressionisti, Munch, Nolde, Kirchner, per esempio, per lo scultore Barlach. Per altri meno noti ma non meno innovativi. Artisti modernisti se non proprio d’avanguardia erano membri del partito nazista. Hitler salvava l’Espressionismo “nordico”.

Civetteria – È adescamento – e per questo, in questa valenza, accantonata. Ma di valenza positiva. Gertrude Stein ne fa il caso in “Come volevasi di mostrare”, a proposito di un arredamento che invita all’amore: “È vero delle stanze come degli esseri mani che un solo tratto bello è sufficiente e come una donna francese si veste per quell’unico lineamento sì da metterlo in evidenza e non far notare nient’altro…”.
L’amore è una scoperta progressiva e lenta, il racconto di G. Stein è in questo tradizionale. La novità limita al saffismo. E si rivela alla lettura, alla lettura di Dante, della “Vita nova”. Ma ha un’altra maniera di porre la cosa, originale: Adele si sveglia “improvvisamente dalla sua lunga apatia emotiva”, in età adulta, senza saperlo. Per effetto di un corteggiamento subliminale, non dichiarato cioè, e insistito: viene svegliata all’emozione tramite l’attrazione.
Il tempo del racconto è anche quello in cui la civetteria era un valore, come la festa, la vacanza, l’innamoramento, la gelosia, il piccolo è bello, l’attimo fuggente. La pratica non si riduceva al consumo, e al rapporto qualità-costo, di tempo, impegno, energia.
Il sesso free ha ucciso la civetteria – se si riguarda la “storia dell’amore” sullo sfondo di questo racconto del 1903? In letteratura e nella vita. Ma si può anche sostenere che ha ucciso pure il sesso – in letteratura certamente: non se ne fa più, e se si fa suona falso.

Eroe – È misantropo, e misogino, nella letteratura ora popolare – i gialli, l’avventura, la fantasy. Dopo essere stato per un paio di millenni, dall’“Iliade” in poi, il difensore o il salvatore della bella,  il cultore dell’amore.
Questo non lo è più da tempo, da quando al letteratura s’è imborghesita, nell’era dell’economia. Or è disappetente. Se non in forme negative: l’eroe si assottiglia, invece di affermarsi ambisce a cancellarsi, quando ancora ambisce a qualcosa. È assente nelle storie omosessuali. E dove usa, nei gialli, è solitario: Dupin e Sherlock Holmes, Maigret, Poirot, Marlowe, Sam Spade, Carvalho, Montalbano. O allora impegnato, di rado, solo a letto, un colpo e via.
Il declino viene col femminismo – l’indifferenza al genere? O con l’inappetenza consumista? 

Guerra – “Il vero esercito non è fatto dei vivi ma dei morti”, Lernet-Holenia, “Lo stendardo”.

Hölderlin – Presto dimenticato, già in vita – morì nella disattenzione dopo la lunga “follia”. Fu riscoperto da Dilthey negli anni 1860. E ristampato cinquant’anni dopo. Come poeta classico e romantico insieme.
Anche Heidegger, al quale si deve il contributo critico di maggiore peso, se non spessore, lo scoprì tardi, in prossimità dei suoi cinquant’anni. Erigendogli, è vero, un monumento. Ma con due attributi problematici. Come il poeta della grecità, della Germania greca, nel solco dell’arianesimo - cui però Hölderlin è del tutto estraneo, in versi e in prosa. E della paganizzazione della teologia cristiana – da cui il pio Hölderlin si sarebbe ritratto probabilmente inorridito: lui cristianizza tutto, nella compassione, nell’animizzazione.  

Irlanda – È terra d’esilio, da cui esiliarsi? “Oh Irlanda”, Gay Talese fa dire a Peter O’Toole sull’aereo per Dublino (in “Frank Sinatra ha il raffreddore”, 141), “è la scrofa che odia i suoi porcellini”.  In poche parole il destino della parte migliore forse dell’Irlanda. Certamente dei suoi letterati: in nessun altro paese si contano tanti espatri volontari, e di così gran lustro – successivamente all’espatrio. Joyce naturalmente, Beckett, Yeats, Synge, O’Casey, O’Brien. E Wilde, e indietro fino a Swift.

Montalbano . Carlo degli Esposti si diminuisce con D’Orrico sulla “bionda nordica, preferibilmente straniera” del suoi Montalbano e Maltese in tv: è “la trappola del Maestro”, dice, Camilleri. Che fa machiavellico: “Se metti una bionda nordica susciti nelle lettrici e nelle telespettatrici una gelosia bestiale”.  In realtà Livia è nordica ma non suscita nessuna gelosia, perché Montalbano non la sopporta. Ingrid semmai, la donna libera e forte. Che però è la figura femminile che sola si confà a Montalbano, mezzo notabile salveminiano e mezzo “fascistone”. Carlo ha voluto minimizzare il contributo suo, e di Sironi, al Montalbano televisivo. E anche le ragioni della distribuzione – e inizialmente della coproduzione.

Morte – “La morte inizia quando qualcuno accetta di essere morto”, è saggezza dei “patagoni, nella solitudine dei loro rancho”, assicura Luis Sepúlveda, “Patagonia Express”, 20.

Pessoa – È come sarà Foucault, prefazione a “Archeologia del sapere”, 1969: l’autore che dichiara  la fine dell’autore E annuncia che non sarà mai lo stesso, quella pretesa la lascia all’anagrafe. Creatore in continuo dunque, seppure di se  stesso. Proprio come l’autore, che si vuole proteiforme, costante e mutevole con i personaggi che crea. “I libri sono come tunnel, che si scavano per fuggire a se stesso” è massima di Foucault, secondo Maurizio Ferraris.


Traduzione – Trasforma anche Dio, dopo la filosofia – il Dio dei sacri testi. A partire dal “vanitas  vanitatum” dell’“Ecclesiaste”, annientato da Ceronetti apprendista semitista. Ora il “Dio degli Eserciti” dei “Salmi” è trasformato in “Signore dell’universo”. 

òetterautore@antiit.eu 

Il mito latino della felicità del poco

L’epica della Patagonia, sulle tracce di Chatwin.  Delle follie realizzate: estancias nel deserrto, piloti avventurosi su aerei impossibili, il buco nell’ozono scoperto e misurato dal nazista in fuga. E di quelle inesauribili: la caccia ai fantsmi, Butch Cassidy e Sundance Kid, le anime dei pirati vaganti, lo stesso Chatwin, rianimato. Una rassegna di brevi aneddoti nel solco di quella che è ormai una tradizione: l’epica latina basso-alta, riscatto di un mondo che non riesce a liberarsi dei suoi demoni.
Un mondo di felicità fantastica. Che però, continua, costante, finisce per essere reale: è il “discorso”. Creazione di letterati, Borges, Garcia Marquez, Vargas Llosa, Sepúlveda. Un ciclo che si nutre da sé, dell’invenzione del piccolo, della santificazione dell’irrilevante - come queste prose. Anche se irrilevante lascia la realtà. Qui, per esempio, incidentali sono “trecentomila ettari di bosco andati in fumo, bruciati per lasciare il posto alle praterie di cui avevano bisogno gli alevatori di bestiame”.

Luis Sepúlveda, Patagonia Express, Tea, pp. 128 € 9

venerdì 26 maggio 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (327)

Giuseppe Leuzzi

“Non esiste passione più dominante e istintiva nello spirito umano del bisogno della terra cui si appartiene”, è la considerazione centrale della prima prova narrativa di Gertrude Stein, “Come volevasi dimostrare”, 1903. Di una che non aveva patria. Questo si dice, prosegue, “dei montanari svizzeri, degli scandinavi, dei francesi e di tutte le altre nazioni che hanno un background poetico”, ma vale ovunque, tra i poveri di Londra o tra le praterie: “Arriva sempre il momento in cui nulla è così importante come una boccata della propria aria e del proprio clima. Se si dovessero spendere gli ultimi soldi che ci rimangono sarebbero certo spesi in quel biglietto di ritorno”.

“Irlanda, puoi amarla ma non puoi viverci”, Gay Talese fa dire a Peter O’Toole, che torna nell’isola dove è nato e cresciuto. Ci sono terre da cui si emigra, volontariamente.

“Adolphe”, il romanzo di fondazione del genere romantico, Benjamin Constant finge che si sia ritrovato in  un albergo di Cosenza tra le carte di uno sconosciuto. Perché Cosenza? La Calabria era ancora (1816) “pittoresca”, evocazione di un mondo remoto.

Londra, che è la città europea più amata dal turismo, era all’inizio del Novecento, nel racconto di G.Stein, “Come volevasi dimostrare”, “il peso morto di quell’aria carica di nebbia e di fumo, il cielo che non suggerisce mai quel pulito spazio azzurro che per tanto tempo è stato il nostro compagno quotidiano, il sole tetro, la luna e le stelle che sembrano imitazioni dipinte sul soffitto di una stampa piena di fumo, le strade umide, sporche, tristi, e le donne con le sottane inzaccherate, sfilacciate, le facce gonfie e foruncolose per lo sporco che è penetrato dentro la pelle ed è diventato un elemento naturale della loro superficie…”. Ci sono cicli nella storia: la storia si fa..

La mafia è una delle mafie
Dice e non dice il capitano dei Carabinieri Scafarto incaricato a Napoli delle indagini su Renzi padre, accusato a Roma di avere  manomesso una intercettazione telefonica. Non dice: “Ho sbagliato”. Non dice nemmeno: “È un caso d’imperizia”. Oppure: “Le intercettazioni noi non siamo addestrati a farle”. Dice e ripete: “Ho condiviso tutto con il giudice Woodcock”. Cioè ricatta. Non dice infatti: “Woodcock mi ha detto e io ho fatto”. Aspetta.
Il capitano Scafarto – o il giudice Woodcock, a sentire Scafarto – non aveva attaccato soltanto Renzi, ma anche mezza arma dei Carabinieri. Che tace.

Il “Corriere della sera” fa il caso della pubblicità delle aste giudiziarie di Milano assegnata dal Tribunale a scatola chiusa a una società di scatole cinesi, anonime, da paradisi fiscali. Un affare da un milione di euro, che più mafioso non si può.
Un appalto connesso, e già questo è sospetto, alle “attività propedeutiche all’avvio del processo civile telematico”, ma vinto con un ribasso monstre, del 75 per cento rispetto alla cifra base d’asta.
L’appalto è passato da zio (“chi scriveva il bando”, forse una zia) a nipote (“chi lo vinceva”).
Le Procure che hanno indagato, Milano e Brescia, su denuncia della concorrenza, si sono rimpallate la pratica e hanno  deciso di non farne niente.
E poi c’è il giornale. La prosa del cronista del quotidiano milanese Ferrarella non è comprensibile,
È la denuncia di un malaffare. Di due malaffari, l’appalto e l’inchiesta. Ma omertosa in tutto. L’indignato cronista sta bene attento a non dire il nome dello zio, o zia, e del nipote dell’affaruccio.
Dietro l’illeggibilità Ferrarella racconta una storia di appalti truccati a palazzo di Giustizia a Milano e di rifiuto dei giudici di perseguirne i resposnabili. Ma come se fosse ordinaria amministrazione.

Il Palermo, la squadra di calcio, ormai retrocessa in serie B, se perde domenica anche l’ultima partita guadagna quindici milioni - un quarto, forse un terzo, del suo fatturato. Si gioca dunque per perdere, secondo la legge italiana. Senza scandalo.
L’ultima partita il Palermo gioca contro l’Empoli, che ha assoluto bisogno di vincere per non andare in serie B. Il premio al Palermo sconfitto è dunque anche un’assicurazione per l’Empoli.
Vittima della controassicurazione è la squadra del Crotone, che la vittoria dell’Empoli condanna in sua vece alla serie B. Senza mafia naturalmente, né alla Lega Calcio né alla Figc, la federazione – la mafia, come si sa, è col Crotone, in Calabria.
Due domeniche fa la squadra calabrese era stata condannata, indirettamente, già a Roma, dalla Juventus. Che ha giocato contro la Roma per perdere, schierando riserve, e non parando i gol. Obbligandosi a schierare il meglio di sé la domenica successiva proprio contro il Crotone, per assicurarsi i tre punti necessari a vincere il campionato. Due storie non sanguinose. Ma quanto prepotenti.
Per non dire degli errori arbitrali tutti a senso unico contro il Crotone nel girone di andata.

La potenza del discorso
Si scorrono col sorriso e l’empatia i narratori dell’America Latina, tutti peraltro celebrati universalmente, Borges, Amado, Garcia Marquez, Vargas Llosa, Sepúlveda, in vigorose creazioni di miti e mondi rutilanti della parola, a fronte di una realtà ovunque variamente esecrabile e irriformabile, sociale, economica, politica. Mondi poetici, fortemente, fantastici, amabili, superiori. Mentre il “discorso” del Sud è invece rancoroso, distruttivo, cattivo. Sempre, radicalmente, anche se la realtà non manca di spunti difendibili e perfino positivi.
Il discorso positivo promuove la simpatia. Che non dà fatturati  ma fiducia sì, in se stessi.  Che invita magari al ripiegamento e rischia il folklore (dal Messico in giù straripante), lo strapaese, l’inerzia, nel compiacimento . Ma è meglio, molto, dell’acido esecratorio.
Il Sud lo sa, ci fu un Sud mitico, prima della “questione meridionale”. Dei grandi narratori siciliani, Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello – una tradizione ora ripresa da Camilleri. Scrittori non accomodanti e anzi “tremendisti”, che però discernevano. O di Corrado Alvaro. O dei grandi napoletani, da De Sanctis e Croce fino a Totò. Ora il Sud quale è è residuale, in narratori calabresi da secondo e terzo scaffale, ricordati unicamente dagli amici, anzi chiusi nello stanzino di paese, senza finestre, che invece hanno e danno allegria, Zappone, Delfino. Il Sud è tutto mafia, da Sciascia a Bocca e Saviano, senza respiro.
Il “discorso” è di Foucault – è la narrazione - ed è al centro della sua “archeologia del sapere”. Che lo ha portato a tanti sorprendenti e veritieri lavori di scavo, sulla follia, la malattia, il carcere, la sessualità, il piacere. Il discorso è la realtà della cosa, non ce n’è altra. Un “dispositivo”, lo dice l’archeologo del potere: la sua realtà non si pone, viene organizzata. Non una struttura, una cosa in sé. O allora si chiami struttura ma sapendo che viene elaborata e imposta.
Non è una novità. Il discorso di Foucault è la frase fatta o luogo comune di Flaubert, l’opinione di Nietzsche, l’Idealtypus di Max Weber, i modi di Spinoza, le monadi di Leibniz, i multipli di Platone. Il pregiudizio. Lo stereotipo. Ma non avulso dalla realtà, e anzi suo fondamento – dispositivo.
Non è una novità, lo stereotipo non è nuovo. La novità è che è fisso, almeno al e sul Sud. Indefettibile, immutabile. Il discorso di Foucault si caratterizza per essere storico, mutevole – per mutazioni ininterrotte nei secoli, benché misteriose. Quello del Sud è immutabile. Restrittivo e punitivo.

leuzzì@antiit.eu

La poesia è ancora una passione

“Datemi un sogno, un sogno da sognare,\ ma così bello che non si possa realizzare…”. Un altro Perri, non quello di “Emigranti”, meridionalista e antifascista. Un agricoltore, nato a Locri, residente a Ciminà, nelle balze settentrionali dell’Aspromonte. Uno che, dice, avendo rinvenuto in un casale da lui acquisito da Giovanbattista Grillo una cassa di libri, se li è letti e ha maturato la passione per la lettura. Anche per la scrittura, che è la sua occupazione nel tempo libero.
Nulla di speciale. Racconti di guerre immaginarie, e versi di sogni e d’amore. Per la turista che fa il bagno a Siderno, “balenan tra l’onde, o bella sirena,\ I tuoi seni rotondi di luna piena”. Come per Antonella Clerici, “mossa chioma di nuvola gialla,\ le tua ciglia son’ali di farfalla”. Il curioso è che la passione letteraria, pur con tutti i suoi limiti, fiorisca in orizzonte ristretto e anzi chiuso, della piccola ananke quotidiana. In  ambiente sovrastato dal malaffare. Che la poesia sia ancora il diletto di qualcuno, non della professione.
Francesco Perri, Io, me stesso e qualcun altro, Calabria Letteraria Editrice, pp. 114 € 8

giovedì 25 maggio 2017

Problemi di base mafiosi - 331

spock

Che fine ha fatto lo Stato-mafia?

E il processo in pompa di Ciancimino jr., col teologo centomocida Spatuzza?

E il giudice Alfredo Montalto, che fa?

Bisogna dare un altro Berlusconi in pasto all’antimafia, non ci sono mafiosi?

Forse bisognerebbe liberare Dell’Utri, e incaprettarlo di nuovo?

Chi si è pentito una volta, da Marino in poi, non si pente poi tutta la vita?

Si cerca da trent’anni Matteo Messina Denaro, ma non a casa sua, a Castelvetrano?

Falcone e Borsellino, erano dello Stato, o che?

spock@antiit.eu

Il buon giornalismo è per sempre

Il libro minore di Talese, una raccolta di dodici ritratti scritti per le riviste, soprattutto “Esquire” e “Harper’s”. Ma levitanti, anche quando i soggetti sono piatti. Il ritratto di Sinatra che farà scuola – l’italiano in America emerge col canto, come Sinatra: Perry Como, Frankie Laine, Tony Bennett, Vic Damone. Muhammd Alì già afasico in visita da Castro, che non sa che dire. I Kennedy antitaliani, specie Bob e Peter Lawford. La solitudine di Peter O’Toole – e le suore irlandesi ignoranti all’asilo, con Talese come con O’Toole. Joe Di Maggio. La “Paris Review”. Lo scrittore di necrologi al “New York Times”, tutto in tinta. Molto pugilato, Floyd Patterson, Joe Louis, il cubano Stevenson, lo stesso Muhammad Alì. Con tre prose seminali del capolavoro “Ai figli dei figli”.
Il “new journalism” che Talese ha battezzato non è più in voga. Richiede in effetti doti di narratore, se la ricetta è questa: “Io credo che, scavando abbastanza a fondo nei personaggi, si possa renderli veri quanto basta da farli sembrare inventati. È ciò che voglio: evocare il romanzesco che scorre sotto la superficie della realtà”. Ma vuole anzitutto onestà – umiltà - di reporter. Che invece è difficile.
Gay Talese, Frank Sinatra ha il raffreddore, Bur, remainders, pp. 317 € 6 

mercoledì 24 maggio 2017

La vera storia di Giovanni Falcone

Sarà utile rileggere, nell’ottica dello Stato-mafia che pure sottende l’unanimità delle celebrazioni oggi delle vittime eccellenti delle stragi di mafia, quanto questo sito dovette a suo tempo scrivere di Falcone:
A proposito di Leoluca Orlando, che chiude la storia, vale la pena citare l’autodifesa, ora resa pubblica, a cui Falcone fu costretto nel 1991 davanti al Csm, su denuncia dello stesso Orlando, con Alfredo Galasso e Carmine Mancuso. I tre avevano accusato Falcone di tenersi nel cassetto i procedimenti di mafia. “L’Unità” aveva titolato: “Falcone preferì insabbiare tutto”. L’audizione del Csm è un vero stato d’accusa. Falcone si difende dapprima celiando: Orlando è un amico - “Quando, nel corso di una polemica vivacissima…, una giornalista mi chiese cosa pensassi di Orlando, io ho detto «ma cosa vuole che possa rispondere di un amico»”. Così non la pensava Orlando, che lo denunciò in tv e al Csm. Perché evidentemente aveva degli obblighi.
Falcone lo spiega subito dopo, avendo infine capito di essere sotto processo: lo scontro è su Ciancimino, di cui lui ha disposto l’arresto. “Se vogliamo dirlo, questo mandato di cattura non è piaciuto. Perché dimostrava e dimostra… che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare, sottobanco, in queste vicende”. Ciancimino, cioè la mafia.
Falcone aveva toccato una forma di “Stato-mafia”: i voti a Orlando, gli appalti a Ciancimino, cioè alla mafia.

La vera storia di Giovanni Falcone

Giuseppe Leuzzi

“La mafia è il sotterfugio dell’invidia
che ti colpisce a tradimento”.
Alda Merini, “Delirio amoroso”, 15 

Ogni anno si celebra a Palermo il 24 maggio l’anniversario della strage perpetrata contro Giovanni Falcone. Una ricorrenza dovuta, dalla quale però latita la verità. Perché l’attentato fu messo in opera dalla mafia, ma quasi certamente non da sola. E quando il giudice Falcone era già stato assassinato moralmente, spiritualmente. Magistrati, ministri, notabili, sorelle ne violentano ogni anno la memoria, facendolo vittima della mafia e della reazione in agguato, lui che fu vittima della mafia e del potere sinistro che tuttora governa l’opinione. La sinistra faziosa, del Pci (già Pds), del Consiglio superiore della magistratura, e di Leoluca Orlando. O di Violante, il teorico nefasto del Terzo Livello, da cui Falcone rifuggiva, che ha avviato la stagione che ci affligge dell’antipolitica. Il presidente Napolitano dice il giudice assassinato “grande esempio morale”, ed è verissimo, ma non a favore dell’ipocrisia perdurante. Falcone fu ucciso dalla mafia dopo che una certa sinistra ripetutamente, con accanimento, glielo aveva messo nel mirino. Da un anno lo processava con l’accusa di collusione con la mafia.
Io ho conosciuto Giovanni Falcone all’ambasciata americana, a una cena a villa Taverna, la residenza ai Parioli dell’ambasciatore. L’antivigilia dell’attentato. Era sereno e socievole. Al tavolo con De Gennaro, il vice-direttore della Dia, la direzione investigativa antimafia. In ottimi rapporti con Claudio Vitalone e la sua biondissima bella moglie. Era certo, chissà perché, della nomina a capo della Procura Nazionale Antimafia. Forse glielo aveva detto Vitalone, prossimo di Andreotti. Ma l’avevo già incontrato al ministero, al quarto piano, in pizzo all’ascensore. Ero andato al ministero a parlare col professor Federico di alcune statistiche della giustizia, e al quarto piano, uscendo dall’ascensore, c’era di fronte il giudice Falcone che guardava. Triste, lo sguardo sperduto, in una fermata distratta nel suo conchiuso andirivieni per i trenta passi del vestibolo. Era fuori posto, non era un burocrate.
Era una persona a tutto tondo, non quello che aveva fatto il concorso. Né il giudice di partito grigiastro, o del sindacato, del piccolo potere che faceva e di più farà la storia della professione. Per questo stesso motivo “esposto”, così apparve in quegli istanti, e anzi osteggiato, in ogni forma - compreso l’impossessamento. Una prima netta impressione soverchiata allora dalla sorpresa. Come in una scena da film, d’istinto il pensiero sopravvenne di un killer che sale tranquillo al quarto piano del munito edificio, quando si apre la porta dell’ascensore si trova la vittima davanti con un sorriso smarrito, lo fredda, pigia il bottone, e se ne va.
Il governo proteggeva male Falcone. Dopo la cena a villa Taverna, partì solo, con un autista. Su una Tipo, la macchina di Montalbano, una macchina così, con targa E.I., forse dei Carabinieri. In precedenza ancora, usavo parcheggiare in centro nella piazzetta che ora è stata chiusa per proteggere alle spalle il palazzo Grazioli dove vive Berlusconi. Il parcheggio lungo le mura dei palazzi era proibito ma, come spesso a Roma, tollerato. Finché un giorno un poliziotto trafelato m’inseguì per chiedermi di spostare immediatamente la macchina. Il divieto era stato anche rafforzato da strisce gialle, in corrispondenza di due finestre munite di inferriata. Nella parete posteriore del Primo commissariato di Ps, di piazza del Collegio Romano. Le due finestre corrispondevano all’appartamento di servizio di Giovanni Falcone a Roma, qualcuno mi disse. Dunque il giudice Falcone viveva a Roma sperduto nel ministero e dietro le inferriate di una caserma.
Più di tutto Falcone era isolato politicamente. Anche all’interno della sua stessa corrente sindacale dei magistrati. Per la guerra dichiarata che il Pci conduceva contro di lui senza esclusione di colpi. 
Quando il prode Riina chiese le telecamere per affermare, nella pausa di un processo a Reggio Calabria, che il suo nemico ora erano “i comunisti”, un brutto pensiero si affacciò: perché non erano suoi nemici prima, “i comunisti” che nel nome dell’antimafia fecero una guerra senza quartiere contro Falcone? Il giudice che per primo e quasi da solo aveva mostrato che la mafia è fatta di delinquenti, solo più sanguinari di altri, e che si può battere quando si vuole.
Su questo fatto, che non si vuole dire, vale la pena rileggere quanto Ilda Boccassini dichiarò in pubblico il 25 maggio 1992, alla commemorazione milanese di Falcone, reduce dalle condanne ottenute per la “Duomo Connection”, l’inchiesta che aveva condotto col giudice assassinato, davanti al Procuratore Generale Giulio Catelani, al Procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, suo superiore gerarchico (che poi la riprenderà severamente), e all’Avvocato generale Mario Daniele: “Giovanni sapeva di dovere morire. Ma gli è toccato morire con l’amarezza di essere lasciato solo”. E anzi accusato dai suoi colleghi di lavoro di lavoro e compagni politici: “Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Non potrò mai dimenticare quel giorno a Palermo, due mesi fa, quando a un' assemblea dell’associazione magistrati le parole più gentili per Giovanni, soprattutto da sinistra e da Magistratura democratica, erano di essersi venduto al potere. Mario Almerighi lo disse: «Falcone è un nemico politico»” – Almerighi presenterà un esposto contro Ilda Boccassini al Procuratore Catelani, affermando di non avere pronunciato questa frase, ma l’esposto finirà nel nulla. “Un conto è criticare la Superprocura”, continuò Boccassini, “un conto è dire - come il Csm, i colleghi, gli intellettuali del fronte antimafia - che Falcone era un venduto, una persona non più libera dal potere politico”. Falcone era andato al ministero non per fare carriera: “Giovanni aveva scelto l’unica strada per continuare a aiutare i colleghi, andando al ministero per fare sì che si realizzasse quel progetto rivoluzionario di una struttura unica per combattere la mafia”. Su questo punto l’allora giovane giudice insiste, invitando il governo a non abbandonare il progetto della Superprocura, e denunciando lo smembramento del gruppo di carabinieri che hanno lavorato alla “Duomo Connection”. Ma conclude con una requisitoria precisa: “A quanti colleghi che sono qui ho cercato di fare aprire gli occhi, ma sono stata spazzata via anch’io perché ero amica di Falcone. I colleghi che stamattina sono a Palermo fino all’altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. Gherardo Colombo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali? E l’ultima ingiustizia Giovanni l’ha subita proprio dai giudici di Milano, la rogatoria per lo scandalo delle tangenti gliel’hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: «Che amarezza, non si fidano del direttore generale degli affari penali». C’è tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Abbiate il coraggio di dirlo adesso, e poi voltiamo pagina. Se pensate che non era più autonomo, libero, indipendente, perché andate ai suoi funerali? Dalla Chiesa non può andare ai funerali, Orlando non può andare. Se i colleghi pensano che in questi due anni Giovanni Falcone si sia venduto lo dicano adesso, vergogniamoci e voltiamo pagina. Ciao, Giovanni”.
Nel libro “Fuori l’Italia dal Sud”, edito un anno dopo la morte di Falcone, ne avevo dato a caldo la vera storia, che tuttora rimane l’unica:

Storia di Falcone
“La Direzione Nazionale Antimafia, o Superprocura, l’ha temuta prima ancora che nascesse la mafia, l'ha osteggiata con asprezza la magistratura. Naturalmente non per gli stessi motivi: quelli dei mafiosi sono spregevoli, quelli dei giudici nobili, poiché difendono l'autonomia della magistratura. Ma con un lato oscuro: non c’è serenità nella difesa dei giudici, attenzione alle ragioni degli altri o spirito dialettico, come si diceva prima del diluvio.
“A Giovanni Falcone, ideatore della Superprocura antimafia e candidato a crearla all’inizio del 1992, il Csm ha opposto Agostino Cordova, il procuratore capo di Palmi. È interessante mettere a raffronto le due esperienze. Non per fare un paragone tra due persone, cosa sempre odiosa. Ma per chiarire come mai contro la mafia sono inefficaci magistrati anche ottimi.
“Giovanni Falcone è il magistrato che con più costanza e successo è andato a segno contro Cosa Nostra negli anni Ottanta, in Sicilia e negli Stati Uniti, animando un gruppo di magistrati antimafia costituito alla procura di Palermo insieme con il consigliere istruttore Rocco Chinnici, assassinato nel 1983. I politici lo temevano ma molti magistrati non lo amavano. Vediamo come fu premiato, nel ritratto che ne fa un cronista non del tutto benevolo, Saverio Lodato, in “Potenti”: “Falcone, vale la pena ricordarlo, quando era a Palermo venne bruciato nella sua corsa alla direzione dell’ufficio istruzione da un Csm che gli preferì il consigliere istruttore Antonino Meli, venne bruciato nella sua legittima aspirazione a dirigere l’Alto commissariato contro la mafia da un Parlamento che gli preferì Domenico Sica, non fu eletto al Csm per una manciata di voti che gli venne meno dalla sua corrente, e alla fine si ritrovò posteggiato alla Procura di Palermo”.
“Falcone fu bocciato la prima volta dal Csm grazie anche al voto contrario di due membri del Consiglio che il magistrato riteneva, ha confidato a “Panorama” l’ex superiore di Falcone, Antonino Caponnetto, suoi amici fidati: Marcello Maddalena e Vincenzo Geraci - che insieme a lui aveva per primo interrogato Tommaso Buscetta. Prima del voto Falcone era stato colpito da una serie di lettere infamanti, provenienti da ambienti giudiziari e provvisoriamente attribuite a un fantomatico Corvo. “Andarono di notte a casa di Meli per convincerlo a presentare la domanda”, Antonino Caponnetto ha ancora raccontato all’“Espresso”. Perché da Meli? Perché aveva più anzianità di servizio. “Falcone”, insinua Lodato, “è sopravvissuto per miracolo a un agguato che ancora oggi resta avvolto nel mistero”. 
“Bruciato è la parola giusta, perché, spiega il magistrato Nitto Palma, sostituto procuratore a Roma, a Marco Nese per il “Corriere della sera”, “Falcone nella magistratura aveva pochi amici. Non era benvoluto. Anzi. A ogni occasione cercavano di fargli lo sgambetto”. E lo spiega con un'altra vicenda, che Lodato trascura, le accuse di Leoluca Orlando a Falcone: “L’ex sindaco di Palermo va al Csm e accusa Falcone e i giudici palermitani di aver tenuto nei cassetti le carte sui politici mafiosi. Un’accusa gravissima. Bisognava fare chiarezza subito”. Invece il Csm ha lasciato languire la cosa per oltre otto mesi. “Nel frattempo”, dice Palma, “Falcone veniva sottoposto a una pesantissima campagna denigratoria e diffamatoria”.
“Ricorda “l’Unità” il giorno dopo l'assassinio di Falcone: “Quando il Csm lo convocò per difendersi parlò per ore”. L'accusa era stata presa sul serio. Questa la posizione difensiva di Falcone: “Faccio rilevare che tutti i fatti e le rivelazioni di cui si parla oggi (cioè i rapporti tra politici e mafiosi) sono emersi dalle mie indagini, non da inchieste fatte da altri e poi smontate da me”. Conclude “l’Unità”: “A palazzo dei Marescialli i componenti del Consiglio dissero che Falcone era stato molto convincente ma il procedimento che lo riguarda non è stato ancora formalmente archiviato”.
“L'attentato fallito, preparato con la dinamite, doveva aver luogo all'Addaura, un posto di mare, nel 1989, mentre Falcone vi intratteneva il procuratore di Lugano Carla Da Ponte e altri magistrati svizzeri.
“Il Csm, vale la pena ricordarlo, è l'organo di autogoverno dei magistrati. In fatto di sgarbi a Falcone non si è risparmiato: quando il giudice, impedito nella sua carriera a Palermo, assunse la direzione Affari Penali al ministero, gli negò la promozione indispensabile per occupare l'incarico, costringendo la Corte dei Conti a bloccare la nomina. Il Csm non nega mai le promozioni, per il noto principio del galleggiamento, per cui tutti i pari grado vengono fatti beneficiare degli avanzamenti, di titolo o di retribuzione, maturati dal singolo magistrato(omissis). E infatti Falcone ebbe poi l’incarico: importante era manifestare l’ostilità.
Storia di Cordova
“Il 26 febbraio 1992 il comitato Direttivi del Csm ha negato a Falcone la designazione al vertice della Superprocura antimafia, cui si riteneva candidato naturale, preferendogli Agostino Cordova. Contro Falcone hanno votato Franco Coccia, del Pds, e gli esponenti dei sindacati nei quali egli aveva militato, Gianfranco Viglietta di Magistratura Democratica e Alfonso Amatucci dei Verdi. Amatucci chiarì: “L'indipendenza politica di Cordova è comprovata per tabulas ed è più marcata che in Falcone”. Amatucci, giovane magistrato della prima sezione del Tribunale civile, era stato preferito a Falcone nel giugno 1990 alle elezioni per il Csm: “Nella capitale il mio lavoro era molto apprezzato dai colleghi”, ha poi dichiarato a Cristina Mariotti dell’“Espresso”.
“Agostino Cordova, un signore tanto riservato, fino a qualche tempo fa, quanto fantasioso nelle imputazioni, è dal 1987 procuratore capo della Repubblica a Palmi. Governa cioè il distretto a più alta concentrazione mafiosa del mondo, comprendente la stessa Palmi, Gioia Tauro, Rosarno, Taurianova, Oppido Mamertina e altre cittadine minori. Nel settembre del 1990 ha lamentato in una lettera a “Repubblica” che i giudici in Calabria sono ostaggi della mafia, essendo troppo pochi rispetto al numero dei mafiosi: “Nei 33 comuni del circondario ci sono 50 cosche”. In questi ultimi anni, effettivamente, non c’è ragazzo nel distretto che non provi la tentazione di prendere le armi e fare una sua cosca. Ci sono paesi dove non passa sera in cui non si facciano furti, non si brucino automobili o case, e non si spari, anche contro i carabinieri, le loro jeep e le loro caserme, per spregio, per intimidazione, per taglieggiamento.
“Del resto, dice filosoficamente il procuratore capo Cordova a Carlo Macrì del “Corriere della sera” a commento dell'assassinio di Falcone: “Resta fermo il concetto che la mafia vince se decide di vincere”. Di Taurianova, paese famoso per la testa mozzata al salumiere Giuseppe Grimaldi, Cordova aveva detto: “Nella plaga domina la criminalità”. L’assassinio Grimaldi era una vendetta trasversale. Avevano colpito il padre per le colpe commesse qualche mese prima dal figlio Vincenzo, ha spiegato Wladimiro Greco sul “Giorno”: “Tutti sanno che Vincenzo avrebbe fatto parte del commando che uccise il boss, ex consigliere comunale Dc, Giuseppe Zagari, mentre stava facendosi radere dal barbiere”. Tutti meno evidentemente la giustizia.
“Due azioni segnalano Cordova. La lettera a “Repubblica” seguiva a una brillante operazione nella quale i suoi uffici erano malgrado tutto riusciti a produrre, dopo un anno di indagini, e contro il parere del giudice per le indagini preliminari e della Corte di Cassazione, una ventina di capi d'accusa contro l'Enel, che intende costruire una centrale a Gioia Tauro: mancanza del nulloasta dei vigili del fuoco, inosservanza delle norme in materia di qualità dell'aria, distruzione o depauperamento delle bellezze naturali, avvelenamento dell’acqua e delle sostanze alimentari, distruzione di materie prime e di prodotti agricoli, diffusione delle malattie delle piante, inosservanza dei vincoli archeologici, crollo di costruzione, altri eventi calamitosi, turbativa d'asta, e alcuni reati in tema di concessioni edilizie. Un colpo maestro che bloccava la centrale stessa, invisa ai galantuomini della zona.
“All’alba del 3 dicembre 1991, giorno del grande sciopero dei magistrati contro Cossiga e contro la Superprocura antimafia, voluta dal ministro di Grazia a Giustizia Martelli, socialista, Cordova spazza via un colossale traffico di armi, droga e voti messo su a Rosarno dalla cosca mafiosa dei Pesce con i socialisti di tutta la Calabria, il capo della P2 Licio Gelli e imprecisate “alte sfere della Giustizia”, cioè del ministero. Ingenuità o sfrontatezza, il traffico era stato organizzato attraverso il telefono del ristorante di Rosarno, il Crystal. Finiscono dentro o sotto accusa, senza tanti rispetti, anche personaggi integerrimi e rispettati alla pari di Cordova. A due parlamentari socialisti viene contestato l'articolo 112, numero 2, del codice penale, che reca il titolo “promozione e direzione dell’attività criminosa”. I due, insomma, sono capimafia (rileggendo l’atto qualche tempo dopo, Cordova si fa prendere dal dubbio e dice a Sandro Acciari, dell’“Espresso”: “Un errore dattilografico” - ma l'accusa è ben specificata nelle richieste di autorizzazione a procedere inviate alle Camere).
“L’ora X scatta, spiega Pino Arlacchi su “Repubblica” il giorno dopo, a seguito di “un lavoro investigativo complesso, durato due anni, che ha coinvolto nove uffici giudiziari differenti e centinaia di magistrati inquirenti e funzionari di polizia”, e si è tradotto in 650 pagine di motivazioni. “Formalmente aderiamo alla protesta, siamo qua solo per esigenze di servizio”, dice Cordova ai giornalisti. E spiega: “Facciamo rilevare che quando ci sono organi di polizia che operano fattivamente e quando c’è collaborazione tra i magistrati, si possono ottenere risultati positivi anche senza superprocure e senza superprocuratori”. Subito dopo presenta la sua candidatura a Superprocuratore.
“È una candidatura a sorpresa. Ma Sandro Acciari rivela sull’“Espresso” che Cordova è in realtà il primo dei candidati, con un curriculum di prim’ordine: “Nel 1990 il procuratore Cordova ha aperto 23 procedimenti per associazione mafiosa, 14 per associazione a delinquere, 12 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti”. Il 24 maggio, dopo l’assassinio di Falcone, Cordova precisa sempre all’“Espresso”, di non essere mai stato contrario alla Superprocura, ma solo ad alcuni suoi aspetti”.
A questo punto occorre precisare che nel prosieguo della sua carriera, silurato alla Procura nazionale antimafia (era solo un candidato di rottura, in quanto antisocialista) e poi promosso a capo della Procura di Napoli, il giudice Cordova si manifesterà per quello che era noto, un simpatizzante della destra. In particolare del Msi, ai cui convegni in Calabria la sua signora non mancava di segnalare la propria presenza. È un caso esemplare di quella convergenza sinistra-destra, di cui Pino Arlacchi è uno dei tanti, che con Cordova aveva costruito, prima di diventare parlamentare del Pci-Pds, il concetto di “mafia imprenditrice”. E che tanto peso avrà nella tenaglia di Mani Pulite, all’insegna dell’antipolitica, che ancora serra l’Italia. La storia di Giovanni Falcone così proseguiva: 
“Falcone ha pagato l’appoggio del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Martelli, (alla Superprocura anti-mafia), è stato detto, restando incastrato nello scontro fra lo stesso Guardasigilli e il Consiglio superiore della magistratura. L’ostilità del Csm nei confronti di Martelli certamente ha pesato. Dopo la morte di Falcone il ministro ha proposto la riapertura dei termini del concorso a superprocuratore, essendo venuto a mancare uno dei due candidati. Il Csm, che ha sempre riaperto i termini dei concorsi, per motivi anche futili, ha detto no. No ha detto perfino a una censura, richiesta dal ministro, a quel presidente della corte d'assise di Palermo che si era rifiutato di applicare retroattivamente, a carico di 22 boss importanti, tra essi Pietro Vernengo, un decreto governativo che allungava l’arresto cautelare nei casi di mafia - dopo aver applicato lo stesso decreto tre giorni prima contro un mafioso di mezza tacca, Salvatore Cucuzza.
“La bocciatura di Falcone è stata motivata dalla commissione Direttivi del Csm con la sua presunta scarsa indipendenza dal potere politico. Dopo il no del Csm, Il professor Alessandro Pizzorusso, membro del Consiglio per conto del Pds, è stato ancora più esplicito in un lungo articolo sull’“Unità”: Falcone vi è tratteggiato come “un collaboratore eminente del ministro” piuttosto che come ideatore della Superprocura. Il Csm è un organismo superpoliticizzato e le beghe tra Dc e Pds da una parte e Psi dall'altra non potevano non avere la loro parte.
Ma questo non è tutto, anche perché Falcone non era socialista, né Cordova è pedina di manovre politiche. D’altra parte un organismo d’impulso e coordinamento analogo alla Superprocura anti-mafia era stato teorizzato contro il terrorismo proprio da Magistratura Democratica, vicina al Pds, senza paventare il pericolo di centralizzazione e di subordinazione alla politica.
“In astratto si potrebbe ritenere che, fra le due anime della giustizia, è a quella impersonata da Agostino Cordova che va il consenso della stragrande maggioranza dei magistrati. Essi non vogliono un organismo di lotta attiva alla mafia. Dovendo in qualche modo realizzarlo, perché è una legge dello Stato, preferiscono una gestione impegnata sì, ma sul lato politico: i delitti di associazione, che colpiscono a morte questo o quel partito ma purtroppo non sono temuti dai mafiosi. Essendo la Dna un organismo nuovo, la personalità di chi la crea è molto importante, perché dà all'organismo la sua impronta.
“È già una spiegazione. Ancora dopo la morte di Falcone, il giudice Giuseppe Palombarini, di Magistratura Democratica, membro del Csm, ribadisce: “Era preferibile un candidato che presentava un maggior distacco critico rispetto alla Dna”. Lo stesso Falcone prospettava un problema di autonomia, parlando con Marcelle Padovani della Superprocura: “Esiste indubbiamente il problema del suo assoggettamento al potere politico”. Anche perché “un coordinamento fortemente centralizzato non può essere totalmente separato dagli altri poteri dello Stato”.
“Le soluzioni per un più efficace coordinamento tra esecutivo e giudiziario, senza pregiudizio per l'autonomia, non mancherebbero. Piero Calamandrei aveva suggerito alla Costituente un coordinamento attraverso la partecipazione, a titolo consultivo, di un procuratore generale della Cassazione alla sedute del governo che riguardano gli affari della giustizia. Il ministro Martelli ha proposto che le direttive alla Superprocura, e agli altri pubblici ministeri, fossero impartite periodicamente dal Parlamento.
“Del resto, sulla temuta soggezione politica della Superprocura, spiegherà Giuseppe Di Lello, magistrato di Palermo, amico di Falcone e suo avversario politico, che le cose erano già state chiarite: “Per Falcone doveva servire a tutelare il pubblico ministero; organizziamola noi, prima che ce la organizzino altri, diceva. Per altri, invece, la Superprocura serviva solo a mettere il Pm alle dipendenze dell'esecutivo. Rispetto al pericolo di strumentalizzazione delle sue convinzioni lui glissava: si sentiva più forte delle strumentalizzazioni”. Né si spiega con la politica la larghissima opposizione che Falcone ha sperimentato, da parte dei suoi colleghi filogovernativi prima, e da quelli d'opposizione nonché da buona parte di quelli governativi dopo.
“I contrasti politici e dottrinali sono solo una parte della vicenda - e malgrado i furori ancora la più nobile. Al fondo pesa il modo di essere dei magistrati, rigidamente conservatore. È stato il Csm a smantellare il pool antimafia di Palermo nel 1987. E nel 1988 processò pubblicamente Paolo Borsellino perché aveva criticato la decisione del 1987. La Superprocura in realtà i magistrati non la vogliono affatto. Anche dopo gli assassini di Falcone e Borsellino l’Associazione nazionale magistrati ha confermato con coerenza di volere una gestione anodina della Superprocura, che trascuri i poteri d’impulso e riduca possibilmente agli automatismi di una banca dati quelli di controllo - sempre in attesa che il Parlamento l'abolisca.
“Quanto a Cordova, è stato un altro Meli. Non sappiamo se sono “andati a trovarlo di notte”, come fece il Csm del 1987 con l'allora consigliere istruttore di Palermo. Ma dietro i riconoscimenti ammirati per il procuratore di Palmi, tanto ammirati da risultare bizzarri (di lui i suoi colleghi dicono solitamente: “È incorruttibile” - come se loro non lo fossero), molti membri del Consiglio hanno detto ripetutamente, in privato, di averlo sostenuto solo per boicottare la Superprocura.
“Che Agostino Cordova ci abbia creduto, costringendosi infine a chiedere al Csm il 22 settembre 1992, caduta la candidatura, l’estrema difesa della sua dignità, la dice tutta sul personaggio. Certo, è difficile pensare che ci possa essere una politica così turpe. Ma bisogna avere maturato una psicologia particolare, fortemente corporativa, per proporsi di dirigere un organismo che non si condivide, e per pensare di poterlo fare legittimamente muovendo guerra al governo eletto. Senza accorgersi che il Csm è l’organo più di tutti compromesso con i partiti, l’aspetto oggi meno accettabile della politica”.
In memoriam
La vicenda di Falcone non è tutta naturalmente nella sua morte. Ha un dopo e un prima. Le “condoglianze interessate”, come scrisse Mario Pirani, scattano subito. Appropriarsi del morto di marca, anche di quelli che abbiamo torturato in vita, è stata una tecnica gesuita. Non male, poiché nella religione si dà il ravvedimento purificatore in punto di morte. Talvolta i gesuiti trascesero: famoso è il caso del Leopardi, che due confratelli senza scrupoli dichiararono, qualche anno dopo la morte, convertito all’ultimissimo istante, anzi desideroso di entrare nell’ordine dei difensori del papa. Il togliattismo se n’è appropriato, da Malaparte a Pasolini, ma per una strana morbosità necrofila: non ha infatti il potere di rimettere i peccati, e non è certo che una politica diversa dalla togliattiana sia peccaminosa - tanto più che non si sa cosa il togliattismo, vecchio e nuovo, sia, scosso dal linguaggio doppio, e da abiure, revisioni, autocritiche.
C’è una pagina vera, oltre che spassosa, in “Potenti”, dove Lodato fa il ritratto dell’“avvocato”: “A Palermo l’avvocato è sacro, qualsiasi avvocato, civilista o penalista, anche l'ultimo azzeccagarbugli, ha diritto a essere chiamato l’Avvocato”. Non paga le multe, “entra ed esce dai posti di blocco con la velocità della luce”, ha sempre il posto prenotato al ristorante, i negozianti gli fanno ogni genere di sconto, viene prima del giudice o del professore d’università: “L’Avvocato appartiene ad un olimpo raro”. Si capisce.
Alfredo Galasso, avvocato a Palermo, ex membro Pci del Csm, poi deputato della Rete, con Michele Santoro e Giuliano Ferrara parla di Falcone al Maurizio Costanzo Show. “Mettiamo pure per ipotesi”, dice Giuliano, che ha scelto la compostezza, “che Falcone preparasse, come dicevano certi suoi colleghi del Csm e certi suoi ex amici della Rete, avversari della Superprocura, la subordinazione dei giudici al potere politico. È però certo che la mafia non la pensava così”. Santoro e Galasso fanno propri gli applausi al ricordo di quanto bravo e determinato fosse il giudice Falcone. Ma dicono che non ebbe il coraggio di denunciare Salvo Lima, anzi che si bloccò per non indagare i rapporti tra mafia e politica. Senza un fiore di compassione, l’avvocato e il conduttore si gonfiano come giganti nei confronti del morto. È l’effetto dell’irresponsabilità televisiva, il beato tribunale popolare che magnifica gli avvocati e la retorica. Ma perché passare un’insinuazione che tutti sanno, quindi forse anche Santoro e Galasso, essere falsa?
A Milano, alla commemorazione del giudice dopo i funerali, il Pubblico ministero Ilda Boccassini dice ai colleghi: “Voi avete fatto morire Falcone, con la vostra indifferenza, con le vostre critiche. Un conto è criticare la Superprocura, un conto è dire - come il Csm, i colleghi, gli intellettuali antimafia - che Falcone era un venduto al potere politico”. E ancora, sempre dal resoconto di Luca Fazzo di “Repubblica”: “Non potrò mai dimenticare quel giorno a Palermo, due mesi fa, quando a un’assemblea dell’Associazione magistrati le parole più gentili per Giovanni, sopratutto da sinistra, erano di essersi venduto al potere. Mario Almerighi disse: “Falcone è un nemico politico””. Boccassini, antipatizzante socialista nel processo per la Duomo Connection, da lei istruito e portato rapidamente a termine con condanne per tutti, si rivolge al ministro socialista della Giustizia: “Onorevole Martelli, non abbandoni i giudici che credono nella lotta alla mafia”.
I giudici milanesi non hanno applaudito. Anche perché, dice Boccassini, l’ambiente non era il meglio disposto malgrado il dolore di circostanza: “I colleghi che stamattina sono a Palermo, ai funerali ufficiali, fino all’altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. Gherardo Colombo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali? L’ultima ingiustizia Giovanni l’ha subita proprio dai giudici di Milano. La rogatoria (sui conti cifrati in Svizzera) per lo scandalo delle tangenti gliel’hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: “Che amarezza, non si fidano del direttore generale degli Affari Penali!””.
Almerighi era il leader del raggruppamento Verdi-Movimento per la giustizia, l’ultima corrente sindacale dei magistrati, che ha avuto Giovanni Falcone a riverito promotore. Subito dopo la costituzione del raggruppamento il suo rappresentante nel Csm, Alfonso Amatucci, ha votato per Cordova contro Falcone alla Superprocura. Almerighi ha denunciato penalmente Ilda Boccassini: “Ho difeso la dignità di Falcone”, ha scritto nell'esposto.
È stato ucciso perché era solo, scrisse Marcelle Padovani sul “Nouvel Observateur” - giusto il precetto da Falcone a lei dettato in “Cose di casa nostra”, il libro ancora maestro in fatto di lotta alla mafia. Solo Falcone non è stato lasciato dall'opinione pubblica, e nemmeno dalla politica. Solo, anzi osteggiato con asprezza, Falcone era tra i magistrati, le loro associazioni sindacali, il Csm, e da una parte della politica, il Pci-Pds e Leoluca Orlando. Che si giustificavano con la terribile legge pintacudiana del sospetto.
Il seguito è più illuminante dei precedenti, malgrado Falcone fosse già stato dichiarato eroe nazionale - la malvagità ama esibirsi. Ancora nel 2004, la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura contro Falcone, benché greve di allarmanti ipotesi, ottiene sul “Corriere della sera” del 20 ottobre solo una breve: un “infame linciaggio”, proveniente anche da “ambienti istituzionali”, fu messo in atto contro Falcone per “delegittimarlo”. Da “imprudenti” anche e “autorevoli personaggi pubblici”, che hanno consentito ai “molteplici nemici del giudice d’inventare la tesi dell’attentato simulato”. Non si poteva dire quello che tutti sanno. Che il processo si era fatto perché il giudice Falcone fu sospettato di essersi inventato l’attentato per farsi pubblicità. Dal Pci, dai giudici Domenico Sica, capo dell’antimafia, e Francesco Misiani, allora del Pci, e dal colonnello dei carabinieri, poi generale, Mario Mori, che invece è di destra.
Da questo polverone sull’Addaura Falcone emerge isolato, e questo significa che si può colpirlo. L’isolamento è confermato dai fatti reali, dalle informazioni buonissime di cui Riina dispone su Falcone, che gli consentono l’attentato logisticamente così complesso e riuscito. La reazione confusa all’assassinio Falcone conferma ulteriormente Riina: colpire Borsellino. L’attenzione è stata spostata dal grande processo di mafia alla politica. È solo dopo alcuni anni, dopo l’arresto e le prime condanne, che Riina accusa “i comunisti” – lasciato libero di farlo dai giudici di Reggio Calabria. La prima segnalazione che un attentato si preparava contro di lui Falcone l’aveva avuta dal giudice Favi, ora procuratore generale facente funzioni a Catanzaro, quello che ha avocato l’inchiesta di De Magistris. Su indicazione di un detenuto. Allora sostituto a Siracusa, Favi aveva combinato un incontro in segreto con Falcone a Caltanissetta. 
“Che l’attentato alla verità sia un ingranaggio, che ogni menzogna ne trascini con sé, quasi necessariamente, molte altre, chiamate a darsi, almeno in apparenza, scambievole appoggio, l’esperienza della vita lo insegna e quella della storia lo conferma”, Marc Bloch l’ha già scritto al cap. terzo dell’“Apologia della storia”: “Ecco perché tanti celebri falsi si presentano a grappoli… La frode, per sua natura, genera la frode”. Non è facile, “inventare presuppone uno sforzo dal quale rifugge la pigrizia mentale comune alla maggioranza degli uomini”. E allora ecco l’invenzione opportunista: l’interpolazione, la connessione, il ricamo.
A Palermo il gesuita scienziato politico Ennio Pintacuda celebrò i funerali dicendo che la morte di Falcone era opera dell’Antistato. La stessa cosa aveva detto per Salvo Lima. Pina Grassi, deputato Verde, disse invece che era stata strage di Stato, perché, riferì il “Giornale”, “l’agguato è stato teso in una zona vicina a una base Nato strettamente sorvegliata dai militari”. Alla commemorazione dopo il funerale Claudio Martelli disse ai magistrati a Palermo: “Le amarezze più sofferte gliele hanno inflitte quei suoi colleghi che lo hanno talvolta legittimamente criticato e talvolta calunniato”. E aggiunse che Falcone voleva querelarsi. I magistrati abbandonarono in massa la cerimonia, offesi.
Sempre a Palermo, prima ancora dei funerali, due giorni dopo la strage, il grillo parlante Galloni aveva difeso la correttezza del Csm nel preferire il procuratore di Palmi Agostino Cordova a Giovanni Falcone come capo della Superprocura antimafia. Aggiungendo che il Consiglio deve difendere l’indipendenza dei giudici. “Implicitamente”, notò Liana Milella sul “Sole-24 Ore”, “conferma le accuse di scarsa indipendenza fatte a Falcone. Non solo: nega che per la sua esperienza della mafia il magistrato rappresentasse un unicum”. Ma un merito a Galloni va riconosciuto: ha imparato la coerenza. Sei mesi prima aveva negato di avere detto in tv contro Cossiga le cose che tutti avevano sentito. Su Falcone invece tenne duro.
A Palermo naturalmente è sempre un’altra storia, nella quale tanto più rifulge l’eccezionalità di Falcone. Per primo Leoluca Orlando aveva messo Falcone nello stesso conto con Lima, pupi politici nelle mani della mafia, per conto del Psi il giudice, l'altro per conto della Dc. A Rosanna Lampugnani che per “l’Unità” gli poneva trepida il quesito se l’“errore fatale” di Falcone non fosse stato lo scarso impegno nella lotta contro la mafia politica, Orlando rispose: “Falcone non sarebbe stato ucciso se il Psi avesse preso il Quirinale. Se fosse stato eletto Vassalli presidente della Repubblica è molto probabile che Falcone non sarebbe morto. Il suo è un omicidio che arriva alla fine di un regime e assume una valenza enorme”. A Marcello Sorgi che gliene chiese conto per “La Stampa” il giorno dopo precisò: “Craxi doveva approdare ai vertici dello Stato per garantire l'impunità a tutta una parte del Paese che in questo momento, davanti a una crisi di regime, ha molto da temere: penso all’Italia mafiosa di Palermo, Napoli o della Calabria; a quella corrotta di Milano e Roma... Quando s’è capito che Craxi e Vassalli non sarebbero arrivati al Quirinale, è partito il contraccolpo”. E a “Stern”, il settimanale tedesco, annunciò: “Se si potesse perseguire penalmente il capo dei socialisti Craxi, allora in questo paese da un giorno all'altro si aprirebbero meravigliosi spazi di libertà”.
Orlando era reduce da un tentativo sfortunato di mettersi a capo della Dc. Non c’era stata invece una candidatura socialista alle presidenziali del 1992, Vassalli e Craxi erano nomi di bandiera nelle prime inconcludenti votazioni. Ma non si può dire che Orlando non fosse, e non sia, la Palermo che conta, e che ogni anno celebra ora la festa di Falcone.

Ma quanto si diceva l’amore che non si dice

Molte cose vissute e un aurìtoritratto della “temibile miss Stein” (Hemingway) nel racconto-romanzo del titolo, in persona di Adele. Una che a vent’anni ragiona e conversa sottile ma non ha mai provato – o per difendersi dal provare? – trasporti emotivi. Ne fa l’esperienza in un viaggio in continuo, tra l’Europa, Boston, New York e Baltimora, e viceversa, l’Italia, Parigi, in tutte le espressioni note: gelosia, trasporto, abbandono, il ritrovarsi, il sesso evidentemente, eluso-vissuto magistralmente – in forma di pausa (“dopo un’ora”, “dopo due ore”): tra le scene di genere meglio scritte. Sotto questo programma: “Ho sempre ringraziato Dio di non avermi fatto donna” – massima scandalosa e non, se è da riferire al libro di preghiere ebraico, “Siddur”. Mentra la “concorrente” (nella seduzione di Helen) Mabel ha “i modi più discreti del perfetto gentiluomo”. Anzi ha “il tipo italiano”, dell’“Italia decadente” – è l’apogeo di D’Annunzio. Le due riedizioni sono curate da Stefania Asaro.
Un triangolo saffico è il tema del racconto del titolo. “Chissà se le cose differenti saranno mai riconosciute differenti” è il programma del racconto che lo precede nella prima edizione Einaudi, ancora in commercio, “Fernhurst”: “Vorrei che le donne imparassero tutto quello che possono ma che non scambiassero la cultura per l’azione e non credessero che il lavoro di un uomo sia loro adatto solo perché hanno avuto l’educazione di un ragazzo”. Ma in amore, per quanto mostri che la cosa le piace, la narratrice-autrice non si abbandona: l’unico rapporto concepisce “in due casi, un’affettuosa amicizia o una passione fisica più o meno complessa” – verso la quale, però, aggiunge, “io ho un orrore quasi puritano”. Incapace di abbandonarsi perché troppo esperta, cerebrale: “Ho la vaga idea che per essere capaci di qualcosa che ne valga la pena si debba avere la facoltà di idealizzare un’altra persona e non mi pare di avere nulla di simile”. Adele è anche l’unica delle tre ragazze del nodo saffico di cui non sappiamo la conformazione fisica, nemmeno il colore degli occhi, e gli ascendenti. Ma i suoi ragionamenti non sono asettici, e anzi ben carnali: è il ptregio del suo racconto.
L’amore è una scoperta progressiva e lenta. E si rivela alla lettura – alla lettura di Dante, della “Vita nova”. Ma è un’altra maniera di porre la cosa, originale. Adele si sveglia “improvvisamente dalla sua lunga apatia emotiva”, in età adulta, senza saperlo. Non femminista, benché tra donne. E anzi coltivando la differenza. Residui che oggi sono innovazioni e tanto più si apprezzano. Il tempo dei due racconti è quello in cui la civetteria era un valore, come la festa, la vacanza, l’innamoramento, il piccolo è bello, l’attimo fuggente. La pratica non si riduceva al consumo. Al rapporto qualità-prezzo - tempo, energia, intensità. Al lavorerio della globale indifferenza, o attivismo che è la stessa cosa, o produttivismo, del colore grigio indistinto e uniforme. La diversità è anzi sottolineata, è la chiave dei racconti.
Due racconti anticonformisti. Antifemminista “Fernhurst”, che reca nel sottotitolo il programma:  “La storia di Philip Redfern, uno studioso della natura femminile”, mandato in missione al college femminile di Fernhurst, tra “500 giovani donne”. Saffico quello del titolo, che in originale è in latino, “Q.E.D”, quod erat demonstrandum. I primi scritti da Gertrude Stein, prossima ai trent’anni, “Q.E.D” nel 1903, “Fernhurst” nel 1904, abbandonati e pubblicati postumi settant’anni dopo. Entrambi autobiografici: Fernhurst è Radcliffe, il college dove Gertrude fece gli studi, “Q.E.D” la sua iniziazione all’amore, attorno ai vent’anni. Entrambi già innovativi, nelle subordinate senza punteggiatura, e nella mescolanza dei “discorsi”, diretto e indiretto, in prima e in terza persona, circostanziato (c’è molta Roma, molta Toscana, Boston ha un suo cachet, New York ha molte anime) e avulso. Entrambi di lettura, benché abbandonati, per l’anticonformismo e per la caratterizzazione dei personaggi e delle storie, di grande risoluzione - molto meno secchi dei suoi classici, “Tre vite” e “Alice Toklas”. Di tipi americani, nel solco di Henry James, ma meno velati.    
I rapporti femminili sono di tipo dominante, nei due fracconti: che la donna sia la direttrice, abbia fatto carriera al posto dell’uomo, non muta la sostanza. Ma sono di dominio anche gli amori saffici, di Mabel e Adele in gara per la confusa Helen. Un dominio raffinato, non violento, ma insistente, cinico anche. Del genere sado-masochistico, seppure psicologico, senza fruste né catene. Un rapporto che non si saprebbe non definire sciocco, prima che inutile. A perdere per tutte le parti in causa, contro la regola della somma zero: è una maniera perversa di essere maschile. Tuttavia ragionato, di doppia reciproca immaturità.
Un citatissimo Edmund Wilson evoca per “Come volevasi dimostrare”, che definisce “un documento”, la “sobrietà” e l’“astrattezza di linguaggio” dei romanzi francesi che hanno fondato le storie d’amore, “Adolphe”, il protoromantico ancora molto Settecemto, e “La principessa di Clèves”. E questo è vero, la scrittura “novissima” è settecentesca.  
Getrude Stein, Come volevasi dimostrare, Einaudi, pp. 149 € 7,23
Q.E.D., Croce, pp. 132 € 16
Fernhurst, Croce, pp.XXII–58 € 14 

martedì 23 maggio 2017

Gli stati maggiori contro il terrorismo

Manchester conferma, se ce ne fosse bisogno, la giustezza dell’enfasi che Trump sta mettendo nella difesa dal terrorismo islamico. Col divieto all’immigrazione dai paesi di origine dei terroristi, per quanto controverso, e col vertice arabo di Riad, una sorta di stati maggiori contro il terrorismo..
È l’atteggiamento complessivo del mondo arabo nei confronti dell’Occidente al fondo del terrorismo, all’interno e nella diaspora in Europa e negli Usa. Compresi i due convitati di pietra di Riad, Iran e Afghanistan, che non sono arabi ma sono all’origine del terrorismo, che hanno organizzato e di cui sono stati i santuari, Hezbollah e Al Qaeda prima dell’Is.
Del khomeinismo in particolare si dimenticano gli effetti, da promotore del rifiuto armato dell’Occidente, in Libano e in Algeria, e nel mondo islamico in generale. Il movimento Hezbollah è ancora attivo e forte in Libano, alla frontiera con Israele e dentro il piccolo paese che tiene in soggezione. L’accordo di Obama con Teheran lo aveva trascurato, ma ora sarà la pietra d’inciampo di cui l’Iran dovrà liberarsi se vorrà uscire dal limbo delle sanzioni.
Lo  schieramento unificato che Putin propone contro il terrorismo islamico dovrà passare, prima che dall’armamento atomico dell’alleato Iran, dall’abbandono di Hezbollah.

Gli arabi al centro

Trump ha messo al centro gli arabi nel Medio Oriente. Sembra la scoperta dell’acqua calda, ma è un approccio nuovo, potenzialmente risolutivo. Un fato rivoluzionario, anche se passato sotto silenzio, per la consegna dell’antitrumpismo.
Risolutivo per la stabilità politica della regione, minacciata dall’integralismo. E anche per il conflitto con Israele. E ora anche con l’Iran, con lo sciismo.
Sorprendente è comunque l’approccio trumpiano, di mettere gli arabi al centro delle questioni arabe. Non le logiche dei blocchi, che pure Obama ha risuscitato. Non la democrazia, che Bush jr. ha evocato per non sapere che fare col terrorismo. Non la logica di potenza. È un approccio che incuriosisce e anche entusiasma la Farnesina, che lo giudica infine “realistico”: negoziare col mondo arabo è confrontarlo, e per prima cosa rimetterlo alle sue proprie responsabilità, questo il canone.
L’approccio della nuova presidenza americana – opera di Trump l’affarista, dealer navigato? di Kushner, il genero-consigliori di famiglia ebraica? di entrambi? – è considerato promettente su tre presupposti: 1) Non sottovaluta il terrorismo, che non è un fatto di polizie ma di politiche e progetti; 2) Mobilita i governanti arabi contro un “falso scopo” esterno che non è più Israele ma l’Iran, “sunniti contro sciiti”, come dicono i giornali, con il quale però l’intesa c’è già e potrebbe funzionare: il sottinteso è che Teheran non si faccia la bomba, e Teheran non morirà per la bomba, anzi negozia da tempo per barattare la bomba contro le sanzioni e per un programma di integrazione economica; 3) Ha messo gli arabi di fronte alle loro responsabilità - brutalmente, ma è il metodo giusto, l’unico che può, potrebbe, funzionare.

E ora l'accordo con Putin

Arriva al G 7 con un solido grappolo di novità, il chiacchierato Trump. Con qualche successo, nel blocco dell’immigrazione illegale, e on un periodo di grazia ormai di sei mesi nella radicalizzazione interna, di tipo razzista (polizia) e integralista (mussulmani). E con Ucraina, Iran e Siria: tre fronti che può chiudere di colpo, onorevolmente, tornando a parlare con la Russia, con Putin. L’ultimo partner mondiale con cui ancora non ha stabilito un contatto – aspettando forse di liberarsi del ricatto Fbi.
Sono i tre fronti aperti improvvidamente da Obama, senza cioè un disegno o un assetto da perseguire. Che L’Iran non diventi potenze nucleare, questo si può ottenerlo senza concessioni, e senza guerre preventive, basta accordarsi con la Russia, che fornisce il materiale fissile e la tecnologia. Il “rompicapo” siriano, creato da Obama, si scioglie solo d’accordo con la Russia: l’unica uscita onorevole (l’allontanamento di Assad, o la regionalizzazione della Siria) passa per Mosca, ormai solidamente insediata a Damasco – una perfomance senza nessun precedente, neanche d’immaginazione, e quasi avveniristica, da fantapolitica, di cui in Occidente si tace ma che ogni diplomazia sa quanto pesa. In Ucraina l’intesa con Mosca è l’unica via per mantenere il paese ancora unito e indipendente, malgrado la perdita ormai irreversibile della Crimea: a rischio c’è anche il Donbass, la metà russa dell’Ucraina. E senza intesa, come tenere l’Ucraina unita, con la guerra – certo, non con le sanzioni?

Arabia non più felix

Il mondo arabo si trova on the brink, sull’orlo del precipizio, per almeno due aspetti. Il primo sono le fratellanze mussulmane, variamente radicali ma tutte sovversive delle due tipologie di regimi che lo governano, il bonapartismo (Nord Africa e Medio Oriente propriamente detto) e il tribalismo. Il secondo è la riduzione della rendita petrolifera, in termini reali e perfino nominali. La riduzione è certa a lungo termine per ragioni fisiche, tecnologiche e di protezione dell’ambiente, ma probabile già nel medio termine, e in atto da un paio d’anni per ragioni di mercato. La rendita però impegna, come risorse e come investimenti, più della metà del “fatturato” della regione.
È su queste ipotesi  che lavorano i maggiori centri finanziari e bancari mondiali. La rendita si assottiglia a fronte delle spese, d’investimento e militari. E in assoluto, in termini di introiti, malgrado l’entrata sul mercato dei grandi consumatori asiatici, Cina e India, che hanno irrobustito una domanda calante. Il calo è marcato benché il prezzo del greggio sia tenuto artificialmente alto per consentire lo sfruttamento in Nord America (Usa e Canada) degli scisti bituminosi.
Il consumo mondiale di petrolio è fermo da tempo, per le politiche di riduzione dei consumi e dell’uso di fonti di energia non fossili. Per gli stessi motivi l’attuale equilibrio, di prezzi-quantità, già precario per i paesi produttori, è destinato a peggiorare
L’insufficienza della rendita si fa sentire sui bilanci per ora soltanto dell’Arabia Saudita. Ma inciderà anche su quelli di Qatar, Bahrein ed Emirati (Abu Dhabi, Dubai), malgrado le diversificazioni importanti già attuate dai regnanti. E comunque nessuna realtà della regione, l’Egitto compreso, passerebbe indenne a un crac saudita.

Federalismo invece che tribalismo

La soluzione ipotizzata a Washington per la Siria, uno statuto federale nel quale i Curdi del Nord possano avere una certa autonomia, piace a sempre più governi in Europa. Per risolvere il rebus siriano, e perché applicabile alle situazioni di guerra civile in atto anche in Libia e in Iraq. Altri paesi a forte incidenza tribale.

In linea ipotetica il decentramento sarebbe risolutivo anche in paesi all’apparenza stabilizzati, come l’Algeria e il Marocco. In Algeria l’arabizzazione forzata incontra sempre più l’ostilità del Nord, delle Cabilia berbera. In Marocco sarebbe la valvola di sfogo di tensioni politiche che a livello nazionale non hanno sbocco, se non a costo della sovversione politica.

La satira (involontaria) della Grande Vienna

Curioso “grande messaggio di congedo della civiltà absburgica”, come vuole l’editore. Che probabilmente non esagera: il romanzo – l’“affresco” – è in repertorio come il capolavoro del romanziere viennese. Ma allora un capolavoro di ironia, non compassionevole né nostalgico, alla Joseph Roth e la sua “Cripta dei capuccini”, alla quale viene avvicinato.
La cifra è del romanzo d’avventure. Seppure nei primi giorni del novembre 1918, ben drammatici, tra fronti di guerra inutili e ammtinamenti della carne da macello – i rivoluzionari “consigli dei soldati”, o anche conatdini semplici, ma non stupidi. E vicino casa. Sul fronte balcanico contro l’artiglieria francese e la cavalleria inglese. Attorno a una delle capitali dell’impero che è ostile ma si finge che non lo sia, Belgrado.
L’alfiere protagonista e narratore, responsabile dello stendardo di reggimento, vede tutto questo e anche di peggio. Come ai contadini ruteni e polacchi, che il giorno 4 o 5 – dopo l’armistizio quindi – sono mandati al fronte e si ammutinano, viene fatto tirare ed alzo zero da uno squadrone di tedeschi: una carneficina. Come gli ufficiali si ritirano al palazzo imperiale a Vienna, deicisi a resistere ai consigli popolari, quelli che non sono morti. Ma nessuno sa cosa in realtà sta succedendo. Compresa la dimissione dell’imperatore, che con l’imperatrice ne attraversa imperturbato le schiere sparse a palazzo per lasciare Vienna.
Poi c’è la storia d’amore. L’alfiere-narratore mette lo stendardo avanti alla giovane bellissima donna che per tutta l’avventura si mette a rischio, di vita e dell’onore, per amore suo. Un amore che il civile absburgico concepisce in termini di “me la dai?”, e “perché non me la dai?”. In tutta serietà. In una società imbricato di ufficiali, dal generale di corpo d’armata all’alfiere, tutta di nobili e nobilastri, altro che crogiolo e opportunità.  Che delle famose popolazioni dell’impero riconoscenti parlano come di colonie – “le colonie erano perdute”.
Una burla? O l’impero era questo, impermeabile al ridicolo?    
Alexander Lernet-Holenia, Lo stendardo, Adelphi, pp. 309 € 12 

lunedì 22 maggio 2017

L’immigrazione è un business

Il problema immigrazione si risolve facilmente. La cittadinanza per chi è nato in Italia e vi studia e lavora. La cittadinanza per chi ha in Italia occupazione stabile, è incensurato, e ha socialmente integrato. Il ricongiungimento familiare, per chi ha un lavoro stabile. Col visto - e quindi in sicurezza e con le spese di viaggio in uso tra i vettori internazionali.
Si parla molto di fronteggiare l’assalto immigratorio. Ma se ci fosse una politica dell’immigrazione altra che le periodiche sanatorie, non ci sarebbe l’assalto.
Si parla molto di “aiutare” l’Africa a tenere i suoi africani. Ma non si mettono in atto le tre o quattro semplici soluzioni che stabilizzerebbero il quadro: vagliare le pratiche di ingresso, controllare e governare gli accessi.
Da molti anni l’Italia ha bisogno ogni anno di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici stranieri. Ma non ha mai messo in pratica una sola politica dell’immigrazione.
Si può addebitare questo all’inefficienza dell’Italia repubblicana. È possibile. Ma l’ondata immigratoria è ornai trentennale. E l’inefficienza è vera solo su questo versante, dell’ottimizzazione in chiave legale. Sul versante dell’accoglienza invece l’efficienza è massima.
Massima è l’efficienza nell’attrarre risorse, italiane ed europee, nel nome del’accoglienza, da suddividere tra le miriadi di onlus e ong che si creano per questo scopo. Non si fa una politica dell’immigrazione per favorire ìl business dell’accoglienza? Questa è la realtà: aprire sempre nuovi capitoli di spesa in forma di “aiuti”, su cui lucrare, senza beneficio per una immigrazione regolarizzata.

In Italia e anche fuori. Accanto alle ong “benefiche” prosperano, nelle Filippine, nella Repubblica Dominicana, in Senegal, “agenzie” di reclutamento. Che per 2 e 3 mila dollari forniscono un visto turistico, di norma ottenibile gratis, e l’indirizzo di una famiglia di Milano o di Roma che ha bisogno di una baby-sitter. Indirizzo magari rubato a uno dei tanti “Porta Portese” cittadino, giornali d’inserzioni gratuite – uno buonissimo a Roma, in lingua inglese, procura domande di lavoro da tutto il mondo.

Milano è volubile

Si capisce che l’Inter ha difficoltà a trovare un allenatore, Milano è una piazza volubile.
Nella gestione Moratti il club milanese ha cambiato allenatore una trentina di volte – malgrado la relativa stabilità degli anni del primo Mancini, facilitata dalle vittorie a tavolino contro tutti:
1995/96: Bianchi, Suarez, Hodgson
1996/97: Hodgson, Castellini
1997/98: Simoni
1998/99: Simoni, Lucescu, Castellini, Hodgson
1999/00: Lippi
2000/01: Lippi, Tardelli
2001/02: Cuper
2002/03: Cuper
2003/04: Cuper, Verdelli, Zaccheroni
2004/05: Mancini
2005/06: Mancini
2006/07: Mancini
2007/08: Mancini
2008/09: Mourinho
2009/10: Mourinho 
2010/11: Benitez, Leonardo
2011/12: Gasperini, Ranieri, Stramaccioni
2012/13: Stramaccioni, Mazzarri
2013/14: Mazzarri-Mancini
2014/15; Mancini
2015/16: Mancini
2016/17: Frank De Boer, Pioli,Vecchi
In questa stagione l’insofferenza si è trasmessa da Moratti ai nuovi padroni cinesi: dev’essere l’aria della città, coté nobile.