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venerdì 28 settembre 2007

Quattro milioni alle primarie sono i parenti

Prodi non cade, naturalmente, perché ha le primarie del Partito Democratico, poi ha la Finanziaria, poi… E perché dovrebbe cadere, perché lo critica Grillo? Miseria del giornalismo! I trecentomila di Grillo non sono niente, Cofferati ne portò in piazza tre milioni, che non è un genio. Tre milioni sono gli italiani che si candidano in politica: quelli di Grillo sono quindi appena un decimo degli italiani politicanti.
Prodi vince comunque le primarie. Se Veltroni ha un largo seguito bene, si guarderà dal mettere in crisi come primo atto il governo. Ma Veltroni e il Pd rischiano molto. Se l’affluenza alle primarie si fermerà ai quattro milioni di Prodi, allora si potrà dire che è il Pd è un partito dei parenti: i candidati sono trentacinquemila, tutti in età, con famiglie quindi numerose, e a 100-110 votanti a testa si copre abbondantemente quell’affluenza. Il nuovo partito dovrebbe nascere con 8-10 milioni di voti, e questa è un’impresa quasi impossibile per Veltroni, altro che battere Letta, Bindi o Gawronski, la temibile concorrenza.

Eco maître-à-penser del non pensare

“Repubblica” lancia il libro di Eco sulla bruttezza con la copertina e un’intervistona, in cui Eco non dice nulla, se non freddure, e non per incapacità dell’ottimo intervistatore Merlo, paziente lasciandosi fotografare. C’è un non detto in Eco, che pure è tanto presente, massmediologo, filosofo, scrittore di best-seller, giornalista, maître-à-penser, l’intellettuale di maggior peso. Non una riserva mentale ma un disprezzo benevolo, di qualcuno che s’interessa alle cose, ma per non avere nulla da fare.
È per questo motivo che firma i manifesti indigesti? L’ultimo lunedì per Ahmadinejad, dopo quelli per la Br, il giorno stesso in cui l’uomo dei preti andava all’Onu per negare l’Olocausto e offendere gli omosessuali. Eco non è naturalmente un negazionista. Né un oltranzista sessuale. Ma non è nemmeno l’opposto. Eco sa che l’appello dei trecento, o tremila, intellettuali pro Iran all’Onu ha solo il senso di far trionfare Ahmadinejad. Ma per lui il “trionfo” non c’è, e dunque una firma vale l’altra.

giovedì 27 settembre 2007

Catastrofi: i Borboni facevano meglio prima

Dieci anni per ricostruire Assisi e il resto dell’Appennino umbro-marchigiano lesionato (poco) dal terremoto. Altrettanti per restaurare la cattedrale di Noto dopo il crollo. Sono imprese riuscite, Assisi e Noto, di cui tutti si congratulano, a fronte dei terremoti che hanno lasciato strascichi ventennali, in Friuli, o trentennali, il Belice. Ma che pensare allora dei vituperati Borboni, che dopo i terremoti facevano ricostruzioni rapide, ben progettate, ben finanziate? Con studi geodetici-fisici, sismici, architettonici. Nella Sicilia di Sud-Est, dopo il sisma del 1693, crearono in vent’anni un mondo barocco di una ricchezza impressionante, a Catania e nelle città rifatte, Noto, Caltagirone, Grammichele, Vizzini, Militello, le due Ragusa, Inferiore e Superiore, Chiaramente Gulfi, Còmiso, Bìscari, Mòdica, e altre. L’impianto urbanistico, con regolamenti rigidi, e molte abitazioni leggere della ricostruzione della piana di Gioia Tauro dopo il sisma del 1783 hanno retto fino all’ “abusivismo di necessità” del compromesso storico. Mentre la ricostruzione a Messina dopo il terremoto del 1908 lasciava il quartiere Giostre nelle baracche fino agli anni Sessanta - fino a che non ci passò l'autostrada. La tecnica nell’Italia unita non avrà certamente fatto passi indietro. O è questione di tangenti? Ma sotto i Borboni, per quanto esecrati, si rubava una minima parte delle risorse pubbliche rispetto a quanto si ruba oggi. Anche perché ogni ricostruzione veniva finanziata con apposite requisizioni forzose, civili ed ecclesiastiche, e ognuno vigilava sull’uso delle risorse a lui sottratte. Bisognerà rivalutare i Borboni?

Sìrcana: Rcs risarcisce Prodi per lo stato di crisi

La vicenda di Sìrcana è orrenda, ma per quello che non si dice, anche se sta sotto gli occhi di tutti. Le foto ricattatrici sono state comprate e messe fuori mercato dalla Rcs, la casa editrice che dodici anni fa ha avuto da Prodi un compiacente “stato di crisi” per superare l’art.18 e licenziare chi voleva. Ecco chi vendeva gli “stati di crisi”, per aziende che erano e sono le più ricche del settore, quali Rcs, Repubblica-L’Espresso, La Stampa: non i sindacalisti distaccati al quarto piano del ministero del Lavoro, che riusciva incomprensibile, ma l’ineffabile Treu, che poi è stato convenientemente messo da parte, e Prodi. Se ne capiscono le fortune, di personaggio tanto mediocre, tra i grandi giornali.
Che stagione! Un milione e settecentomila posti di lavoro cancellati in due anni dagli “stati di crisi”. Uno scandalo così è perfino inconcepibile. Corona sarà un ricattatore e Sìrcana un povero Cristo che va a puttane, ma peggio di tutti è lo scandalo dell’informazione. I giornali sono il vero puttanaio, che si fa colmare dalle buffonate.

La politica estera di Prodi è marcare D'Alema

Eccetto che in famiglia, si suppone (con le intercettazioni non si sa mai…), il vice-presidente del consiglio e ministro degli Esteri D’Alema è seguito dal presidente del consiglio Prodi come un’ombra. Un marcamento incessante e ravvicinato, da fiato sul collo. È il primo imperativo di Prodi da quando è tornato al governo: dovunque D’Alema vada Prodi arriva il giorno dopo, o due giorni dopo. A Mosca, a Madrid, in Libano, in Afghanistan, a Washington, all’Onu, chiunque D’Alema veda Prodi lo vuole vedere subito, Rice, Garzai, i sudanesi, gli iraniani… Con più giornalisti al seguito, gliene toccano di più, e più spazio sulla Rai. E questo è il nocciolo della politica estera.

Nocerino in realtà ha assolto Moratti

Un frillo percorre i tifosi, Milano manda sotto processo Galliani e Moratti. Invece no, manda sotto processo Galliani e l’oscuro vice di Moratti all’Inter, in realtà assolve Moratti. Non c’era dubbio che così sarebbe andata, Carlo Nocerino, il giudice fidato delle indagini eccellenti a Milano ha fatto quello che doveva fare – come a suo tempo assolse tutti i big della Rizzoli-Corriere della sera, che avevano procurato uno stratosferico buco di bilancio, di 1.300 miliardi. Milano non condanna, anzi neanche li processa, i buoni milanesi, se ci sono responsabilità vanno addebitate a personaggi di fuori, a manager sconosciuti, e a Berlusconi. Non si parla naturalmente dei passaporti falsi all’Inter. Né delle accuse, ancorché riscontrate, di Tavaroli sui dossier illegali chiesti da Moratti e da Facchetti - anche il grande terzino era un famiglio di Moratti, o così lo considera il patron, che se ne riverbera l’integrità. Né si è mai indagato, anzi non se ne parla nemmeno, di una squadra che spende il doppio di quanto incassa, 400 milioni contro 200, e ha debiti di poco inferiori alla metà di quelli della Fiat, il maggior gruppo italiano.
Cioè si è indagato, ma il giudice Nocerino a giugno aveva già assolto l'Inter, e nel caso anche il Milan, dal falso in bilancio, sotto forma di ipotesi di rinvio a giudizio. L'atto d'accusa, di appena nove pagine, di cui tre di generalità e formule procedurali, a tre anni dai fatti, cioè in prossimità della prescrizione, non aveva ingannato nessuno. “Il Sole 24 Ore” l'aveve anzi preso a pretesto per assolvere i bilanci dell’Inter, lodando la munificità di Moratti. Milano sempre si assolve. Non si parla nemmeno del collocamento Saras, ormai sono due anni, con rialzi sicuramente pilotati che tanto impensierirono la Consob. La giustizia sportiva dell'ottimo procuratore Borrelli, che nemmeno fa il gesto di muoversi, se non altro ha il pregio della coerenza.

I politici sono comici, ma da avanspettacolo

Invece del promesso cartone di “Heidi”, Rai Due inflessibile prolunga il question time che vede protagonista Di Pietro. Ora, Di Pietro è ministro ma continua, con visibile gaudio, a fare il comico: con strafalcioni ricercati, smorfie, divagazioni, risposte interminabili a quesiti semplici, senza mai rispondere (deve dire se l’autostrada Salerno-Reggio sarà chiusa per un decennio a Gioia Tauro, con danno per i trasporti della Sicilia tutta, di cui praticamente raddoppia, o quasi, i tempi - è così, l’autostrada è già chiusa, ma Di Pietro nega). Il tutto vigilato dal piccolo occhio furbesco. E uno si chiede: sono alla Rai, in Parlamento, ascolto un ministro, o sono in un noioso teatrino?
“Sono grandi comici i politici”, Sgarbi l'altra settimana ha teorizzato alla stessa Rai Due per ridimensionare Grillo, mimando Bossi, Di Pietro, Andreotti & Co. È vero, questa politica è un teatro comico, ma di avanspettacolo: si raccontano barzellette aspettando le soubrettes. Che sono già vizze benché giovani, veline, postine, squillo e portatrici di droga, ma le chiappe e le tette in qualche modo sporgono ancora alte. Questi comici invece sono suonati, più che altro parlano per passare il tempo, aspettando un magistrato integerrimo, un criminale pentito, un giornalista etico che li spazzi via, draghi di cui s’immaginano nel frattempo sangiorgi. Preparandosi acconcia giustificazione davanti alla storia che chiederà loro conto dei gravi danni inflitti all’Italia: ma noi scherzavamo.

mercoledì 26 settembre 2007

Mastella sfida la Giustizia Napolitana

C’è una connotazione tribale nella contesa tra il ministro della Giustizia Mastella e il sostituto procuratore De Magistris. Che sta a in esilio Catanzaro, essendo napoletano. Napoletanissimo bene, nell’abbigliamento prima ancora che nell’eloquio, e nella distinta concezione della giustizia come divertimento, la Giustizia Napolitana. Come Henry John Woodcock, come Beatrice, il pm di “Gomorra” e Moggi, Miller, Mancuso, o Palazzi, altro artefice della Cupola Moggi, e i tanti napoletani illustri che invece che a Potenza o Catanzaro sono stati per loro fortuna primattori a Milano, Torino, Roma: D’Ambrosio, Borrelli, Greco, Boccassini, Guariniello, Ormanni, eccetera. Inflessibili, fantastici, imprevedibili, il colorito nutrito dal sonno dei giusti, che della giustizia fanno una Piedigrotta inesausta. De Magistris è più bello di Woodcock, e anche di Beatrice, seppure di eleganza meno curata, casual.
Mastella forse non lo sa, ma lui, ras politico di Benevento, non sopporta la strafottenza napoletana. Si agita perché, tra intercettazioni, missioni, consulenze milionarie e testimoni illustri a centinaia, i suoi corregionali gli prosciugano le scarse risorse del ministero, ma è il fatto tribale che non digerisce. Può anche darsi che Mastella sia invischiato nelle indagini di De Magistris, ma non è questo che gli brucia. Né del resto importa al magistrato, che non si accontenta di un eventuale affaruccio di Mastella, un grasso longobardo sperduto nel bush.

A chi il "Corriere"? Agli amici di Prodi

Grandi manovre tra la Rcs e Palazzo Chigi in vista dei mutamenti possibili nella proprietà del quotidiano: Antonello Perticone, l’amministratore del gruppo del “Corriere della sera” si tiene in contatto diretto col presidente del consiglio Romano Prodi o, in sua assenza, col suo capo della segreteria. Teoricamente gli equilibri interni al patto di controllo del “Corriere” potrebbero mutare per il disimpegno della Fiat, che ha in portafoglio il 10,29 per cento delle azioni, e di Capitalia, che ha il 2 per cento, dopo la fusione in Unicredit. Ma né il nuovo padrone di Capitalia, Alessandro Profumo, né la proprietà e il management di Fiat vogliono disimpegnarsi. La partita si gioca attorno a Mediobanca, che è la prima azionista di Rcs (13,26 per cento) e ne è da trent’anni il dominus, e i cui equilibri proprietari sono in forte movimento: Fiat ha ceduto la sua residua quota dell'1,83 per cento a Goldman Sachs, che cerca compratori, mentre Profumo vuole dimettere la quota di Capitalia, 9,39 per cento (Unicredit e Capitalia insieme verrebbero ad avere altrimenti uno schiacciante 18,07).
I giocatori che Prodi ha schierato per Mediobanca, in vista del “Corriere”, sono di prima grandezza. Bazoli su tutti: manca al presidente di Intesa, per completare la sua egemonia su Milano e in generale sul sistema bancario, una presenza in Mediobanca. Col sostegno di altri amici della Popolari, in primis della Popolare di Milano di Mazzotta. Tra gli imprenditori Prodi mette avanti i Benetton – accettando a parziale compensazione la candidatura di Fininvest. L’entrata di Bazoli e degli altri amici viene giustificata col bisogno di bilanciare l’annunciata intenzione dei soci francesi, Bolloré in testa, di accrescere il proprio impegno in Mediobanca, e nella costellazione Mediobanca, Generali, “Corriere”, etc.
Perricone è il manager che ha comprato le foto scomode a Prodi per toglierle dal mercato - il vero scandalo nello scandalo Corona: un contributo irrituale, forse anche illegale, alla politica, di 150 mila euro dichiarati tra "Oggi" e "Novella". Prodi si è occupato personalmente di tutti i grandi affari dell’ultimo anno e mezzo: Banca d'Italia, Intesa-San Paolo, Unicredit-Capitalia, Telecom Italia, Autostrade-Abertis, Enel-Endesa, Eni-Gazprom, Rai, Alitalia, Coni\Figc - stabilendo già un record: passerà alla storia come il capo di governo che più si è immischiato negli affari. Talune soluzioni anzi ha lui stesso proposto e caldeggiato (Intesa-San Paolo, Unicredit-Capitalia), altre le ha imposte (Telecom).

martedì 25 settembre 2007

"Il sangue dei vinti", senza Togliatti?

Curioso libro, dove, malgrado il dettaglio, ripetuto, insistito, monotono, prevale il non detto. Di una situazione peraltro che nel 1946, e ancora nel 1947, veniva detta tranquillamente di guerra civile. Senza contare che i vinti la loro vittoria l'hanno avuta, eccome, nei primi anni Cinquanta. Quando i peggiori arnesi repubblichini si godevano l'impunità dell'amnistia, mentre fioccavano le condanne di ex partigiani per reati comuni. Al punto che Giuliano Vassalli dovette proporre provocatoriamente un "delitto di partecipazione alla Resistenza", analogo a quello di "collaborazionismo fascista", per allargare anche ai partigiani l'amnistia per "reati connessi".
Il dettaglio non è contestualizzato. Non c’è la politica: le elezioni, le formazioni dei partiti. E solo qua e là, ritualmente, si contrappunta la vivenza con la menzione delle sevizie e degli eccidi contro i partigiani. Lo stesso dettaglio spesso è trascurato, in troppi episodi congestionati – molti dei nomi citati hanno una storia. È evidente il desiderio di segnalare le responsabilità del Pci. Ma qui con la tecnica del cerchiobottismo: Togliatti non sapeva. Ma se i comunisti venivano rifugiati a migliaia a Praga e in Jugoslavia, per evitare i processi, come faceva Togliatti a non sapere?
Pansa si è assunto un compito coraggioso, per il quale è oggetto di astio, e anche di censure. Ma anche per questo, per le censure, dovrebbe essere conseguente. Non da storico, la sua non è storia. Ma il compito che si è assunto non è da storico, è un impegno civile di divulgazione per la verità. È in questo dichiarato, e fa male che l’onestà sia rifiutata – rifiutarlo come sorico è una scusa. Sono ancora vivi quelli che hanno perduto padri, fratelli, zii, e qualcuno anche la madre, per la “giustizia del popolo”. Molti a destra, ma molti anche a sinistra, non è questo l’ostacolo alla verità. Ma tanto più allora bisognerebbe andare alla radice del problema: che non è il numero dei morti, in una guerra civile i morti sono sempre troppi e senza giustificazione, ma proprio la mancanza della verità. La politica del linguaggio doppio, della ipocrisia, con tutta la sua ipocrita durezza.

Montanelli, "Morire in piedi" - copiando

La differenza maggiore è Ghestapo, che Montanelli italianizza anche nella scrittura, il resto è più o meno uguale: se non è una copia è un calco. Si ripubblica “Morire in piedi” (Rcs, pp. 152 con indici, euro 16), con prefazione di Sergio Romano, il libro del 1949 sull’opposizione militare a Hitler di Indro Montanelli, senza specificarne il debito con “Wehrmacht contro Hitler”, il libro-memoria di Fabian von Schlabrendorff, pubblicato nel 1946 col titolo “Offiziere gegen Hitler”, a cura e con prefazione di Gero von S.Gaevernitz, in un’edizione svizzero-americana, a Zurigo prima, poi a Askona (Ascona?)-New York, tradotto da Arturo Barone per le Edizioni Gentile La Rassegna d’Italia nel maggio 1947. Solo riconoscimento è nell’avvertenza di Montanelli: un generico rinvio a “molti” memorialisti, “una minima parte” dei quali tradotti - nella prima edizione, Longanesi 1949, qui indirettamente ripresa, il libro si presentava come un reportage originale: “Le grandi figure dell’ultimo esercito germanico, ricostruite sulle molteplici fonti del dopoguerra e attraverso un’inchiesta svolta personalmente dall’Autore in Germania”.
Montanelli ha qualche marcia in più di Schlabrendorff: fa leggere d’un fiato le 140 pagine di attentati falliti che si succedono uguali come in una comica di Ridolini, con interesse cioè e senza farle cadere nel ridicolo. Non a torto sanzionato da Eco quale “fenomeno” e “abilissimo autore di pastiches storico-letterari” (“Il costume di casa”, pp. 169-74), Montanelli parte con maestria, dalla rappresentazione dell’attentato del 20 luglio, e col canonico “ricostruiamone la storia”. E ha un paio di storie in più, affascinante quella di Vlasov, con la caratterizzazione di Stauffenberg. Ma anche nella versione di Barone il libro è scorrevole, e talvolta meglio sceneggiato. L’edizione Gentile, benché funestata dal salto di un quinterno nell’edizione consultata, è un bel libro, con prefazione, nota dell’editore, Gero von S. Gaevernitz, e quarta di copertina precise, esaurienti, e ottime foto nel testo. Von Gaevernitz era stato braccio destro di Allen Dulles, il capo dell'Oss in Svizzera durante la guerra, ed era rimasto legato alla Cia, che succedette all'Oss: ciò spiega le plurime edizioni del libro e la loro accuratezza, nella povertà quasi bellica della grafica - è anche un indizio per la riedizione di cui Montanelli si fece tempestivo autore, ma con ogni probabilità insignificante.
Montanelli salta le pagine in cui Schlabrendorff tratteggia la resistenza non militare a Hitler, anche se vi si rappresentano belle personalità. È l’altra differenza tra i due libri. Si perde così Gustav Dahrendorf, socialista, padre del sociologo politico baronetto Ralf Dahrendorf. Ma dà più ritmo al suo racconto. Dà anche spazio alle colpe degli Alleati, che S.-von G. omettono, con le vicende dell’ammiraglio Canaris, dell’Anschluss e di Monaco. Nel dettaglio, Montanelli omette le prime dieci pagine di S., le pagine 25 (von Ketteler e Hadelmayer) e 28 (S. a Londra da Lloyd George), la p. 37 (il Vaticano all’opera contro la guerra nel 1940), il capitolo su Goerdeler, col proclama in dettaglio che il borgomastro aveva preparato per la popolazione, e le pagine conclusive. Per il resto è tutto uguale, talvolta alla pagina. Il socialista antisemita antinazista Ernst Nieskich mandato dallo Stato maggiore a Mosca a trattare intese e spartizioni col maresciallo Tuchačevskij. Lo smantellamento dello Stato Maggiore con le accuse a Blomberg (ha sposato la segretaria, una puttana) e a Fritsch (omosessualità). Il complotto contro Fritsch raccontato ai congiurati dall’addetto militare di Hitler, Hossbach (p. 24 di S., e 25 dell’edizione Rcs). Il rivolgimento allo Stato Maggiore (pp.27-28 di entrambi i libri). Poi il parallelismo si sgrana: il ruolo del cristiano-democratico bavarese Josef Müller (p.22 e p.59), il letargo della Resistenza allo scoppio della guerra (pp. 33 e 39), il “generale rosso” Hammerstein” (pp.35-36 e 53-54), Guderian che è ricevuto da Hitler ma non riesce a dire una parola (pp.43 e 86), il piano Treschkow-Witzleben (pp.53-55 e 89-90).
A questo punto ricorre l’unico riconoscimento a Schlabrendorff, obliquo. Montanelli ne cita il libro in tedesco tra parentesi a p.83 “(è Schlabrendorff stesso che ha raccontato tutto questo nel suo "Offiziere gegen Hitler", e a voce mi ha fornito particolari inediti)”, e a p.88 ne cita il piano: “S. ha lasciato il resoconto che ci ha confermato a viva voce”. Anzi peggio che obliquo: il resoconto di S., continua M., “coincide con le memorie (per ora segretissime) di Beck e Witzleben”. Si capisce che il direttore del “Corriere”, Mario Borsa, abbia dirottato sul “Corriere d’Informazione”, giornaletto del pomeriggio, le corrispondenze del suo inviato, che in teoria aveva passato così tanti mesi in Germania alla ricerca della verità: proponeva “memorie segretissime” (quello di sapere i segreti è un vizio molto italiano: sarà un format linguistico?). Di seguito, nella stessa pagina, M. riprende parola per parola da S., senza citarlo, gli usi alimentari e ipnotici di Hitler. E continua col calco. Nel cap. XI, pp.86-92, sintetizza il cap.“Il tentativo di attentato del 13 marzo 1943” di S.. Alle pp. 88-89 ricalca l’aneddoto delle pp.72-73 di S. sugli inneschi speciali che non funzionano, e delle bottiglie esplosive di pseudo-brandy che viaggiano per la Germania tra grandi ufficiali ignari. Poi Montanelli salta l’esposizione dei piani di Goerdeler (ne liquida il proclama in poche righe a p.117), e nella corrispondenza tra le pagine S. risulta avanti: il circolo di Kreisau (pp.99-100 di S., 95-96 di M.), i leader socialisti sindacali Leber e Leuschner (pp.113-115 e 98-99), il resoconto delle ore successive all’attentato del 10 luglio, che anche S. drammatizza (pp. 141 segg, e pp.120 segg.).
Un altro riconoscimento a Schlabrendorff Montanelli lo ha dato cinquant’anni dopo, nella sua “Stanza” sul “Corriere” del 26 febbraio 1997. Ma sempre indiretto. E con alcuni errori, che Sergio Romano ripete nell’introduzione all’edizione odierna: Schlabrendorff non fu avvocato a Norimberga “dei criminali di guerra”, ma consulente volontario del generale Donovan sul contributo delle chiese alla Resistenza, e non sopravisse al “bombardamento violento di Dachau (quello in cui trovò la morte Mafalda di Savoia)”, perché era in prigione a Berlino. Sul bombardamento reale subito da Schlabrendorff Montanelli si è perso una storia molto montanelliana: l’accusato si salvò e l’accusatore, l’ex comunista Roland Freisler, che giudicava in paramenti rossobruni, fu giustiziato. Avvenne durante il processo al Tribunale popolare: ci fu un bombardamento, il procuratore speciale Freisler scese con l’accusato nel rifugio, una bomba penetrò tutti i piani del tribunale, scosse la cantina, una trave si staccò dal soffitto, e lo uccise. Uccise Freisler. 
Fabian von Schlabrendorff, un avvocato che divenne a cavaliere del 1970 presidente della Corte costituzionale a Bonn, era stato segretario in gioventù di Otto von Bismarck, e aveva poi sposato Luitgarde Bismarck, nipote di Ruth von Kleist-Retzow, altra figura di rilievo della Resistenza.
Prettamente montanelliane sono solo le forzature e le inversioni di senso della storia. I ripetuti incisi su Mafalda di Savoia ogni volta che ci sono morti per bombardamenti – la principessa era dopo la guerra la fidanzata d’Italia. O Hitler “che usava fare troncare la testa con l’ascia a chi propalava barzellette sul regime”. I tedeschi “scesi in guerra senza entusiasmo”. I “campi di concentramento degli ebrei” già nel 1938. Dove già si commettevano “atrocità” e sui quali circolavano “dicerie” che suscitavano “orrore anche in molti degli stessi nazisti”. Harro Schulze-Boysen, organizzatore dell’Orchestra Rossa, ridotto a “intellettuale surrealista”. E il solito, accattivante, conformismo dell’anticonformismo: porsi dal lato dei deboli, sconfitti, perdenti, ma sempre per un altro potere vincente: Hitler voleva “consegnare l’Europa al comunismo”.

lunedì 24 settembre 2007

Barresi, "Non dire niente" - i fantasmi tra noi

La scrittura si risolve, in questo romanzo d’esordio, nella “scena”, in una rappresentazione: da una presumibile esperienza di vita, di fatti avvenuti e persone di carne, sia pure delle cronache, Barresi estrae i fantasmi. Anche la tela di fondo su cui muove le anime smarrite, benché reale (il tribunale, la scuola, le feste, le tradizioni), è ectoplasmica, e contribuisce a una sorta di ghost story. Che è benevola, in contrasto col genere, per un desiderio di bontà, per l’emersione dell’io narrante nel vago mondo delle pulsioni. O per un bisogno di ancoraggio politicamente corretto in una realtà che s’indovina degradata da multiple violenze. In questo impegno svanisce anche il concreto, la vita relazionale, il lavoro, gli affetti familiari, il rapporto col territorio e la sua “natura” (la storia, le tradizioni, la mentalità), e la stessa violenza, che è detta anziché rappresentata, e anzi data per scontata.
Un caso per molti aspetti straordinario, tanto più in un'opera prima, di costruzione retorica di pulsioni fantastiche. Di rappresentazione, in unità di tempo e luogo, col prima e il dopo, le coordinate, i personaggi in scena, e col ricorso ai generi in voga, il giudiziario, il poliziesco, il civile, di un flusso di coscienza analitico, innocente.
Maria Barresi, Non dire niente, Solfanelli, pp.185, euro 12

Torna la fascia sociale

Il ministro per le Attività Produttive Bersani sta approntando un decreto che, ridefinendo la "fascia sociale", esoneri i redditi minori dai provvedimenti dell’Autorità per l’energia recanti aumenti dei prezzi dell’elettricità e del gas. Dispone in pratica il ritorno alla vecchia fascia sociale, quella che fino a dieci anni fa, fino alla privatizzazione, ha garantito esenzioni dagli aumenti dell’Enel, o aumenti contenuti, per i due terzi degli utenti italiani – il criterio per beneficiare della fascia sociale essendo una potenza installata di tre Kw, questo contatore è stato adottato dalla massa degli utenti. L’esenzione sarà ora estesa anche ai consumi di gas.
Il provvedimento potrebbe fare parte già della finanziaria che il governo varerà a fine mese. In questa prospettiva Bersani ha avviato un discreto build-up del provvedimento stesso, la creazione delle attese, presso i suoi colleghi di governo e la stampa locale. Il criterio che si prende in considerazione per la nuova esenzione è quello fiscale: dovrebbe beneficiarne grosso modo la no tax area. E' lo stesso criterio che s'intende adottare per gli sgravi Ici: i benefici scaglionare in proporzione inversa al reddito. Ma non si esclude il ritorno al vecchio sistema, di adottare tariffe contenute fino a un certo quantitativo di consumi.