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sabato 14 marzo 2020

Cronache virali

Si chiudono i giardini e li lasciano andare i treni e i mezzi pubblici.
C’è voluto il Copasir (i servizi segreti) per spingere la Consob a proibire, dopo una decina di crolli di Borsa, le vendite allo scoperto - la speculazione degli speculatori.
La Consb ha favorito la speculazione, trincerandosi col fatto che non risultavano mani forti dietro i ribassi. Pur sapendo, come tutti sanno in Borsa, che le mani forti da tempo si nascondono dietro una miriade di falsi operatori, che vanno all’unisono “in automatico” con le loro centrali. 
Sette miliardi, quindici, finalmente 25 miliardi, con opposizione che ferma ne chiede 30: Conte ha il fiatone per gli sforzi fatti a favore del lavoro e delle famiglie colpite dal virus. Merkel, “troppo poco troppo tardi”, parte con 550 miliardi, cinquecentocinquanta, aumentabili: abbattimenti fiscali e credito illimitati.
Per fare questo, il governo tedesco annuncia, scrivono i giornali, un “clamoroso addio alla regola del pareggio di bilancio”. L’“Europa” è fatta così: c’è chi decide, e chi si fa decidere.
Per spendere i 550 miliardi, aumentabili, il governo tedesco utilizza la finanziaria statale KfW, Kreditanstalt für Wiederaufbau, la finanzia per la ricostruzione creata per gestire il piano Marshall e rilanciata con la riunificazione - la Cdp tedesca. Il cui indebitamento, però, miracolo, non rientra nel debito pubblico nazionale - a differenza della Cdp.

Secondi pensieri - 412

zeulig

Appartenenza - Il “Corriere della sera” intervista oggi due italiani a Londra, la giornalista Bonetti e il calciatore Ogbonna, sugli effetti del coronavirus, dopo l’annuncio del governo che non farà nulla per contrastarlo. Bonetti, milanese, giornalista del gruppo “QN”, vive da 25 anni a Londra, dove ha studiato, e si sente inglese: “I britannici non sono emotivi come noi, vogliono dimostrare di mantenere la calma” - più calma degli italiani nel disastro? Ogbonna, nato a Cassino da genitori nigeriani, un gigante da un metro e novanta, segue l’Italia in tv, si preoccupa dell’Italia, sa tutto dell’Italia. E parla di “loro” e “noi”. L’appartenenza è di sentimenti – sensibilità. Non di nascita, o  poco. Non di cultura, che si può rifiutare e si può accettare.

Guerra – Si celebra a ondate, perché evidentemente smentita dai fatti, la decadenza dell’America, dell’impero americano. Con più insistenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Contro la quale gli Stati Uniti erano stati l’Impero del Bene. E chi lo combatteva il Male: il socialismo, l’Urss, i nemici della democrazia e della libertà. Ideologia contro ideologia, è stato un modo nuovo di costruire gli imperi.
Poi si è contestato il “modello americano” – la pax americana, il modello dell’“imperialismo buono”. Pur riconoscendosi che gli Usa sono bene una democrazia. Non buona, ma la migliore che ci sia.
È il modulo ciclico della storia americana: l’indipendenza propria, e poi la guerra al Messico, agli indiani, alla Spagna - il diritto, sia esso pure democratico,  può essere molto imperiale. E la ferrovia a un dollaro l’ora sulla schiena degli emigrati. Poi non più: l’America non faceva più la guerra per gli schiavi o le noci moscate, le ha fatte per il Bene. L’imperialismo antimperialista, una novità.
È pure vero che non c’era niente da rubare in Vietnam. Che si è sempre potuto fare affari coi monopolisti yankee, qualcosa pagano – mentre è arduo con gli analoghi francesi, o tedeschi, benché uniti nell’Unione Europea. E che la globalizzazione, che ha portato la Cina in due decenni, e prossimamente anche l’India, a sfidare gli Stati Uniti, è invenzione e pratica americana – l’America l’ha imposta all’Europa e alla Wto, l’organizzazione mondiale del commercio.
E dunque? La debolezza, l’unica, degli Usa sarebbe la forza eccessiva. La debolezza dell’America è il dispendio militare. La guerra è un dinosauro che divora se stesso, prolifera inarrestabile: per tenere gli eserciti in attività, testare i nuovi materiali, esaurire quelli vecchi. La conquista armata essendo di per sé non utile.
La guerra è un costo. E i vantaggi del dopoguerra sono dubbi. Di tutte le origini del capitale la più ipotetica è la guerra. Come investimento non tira più di Henry Ford, o dei consumi di massa, e costa un’enormità.
Si giustifica forse, in termini di costi-benefici, la guerra per le materie prime, o per i mercati. Ma non la guerra senza più, la potenza: che s’impone inevitabile, ma non è conveniente. Nelle stesse guerre di uomini, nelle trincee e le imboscate, i piani folli si giustificano con la libertà, dell’espressione e del voto, e col benessere, ma questo sembra improbabile. Con la protezione della democrazia forse sì, del lavoro no. In termini imperiali ma anche nazionali. Una potenza come gli Stati Uniti, protetta dagli oceani, che distrugge il mondo perché dalle contee del Texas e dell’Idaho i suoi bifolchi s’immaginino di eleggere il loro presidente – di combattere il male nel mondo?
La strategia dell’attacco è scienza sottile, al fronte o agli scacchi, nove volte su dieci colpisce di ritorno. Una valutazione economica degli affari internazionali porta senz’altro alla pace.

Marx - Pensa come Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica.
La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata: mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia, le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione. Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.

Natura - È un concetto, non la cosa. Un’utopia, una fantasia, un ricordo, oggi un progetto e una legge, molte leggi. Il tutto peraltro basato sula conservazione, sulla persistenza, mentre la cosa è caduca, “per natura”.
La permanenza lavoisieriana della natura è instabile. Forse metempsicotica, rigenerativa.

Nichilismo – Una forma estrema di libertinismo – disperato, un po’? Consequenziale.
È, può essere, solo morale, e al fondo – all’estremo – un free for all.

È ideologia e non filosofia, e ideologia in filigrana politica, un programma di azione.

Opinione pubblica – Ulrich Beck. “Conditio Humana”, 97, ha le “sfere pubbliche globali del rischio”, non rassicuranti e anzi minacciose, a differenza dell’opinione pubblica propriamente detta. Come fenomeno distintivo (divisivo) e irrazionale, in contrapposizione alla “sfera pubblica” (Öffentlichkeit) di Jürgen Habermas. La Öffentlichkeit “presuppone l’uguaglianza delle opportunità di partecipazione e l’obbligo di tutti al rispetto dei principi del discorso razionale”. Mentre “la sfera pubblica del pericolo si basa sulla non-volontarietà e possiede una connotazione emotiva ed esistenziale. Qui è il terrore a spezzare le corazze dell’anonimità e dell’indifferenza – anche se per i più l’immagine del terrore diventa essa stessa terrore”.
La riflessione di Beck era animata dal terrorismo, dagli tsunami, e dal collasso delle centrali nucleari di Chernobyl e Fukushima.   

Verità – È ipotetica, allusiva. Anche quando viene provata.
È il segreto del “giallo”, giudiziario e no. Anche del “noir”.

Virus - Si aspettava con il black-out elettrico, è arrivata col virus: la sospensione della vita attiva. Terapeutica? Traumatica nell’insieme, e più sul destino individuale, per la morte incombente. Senza difesa possibile – se non generica (la distanza, i lavaggi).
Un autogol del progresso: della mobilità, della produzione, della complessità. Della razionalità della storia, dell’autosufficienza.

zeulig@antiit.eu

La crescita demografica diminuisce - l’Europa si restringe

In Europa dura e perdura l’inverno demografico. Altrove  la popolazione cresce, ma a tassi decrescenti.
La popolazione mondiale censita dall’Onu è cresciuta da poco più di sei miliardi nel 2000 (esattamente 6,143 miliardi) e quasi otto quest’anno (7,795). Crescerà ancora, a 9,735 miliardi nel 2950, secondo le previsioni – che in demografia sono sempre attendibili. Ma avendo dimezzato nel trentennio a venire il tasso di crescita rispetto ai primi venti anni del Millennio. Anzi, secondo l’Iiiasa viennese, International Institute for Applied Systems Analysis, si fermerà a 9,383 miliardi.
Si tratta di un dimezzamento del tasso mondiale di crescita demografica. E il calo è generalizzato L’incremento medio annuo si riduce in Africa dal 2,8 del ventennio 2000-2020 all’1,7 nel trentennio L’incremento in Asia rimane invariato, e basso, allo 0,4 per cento – il decremento di Cina e Giappone compensa gli incrementi altrove, nei paesi mussulmani (Turchia, Bangladesh, Indonesia), nelle Filippine e in India. Gli Stati Uniti riducono l’incremento dallo 0,8 allo 0,5. L’America Latina dall’1,1 allo 0,5. L’Oceania dall’1,5 all’1. L’Europa si restringe: dal modesto incremento dei primi venti ani, lo 0,1, passa a un decremento netto, dello 0,2 per cento.


Quando si rideva del boom

Quanto di più vicino alla “scrittura di classe” che si cercava sessant’anni fa, contro “l’industrialotto”, i “dané”, il “lavorerio”, il che forse spiega l’entusiasmo di Vittorini e di (con riserve) Calvino, ma per questo ora piatto. Come critica di una stagione breve, anzi una febbre, di un mondo remoto. Compreso il disdegno generazionale per il “lavoro fisso”, “l’integrazione”, vocabolo allora proibito. Una cosa a metà ideologica, di partito, e a metà tradizionalista, alla Pasolini, più che la rivolta generazionale che seguirà negli stessi anni 1960.
Una trilogia che si legge – anche il pezzo originario, “Il calzolaio”, che ha più inventiva lessicale, più umori - come un documento d’epoca. Non degli “scarpari” vigevanesi, con la “fabbrichetta” nello scantinato e la febbre dei “dané”, un mondo a tutti gli effetti spento, quanto del naso arricciato intellettuale di fronte al boom  - “Il calzolaio” si svolge a cavaliere della guerra, ma linguaggio e personaggi sono del boom. Il personaggio del romanzo che apre la trilogia, il maestro elementare, si definisce “piccolo borghese”.
Leggendo la trilogia adesso, con l’immensa Vigevano che è la Cina comunista, con i bassi salari e l’inquadramento ferreo, come documento sociale è perfino ridicola – o una satira della satira. Tanto più in quanto è severa: un fare e disfare continuo, a fisarmonica, di un mondo in sostanza dei vinti. Il “lavorerio” consuma e non aggruma, se non temporaneamente, per caso: contro la malasorte non c’è rimedio. Ma senza pietà. Senza costrutto anche, né politico né sociale: un mondo affaccendato, ma si direbbe di stupidi.
Il primo tentativo riuscito dell’Italia di tirarsi fuori dalla povertà diffusa va in parallelo col rifiuto, con la censura intellettuale. Una dissociazione che Mastronardi, maestro elementare nella stessa Vigevano nel mentre che irrideva la città, pagherà con l’isolamento, fino al suicidio. E che resta, purtroppo, solo per quel (poco) di umoristico che sopravvive nel persistente, unilineare, programmatico, rifiuto. Di un vigevanese peraltro per buona metà acquisito, perché di padre abruzzese, un ispettore scolastico mandato d’autorità in quiescenza anticipata perché antifascista.
L’umorismo è quello “naturale” del dialetto – altra ragione che fece amare Mastronardi da Vittorini e, con riserva, da Calvino, nella stagione del tardo Gadda e del primo Pasolini. Ancora vivo nei dialoghi. Nel “Calzolaio” e, meno, nel “Meridionale”. Anche se (probabilmente) suona falso localmente, allo storico locale – Mastronardi ha anche poco della memoria storica: luoghi non-luoghi, e modi di essere, e anche di dire, forse mai esistiti di fatto. “Il maestro”, che è il racconto più vero – da maestro a maestro – è per questo più debole, per il corretto italiano. Oltre che per l’impianto: un borghesissimo “Kramer contro Kramer” – non una critica sociale, un’implosione, senza ratio, senza misericordia. 
L’edizione della trilogia è impreziosita dai saggi di Calvino, Ferretti (di Mastronardi specialista) e Maria Antonietta Grignani, con un glossario di Valentina Zerbi.

Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano, pp. 469 € 17

venerdì 13 marzo 2020

Ombre -504

Ci voleva la bolsa Lagarde per imporre infine alla Consob il divieto di speculare in Borsa – di speculare scopertamente, con vendite “allo scoperto”. Patrimoni immensi si sono costituiti in pochi giorni, in poche ore, a danno del risparmio, del credito e della produzione, a vantaggio di attrezzati speculatori. In un’offensiva apprestata da tempo, con opportuni spacchettamenti e frazionamenti. Di cui la Consob era certamente al corrente. Oppure no?

Si fanno dietrologie dietro le sciocchezze con cui Christine Lagarde, la nuova presidente della Banca centrale europea, ha debuttato giĺvedì, seminando il panico invece di mostrare fermezza e concretezza. Ma la stupidità esiste - in politica i trucchi e le violenze si perpetrano, ma non si dicono.

Però è vero che Lagarde ripete, parola per parola, Isabel Schnabel. Chi è Schnabel? Titolare di Economia all’università di Bonn per meriti politici, addottorata all’università di Mannheim, come dire di Camerino, ma rappresenta Jens Weidmann nel consiglio della Bce. E chi è Weidmann? Un (ex) giovanotto, con una modesta laurea (non gli dà titolo al Dr.), della segreteria di Angela Merkel, che Merkel ha fatto presidente della Bundesbank. Senza esperienza, entrambi, di credito, mercati, finanza: i cavalli-senatore della cancelliera.

Il calciatore Rugani s’infetta giocando contro i giovani under 23 della sua stessa squadra. I quali erano reduci da una partita con una squadra infetta, la Pianese di Piancastagnaio. Migliaia di persone, tra atleti - tre-quattro squadre ciascuna per Juventus e Inter, ognuno con venti-venticinque titolari - e preparatori, allenatori, in prima e in seconda, massaggiatori, famiglie, conoscenti, in osservazione e in quarantena. È bastato un solo atleta positivo al virus negli Usa per bloccare il supercampionato di basket, che vale qualche miliardo di dollari.

“The Atlantic”, il settimanale americano, riprende in evidenza in apertura l’avviso degli anestesisti italiani di lasciar morire i vecchi e i malandati e concentrare le risorse su chi ha “la maggiore speranza di vita”. In Italia non se ne è parlato, anche se giornali e telegiornali non hanno spazio per altro, 24 ore su 24. Per vergogna? Per ipocrisia – si fa ma non si dice? Virale è la morale.

L’Ue certo non è la monolitica Cina. Ma il troppo poco tropo tardi merkeliano è perfino delittuoso. Ci voleva l’Oms, una organizzazione mondiale, per sapere che c’e una pandemia.
Se il focolaio fosse stato la regione renana invece che il Lombardo-Veneto la reazione ci sarebbe stata? Forse nemmeno in quel caso.

Ma sono i paesi europei che non funzionano, non solo Bruxelles. La risposta di ognuno all’epidemia, con la Spagna e la Francia che giocano, e l’Austria e gli altri che si limitano a chiudere le frontiere con l’Italia, più di tutto rappresenta lo stato comatoso dell’Europa. Che pure si riteneva, si ritiene, più intelligente.

“La Borsa non è vittima di attacchi speculativi”, ha assicurato fino a mercoledì la Consob di una Borsa che ogni giorno per due settimane e più ha perso dal 5 al 10 per cento. Non a torto, certo: la Borsa non è stata vittima del panico dei cassettisti – piccoli e piccolissimi azionisti. Ma di che cosa è stata – è - vittima la Borsa, la Consob non si premura di dirlo. Ci vorrebbe una Norimberga dei controllori finanziari.

Chiudono tutti per rispettare le raccomandazioni dei sanitari e del governo e circoscrivere il contagio. I soli che non rinunciano sono psicoterapeuti, fisioterapisti, e gli specialisti a 200 euro i quindici minuti.

La scommessa perduta di Prometeo

Nell’Ipernéfelo (mondo sopra le nubi) di Giove, il collegio delle Muse bandisce un premio, invitando a partecipare “tutti gli Dei maggiori e minori”, per il “ritrovamento più bello e più fruttuoso”, indifferentemente “dipinto, scolpito, inciso, gittato (colato in una forma)”. I voti vanno a Bacco per l’invenzione del vino, a Minerva per quella dell’olio, e a Vulcano per la pentola di rame. I tre però si defilano, hanno altro di cui occuparsi. E sono per questo ulteriormente apprezzati, dai giudici e dal pubblico. Eccetto che da Prometeo, concorrente deluso, che si era proposto in quanto creatore del genere umano.
Prometeo se ne lamenta con l’amico Momo. Che però, dio dello scherno, lo sfida a provare il suo primato. Prometeo accetta, si fa una scommessa, e i due cominciano a perlustrare il mondo. Partono dal mondo nuovo, e ci trovano i cannibali. Non meglio va nel mondo antico: le donne si bruciano o sono bruciate per onorare gli uomini.  “Avresti tu pensato”, celia Momo con l’amico Prometeo, “quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi?”
Non meglio va “dagli inciviliti”, presso i quali Prometeo infine propone di provare la sua pretesa. A Londra, dove scendono, è il caso di un uomo che ha ucciso i figlioletti e si è ucciso. Momo decide comunque di “congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà”. Ma Leopardi taglia corto: “Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa”.  
Uno dei brevi apologhi, dialogati, delle “Operette morali”. Partendo da Luciano, “Ermotimo”, e il concorso a premi degli dei inventori.  
Giacomo Leopardi, La scommessa di Prometeo, free online

giovedì 12 marzo 2020

La morte come cura

La dottoressa professoressa Flavia Petrini, romagnola di 65 anni, consiglia di lasciar morire gli anziani per risparmiare energie, posti letto in rianimazione e bombole di ossigeno per i più resistenti al coronavirus.
Sembrerebbe una fake news ma non lo è. Sembrerebbe uno scherzo ma non lo è. La prof.ssa è la presidente della Siaaarti, Società italiana di Anestesia, Anelgesia, Rianimazione, Terapia Intensiva. Dei medici oggi in prima linea contro il virus. E parla con un comunicato ufficiale della Società. Il cui punto principale è la distinzione, “da un punto di vista etico oltre che clinico: quali pazienti sottoporre a trattamenti intensivi quando le risorse non sono sufficienti per tutti”. Il documento, spiega la stessa Siaaarti, “privilegia la «maggiore speranza di vita»: questo comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive del tipo «first come, first served»”.
L’appello suona specialmente sinistro perché gli anestesisti sono i medici della “buona morte”, quella indotta come cura. E riporta a una tradizione che si penserebbe estinta da millenni, quella di uccidere i vecchi.
Non una novità. In Germania da almeno tre decenni non si operano di tumore gli ultrassettantacinquenni, per economizzare. Sulla traccia aperta ormai un secolo fa da due personalità molto liberali – oggi si direbbero di sinistra: Alfred Hoche e Karl Binding, un medico e un giurista, pubblicavano nel 1920 un “Via libera all’annientamento della vita priva di valore vitale”. Un volumetto che è quasi una guida, spirituale e materiale alla “buona morte”.
Ma in Germania la pratica non è dichiarata. La Siaaarti lo fa, richiamando un’antica usanza.
Uccidere i vecchi
Sull’esigenza di liquidare i vecchi c’è una pagina precisa nel romanzo di Astolfo, “La gioia del giorno”:
Abbie Hoffman e Jerry Rubin propongono di uccidere i padri e cancellare all’anagrafe chi compie trent’anni - l’età è discriminante, ai tavoli negoziali operai-studenti oltre che a mensa all’università. Un governo vogliono di Roboam, dove, dice la Bibbia, i giovani comandano sui vecchi. Un limbus patrum. La vecchia pratica degli svedesi trogloditi, dei nomadi dell’antico Egitto, dei sardi, di uccidere gli anziani a colpi di clava o pietra. “Tra l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi”, spiega Propp, l’analista delle fiabe”, “e mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”.  Alcune tribù del Brasile uccidevano gli infermi. I massageti e i derbicciani gli ultrasettantenni. I càtari pii di Monforte d’Alba o Asti le endura abbreviavano alla fine, i suicidi dei saggi anziani per digiuno, per evitare loro i patimenti dell’agonia. Gli abitanti dell’isola di Choa, dove l’aria pura dà lunga vita, ci pensavano invece da soli: prima dell’ebetudine o la malattia i vecchi prendevano la papaverina o la cicuta. Analogamente l’eschimese che, prossimo alla fine, inutile alla famiglia, esce dall’iglù e si perde nel pack. Fra i batak di Raffles, esploratore fededegno, che sarebbero i dagroian di Marco Polo, i vecchi erano mangiati: “Un uomo che sia stanco di vivere invita i figli a divorarlo nel momento in cui il sale e i limoni sono a buon mercato”. Limbus patrum, o sinus Abrahae, è nella scolastica il posto sottoterra, non paradiso né inferno, dove chi ben meritò in base al futuro Nuovo Testamento, patriarchi, profeti, restò fino alla vittoria di Cristo su Satana, distinto dal limbus infantum, dei neonati non battezzati. Il consiglio di Roboam è nel libro dei Re.
Resta il problema di deterrminare l’età giusta – sempre da Astolfo, “La gioia del giorno”:
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario della scuola media, il primo, calcolava sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai dodici, adolescenza fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo. Una volta si era tassonomici: i venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove. Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73 e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età attiva verso i quaranta.
Eutanasia eugenetica
L’avviso della Siaaarti. minimizzato e anzi occultato in Italia, nelle pur interminabili maratone mediatiche sul virus, è ripreso in grande dai media Usa, dove è forte la teoria (e forse la pratica) della “buona morte”, o “morte misericordiosa”, in greco eutanasia – la morte con una spintarella, medica. Nella tradizione eugenistica, ormai secolare, della purezza della razza. Opera dell’avvocato Madison Grant, che la teorizzò in “The passing of the Great Race” - non di una corsa, automobilistica o podistica, ma della “razza grande”, nordica – nel 1916, e la mise in pratica promuovendo una serie di leggi: per l’immigrazione negli Usa, restrittiva per i latini, gli slavi e gli asiatici neri; contro la misgenation, i matrimoni interraziali; e per la “morte misericordiosa” dei poveri. Con l’amico e socio Theodor Roosevelt,  poi presidente Progressista e Nobel per la pace, col quale fondò nel 1895 la New York Zoological Society, al fine di bloccare l’emigrazione dall’Est e Sud Europa e sterilizzare gli immigrati da quelle zone: italiani, iberici, balcanici.
Il blocco divenne legge, e la sterilizzazione fu libera fino a tutti gli anni Venti, fino a che la Depressione non la rese onerosa. La sterilizzazione dei poveri fu invece coatta e si praticò su larga scala, diecimila casi nella sola California. Il giudice Oliver Wendell Holmes jr., pilastro del liberalismo americano, e per trent’anni della Corte Suprema, fino ai suoi novant’anni, la autorizzò nel 1927, quando di anni ne aveva 86, anche per i “mentalmente disabili”. Bisogna temere i vecchi?
Le leggi americane in tema di immigrazione, razze, procreazione e “buona morte” furono studiate da Hitler, prima di varare le leggi razziali di Norimberga, contro gli ebrei e altre minoranze, e la Aktion T 4, per l’eliminazione indolore dei minorati, fisici e mentali. Molto “Mein Kampf” si rifà esplicitamente a “The passing of the Great Race”. Nell’autunno del 1935, dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga, una delegazione tedesca di 45 professori di diritto sbarcò a New York per approfondire le leggi selettive americane, accolta con grandi onori. 

La Germania nemica dell'E uropa

Si scandalizza Fubini sul “Corriere della sera” della sufficienza tedesca, della cancelliera Merkel, per il problema del virus in Italia.  Non ricorda la proibizione tre settimane fa di esportare in Italia materiale sanitario contro il virus. Ma ne evoca la famosa citazione da Goethe con cui la cancelliera nel 2008 mise in quarantena l’Italia: “Se tutti spazzassero di fronte alla propria porta, ogni quartiere della città sarebbe pulito”. 
Merkel, curiosamente molto popolare in Italia mentre non lo è in Germania, dove è nota come quella del “troppo poco troppo tardi”, con  Goethe ha fatto arretrare l’Europa in questi dodici anni post-crisi 2007 di molte posizioni nell’economia e nella ricchezza mondiali, unica grande area economica al limite della stagnazione mentre Cina e Stati Uniti hanno ripreso quasi subito a galoppare. Senza colpa di Goethe, che anzi fuori della Germania si divertiva, non ne era annoiato.
Ma tutto era stato detto da Alberto Savinio, lo scrittore. Che nel suo tono semiserio la Germania dice non “collaborativa”, e anti-europea - alla voce “Germanesimo” della sua “Nuova Enciclopedia”. Ragionando sulla “guerra che da venti secoli gli europei combattono contro il germanesimo”. Che, insiste, “non è se non la fatica ininterrotta che gli europei sono costretti a fare per riaccendere la luce che i tedeschi tentano ogni volta di spegnere”. Evocando la lotta di Indra contro Arimane, Savinio sospetta che “Arimane non muore, solo cambia nome e ora si chiama Attila, ora Alarico, ora Barbarossa, ora Guglielmo II, ora Hitler. Ed è sempre di razza tedesca” – “arianismo”, opina, come “arimanismo”?
“Germanesimo” è la voce più lunga della “Enciclopedia” di Savinio, è anzi doppia - la seconda è in realtà un excursus su Mussolini e i complessi del fascismo. Savinio non era antitedesco, la sua prima emigrazione “in Europa” dalla Grecia è stata in Germania. Della Germania dà però peculiare inquadratura: come di una forza, al centro dell’Europa, antieuropea.
I nemici dell’Europa, sostiene lo scrittore, sono le chiese – teosofia e massoneria incluse,  “qualunque istituzione (che) ha il fine di imporre l’idea di dio”. Ma, aggiunge, “l’europeismo ha in Europa un nemico più forte delle chiese, il germanesimo. Il popolo tedesco è in mezzo all’Europa un popolo non europeo. L’«Asia dell’Europa» è per Michelet la Germania”. Che Savinio assimila alle “antiche civiltà orientali come l’assira, la babilonese, l’egizia”. Di cui ha spiegato che “erano civiltà chiuse in sé e di carattere divino (teocratico)”. Civiltà che “potevano insegnare – l’Egitto  infatti insegnò alla Grecia – ma non potevano collaborare”. L’opposto del’europeismo: “L’europeismo invece è una forma di civiltà collaborativa. Questa è la sua qualità fondamentale”. 
Il germanesimo? “La civiltà tedesca non fonde i caratteri del germanesimo nel comune crogiolo in cui si fondono gli elementi che tutti assieme compongono l’europeismo: è una civiltà essenzialmente teocratica”, etc.  Di una religione nazionale: non che “il germanesimo sia dominato dall’idea di un dio. Dio, nelle civiltà teocratiche, non è condizione sine qua non. Si dice Dio per intendere una idea centrale e assoluta. Il dio della teocrazia germanica è la Germania stessa: è il ‘mito tedesco’”.
L’affinità della Germania con le antiche civiltà “teocratiche” Savinio dice testimoniata “da esempi spaventevoli”. Uno, “il più spaventoso e ‘probante’”, è la deportazione di interi popoli: “Le deportazioni  di popoli praticate dalla Germania nel secolo XX” nessun altro “aveva nonché osato neppure pensato di praticare dopo la fine di Babilonia, di Ninive, di Memfi”. Un altro è la guerra all’Europa, “i ripetuti tentativi della Germania di colonizzare  l’Europa: mentre altri popoli colonizzatori, Inghilterra per prima, colonizzano ‘fuori dell’Europa’”. Un’“altra prova è questa”, aggiunge, “che il popolo germanico è il solo grande popolo dell’Europa che non è mai intervenuto né con le armi né in altro modo a favore della indipendenza di un altro popolo europeo o comunque per il suo bene”. E conclude: “La Germania non solo è una nazione non europea in mezzo all’Europa, ma è la nemica dell’Europa, la nemica dell’europeismo”.
In precedenza ha fatto i pesi: “Il germanesimo può insegnare agli altri popoli europei, può arricchire il comune patrimonio culturale e scientifico dell’Europa con elementi a lui appartenenti, ma non può collaborare con gli altri popoli dell’Europa né contribuire attivamente e positivamente alla costituzione e al progresso dell’europeismo. La Germania ha una idea europea: ma di un’Europa sua propria, di un’Europa germanizzata, di un Europa costruita con materiali germanici e animata da spirito germanico”. Obiezioni? “La Germania non capisce una Europa ‘europea’”.

L'africano triste e solitario

Un classico, all’uscita nel 1962, e purtroppo ancora oggi. Il “lonely” del titolo originale è più che solitario: è isolato, e un po’ triste. L’africano, anche oggi, anzi oggi più di sessant’anni fa, quando Turnbull pubblicò la sua ricerca antropologica, è isolato, nella sua stessa patria, o tribù, e malinconico.
Lanternari, aggiornando il quadro nell’introduzione a fine 1993, lo rilevava: l’Africa non si è liberata con le indipendenze. Non si è liberata da se stessa. Anzi, cinquant’anni di malgoverno generalizzato l’hanno lasciata – l’Africa a sud del Sahara – nell’arretratezza. Malgrado gli aiuti internazionali. In un quadro globale che l’etnologo vede, curiosamente, come un rischio: “I rischi ecologici, la minaccia nucleare, il pericolo dei fondamentalismi e del terrorismo incombono a livello planetario. E a livello planetario si dispiega l’emergenza droga, l’emergenza Aids, l’emergenza criminalità organizzata e la stessa emergenza immigrazione dal Terzo Mondo”. Questa soprattutto: “In questo quadro d’assieme, gli incontri fra popolazioni, le grandi ondate immigratorie, le mescolanze di etnie e di gruppi religiosi costringono l’Europa ad assumere coscienza del fenomeno migratorio nel suo complesso, e delle realtà etniche che sopravengono nei nostri territori”. Turnbull non fa che “annunciare quanto ora”, 1993, “vediamo accadere, con la seconda «fuga» dell’africano, dopo fallita la prima con l’abbandono del villaggio per la città”.
Tutto prevedibile? “Vuoto psicologico e culturale , solitudine”, insiste Lanternari, “erano, già allora, i connotati della crisi dell’africano, trapiantato”. E lo sradicamento non ha fine: “Vuoto psicologico e culturale più profondo, solitudine più desolante  sono i connotati del neo-immigrato in Europa, data l’enorme differenza d’ambiente e di civiltà”.
Resta, ma di questo non si sa con quanta persistenza, il “punto di vista” dell’africano, come Turnull lo propone nella prefazione: come l’africano si pensa e pensa il mondo. Ordinato per analisi tematiche, ognuna corredata di una testimonianza dal vivo, “in un villaggio del Congo orientale, all’epoca del regime coloniale belga” – l’indipendenza del Congo ex belga si ebbe a metà 1960. Allo spartiacque fra le contraddizioni coloniali europee e il rigetto da parte dell’Africa. L’Europa aveva introdotto in Africa l’alfabetizzazione, un minimo di convivenza tribale, e la medicina, con il concetto di lavoro esterno e di lavoro retribuito, ma non teneva l’africano per uguale, e il lavoro pagava poco più di niente. “L’africano solitario”, il capitolo finale, fa un quadro pessimista all’avvio delle indipendenze: per la detribalizzazione incompiuta e ardua, il senso comunitario di nazione estraneo, l’integrazione o modernizzazione contrastata dalle contraddizioni del cristianesimo – un messaggio arduo, e in contrasto con i comportamenti.
Notevoli i ritratti dal vivo di Nkrumah, il capofila delle indipendenze africane nel 1957, un africano ben europeo, e di un  leader dei kikuyu in Kenya di minor fortuna politica, che Turnbull chiama “Edward” – allora la gran Bretagna era in guerra con i Kikuyu, gli indipendentisti del Kenya -  ben a suo agio quando studiava a Londra, con lo stesso futuro antropologo. C’è la durezza coloniale belga, e inglese. Soprattutto dei tempi più recenti, quando i coloni erano migranti per bisogno. Un’accorta analisi del tribalismo, che avrebbe infettato il Congo ex belga ancora per un sessantennio. Fino a oggi. Della tradizione impossibile – al cap. “I maestri” – accanto all’urbanizzazione disgregatrice.
I racconti e le testimonianze sopravvivono come scene di vita quotidiana. Uno o due episodi ambientati a Bukavu, sul lago Kivu, evocano un modo paradisiaco, per la bellezza naturale e la relativa affluenza, la stessa gente e la stessa bellezza del confinante Ruanda che trent’anni dopo sarebbe stato la scena del più crudele e immotivato crimine umanitario dopo l’Olocausto – dell’Africa come avrebbe potuto essere e non è stata. Un mondo labile in tutto, a partire dalle frontiere: la ricerca dice Turnbull svolta nel Congo orientale, ma molto succede a ‘Ndola, che sarà Rhodesia e poi Zambia, mentre Bukavu è, tribalmente, Ruanda. 
Un libro – una  ricerca sul campo – della speranza, della fiducia. Sul fondo dell’uguaglianza di principio. Ma forse è qui il nodo dell’Africa: la sua storia a venire, fino a oggi, sarà diversa perché il passato e la sua eredità sono diversi
La storia dell’Africa è diversa, anche prima del secolo coloniale. E non ha mutato corso. Tribale, incapace di distinguere tra pubblico e privato (corruzione), tradizionalista a perdere. Con incredibile intuito Turnbull anticipa lo sviluppo, pur escludendolo dalla prospettiva politica, che vuole beneaugurante, “un terribile vuoto spirituale e un’esistenza priva di scopo” rilevando, “o la disperazione di un materialismo assoluto”. In una prospettiva desolante: “Soltanto il tradizionalista, con la sua duplice vita, oppure il sedicente cristiano, che interpreta le credenze della sua tradizione secondo un rituale cristiano, mantengono ancora alcune radici spirituali e morali: e pur essi debbono lottare per sopravvivere in un terreno che è divenuto sterile intorno a loro. Perfino gli africani musulmani, la cui fede è infinitamente più forte di quella degli africani cristiani, soffrono a causa di questo conflitto”. Le testimonianze, pur registrate dall’antropologo con intento empatico, sono di un indomabile devastante tribalismo. Si può dire dell’africano che nasce sradicato, in un ambiente che non è più ambiente.

Colin M. Turnbull, L’africano solitario, Dedalo, remainders, pp. 223 € 7,50

mercoledì 11 marzo 2020

Problemi di base virali - 545

spock

Dal male aspettarsi il bene?

Si chiude la stalla, anche ora, quando i buoi sono scappati?

Non si poteva prima, per non offendere chi?

Si aprono fuori stagione le seconde case di Romagna, Levante e Versilia per diffondere meglio l’infezione?

Non c’è rimedio, Manzoni non ha insegnato nulla?

Chi ha paura di Milano?

Si fosse diffuso il coronavirus da Napoli?


E da Palermo?
spock@antiit.eu

Il Millennio cinese

Fanno capo alla Cina le due “catene di valore”, i due mercati, più nuovi e più ricchi, di questo e del prossimo decennio: la mobilità elettrica e, con il G5, il digitale. Gli Stati Uniti e l’Europa tentano di contrastarne la leadership – l’Europa in ritardo forse irrecuperabile su entrambi i fronti. Ma la Cina non lo prende come un atto di ostilità: sta alle regole della concorrenza.
Al tentativo americano di destabilizzare la leadership Huawei nel 5G Pechino risponde con promozioni, dossier difensivi, in tribunale e sui media, e controdestabilizzazioni - il classico armamentario degli affari. E ha accettato la richiesta di americana di bilanciare gli scambi con gli Stati Uniti aumentando le importazioni. Un impegno molto importante – celebrato alla presenza del quasi centenario Kissinger, precursore e fautore dell’apertura della Cina al mondo, o viceversa. L’accordo conferma il proposito fermo del regime comunista cinese di operare nel mercato secondo le regole del mercato, della massima convenienza.
La pronta delimitazione dell’epidemia virale ne conferma l’organizzazione monolitica. Ma anche la capacità tecnica e l’expertise scientifica, in questo caso nella sanità. Senza rimettere in discussione l’impegno appena prima firmato con gli Usa per l’aumento delle importazioni.
A breve sarà la Cina anche la prima potenza economica mondiale. Che è il campo su cui Pechino si misura. Un regime comunista che è tutto l’opposto del regime sovietico, e della stessa cupa chiusura della Russia di Putin, che solo si sa reggere sulle armi: agile, rapido, diplomatico.  

La Bomba ha reso possibile la distruzione dell’umanità

Una commissione scientifica fu creata tre decenni fa dal Congresso americano per elaborare un linguaggio o dei simboli per un sistema di allarme che fra diecimila anni metta in guardia i viventi dai depositi di scorie nucleari. La commissione fu composta con i migliori specialisti: fisici, neurologi, antropologi, linguisti, psicologi, biologi molecolari, antichisti, artisti…. E non seppe che dire, diecimila anni sono un orizzonte imprevedibile – ci saranno gli Stati Uniti, l’inglese, i segni grafici? L’unica certezza è che le scorie nucleari sono attive per diecimila e più anni – senza contare l’armamento atomico ancora attivo, non decommissioned, non ancora dismesso.
Al tempo di Elizabeth Anscombe questo chiaro problema ancora non si poneva. Ma altri sì.  “Nel 1939, allo scoppio della guerra, il presidente degli Stati Uniti chiese impegni ai belligeranti che le popolazioni civili non sarebbero state attaccate. Nel 1945, quando il nemico giapponese gli risultava aver fatto due tentativi di pace negoziata, il presidente degli Stati Uniti diede l’ordine di sganciare una bomba atomica su una città giapponese”. E “tre giorni dopo una seconda bomba, di un tipo diverso, su un’altra città”. Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki come un’esercitazione di materiali dal vivo, fredda, cinica.
Elizabeth Anscombe, la filosofa allieva di Wittgenstein a Cambridge, pubblicò questa lettera aperta nel 1957 contro i colleghi del Senato accademico di Oxford che premiavano con una laurea l’ex presidente americano Truman, quello della Bomba. Dilungandosi sulla procedura. E sulla filosofia morale espressa da Oxford nella prima metà del Novecento. Che, spiega, arriva a concedere ogni male. Sia per il “motivo del dovere”, che ha “valore supremo”. Per cui Himmler sarebbe stato giustificato nei suoi sforzi per eliminare gli ebrei dalla terra. Sia per una concezione del bene “non «descrittiva», ma espressiva di un atteggiamento favorevole da parte dell’agente”. Come dire che non si possono avere regole generali, che ognuno si regola da sé, e anche il male può fare del bene.
Anscombe si deve inoltre difendere dall’accusa di pacifismo. Una cosa insoma molto oxoniana. Ma l’impianto è di contestazione dell’uso della Bomba, in sette punti. Nella più generale contestazione dei due criteri base della guerra. La mobilitazione totale, che implica che gli obiettivi sono indiscriminati, bambini e vecchi compresi. E la resa incondizionata. La condanna è semplice: “Scegliere di uccidere gli innocenti come mezzo ai fini di qualcuno è un delitto”.  Specie nei casi di Hiroshima e Nagasaki, non implicate nello sforzo bellico: “Nel bombardamento di queste città certamente si decise di uccidere gli innocenti come mezzo per un fine. E in gran numero, tutti insieme, senza preavviso, senza possibilità di fuga o di rifugio”.
Ampia materia per la revisione della storia della guerra, nel Novecento e dopo. A proposito della guerra aerea, poco onorevole e forse di necessità indiscriminata. E della Bomba.
Il rischio nucleare è da tempo dimenticato. È il più impensabile: la Bomba - la concezione della Bomba, la sua costruzione, il suo impiego – ha reso possibile la distruzione dell’umanità. Non è successo, e non se ne prevede l’uso, ma non si può escludere. È uno dei “rischi della modernità”, della razionalità a basso voltaggio, e il più grave. Dimenticato nella passione attuale per l’ecologia, la protezione dell’ambiente. Ma una minaccia attiva, e ben più radicale e efficace dell’inquinamento.
G.E.M. Anscombe, Mr Truman Degree, free online

martedì 10 marzo 2020

Letture - 413

letterautore
Alfabetizzazione – Era alta in Italia nel Cinquecento. Alla fine del secolo il 33 per cento degli uomini e il 13 per cento delle donne risultavano alfabetizzati, in grado di leggere e scrivere. Le percentuali corrispondenti in Inghilterra erano il 12 e l’1 per cento.

Diotima – La platonica teorica dell’amore della bellezza di una persona come amore dell’idea di bellezza del mondo è elevata da Marsilio Ficino, nella lettura-interpretazione dei dialogo platonico, a metro dell’amore, con la “scala d’amore” - una misurazione dell’amore. L’identificazione non è immediata, arguiva, ma progressiva, dall’amore terreno alle sfere celesti, e senza interruzione o conflitto.

Fahrenehit – La distruzione dei libri è ricorrente. Si può dire che ogni “futuro” è previsto senza libri. Nievo non manca, nella “Storia filosofica dei secoli futuri”.  Il prototipo – anche di Nievo – è probabilmente Louis Sebastien Mercier, “L’An 2440”, 1770. Che comunque correttamente antevede la distruzione del libro: nell’ambito di una educazione di tipo russoviano - la natura non contempla cultura.

Femministo – Si disse di Alessandro Dumas jr., quello della”Signora delle camelie”, l’uomo che elogia e promuove la donna. Protofemministo si può dire Ariosto, al canto 37 dell’ “Orlando Furioso”, quello che celebra “le valorose donne” – in particolare le guerriere Bradamante e Marfisa, vittoriose sul tiranno Marganorre. Introducendo il canto, il poeta lamenta quanto sia difficile per le donne avere riconosciuti i loro meriti: “Non le vorrian lasciar venir di sopra,\ e quanto puon fan per cacciarle al fondo: \ dico gli antiqui” – anche se a seguire fa una lunga lista di celebrate grandi donne nell’antichità. In particolare ne difende l’eccellenza come scrittrici. Tante, dice, che non sa come procedere: “Ho da tacer d’ognuna,\ o pur fra tante sceglierne sol una?\ Sceglieronne una”, decide. E fa seguire sette ottave in lode di Vittoria Colonna. Concludendo: “Donne, io conchiudo in somma ch’ogni etate\ molte ha di voi degne d’historia avute”. Misconosciute finora “per invidia di scrittori”, ma “il che più non sarà, poi che voi fate\ per voi stesse immortal vostra virtute”.

Prima di Vittoria, eccellente in poesia, Ariosto elogia un’altra Colonna, eccellente in virtù: Isabella Colonna, la principessa di Sulmona, sposata Gonzaga. Una cugina di secondo o terzo grado di Vittoria.
Isabella era figlia di Vespasiano Colonna, duca di Traetto e conte di Fondi, figlio di Prospero dei Colonna di Traetto e Fondi, secondo cugino del capocasato Ascanio – di cui Vittoria era sorella. Sposato due volte, dapprima con Beatrice Appiani, madre di Isabella, e poi, da vedovo, con Giulia Gonzaga, un matrimonio senza figli, Vespasiano aveva legato tutto in morte, nel 1528, all’unica figlia. Ma Ascanio contestò la disposizione. Per decidere la lite dovette intervenire il papa, Clemente VII, col quale peraltro Ascanio era in lite, che ne tacitò le pretese passandogli la fortezza di Paliano.

Gran Premio della Crusca – Fu attribuito nel primo Ottocento, con periodicità variabile, sui fondi elargiti da Napoleone con decreto del 1809. Il decreto concedeva alla Toscana l’uso dell’italiano invece del francese, negli atti pubblici come nelle scritture private. E istituiva un premio letterario: “Fondiamo col presente decreto un premio annuale di 500 napoleoni, i di cui fondi saranno fatti dalla nostra lista civile e che verrà dato, secondo il rapporto che ci sarà fatto, agli autori le cui opere contribuiranno con maggiore efficacia a mantenere la lingua italiana in tutta la sua purezza”.
Resta famoso quello del 1830, che fu assegnato a Carlo Botta per la sua “Storia d’Italia”. Costringendo Manzoni, che ci teneva, a ritirare “I promessi sposi”. Leopardi, che aveva estremo bisogno dei mille scudi in palio, ottenne per le “Operette morali” un solo voto.
Il napoleone o marengo era una moneta d’oro con un peso netto di oro puro di 5,805 grammi. Lo scudo una moneta d’argento 900 da 25 grammi.

Marchio di stampa – “Stigma of print” è nella storia letteraria inglese il riserbo di scrittori e poeti, che non gradivano e quasi temevano la stampa delle loro opere, cioè la diffusione generalizzata,  come un marchio di disonore. Ramie Targoff lo rievoca a proposito di Vittoria Colonna, di cui fa la storia in “Renaissance Woman”, che protestò, benché blandamente, contro le varie raccolte dei suoi sonetti e poemi che si fecero da parte di editori a lei sconosciuti, a fini venali, per capitalizzare sulla sua rinomanza di donna bella, colta e di principi. Lo “stigma” Targoff dice forte soprattutto nel Rinascimento inglese, di cui è studiosa: “Perfino un grande poeta come John Donne descriveva il suo rincrescimento di sentirsi «sotto una inevitabile necessità» di pubblicare i suoi versi, come se volesse fare qualsiasi cosa pur di evitare questa sorte (alla fine, Donne riuscì a resistere alla stampa se non per un piccolo numero di poesie  d’occasione, col risultato che la prima edizione dei suoi «Songs and Sonnets» apparve nel 1633, due anni dopo la sua morte)”. I componimenti venivano dedicati e avevano ristretta circolazione, tra amici, e solo per chiara fama, non indistintamente.

Milesio – Marco – Milesio o Milesi – era “un uscocco da lui spasiamto”, secondo il conte perfido Carlo Gozzi. “Da lui” Carlo Goldoni. A Roma nel 1759. In arte Marco si chiamava Fosildo Mirtunzio.
“Milesio” sarà in De Roberto a volte Giolitti, ne “I viceré”, a volte Depretis, ne “L’Imperio”. Cioè sempre il capo del governo, ma uno del genere “trasformista”, che raccoglieva voti a sinistra e a destra.

Sepoltura congiunta – Esercitata in Inghilterra, fra uomini, è pratica che sir corda per i casi celebri di due religiosi letterati. Il cardinale Reginald Pole, che tornato in Inghilterra dopo una vita in Italia, chiese e non ottenne la dispensa papale per condividere la sepoltura col suo amico friulano di una vita, Alvise Priuli.  E il cardinale Newman, santo eccentrico, il cui motto era “cor ad cor loquitur”, i cuori si parlano: volle e ottenne di essere seppellito, 1890, insieme con Ambrose St.John, un frate suo amico dai tempi del collegio, “la cui morte”, disse, aveva pianto “più di un marito, o di una moglie”.
Pole, di famiglia di nobiltà, in contrasto con i Tudor, Enrico VII e, soprattutto, Enrico VIII, era sopravvissuto a vari tentativi di assassinio da parte di quest’ultimo. Uno in Veneto, a opera di un sicario inglese, nella villa di Priuli dove il cardinale riposava dalle fatiche del concilio di Trento.

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La società virale

“Viviamo in una società mondiale del rischio, non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio”, che pullulano, business prolifico, “o in quelle delle società del discorso sul rischio”, che proliferano nei talk-show: “Società del rischio significa, precisamente, una costellazione nella quale l’idea che guida la modernità, cioè l’idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata problematica”, p. 28. L’innovazione continua e radicale comporta uno strano senso di sicurezza, di dominio del “collaterale”, previsto o anche imprevisto. Mentre moltiplica di fatto il rischio.
L’innovazione incessante implica che “il confine tra sapere e non sapere si dissolve”. Si dissolve anche quello normativo, che è ancora statuale: “In riferimento alle sfide attuali – trasformazioni prodotte dall’ingegneria genetica e dall’ingegneria umana, flussi di informazioni difficilmente delimitabili, crolli del sistema finanziario, terrorismo, distruzioni ecologiche – vengono minati i fondamenti nazional-statali della logica convenzionale del rischio”, 47. I rischi si moltiplicano, le difese si assottigliano. Moltiplicando per contro i rischi politici: “I rischi globali producono «failed states» autoritari – anche in Occidente”, 129 – il populismo: la politica confusa ma sbrigativa.
È il 2007, le “pesti” non ci sono ancora state, la “mucca pazza” di origine britannica sembrava un evento eccezionale, ma la globalizzazione le comportava – Beck fa il caso della Cina che, grande consumatrice di energia, andava, e va, a carbone. Farsi globali è buono e giusto, argomenta lo stesso sociologo, ma comporta rischi: si perde, anche molto, di quello che si ha, venendo da una situazione di affluenza (ricchezza, anche economica, stabilità, futuro), e non si sa cosa si acquista. Restando nel mezzo indifesi.
Il rischio del contagio è a metà trattazione. Non propriamente dei virus letali, ma per la logica della mancanza di difese. Siamo in una società virale in senso proprio, non da social: dell’infettività. Senza difese precostituite, malgrado la presunzione o insolenza dei saperi. Si fa molto caso del coronavirus, che pure è blando. Ce ne sono di peggiori, nella finanza, nel commercio, nei saperi, e ipoteticamente nella sanità. Dove peraltro le pesti sono endemiche, a breve distanza di tempo, la “mucca pazza”, Ebola, l’“aviaria”, la “suina”, il coronavirus, un fiore. In questi ultimi trent’anni, del “never had it so good”, mai stati così bene, nel mondo aperto e operoso.
Un tipo di riflessione a cui purtroppo l’Italia si è disabituata, tutta puntata sul cazzeggio del “mercato” e delle “magnifiche sorti e progressive”. Beck non è di un altro mondo, insegna - ha insegnato - a Monaco di Baviera e a Londra. Dove questa riflessione si è sviluppata, tra lui, Anthony Giddens, e altri studiosi. Ignota all’Italia, che anche per questo è senza difese. Di una cultura disarmata - si spiega così che la ricerca di Beck non sia stata discussa e neanche, evidentemente, letta (proposta peraltro in modo ambiguo: il sottotitolo, “Il rischio nell’età globale” è il vero tema - meglio precisato nell’originale, “Weltrisikogesellschaft”, la società mondiale del rischio). Ma la superficialità pesa pure sul senso comune. Ogni cambiamento è chiaro che comporta un pericolo. Ci vorrebbe cautela.
L’ultimo, breve, capitolo, sulla desacralizzazione (disincanto) del mondo, il sociologo intitola “Come le crisi del Moderno nascono dalle vittorie del Moderno”. Il tema è semplice. “Le«voci più recenti» dell’apocalisse prossima ventura” sono un elenco terrificante: “moltiplicazione illimitata delle armi atomiche e dei mezzi di combattimento chimico-biologici, 11 settembre, tsunami, uragani, peste aviaria, Aids”, nel 2007 - e dimentica il surriscaldamento del pianeta.

Ulrich Beck, Conditio humana, Laterza, remainders, pp. 402 € 4,75