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sabato 28 gennaio 2017

Il mondo com'è (292)

astolfo

Acqua – Consigliata e anzi prescritta dai medici “almeno due litri al giorno”, l’acqua si riscopre ora dannosa e perfino mortale, se bevuta in eccesso. La medicina va per tormentoni, non è cambiato nulla? Ora tutti antibiotici, ora niente antibiotici, ora correre ora non correre, ora acqua, ora no. Si fanno campagne contro il Dhmo, Di-Hydrogen-Mon-Oxide, , il monossido di idrogeno, detto acqua. Il web è pieno del caso della donna inglese che ha rischiato al vita per aver bevuto troppo tisane. Qualche anno fa alla maratona di Boston un concorrente su otto risultò affetto da ipobatriemia, dopo aver rischiato il collasso in corsa: la troppa acqua ingerita ne aveva diluito rischiosamente il sangue. Scrivendo nel 1953 un omaggio all’archeologo tedesco Ludwig Curtius, “Storia dello spirito tedesco”, il filologo Giorgio Pasquali ricorda che l’acqua era proibita in Germania. Comincia rievocando il padre di Curtius, il medico Ferdinand, il quale, “grande amico della natura”, insegnava, come Rousseau, “che si devono sopportare stoicamente fame e sete”. Anzi, “era convinto che il bere acqua fosse superfluo e nocivo all’organismo, come ne sono ancor oggi persuasi molti Tedeschi, medici e non”. Pasquali ne fa esempi terribili. “Ogni Italiano, in Germania, soffre non scorgendo sulla mensa di famiglia né bottiglia né bicchiere, e io so di figli fiorentini di mamma tedesca a cui durante l’estate, che qui a Firenze è così calda,  così umida, così soffocante veniva negato ogni conforto liquido”.
Ci sono cicli nella filosofia della salute. Ma, a differenza di ogni altro pensiero, si ritengono di volta in volta tassativi. La medicina reputandosi una scienza, quindi incontestabile.

Globalizzazione – Ha ridotto le disuguaglianze, notevolmente. Ha introdotto il mondo, in buona misura anche la derelitta Africa, ma soprattutto l’Asia e l’America Latina, alla ricchezza – al capitalismo, all’accumulazione (arricchimento), alla produzione del reddito invece della stagnazione. Un paio di miliardi di persone sono uscite dalla stagnazione e la povertà. Trent’anni fa le allora “economie emergenti” , ex sottosviluppate, contavano per un terzo del pil – a parità di potere d’acquisto – del G 7, il gruppo dei sette paesi più industrializzati o ricchi. Oggi hanno il G 7 e il resto del mondo hanno peso uguale.

Lingue – Quante parole in una lingua? Borges calcolava nel 1927, “L’idioma degli argentini”, 60 mila parole per lo spagnolo - cifra che considerava eccessiva, cioè poco utile. E 34 mila del francese. Ma sono calcoli approssimativi. Luca Lorenzetti, “L’italiano contemporaneo”, calcola per l’italiano fra 215 e 280 mila unità lessicali (lessemi). Senza contare le coniugazioni e le declinazioni, i plurali, i plurali del genere (molti aggettivi ne hanno quattro maschile\femminile e singolare\plurale). Comprendendo queste forme, Lorenzetti stima in più di due milioni “il numero delle parole dicibili e scrivibili in italiano”.
Lo stesso linguista ricorda per di più che dei circa 260 mila lessemi costituenti il patrimonio lessicale dell’italiano, oltre 50 mila hanno più di un’accezione, oltre 27 mila hanno più di due accezioni, oltre 9 mila hanno più di cinque accezioni, 100 hanno più di 20 accezioni, una decina più di 30…
L’inglese ne ha tre volte tante: i 23 volumi dell’Oxford English Dictionary registravano vent’anni fa  più di 615 mila parole definite.
Al 2010, secondo il texano Global Language Monitor, l’inglese aveva un milione di parole, il cinese cantonese 500 mila, l’italiano 300 mila, lo spagnolo 250 mila, il francese solo 100 mila. Che però non si reputa meno espressivo.
Non si fanno i conti per il tedesco, che le parole usa spesso anche composte, e scomposte.

Lutero – Ribelle per caso, si è detto nella celebrazione cinquecentenaria, ribadita per la visita del papa alla federazione luterana in Svezia. E anzi controvoglia, costretto dalla cecità della chiesa. Mentre lo era di vocazione. E non lasciò il convento per la preghiera o la meditazione ma per l’azione, per la seconda metà della sua vita, da Wittenberg alla fine. Questa viene sottaciuta, in chiave ecumenica, che smussa e lima. Ma Lutero fu un condottiero, sebbene di poca arte e poca fortuna.
“I predicatori sono grandi assassiniperché sobillano alla rivolta e poi incitano l’autorità a punire i ribelli. Nella sommossa ho ucciso tutti i contadini. Ma rovescio la responsabilità su Nostro Signore che mi ha ordinato di parlare”. Questo non è Rabelais o Simplicissimus, né il diavolo: Lutero lo soleva dire, dieci anni dopo aver inforcato come moglie legittima l’ex monaca cistercense Katharina de Bora nell’anno fausto 1525. Lo stesso nel quale i suoi principi trafissero in battaglia, e accecarono, afforcarono, decapitarono, bruciarono vivi centomila contadini. Col pericolo che la Germania restasse senza patate. È Lutero epicureo dei “Discorsi a tavola”, che nega a Erasmo il libero arbitrio e poi dice: “Perfino Dio non può nulla senza uomini saggi”, alludendo a se stesso, i profeti anzitutto profetizzano di sé.

Antisemita convinto, e non perché gli ebrei considerasse deicidi.  Biblista e tutto, gli ebrei, diceva, leggono attraverso la merda. Famosa la sua “prova”: non so se gli ebrei uccidono i bambini e avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non gliene mancherebbe la volontà. Lutero è feroce sullo sradicamento degli ebrei che poi Hitler attuerà, l’Ausrottung, la parte che non si traduce del lungo trattato “Degli ebrei e le loro menzogne”: “Sono cani assetati del sangue della cristianità, e assassini di cristiani per volontà accanita, e poiché hanno provato un piacere immenso nel farlo, sono stati spesso giustamente bruciati vivi, rei d’avere avvelenato l’acqua e i pozzi e rapito bambini che poi furono smembrati e tagliati a pezzi”.
Una Ausrottung che Adriano Posperi, nella lunghissima introduzione alla traduzione Einaudi, s’ingegna di addossare agli altri cristiani.

Fino a Lutero i tedeschi erano teneri e mistici, virginali, golosi di litanie. È dopo che si sono messi sulla strada di Odino, Thor e Baldur, col Walhalla e i fuochi-forni – dopo le troppe guerre di religione.

Populismo – “È una parola fuorviante”, dice il papa a “El Paìs”, “perché il populismo in America Latina ha un altro significato. Lì significa che i popoli sono protagonisti, per esempio, i movimenti popolari. È un’altra cosa…”. I movimenti di base. E quelli politici, da Peron a Chavez, e incluso Castro, cioè antidemocratici?

Ma l’accezione che il papa introduce nella voce può spiegare il successo di Trump malgré Trump, con tutti i limiti dell’uomo cioè: una rivolta dell’America profonda contro l’establishment, che Hillary Clinton impersonava, e la stampa unanime che tuttora la asseconda: di buone intenzioni che coprono il peggiore sfruttamento della storia postbellica – dell’Occidente beninteso. A favore non più di una classe, di un ceto sociale, comunque permeabile, ma delle fortune di pochi speculatori.  

astolfo@antiit.eu

Tante cose Mozart non era

Un Mozart femminista. Libertino-non libertino, nel senso che danna don Giovanni ma innocenta l’adulterio. E sovversivo: parla ai monogami, etero e omo, e ai “poliamoristi” (quindi anche multigender?), al punto da “liberare” il tradimento e la clandestinità.
Un’impresa. Le autrici si saranno divertite, ma è irritante per chi legge sulla griglia mentale di Mozart.  Che intanto non è Mozart – parliamo di teorie o messaggi – ma Da Ponte. Che “Così fan tutte”, e anche “Don Giovanni” propose a vari musicisti – è di Mozart l’idea del “Figaro”, la meno ideologica. E poi perché fare di Mozart quello che non è, un femminista in anteprima e un rivoluzionario? Anche al femminismo Mozart gioverebbe per quello che è.
La spregiudicatezza, quel poco che c’è nelle tre opere dapontiane, è del librettista. Non avvenirista per la verità: le tre opere fanno molto Settecento. In “Figaro” e “Così fan tutte”, due opera buffa, ma anche nel drammatico tesissimo “Don Giovanni”, nella figura del “don” sulfurea – come nel “Flauto magico” e in altre evocazioni massoniche. Il problema è semmai del femminismo, quando la storia fa tutta nera, o grigia.
Può il Settecento illuminare il presente, anticiparlo, soprattutto in tema di sentimenti e di erotismo, come la autrici propongono? Sì, nel senso che si mette tra parentesi la decidua morale borghese, delle vergogne e le convenienze, e si ritorna al libertinismo. Ma in questo senso ancora di più Mozart resta saldo al Settecento, a prima della borghesia con le tendine alle finestre.
Anche il Settecento, non bisogna idealizzare.  “Le nozze di Figaro” Mozart dovette comporre in fretta e di nascosto, la corte non gradiva, e comunque gliele censurò. “Così fan tutte”, proposta ad altri musicisti indigesta, lo seppellì di accuse di superficialità e immoralità, e resterà sepolta per un secolo abbondante – un’opera di Mozart, piena di buona musica, e di garbo. Gli anni, 1786 (“Figaro”), 1787 (“Don Giovanni”), 1790 (“Così fan tutte”), erano rivoluzionari, ma non a Vienna.
Leonetta Bentivoglio-Lidia Bramani, E Susanna non vien. Amore e sesso in Mozart, Feltrinelli, pp. 283 € 16

venerdì 27 gennaio 2017

Secondi pensieri - 293

zeulig

Classico - È opera del tempo, si sa. La distanza e la patina, che sono funzioni del tempo e dello spazio (Spengler), alimentano, autoalimentano, la fantasia. “Il tempo – amico di Cervantes - ha saputo correggergli le bozze”, può dire Borges di espressioni del “Chisciotte” nient’altro che banali.

Il classicismo è l’antitesi del classico, l’abuso dei modelli, il manierismo. Da ultimo, esemplare, col postmoderno. Classificato anche, teorizzato, in tal senso, da Eco, che lo ha praticato in abbondanza, nei tanti “romanzi”. Tutti di testa, e tutti di calchi. Col solo contrappunto dell’ironia, che è certo parte del postmoderno, ma dissecca e non nutre.

Critico – È un prodigo: un mecenate e un evergeta. È “gli occhi della storia” di Menéndez y Pelayo (“Se non si leggono i versi con gli occhi della storia, saranno ben pochi i versi che sopravviveranno”), dice Borges, ma “questi occhi della storia capaci di resurrezione cosa se non un sistema di compassioni, di generosità o semplicemente di cortesie?”

Il critico è condannato a leggere più che a rileggere – se condannato è la parola giusta. All’opposto c’è Citati che invece fa professione di rileggere e non di leggere: non vuole? non ha interesse? non ha gusto? Non è una diminutio. Ma il critico è condannato alla generosità, altrimenti è un saprofita.

Colore – Di che colore sono i colori? È problema aperto. Il bianco e il nero che non si trovano in natura. Molte delle ninfee, anche blu, di Monet.
Lo scientismo voleva provare anche di che colore sono i suoni. Ma un tre secoli sono passati senza esito.

Compassione – È il fondamento del senso tragico della vita, che è l’essenza umana – così la vuole Ceronetti, lo scrittore: “Il senso tragico esiste dovunque c’è uomo e piangere sull’uomo è giustificato”. Anzi, “neppure ad una sventurata memoria da cui il senso, la percezione del tragico sono spariti, si può negare  una forte, una disperata compassione”. Di più: “Il bisogno di essere compatiti non viene meno neppure  all’agnello mentre è divorato”. Ebbe “il bisogno d’implorare i soccorsi di un Dio onnipotente” anche Spinoza nelle emottisi, dopo averli negati nel’“Etica”.
È il backup e lo zoccolo duro di Schopenhauer, che personalmente non ne aveva e comunque non la praticava, della sua appropriazione del buddismo, dove la compassione fa figurare la virtù suprema.

Dio – È un carcere? Anche, come non pensarci? Quevedo lo rileva in uno dei sonetti a Lisi, il XXXI del libro quarto (alla p. 26 dell’edizione italiana dei “Sonetti”), e non è un’agudeza, una trovatina: “Un’anima che ha avuto un dio per carcere”.

Famiglia – L’istituzione universale per eccellenza, secondo l’antropologia. Presente in tutte le società umane. In varie forme – ora, per esempio, nella coppia omosessuale, perfino in forme parossistiche. Manifestamente legata alla procreazione. In che forma sarà la famiglia della procreazione eterologa, e di quella per conto terzi, senza padre e\o senza madre? Dopo aver eliminato gli zii col figlio unico e i cugini.

Fenomenologia – “Il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se medesimo” – Carlo Emilio Gadda.

Intelligenza- “Certuni mi domandano con stupore”, riflette lo scrittore Savinio, “come io, uomo intelligente, tengo dietro a siffatte superstizioni da donnicciola”, alle storie fantastiche. E risponde: “Credono costoro che l’intelligenza dissipa il metafisico. Se così fosse, quale uomo intelligente accetterebbe di essere intelligente?”.

Lettura - È solitaria, certo, specie quella non condivisa. Anche un piacere solitario, in qualche modo vizioso. Una terapia. Un ricostituente, in dosi omeopatiche – ma a volte depressivo. Ma non è un vizio innato, si acquisisce. Per circostanze esteriori. Si è portati alla lettura nel senso che vi si è sospinti.

Libertà – Ci vuole fede per averne, per concepirla, e in qualche modo praticarla, comunque inseguirla. L’idea di una responsabilità individuale. Di un diritto e quindi di un dovere di libertà. Intralciando il quale, la punibilità interviene.
C’è un abisso tra il libero arbitrio di Giovanni Pico, o ancora di Erasmo, e l’impossibile fardello della libertà di Kierkegaard, sotto un cielo dissacrato dacché Dio s’è ritirato dal mondo.

Luoghi – Condizionano (stimolano, restringono) la creatività? Si vede in letteratura, di cui si fanno ora degli atlanti. Ogni autore si può – si poteva prima del globalismo – legare a un luogo. Per il genius loci di Vernon Lee, che non è un fantasma. È un apparato linguistico e di usi, mentalità, tradizioni che vincola la personalità. Manzoni, Sciascia, Eduardo, non si saprebbe leggerli legati a luoghi diversi da quelli di cui hanno scritto.
Diversi sono curiosamente, meno legati a un ambiente se non sradicati, i Nobel: Fo, Montale Quasimodo. Anche Hamsun, per esempio, che non è norvegese pur essendolo molto. O Tranströmer rispetto alla Svezia. C’è anche un universalismo, preponderante sui limiti originari, anche se non da essi dìsgiunto.

Memoria – “Ho una memoria devastante, autodistruttiva”, ha notato di sé Lévi-Strauss. Può esserlo. No, deve esserlo: la memoria è selettiva, altrimenti sarebbe ingolfata. Quella che è detta cattiva memoria è comunque memoria. Perché, altrimenti, cos’è la buona memoria? Quella giusta, apologetica. A altrettanto delimitativa – distruttrice.

Metafora – È il pensare. “Metaforizzare vuol dire pensare, vuol dire riunire rappresentazioni o idee”, Borges, “L’idioma degli argentini”, 68. È vero. E il contrario è pure vero: si pensa solo per metafora?

Tempo – È la chiave della scrittura – non solo in Proust: poetica, narrativa, critica? Camilleri, lo scrittore, analizzando la verbale percezione in riguardo al fenomeno (atmosferico, sanitario,  affettivo) opina giudizioso in questo senso: “Vuoi vedere che l’artista è colui che ha una costante percezione alterata della realtà?” Come il folle, secondo una tradizione.

zeulig@antiit.eu

Roma fa la stupida

Si sta discutendo se condannare Virginia Raggi a tre anni, oppure a meno di due anni, “per consentirle di governare al città”. Si discute come al mercato delle vacche. Per consentire di governare Roma a una che ne è del tutto incapace?
Si leggono cronache surreali se non fossero vere. È la sudditanza verso Grillo, di giudici e giornalisti? È la sudditanza al nuovo? C’è dietro una S pectre, una loggia? O Roma è veramente stupida, non solo nella canzone di Nino Manfredi?
Si assiste a Roma, senza autocritiche, senza rivolte, al supplizio quotidiano di una persona incapace, che la città ha eletto plebiscitariamente al Campidoglio. Che le ha già fatto perdere la grande occasione dell’Olimpiade, e non sa fare niente, neanche nominarsi un segretario. Ora, è vero che Roma diede 20 mila preferenze a Cicciolina, benché la candidasse l’odiato Pannella. Ma non c’è un limite al ludibrio? Una volta, due, basta.

Stupidario classificatorio bis

Il turismo a Roma cresce la metà che a Milano, “Corriere della sera”. Contando le scolaresche lombarde comandate all’Expo? E il Botswana, che cresce tre e quattro volte l’Italia?

L’Italia è al 108vo posto nel mondo per i servizi alla giustizia – Giovanni Canzio, il capo della giustizia italiana.

Su “50 Most Exciting Artists in Europe” di Artnet, il magazine online americano, la metà sono di Londra, 24. Forse perché parlano inglese. Altri 15 sono di Berlino, dove ormai si parla inglese, seppure teutonico. Di europei a New York ce n’è uno solo. Zurigo non ha artisti, Milano neppure.

Chiara Appendino non ha fatto niente, ma è il sindaco più apprezzato d’Italia, nella classifica del “Sole 24 Ore”. In virtù del web: chi più igita più conquista le classifiche.

Virginia Raggi pure non ha fatto nulla, e ormai sono otto mesi, ma viene ultima o penultima nella stessa classifica. Il web è anche sanzionatorio..

L’ultima della classifica del “Sole”, Maria Rita Rossi sindaco di Alessandria, può consolarsi: “Chi mi ha preceduto era tra i primi dieci nella classifica, ma non è stato rieletto”. Dopo aver lasciato Alessandria, 90 mila abitanti, con 300 milioni di debiti e un disavanzo di 50.

La verità è un collage

“Un grande scrittore dell’Ottocento, Gobineau”, dicono gli intervistatori, “parla della fine del mondo come di un’epoca invasa «dalla morte, in cui il globo, diventato muto, continuerà, ma senza di noi, a descrivere nello spazio impassibili orbite»”. “È una frase meravigliosa, davvero stupenda”, risponde Lévi-Strauss, “ma io non penso che quest’epoca sia vicina. L’astrofisica ha fatto dei progressi dal tempo di Gobineau”.
L’antropologo di lunga esperienza è pragmatico. Anche, a proposito di Gobineau, in fatto di razzismo, il teorico dell’unità delle culture, “Razza e razzismo”, 1952: “Un antirazzismo semplicistico finisce per dare più armi al razzismo di quanto non si pensi, perché tenta di negare cose evidenti e di buon senso”. O si prenda la “mucca pazza”, di tanto allarme e di pronta e radicale rimozione: era – è? – dovuta “al’introduzione nell’organismo di ormoni della crescita tratti dal cervello umano”. Destinati a bambini con problemi di crescita, e alle donne  con problemi di sterilità, che ne furono le vittime. Nella Bibbia l’uomo diventa carnivoro uscendo dall’Arca di Noè.  Dalla convivenza forzata con gli animali – una ritorsione, una vendetta? Il passo successivo fu la torre di Babele: “Alla separazione di uomini e animali segue quella tra gli uomini”, sulla base della lingua – o non tribù-nazionalità?
Piacevoli conversazioni con un maestro, che non insegna nulla. Se non a riconoscerci proteiformi e ripetitivi – inventivi e modulari. Con brio, senza saccenteria, ai (quasi) novant’anni – l’intervista, con Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia per i programmi culturali Rai, è del 1997. Una plaquette perfetta – cadenzata, misurata – con l’impressione dell’inesauribile che è il segno della saggezza. Di un maestro che peraltro si lamenta di scarsa autorevolezza, almeno in patria.
Il lavoro dell’antropologo Lévi-Strauss assimila a un collage, proprio in senso tecnico, come quelli d Max Ernst: “Mettendo insieme dei miti, io li ho ritagliato dal contesto nel quale si trovavano presso popolazioni estremamente diverse tra di loro”. Ne ha accumulati molti, e poi ha cominciato a comporre dei puzzle: “Ho cercato di capire come avrei potuto disporli gli uni in rapporto agli altri, in modo che ne scaturisse un significato più generale e più profondo”.
I “Cristi di oscure speranze” sono di Apollinaire, quando agli inizi del Novecento, in giro con Picasso al mercato delle pulci, avevano scoperto le maschere di legno africane e amerindie. Lévi-Strauss, per la curiosità degli intervistatori, ne ha tappezzata la biblioteca dove li riceve. Ma non ne azzarda letture esemplari. Un tardo positivista, blasé, sornione. .
Claude Lévi-Strauss, Cristi di oscure speranze, Nottetempo, pp. 61 € 6

giovedì 26 gennaio 2017

Più Europa, più Giappone, meno Cina

Non un isolazionismo, un ritorno al protezionismo, ma più autonomia all’Europa, e più ancora al Giappone, in funzione anticinese. Si precisano gli orientamenti internazionali di Trump, sulla base degli orientamenti dei suoi collaboratori e consiglieri, e sullo stato dell’arte delle strategie americane globali. Una forma di multipolarismo attivo. Al contrario della “Dottrina Obama”, che voleva un trinceramento americano sui valori americani, seppure ideali. Col conseguente abbandono, o con la disattenzione, di aree sensibili. Specie della fascia islamica dall’Africa Occidentale al Pakistan, e al suo interno del conflitto israelo-palestinese, dell’Iran nucleare, del terrorismo.
Contro l’isolazionismo  
La Cina rimane in Asia il partner dominante, dopo la parziale eclisse del Giappone nel “ventennio perduto”, fino all’“Abenomics” del premier Shinzo Abe in questi ani 2010. Ma non più controparte asiatica unica: il Giappone è richiamato sula scena.
Con l’Europa ci saranno attriti sul cambio del dollaro, che molti a Washington ritengono a questo punto sopravvalutato. Ma non liti. Sarà invece accentuata la pressione per un maggiore impegno militare europeo autonomo. L’aumento della spesa militare annunciato da Trump è in chiave grande potenza mondiale, e non esclusivamente o prevalentemente transatlantica.
La pretesa ricostituzione del’asse anglosassone, con la Gran Bretagna della Brexit, sarebbe intesa a legittimare le altre direttrici di Trump: il controllo rigido dell’immigrazione, la lotta al terrorismo islamico.
Con Putin prudenza
Con Putin la relazione dovrebbe svilupparsi con prudenza. È la linea individuata dal novantatreenne Kissinger (filo-Hilary in campagna elettorale, nessun contato con Trump) nella sua lunga intervista con “The Atlantic” un mese fa: 1) Il rapporto personale non c’è e comunque conta poco: “Putin ha detto alcune buone parole su di lui, e Trump si è sentito di dover rispondere, nient’altro”; 2) Putin non ha l’iniziativa, non può aver deciso: “Putin aspetterà a vedere come la situazione evolve. Stati Uniti e Russia interagiscono in aree in cui nessuno di essi cntrola tutti gli elementi, l’Ucraina e la Siria”.   
La Cina, che aveva programmato una coesistenza pacifica per almeno un trentennio, quando avrebbe eguagliato il potenziale economico americano, ora sarebbe tornata alla finestra. Sorpresa dal voto americano, anche se non lo mostra. Anche questo sviluppo è prefigurato da Kissinger, che con i vertici cinesi ha contatti continui.
In Giappone Abe ha moltiplicato il suo “pacifismo attivo”. Forte di una maggioranza che gli consentirà di modificare la costituzione, per quanto riguarda gli impegni militari al’estero. Ha schierato truppe all’estero per la prima volta dopo la guerra, seppure in missione di pace. In Sud Sudan, cioè in Africa, continente che Pechino patrocina, non da ora. Ha riaperto con Mosca, dove lavora per chiudere il contenzioso sulle Curili. Si è accordato con l’India per lo sviluppo del nucleare civile. Ha ratificato l’accordo commerciale transpacifico, il Ttp, malgrado il preannunciato ritiro americano. Per prevenire il suo infeudamento alla Cina. .

Problemi di base grillini - 311

spock

Si farà un asse Trump-Putin, con Grillo nel mezzo?

Si chiama Raggi, ma non si sa chi è:  un caso di smemoratezza?

Per Raggi la giustizia è diversa che per Marino - a opera della stessa Raggi: è sempre la  smemoratezza?

Dopo le leggi ad personam i codici di comportamento ad personam, ad libitum, ad adiuvandum – potenza del latinorum?

Marra, o l’informatore informato?

Però, Grillo che mette la museruola a Raggi, può parlare solo lui, non avrà la sindrome di Castro – il posto è vacante?

Grillo, o la politica del comico?

Ma è il comico anche ipocrisia – Pirandello va aggiornato?

L’uomo della strada è passato sul web? Sulla nuvola? Su una pertica? Con l’astronave?

spock@antiit.eu

Riso amaro dopo Pinocchio

“Collodi”, al secolo Carlo Lorenzini, era un altro: l’inventore fortunato del burattino Pinocchio è
uno scrittore. Traduce i racconti francesi di fate, di Perrault, Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont, due terzi del volume, con minimi adattamenti – “leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, di modi di dire”. Ma abbastanza per dare loro consistenza autonoma, per “ri-crearli”. Siamo nel 1876, poi verrà “Giannettino”, poi “Pinocchio”. Sono traduzioni di formazione, ma con piglio favolistico solido.
La raccolta si completa con una diecina di “storie allegre”, pubblicate sul “Giornale per i bambini”, compreso il romanzetto “Pipi, o lo scimmiottino color di rosa”. Storie non proprio allegre. Qualcuna, “La festa di Natale”, dickensiana.
I racconti seguivano sul “Giornale per i bambini”, a partire dal 1883, le avventure di Pinocchio, che Collodi vi aveva pubblicato a puntate, a partire dal 7 luglio 1881. Il successo di Pinocchio gli aveva procurato anche la direzione del periodico, fino ad allora diretto da Ferdinando Martini, il fondatore del “Fanfulla della domenica” e della “Domenica Letteraria”, deputato di innumeri legislature, senatore, ministro dell’Istruzione Pubblica nel primo governo Giolitti, governatore dell’Eritrea dopo Adua, ministro delle Colonie durante la grande guerra, firmatario nel 1925 del “Manifesto degli intellettuali fascisti”, grande massone.
Le “Storie allegre” non ripetono il successo di Pinocchio. Ma “Pipi” è notevole: è nel 1883
un sequel parodia di “Pinocchio”. C’è anche, “L’omino anticipato”, la canzonatura anticipata della pedagogia oggi prevalente, che vuole il bambino un adulto.
Carlo Collodi, I racconti delle fate. Storie allegre, Giunti, pp. 544, il., ril. € 30
Carlo Collodi, Storie allegre, Barbès, pp. 175 € 8

mercoledì 25 gennaio 2017

Azzoppare l’anatra Draghi

L’incongruo procedimento dell’Ombudsman, o mediatore etico, europeo contro Draghi per conflitto d’interessi, per fare parte del Gruppo Bilderberg, rende manifesta la guerra sotterranea in corso da tempo, a Parigi e a Berlino, contro il presidente della Bce. Con l’obiettivo di indebolirlo – sostituirlo non si può – e di riflesso indebolire la posizione italiana, nella finanza e negli affari. Quello che il gergo americano dice “azzoppare l’anitra”: il lame duck  è solitamente l’autorità non rimovibile, che però si porta all’impedimento, indebolendola.
Draghi è un avversario da sterilizzare, non potendolo rimuovere. Ha completato con pieno successo il mandato per cui fu “assunto” da Berlino: salvare le banche tedesche. Lo fece, con 250 miliardi (la “Grande Bertha”). Poi ha fatto cose che il fronte franco-tedesco, intento a spolpare l’Italia a prezzi di realizzo, non ha gradito. La presidenza della Bce, non rinnovabile, dura otto anni: quella di Draghi scade quindi a novembre 2019, fra tre anni.
Il gruppo Bilderberg è un foro di dibattito, esiste da un quarantennio, riunisce banchieri e intellettuali, ed è succeduto alla Trilateral proprio per rendere più pubbliche le sue discussioni. A Draghi era stato fatto colpa di appartenervi già a metà 2012, sempre presso il Mediatore europeo, e sempre su denuncia di un altrimenti ignoto Corporate Europe Observatory. Il Mediatore dell’epoca, Nikiforos Diamantoros, aveva dismesso subito la “notizia”. Il suo successore, una giornalista televisiva irlandese, sta invece montandoci uno scandalo.
Anche nel 2012 se ne fece uno scandalo. A Parigi, su iniziativa del presidente eletto Hollande, via “Le Monde”, al quale fu data la notizia dell’indagine a carico di Draghi che invece allora non si fece. Hollande si muoveva nell’alveo della politica antitaliana del suo predecessore Sarkozy.
Draghi s’è proposto di salvare l’euro. La missione è  riuscita e ora dà fastidio. Soprattutto con la politica anti-deflazione:  la Germania si ritiene fuori dalla deflazione, e danneggiata dalla politica degli interessi zero-negativi. Ma il resto dell’Europa è sicuramente in deflazione e Draghi tiene duro. Un altro motivo di scontro, dopo il quantitative easing.
Draghi è anche, seppure non dichiarato, l’unico argine contro la manomissione del sistema bancario italiano. A opera del suo capo della Vigilanza – che però negli statuti Bce è autonoma: la terribile Nouy, un’impiegata francese traslocata a Francoforte. Col compito di dissolvere le banche italiane?


L’inverno europeo

È gelo anche per le banche. Non solo italiane. Un studio della Deutsche Bank mostra che i ricavi e gli utili netti delle banche americane sono da due anni migliori dei livelli pre-crisi. Le banche europee invece ancora arrancano, sia per ricavi che per utili.
Gli andamenti divergenti sono l’esito di differenti politiche creditizie, e dei due modelli diversi e quasi antagonisti di rilancio dell’economia, quello Obama, espansivo, e quello Merkel,
restrittivo – del troppo poco troppo tardi. Nella politiche restrittive europee le banche si sono trovate esposte. Per evitare il tracollo si sono prese un ruolo di supplenza, finanziando generose la produzione, e ora, con la ripersa lenta, sono minacciare ugualmente d’insolvenza, a costi maggiorati per tutti, finanziatori e comunità.
Le banche americane hanno adottato politiche drastiche di disindebitamento, di selezione della domanda. Nel decennio hanno ridotto di 13 punti di pil i crediti alle famiglie. Mentre le banche europee li hanno aumentati, in varia misura nei vari paesi, di un 3 per cento complessivo. Nei confronti delle imprese hanno fatto anche peggio. I crediti alla produzione sono cresciuti di 7 punti di pil negli Usa, di 16 nella Ue.

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Perché abbattere le banche italiane, col capitale

C’è una ragione nella violenza della Vigilanza Bce contro le banche, e ora in particolare contro le banche italiane. Alle quali impone ricapitalizzazioni a cascata – son le più capitalizzate d’Europa – che le indeboliscono invece di rafforzarle. Un circolo vizioso frutto non di incompetenza ma di una strategia. Esercitata dalla responsabile francese, Danièle Nouy, col supporto della Bundesbank – anche in chiave bancaria vige l’asse franco-tedesco.
La ragione è in parte nota. La Bundesbank ha ricapitalizzato le sue banche, le più a rischio di tutte, per prima. Con la benevola disattenzione degli altri paesi membri verso una pratica per molti aspetti concorrenziale. Per 250 miliardi, dieci volte le ricapitalizzazioni italiane.
La Francia c’entra nella violenza della Vigilanza Bce perché l’ha esercitata per prima. Nel quadro della politica di privilegio ai grandi interessi (molto visibili ora anche in Italia) che concorre per buona a parte alla disistima record coagulata dal presidente socialista Hollande. Nella seconda fase della crisi, dal 2011, la politica francese è stata di moltiplicare i fallimenti, per ripulire i bilanci delle banche dei crediti incagliati o non performing loans. La media dei fallimenti annui è stata di 60 mila imprese, piccole e piccolissime. Il doppio che in Italia, a parità di popolazione.
Nei primi anni della crisi, rileva la Deutsche Bank,  Francia e Germania hanno seguito politiche antitetiche. La Germania ha ridotto il credito, sia alle famiglie che alle imprese, rispettivamente di un 14 e di un 4 per cento. La Francia invece ha fatto in un primo tempo come l’Italia, ha accresciuto il credito in funzione anticiclica, per compensare le politiche di bilancio restrittive. L’Italia lo ha aumentato di un 7 e di un 14 per cento, la Francia di più, del 17 alle famiglie e del 24 alle imprese.
Poi è intervenuta la rigida selezione. Per cui gli npl sono passati in questi cinque anni in Italia da 200 a 320 miliardi. Mentre la Francia li ha tenuti dimezzati, a 150 miliardi.

Ceronetti contro la nuvola

Contro il male di vecchiaia – gli occhiali che non si trovano - e contro la E-Memoria. Con esercizi memonici consigliati, tra il burlesco e il disperato: titoli celebri errati, gli adolescenziali scioglilingua, le poesie, le canzoni, la preghiera anche, e più in generale la pratica della meditazione, le associazioni sonore traditrici. Leggere i giornali non serve. Le lettere d’amore nemmeno. Con i caratteristici frilli. “Cuneiforme è l’alfabeto dell’asservimento umano”. “Il lamento sgocciola da tutte le grondaie dell’esistente”. Col volgare “la Messa ha perso quasi interamente il suo fondamento sacrificale”. “Senza latino la libertà dell’uomo italofono e dell’uomo europeo si decompone, e diffonde odore di chiodo paleo semitico (fasci croci uncinate falci martelli mezzelune…)”.
Difficile contestarglieli, questa volta i (mal)umori di Ceronetti, uomo solo al comando, nascono su un letto d’ospedale. Il bisogno di compassione non è contestato e anzi è dichiarato: costituzionalmente umano.
Un manualetto di resistenza. Contro la E-Memoria gli strali sono anche ben diretti. Cancella ogni supporto – corrispondenza, riflessione, libri (non la conversazione, Ceronetti è uno che dialoga con se stesso). I bambini formando ignoranti, gli adulti abbeverando a “mammelle sataniche”. Il tempo, si può aggiungere, eliminando, e con esso la disponibilità, la prodigalità – la E-Memoria è incalzante, assorbente. Ma è un “attacco alla specie”? Ceronetti ne è convinto: l’accumulo google si è sostituito alla conoscenza, lo studio, la speranza. Ma no, lui stesso ha potuto scrivere comodo in clinica trovando nella nuvola i riferimenti necessari – è un mezzo, fantastico.
La scrittura pure, prima del web, ai suoi albori e ancora al tempo di Platone, era sospettata e condannata.
Guido Ceronetti, Per non dimenticare la memoria, Adelphi, pp. 64 € 7

martedì 24 gennaio 2017

Il colpo di coda della finanza laica

Si può leggere l’arrocco di Mediobanca-Generali come una controffensiva  della finanza laica. Del  vecchio “salotto buono” milanese contro Intesa pigliatutto, il bulldozer creato dall’amministratore del vescovo di Brescia, Giovanni Bazoli, sull’ex impero di Cuccia. Che in estate è arrivato infine, alla presa del “Corriere della sera”. Una sconfitta che più della Commerciale brucia in Mediobanca.
Mediobanca non poteva più permettersi il “Corriere della sera”. E non potrà permettersi Generali, come ha annunciato, dopo una vita. La rete di protezione che Mediobanca si è costituita con i francesi non è bastata. Anzi, Intesa aveva ultimamente buon gioco a proiettare la finanza francese all’assalto di Generali, con Axa e non più con i Bolloré, e a prospettare una mossa difensiva nazionale.
La partita si gioca ora scoperta. Ma Generali più di Mediobanca ha la forza per opporsi. Tanto più che ne va della sua vita: il disegno “nazionale” di Intesa, di caratteristico cinismo (ha cannibalizzato tutte le entità che ha artigliato, non ne ha salvata una), è di fare del colosso di Trieste uno spezzatino, vendere, lucrarci.
Generali era nel mirino di Bazoli già negli anni 1990. Allora l’integralismo del banchiere bresciano lo costrinse alla ritirata. Avrebbe dovuto unire le forze con Banca d’Italia, allora secondo azionista a Trieste dietro Mediobanca, governata da Fazio, altro banchiere confessionale. Bazoli non sopportava Fazio, una sorta di concorrente nello stesso campo, non ne sopportava la pretesa di arbitrare gli assetti finanziari. Ma la collisione con Banca d’Italia lo costrinse alla ritirata, seppure senza perdite – l’eiezione di Fazio arriverà tardiva su questo fronte..

Ombre - 351

Non si comprano più i giornali ma si comprano i libri che ne fanno le veci: inchieste, personaggi, rivelazioni, Nuzzi, Saviano, Fittipaldi, Romano quelli che riempiono oggi le librerie. Si comprano in gran numero, in massa, anche se costano, e poi si buttano. Non è la voglia d’informazione che manca. Di analisi, di inquadramento.

Trump è un nemico facile, incontinente quale è – un comico lo smonterebbe, da solo. Ha per questo critiche unanimi, ma tutte di un certo tipo, altezzose: i suoi collaboratori sono trafficanti, disonesti e incompetenti, le donne della sua famiglia poco di buono, suo figlio un ritardato.  Fatte cioè per dargli consistenza: umanità, compassione. È il pregiudizio che perde la sinistra, la presunzione.

Trump ha preso già decisioni di forte impatto, nazionale e internazionale. La sospensione dell’Obamacare. La rinuncia al Trattato Trans-Pacifico – cui seguirà l’abbandono del Trattato Trans-Atlantico. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Ma di lui continuiamo a leggere facezie. Comprese ora quelle del figlio piccolo.

Dobbiamo credere che Trump tornerà al protezionismo? L’opposto della globalizzazione che è stata la strategia e l’arma letale degli Stati Uniti in questi ultimi trent’anni. Una cambiamento epocale, una rivoluzione, etc. Con riflessi non solo sulla produzione e il commercio ma anche sulla difesa, gli armamenti, gli assetti politico-militari. Dovremmo quindi saperlo ma nessuno ce lo dice. Nessuno parla con lui, con i suoi ministri, con i suoi consiglieri. Facciamo gli struzzi.


E che dire dell’entusiasmo per Trump a Wall Street e dintorni, dove la globalizzazione è stata escogitata e imposta? Questa America resta un mistero, che pure è così tanto dichiarata.

Non dà tregua a Trump “la Repubblica”: “Non è andato propriamente a tempo, Trump, nel ballo di rito. Sulle note di “My Way” di Sinatra, il presidente ha fatto rimpiangere il debutto danzante degli Obama nel 2009”. Il fronte della resistenza in pista da ballo.

L’albergo della morte era abusivo, afferma Sergio Rizzo sul “Corriere della sera”. Cioè no, c’è stato un giudizio e il tribunale aveva assolto l’albergatore.
Non c’è la disgrazia, c’è la colpa. Questo è umano. Ma perché i giornali devono essere corvi?

Non è tutto, argomenta il “Corriere della sera”: la Procura che accusava l’albergatore di Rigopiano non ha fatto appello contro l’assoluzione perché la causa andava in prescrizione. Quante colpe in questa slavina: pure la prescrizione.

Dalla prima ora della valanga sull’albergo di Rigopiano la Procura di Pescare  s’è fiondata a razzo a denunciare la colpa dell’imprenditore-proprietario della struttura, che pure ci ha lasciato la pelle. Ogni giorno un profluvio di reati, ipotizzati. Un volta si chiavano avvoltoi.

Sono gli stessi giudici che han promosso, e ottenuto, la condanna a sei anni dei sismologi e gli altri scienziati, che non avevano previsto il terremoto dell’Aquila? Sui terremotati d’Abruzzo le disgrazie non finiscono mai.
Ma non si potrebbe trovare qualcos’altro da far fare a tutti questi giudici abruzzesi?

È assordante il silenzio del Pd dopo il referendum. Di Renzi specialmente, che fino al giorno prima ingombrava i media. Ma anche del partito, di tutto il partito – D’Alema voleva prendersi la scena ma è rimasto ridicolmente solo. Hanno votato contro, e ora sono rintronati dal botto. Una nuova categoria di suicidio: ingombrante.

Laude
Il politico consumato
Dormiva della grossa
E pesci non pigliava
Né Crozza lo aiutava
Con la sua possa.

Se solo come un cane
E secco come la morte
Buon viso s’arrendeva
Di buzzo buono a fare
A cattiva sorte.

Il rischio è sempre quello
Dello astensionismo
della società civile
che più oggi non sa
pigliare i pesci.

L’amore è gioco

È legge di natura\ e non prudenza solo: amor cos’è?\ Piacer, comodo, gusto,\ gioia, divertimento,\ passatempo, allegria: non è più amore\ se incomodo diventa\ se invece di piacer nuoce e tormenta”. “Così fan tutte” è un exemplum libertino, il terzo che la coppia illuminato-massonica Da Ponte-Mozart mette in opera a Vienna, nel 1790, quando a Parigi la rivoluzione monta, dopo il “Don Giovanni” e “Le nozze di Figaro”. Un’emulsione lieve: “È amore un ladroncello”, canterà la solare Dorabella, che con la sorella sentimentale Fiordiligi si è prestata a mettere alla prova l’amore come fedeltà. Come promessa di fedeltà in questo caso, dato che gli innamorati di entrambe figurano al campo per la guerra. E d’altra parte “Così fan tutte”, inteso delle donne, si sottotitola “La scuola degli amanti”: anche i due innamorati sciocchi, imboscati in una finta guerra, impareranno.
L’opera, due anni prima della morte, è il primo dei tre lasciti di Mozart: un dramma giocoso che è un’opera buffa – cui seguirà l’opera seria “La clemenza di Tito”, e il vaudeville popolare e campestre “Il flauto magico”. Attraente e anche divertente. Grazie qui alla regia, che contemporaneizza la vicenda senza tradirla, come in una tv-verità del pomeriggio che fosse allegra e non vendicativa. E soprattutto agli interpreti, che peraltro sembrano divertirsi anche loro. Giovani come vuole la storia ma non solo, spigliati, scattanti, esagerati, invece che immobili al proscenio. Francesca Dotto e Chiara Amarù, “Fiordiligi” e “Dorabella”, le due sorelle tentate. Monica Bacelli, “Despina”, una serva padrona incredibilmente versatile, è anche medico e anche notaio, e sempre musicalmente in tema. Vito Priante, “Guglielmo”, e Juan Francisco Gatell, “Ferrando”, i due giovani svitati che scommettono sulla fedeltà delle innamorate. Pietro Spagnoli, “don Alfonso”, il libero pensatore che architetta la scommessa-beffa. Con un che, tuttavia, di eccessivo, della regia e quindi degli interpreti, che il dramma corale, perfino dolente, di un erotismo sottile, scardina con troppa sit-com adolescenziale.
La storia è semplice e complessa. Di adulteri, tentati, favoriti, riusciti, quasi, falliti. Con pochi assolo, il gioco è corale – esemplare. Si dipana tra quartetti, quintetti, sestetti, talvolta duetti, con arie residuali, quelle d’obbligo per i ruoli primadonna, ma non decisive. Che la messinscena romana per questo aspetto interpreta al meglio, vorticosa e insieme semplice, sorridente sempre. Di un Mozart fortemente caratterizzato. Su un doppio registro, come si conviene alle sue opere dapontiane. Agitato sul palcoscenico, andante lieve nella fossa mistica, sotto la bacchetta di Speranza Scappucci. Autorevole specie nella non invasività: la sua orchestra ha per tutte le quattro ore gli accenti giusti, brillante e misurata, non aggressiva
Una rappresentazione piacevole, oltre che sorprendente. A cui un curioso triplice rovesciamento, o tradimento, ha fatto seguito, nella presentazione e nei commenti. Della storia. Del significato. Di Mozart in quest’opera, che si vuole quasi politico e comunque impegnato. E come si potrebbe, al di là del tiepido libertinismo viennese? L’opera gli fu rimproverata, e non più rappresentata per un secolo abbondante, ma per sconvenienza - per un moralismo anticipatamente borghese, della borghesia delle tende alle finestre e delle mutande chiamate calzoncini.
La storia è classica e variata, dell’incostanza femminile, e\o della fedeltà come scommessa. Gli amanti sono in prova in Shakespeare, “La Tempesta”, il “Sogno di una notte di mezza estate”. In Molière, “La scuola delle mogli”. Sarà ripreso da Goethe autonomamente (di “Così fan tutte” si parlò poco, niente più dopo la prima), “Le affinità elettive”. Animava altri libretti di Da Ponte, prima di quest’ultima collaborazione con Mozart, e poi dopo – specie con Martin y Soler a Vienna, “Una cosa rara”, e dopo la morte di Mozart ancora col compositore spagnolo a Londra . Qui è più spregiudicata: le due giovani sono volubili senza una vera insidia, né ricchezza, né nobiltà o eroismo, nemmeno esotismo benché i due cavalieri serventi si figurino albanesi. Giusto per curiosità. È una storia libertina nella Vienna ancora ancien régime del 1790, benché illuminata dalla massoneria, anche se altrove c’era la rivoluzione – Mozart fu accusato dai confratelli di sprecarsi in banalità e volgarità. Despina è anche più manigolda dei precedenti servi padroni di Da Ponte-Mozart, Figaro e Leporello, e meglio individuata, più personalizzata. Si può anche dirla il vero deus ex machina della vicenda, e uno al femminile, invece di don Alfonso, il libero pensatore e dissacratore che impone la s commessa - l’alter ego di Da Ponte. Ma perché l’opera sarebbe rivoluzionaria?
La si vuole già femminista. Lo sarebbe perché gli interfaccia maschili sono, all’inizio, superficiali. Due occhi: si lasciano convincere a scommettere sulla fedeltà delle fidanzate senza nessuna ragione, per gioco. Sarebbero superficiali, perché anche loro poi, come le due sorelle, prendono gusto all’innamoramento, al gioco della novità.
È un dramma giocoso, quale si vuole, non femminista. Dirlo la liberazione sessuale delle donne non ha senso, nessuno le teneva in castità – e comunque è salvata la virtù. La spregiudicatezza (libertinismo) di Da Ponte è lontanissima dai temi correnti dei “femminili”. la coppia, il tradimento, la fedeltà, la sincerità, la gelosia, il perdono. Siamo sempre nel Settecento.
Soprattutto non ha senso – curiosità nella curiosità – in questa rappresentazione. Di retrogusto antifemminile sottile e costante, come è della donna sessuata in mano gay. Queste donne fanno di tutto, compreso (Despina) masturbare i due finti albanesi finti morti per farli rinvenire, invece di applicare loro “quel pezzo di calamita,\ pietra mesmerica,\ ch’ebbe l’origine\ nell’Alemagna” . che oggi avrebbe fatto ridere di più. O, le due sorelle, sfregarsi un cuscino tra le gambe, alla menzione di un “bel naso”, qui letto come il dottor Fliess lo leggeva al suo amico dottor Freud. Nonché inguainarsi in improbabili lamè sciantosi, da entraîneuses. La sessualità femminile vista con spregio. Le primedonne sono qui eroiche, Dotto, Amarù, Bacelli, ma attendono di essere liberate.
W.A . Mozart (regia Graham Vick), Così fan tutte, Teatro dell’Opera, Roma

lunedì 23 gennaio 2017

Letture - 289

letterautore

Africa – Federico Fubini, uscendo a testa bassa da una libreria a Roma, è arpionato da un ambulante venditore di libri, un africano, che lo fulmina: “Non scappare. Scappate tutti, non mi guardate neanche”. E lo asservisce, come usa al talk-show, col magnetismo dell’Italia annichilita: “Non contate più nulla, non c’è più nulla da fare qui in Italia”. Fubini non gli compra il libro ma qualcosa gli lascia, che è quello che il fulminante si aspetta.
La cosa è curiosa perché la libreria Feltrinelli di Largo Argentina a Roma è presidiata da vent’anni da un gruppo di ambulanti senegalesi (i fula o fulani, con ex guerrieri mandingo, e qualche malinké e bambara del Mali), organizzati da un gigante erculeo che ogni tanto si fa ancora vedere ed è maestro di questa serie di argomentazioni. Avendo trasbordato in Europa la logistica tradizionale, sperimentata e a suo modo efficiente: capo (jula-ba), ambulante (jula-den) e alloggiatore (jatigi). Hanno prima emarginato in un angolino invisibile, e poi allontanato i modesti rivenditori di “Terre di mezzo” e le sue pubblicazioni sull’Africa, africani non aggressivi.
Fubini sottovaluta l’Africa, che ha capacità dialettiche e drammaturgiche. E anche logistiche.

Campanella – “Un precursore del chisciottismo”, lo dice Walter Pedullà, “Il mondo visto da sotto”, 154. Bisognava pensarci.

Comunismo – L’amore al tempo dell’Unione Sovietica è sempre stato tema arduo, per le convivenze forzate e i controlli di polizia. Di più, era escluso in linea di principio, come regressione borghese – è il tema di Orwell, “1984”. Morti – suicidi – Esenin e Majakovskij, il sovietismo escluse di programma l’amore dalla poesia e le arti. Pasternak fu perseguitato per “Živago” perché il romanzo celebrava l’amore. Fu tollerato nelle poetesse, che peraltro furono confinate.
Camilleri (“Segnali di fumo”) mette a contrasto il comunismo nell’Urss e fuori, dove invece trova “la migliore poesia d’amore: Neruda. Hikmet, Éluard – e Aragon? Ma anche loro, soprattutto loro, la triade – e Aragon – non erano comunisti come Camilleri, ben a distanza? Non c’è una storia comunista d’amore, eccetto appunto “Živago”.

C’è una storia? I romani, dovendo andare in pensione, finiscono tutti per conoscere Lenin, una piccola strada sulla Portuense occupata dall’Inps. Ma poco altro c’è. In questo anno centenario della sua rivoluzione non si vedono storie, neppure critiche.  

Critico – È un evergeta, uno che “compie buone azioni” in modo disinteressato. Un residuo delle opere pubbliche culturali della classicità, demandate a che aveva qualcosa da dare o investire. Scompare oggi per l’ugualitarismo crescente – non si dà se non si ha?

Dante – “Mentre che il vento, come fa, ci tace”, oppure “si tace”? Camilleri opina giustamente per il tacersi. È solo logico, il vento ha questa fame, di essere incostante, ogni tanto si tace, all’improvviso si scatena, etc. Ma tra Paolo e Francesca, al canto V dell’“Inferno”, il vento non può intervenire a tacitarli, che ne sa?, ma, come spesso fa, si tace, questo lo può. “La bufera di vento”, conclude Camilleri in uno dei suoi “Segnali di fumo”, “si tace quasi a voler ascoltare anch’essa la tragica storia dei due amanti”.

Dialetto – È stato la fiammata di un momento - degli anni 1950. Un adattamento, derivazione-deviazione, del neo realismo. Con Gadda, Moravia (“Racconti romani”), Pasolini, D’Arrigo, Fenoglio, Mastronardi, Testori, Domenico Rea, Meneghello, Eduardo, Govi, il milanese Scotti. Non ha introdotto né costrutti né parole.
Poi è subentrata la modernità, o forse l’italiano si è riappacificato con se stesso. Ha sdoganato il turpiloquio, ma non i dialetti. Neanche l’insorgenza leghista un quarto di secolo fa ha scosso l’unità linguistica. È insorto Camilleri, ma con una lingua propria, più che on un dialetto.

Fagioli – Teresa Cremisi, già direttrice di Gallimard, torna ad Alessandria dov’è nata, Alessandria d’Egitto, e trova che i fagioli, che dovrebbero bollire in cinque ore, ora si cuociono in mezzora, con una punta di calcio. Aggiunge che tutti glieli sconsigliano, perché il calcio è “polvere cancerogena”.
Cuocere in cinque ore pazienza, si vede che Teresa Cremisi non ha mai cucinato. Ma il bicarbonato di sodio “polvere cancerogena”? Che molti prendono da generazioni, e comunque è consigliato per non far disfare i fagioli. Che sono buoni anche sfatti.

Gay – Fa un’arte del dileggio delle donne – Genet, Edmund White, etc. Che però ne sono estasiate. Si vede all’Opera a Roma, a “Così fa  tutte”, l’opera di Da Ponte e Mozart, messa in scena da Graham Vick. I personaggi femminili, Fiordiligi, Dorabella, Despina, sono caricaturati. Anche dileggiati: le due “ragazze” inguaina in lamé da entraîneuse, alla serva-padrona Despina, in veste di finto medico, fa mimare due seghe per rianimare due finti morti, invece di usare la “potente calamita venuta di Germania”, che forse avrebbe fatto più ridere. Ma le interpreti ne sono felici, Francesca Dotto, Chiara Amarù, fa anche “la mossa”, Monica Bacelli. La  sessualità – il genere – come divertimento. Sguaiato, perché il sesso lo è – c’è anche il rifiuto del sesso. Non un fattore di concepimento, né ovviamente di dignità – parola da tempo in disuso, col concetto, in quanto borghese (anche se siamo tutti borghesi, pure i barboni, molto ammodo, a modo loro). Ma neanche di gioia, solo di sberleffo, come tutto il travesti - come ora è inteso il travesti, seriamente. 

Opera – È sempre in progress, vivente l’autore, e magari anche dopo, ma sempre definitiva a ogni passo? Camilleri dice il contrario (Segnali di fumo”, 38): quando il libro è stampato, ne distrugge gli appunti e le scritture, non lo rilegge, e lo dimentica. Ma con un centinaio di opere pubblicate in pochi anni, Camilleri è in progress con le stesse edizioni: il suo continuo fresco di stampa, ogni mese, ogni settimana, è una scrittura. L’opera in progress dell’autore inedito è invece un costante remake.
E Manzoni in tutto questo? Si trovò nel mezzo della questione della lingua, ma era di suo un irrequieto e un ricercatore.  

Pinocchio – Paolo Di Stefano ripercorre sul “Corriere della sera”,
una serie di letture recenti di Pinocchio, che ne fanno “un altro”. Tabucchi, l’arcivescovo Biffi, Calvino, Fruttero, Jervis, Citati, La Capria, l’italianista Suzanne Steward-Steinberg, Emilio Garroni e Manganelli.
Manganelli giunse a scrivere un “Pinocchio parallelo”, che Calvino avrebbe detto “ la più pertinente esegesi della storia”. In cui dissemina, per ricostruire l’animo del burattino, “tracce, orme, indovinelli, burle, fughe”. Ma questo non è “Alice”?
Non è colpa di Collodi. Se non di essere stato finitimo del Novecento. È il Novecento che ha la mania della riscrittura – in letteratura e al cinema come ha sempre usato in musica. Di “Pinocchio” come di Sherlock Holmes - e della stessa Alice (che però pone insidie). Nessuno riscriveva Omero o Shakespeare – nemmeno, malgrado Borges, “Don Chisciotte”.

Riso – Viene passata la paura, secondo Freud e Baudelaire. Che però non hanno mai riso – non che si sappia. Erano sempre impauriti?

Romanzo verità – Può essere, ma solo degli affetti – compresa la passione politica? Camilleri giunge a questa sintesi: “Ogni romanzo parla comunque dell’uomo e l’esistenza è nella maggior parte dei casi il tentativo quasi mai riuscito di trovare un difficilissimo equilibro tra ragione e sentimento”.

Sherlock Holmes – È parodiato da Mark Twain in “A Double barreled detective story” (ora tradotta, come “Dopiette”, nell’antologia di Gianaria e Mittone, “Insospettabili”). Come celebrità mondiale, nota fin nei villaggi sparsi dei cercatori d’oro del West, tra i quali capita “dopo essere morto tre volte”, quindi già nel 1902. “Chiunque lo conosca come lo conosco io”, così lo presenta il nipote Fetlock Jones, uno poco presentabile, “sa che non è capace di scoprire un crimine senza aver progettato in anticipo ogni cosa e sistemato gli indizi e assunto qualcuno perché lo commettesse seguendo le sue istruzioni….”. Tra i bruti cavatori Sherlock Holmes viene preso al suo laccio, di indizi che nessun altro ha raccolto, nemmeno lui – gli indizi in effetti sono interminabili.

letterautore@antiit.eu

Abbattere l’Italia per abbattere l’euro

Dbrs declassa l’Italia al livello spazzatura, meno del Burundi. È possibile? È avvenuto. L’Italia onora il debito, naturalmente, ma pagherà per questo uno o due miliardi di interessi in più.
È un trucco per far guadagnare questo miliardo, in parte o in tutto, ai due soci dell’agenzia di rating, i fondi Carlyle e Warburg Pincus. Ma non solo.
Dbrs, ex Dominion Bond Rating Service, figura canadese, e a questo titolo è stata ammessa a valutare i debiti europei dalla Bce, come contraltare alle tre agenzie americane, Standard and Poor’s, Moody’s e Fitch. Nel 2008, dopo lo scandalo dei mutui americani, che le tre avevano gonfiato. Invece di creare un’agenzia europea che competesse con le americane. Ma Dbrs è più americana delle altre - più sul mercato, più speculativa.
Fra le tante debolezze dell’euro, questa del rating non è la minore. Anche perché di agevole soluzione, se la Bce non si opponesse. Ed una delle più pericolose: delle tante offensive  americane contro la “Fortezze Europa” e l’euro, quella condotta attraverso le agenzie di rating è la più lucrosa e insidiosa. L’offensiva è da alcuni anni contro l’Italia nell’aspettativa che faccia saltare in qualche modo la Ue e l’euro.
La fiducia della Bce nelle quattro agenzie di rating contrasta d’altra parte con la fiducia nelle stesse  delle autorità di controllo americane, la Sec, Security and Exchange Commission, e il ministero della Giustizia. Le agenzie di rating agiscono senza garanzie di indipendenza, per guadagnare, e far guadagnare i loro soci, fondi e banche.
Ciò è stato provato negli Usa. Dove Standard and Poor’s ha patteggiato una multa da 1,4 miliardi di dollari per comportamenti scorretti, e Moody’s sta patteggiando per poco meno di un miliardo. Il socio di maggioranza di Dbrs, Carlyle, nel 2008 chiuse insolvente per 16 miliardi di dollari.

La Bce è strabica, anzi guercia

La Bce vigila severamente sui crediti incagliati, o non performing loans: sono crediti più o meno irrecuperabili, e quindi da defalcare dagli attivi. Per percentuali storicamente e analiticamente note – e purtroppo, nel caso italiano, della crisi prolungata, oltre il 70 per cento. Non vigila invece su una voce ancora più consistente degli attivi, sui titoli illiquidi e sui derivati (scommesse speculative), e più volatile. Anche perché non c’è in materia serie storica di percentuale solida di recuero – se non quella fallimentare delle grandi banche americane nel 2007.
È uno strabismo bizzarro. Più volte e da più parti denunciato, ma mai preso in considerazione a Francoforte. Come se da questo occhio la Bce non ci vedesse.
Si è insinuato che il guercismo Bce sia un occhio di favore per la Germania, la cui maggiore banca è esposta sui derivati. Compensando questo lassismo con la severità nei confronti delle banche italiane specie contro Mps. Ma il fenomeno è più vasto: non è l’indipendenza della Bce che è in questione, ma la sua indipendenza nei confronti del grande potere finanziario.

L’occhio di Dio sulla narrazione al Sud

“Dio non ha armi contro i misfatti umani”. E un Dio disarmato deve presiedere al Sud. Ma non sulle lettere, se Pedullà riesce a estrarne numerose gemme, malgrado questa constatazione desolata di metà percorso.
“Narratori meridionali del ‘900” è il sottotitolo. Di una raccolta corposa e pratica, “unitaria”, di testi diversi. Una rivendicazione – anti-leghista sottofondo, viviamo ormai in questa scatola. E una rivisitazione, come un ritorno a casa. Walter Pedullà non ci ha mai pensato nei tanti decenni di critica militante e di insegnamento alla Sapienza. Ora sì, perché gli è stato proposto, e perché anche lui probabilmente è a disagio - il leghismo non è indolore. Ma senza poi crederci molto.
Un europeo nato al Sud
Chi va via dal Sud tende a privilegiare l’approdo. E in questo dopoguerra, cosmopolita e poliglotta, ad allargarlo: uno tende, come già Alvaro, a considerarsi “un europeo nato in Calabria”. Come si fa comunque a dividere l’Italia? Quella delle lettere poi è indissolubile – comincia dalla Sicilia. Ci ha provato Dionisotti, cui si accredita autorevolezza, ma l’esito è incerto, se si fa la tara della politica. Nord e Sud non sono peraltro tematiche distinte, Pedullà insiste molto su questo limite nel centinaio di pagine che ha premesso alla raccolta. Difficile anche segnarsi i confini, se non linguistici. Roma no. E l’Abruzzo, gli Abruzzi? D’Annunzio no, Flaiano sì. Ma anche Napoli Pedullà frequenta poco – per un calabrese è difficile. E la Puglia? La Sardegna?
Mare, madre, morte
Filologo acuto del Novecento, e fan della modernità, della novità, Pedullà aveva ben analizzato in precedenza molti scrittori meridionali, in analisi che può riproporre ancora parlanti, ma senza farne una geografia. Non la fa nemmeno oggi – “la lingua comune, l’italiano, agevola il più ricco contrabbando”, primo tra i contrabbandieri il milanese Gadda, alla frontiera col vecchio Regno del Sud. Ma si sarà stancato, anche lui, il leghismo stanca tutti, e ha pensato che affermare un punto di consistenza del meridione, fra i tanti di sfacelo ordinario - ordinariamente imposti, là dove si fa la realtà del discorso (o è il viceversa?) - non fosse sbagliato e anzi necessario.
Ora poi vanno gli “atlanti” anche in letteratura, dei luoghi, delle persone, dei temi, con i “parchi” e le fondazioni. E così il critico della R & S letteraria è voluto tornare là da dove era partito. Con una  introduzione che è un saggio a parte, e alcune note inedite, sistematizza e ripropone in chiave Sud altri suoi scritti e parti di volumi. Calabrese d’un pezzo, fisico e metafisico, le radici sono anch’esse ineliminabili, ha vissuto una vita col migliore Novecento, italiano e straniero. È in quest’ottica che si era imbattuto anche in scrittori del Sud, che hanno vissuto al Nord o vi si identificano – Pirandello, Pizzuto, Bonaviri, in parte anche D’Arrigo, l’“Autore” siculo-calabrese che Arnoldo Mondadori ha fortissimamente voluto. Senza trionfalismi, che pure, per peso specifico e peso assoluto, sarebbero stati giustificati, e anzi con una vena di pessimismo – che non si può rimproverare: “Nel fondo del Mediterraneo giace pure l’etimologia comune di mare, madre, morte”, sarà la conclusione. Partendo da questa “nota a margine”: “Nel Sud d’oggi abbondano i pupi e non nascono più i veri paladini”. Comunque in un’ottima collana Rubbettino, “SS 19”, l’ex statale delle Calabrie, con testi rilevanti di Galasso e Francesco Bevilacqua, e il ripescaggio di Répaci e Zappone. Sotto il vessillo, se non le insegne, di Pirandello, dello “scomporre, disordinare, discordare” con cui il narratore e drammaturgo siciliano ha “aperto” il Novecento. Del resto, è al Sud come al Nord: “Si scrive soprattutto per se stessi. Per imparare la vita e la morte scrivendo degli altri”. Un saggio, una raccolta, non pessimisti, ma malinconici sì – chiude Foscolo: “E avea sul volto il pallore della morte e la speranza”.
Il critico è un mecenate
S’incontra molto, guardando il mondo da sotto, Pirandello, uno dei pochi del Novecento in precedenza trascurati dal critico. Sciascia e Lampedusa controvoglia, per completezza. Molto D’Arrigo. E i coetanei compagni Bonaviri, Strati, il fratello maggiore, compagno di studi e dell’avventura in Italia, anche La Cava, maggiore dei tre ma altrettanto compagnone, ai quali sono dedicati oltre alle avvolgenti letture anche medaglioni personali, di vita e di avventure letterarie – modeste, ma la letteratura è modesta. Corrado Alvaro, certo, di cui Pedullà riproduce la lunga introduzione premessa al volumone Bompiani degli “Scritti dispersi”. E sempre gli autori amati e già lungamente e variamente analizzati: Svevo, Palazzeschi, Gadda, Savinio, Bontempelli. Si fa perdonare anche “Pizzuto”, dopo l’ennesima trattazione: un maestro più che un narratore, “fu suo vanto non avere usato due volte la stessa parola con lo stesso significato”. Con gli altri nomi d’obbligo: Vittorini, Brancati, Flaiano.
I più naturalmente scorrono in brevi note: Mazzaglia, Bufalino, Camilleri, Scotellaro, Pierro, La Capria – di tanti napoletani solo Rea viene approfondito, Domenico. Mancanze incoraggianti, in qualche modo: il Sud è più grande di un libro, di quanto un critico possa abbracciare. La parte finale replica alcune delle recensioni che Pedullà ha sparso nei giornali. Con l’aggiunta di veloci schede su nuovi e nuovissimi, Alajmo, Saviano, Lagioia – anche qui mancano i napoletani eccetto uno: Starnone, De Luca, “Ferrante”, Pascale, Piccolo, et al..
Un libro d’autore, uno che dialoga e duella con i suoi scrittori. Portato alla scoprimento o rovesciamento - allo sberleffo e più al paradosso. “È stato un grande secolo il Novecento , anche in letteratura, pure in Italia”. Con preferenze – la lingua, la scrittura – e rifiuti – il “civile”, lo “storico”. E un bilancio ancora seminale.  I saggi scorrono in forma di frammento, che è anche un modo d’essere e di raccontare al Sud: epigrammatico, allusivo, complice. Tutti per qualche verso pregni, Pedullà è scrittore di brio: dell’arguzia, e dell’ironia non disseccante o humour. La diagnosi di tutte le arti del trivio e del quadrivio, fino all’osceno. La guerra tra il fatto e l’interpretazione. La perdita del modello – “un mondo senza Dio è aperto a tutte le correnti d’aria, è inevitabile”. Pedullà scrive molto – critico militante, giornalista, accademico – e scrive poco: “conosce” anche lui come il suo vecchio mentore e amico La Cava, “l’arte del frammento”.
Il viaggio è lungo nel secolo breve
Un viaggio anche attraverso il Novecento, l’ennesimo di Pedullà, novecentista anche (ancora) appassionato. Con una punta caustica: il viaggio è lungo nel secolo breve – l’elenco fa interminabile, di innovatori e non: “Futuristi, lacerbiani, vociani, rondisti, surrealisti, realisti magici, ermetici, neoralisti, neoavangardie, nonché pirandelliani”, e i tanti “che hanno scritto alta poesia, ancorché ortodossa”. E pieno di umori, lampi, squarci, rivelazioni del visibile. Aperto da Pirandello, dal saggio sull’umorismo, e dal coevo Pareto dei “residui” e delle “derivazioni”. “Ha vinto la struttura che ordina di ridere su tutto e su tutti”. Nel quadro metafisico, incerto, del pirandelliano “scomporre, disordinare, discordare”, che vale per il Sud come per tutta l’espressione italiana. Un secolo di ricerca e di trasgressione: “Il comico e l’avanguardia saranno la copia più feconda del Novecento. Hanno generato alcuni suoi figli maggiori: anzitutto Pirandello, che non piaceva a Serra cui piaceva invece l’umorista Panzini, e poi Svevo, Palazzeschi, Bontempelli, Savinio, Gadda, Zavattini, Brancati, Landolfi, Calvino, Pizzuto, nonché Malerba, Bene, Manganelli e Arbasino”.
Soprattutto stimolante – si legge come uno di quegli scrittori che Voltaire consiglia di scorrere con la penna in mano. Apodittico mai, spesso epigrammatico, di quesiti e scorci pregnanti. “Il Sud ha sconfitto tutti i governi, ma quasi tutti i governi hanno sconfitto il Sud”. “Meglio l’uovo oggi che la gallina domani” è “l’empirismo del non innocente Sud”. “Il comico che è anche tragico”. Un florilegio se ne potrebbe estrarre, gustoso. “Da Napoli è scappata la commedia dell’arte e nessuno l’ha ripresa: era una magra consolazione”. “Il materialismo migliore è quello storico”. “Il capitalismo ha stravinto, e la sta facendo pagare cara a tutto il mondo” (“Troppo salati i danni di guerra: ci sta togliendo il welfare”). Aggiogati come siamo a “un sistema sociale che ora è così potente da diventare invincibile, oltre che invisibile”.
Il critico è un signore
Una summa – un repertorio – da duellante. Che all’incontro con l’autore ne studia, carpisce, somatizza ogni tecnica e abilità, più spesso mimandolo. In un corpo a corpo da scrittore a scrittore, più che da sarto a cliente, da professore a materiale, da presentatore a gentile pubblico. Sia da professore, è da credere dalle monografie, che da critico militante. Con un distinto penchant per la scrittura: il progetto e l’innovazione, o la scrittura che pensa alla scrittura – si polemizza spesso contro la “scrittura”, ma da parte di “scrittori della non-scrittura” (Montale, Pasolini), altrimenti è sciatteria. A volte problematico. “I meridionali ridono poco perché hanno paura” non è vero. I meridionali ridono molto, sono i soli ch ancora ridono - troppo? il riso è una forma di difesa. Ma la colpa è qui probabilmente di Freud, che il riso spiega come reazione alla paura, quando cessa - o prima di Freud, insinua Pedullà, di Baudelaire, che però non rideva per principio, il dandy non ride.
L’ultimo Grande Lettore – forse è qui la malinconia, in questa constatazione. Testimone sempre partecipe, curioso, infaticabile. Il critico è un generoso per definizione. Non un saprofita ma un cultore dell’opera altrui, che contribuisce a far crescere, amare, valorizzare. Un signore. Si vede meglio oggi, che è una figura assente – dopo duemilacinquecento anni di “fortune di Omero”, di invenzioni di Omero. Forse perché non c’è l’autore – la letteratura globale è altra cosa, di classifiche, di vendite, di rimbombi tra una lingua e un’altra e immediatezza (forse è qui l’ombra lunga del Novecento, in un Millennio che è un ritorno dell’Ottocento, minimale).  
Walter Pedullà, Il mondo visto da sotto, Rubbettino, pp. 638 € 19