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sabato 22 settembre 2018

Problemi di base - 447

spock


La parola più cliccata su google è ipocondria: da parte degli ipocondriaci?

È la Mercedes meglio della Ferrari, o Hamiton di Vettel?

Ora che ci sono gli stupri non ci sono più femminicidi?

E in che percentuale bisogna essere neri per essere neri?

Non c’è un’autorità che regola le informazioni, come mai dicono tutti sempre la stessa cosa?

È l’informazione conformista?

Come si vede di più, andando o stando?

spock@antiit.eu

La civiltà dell'immagine è la civiltà del falso


La fotografia ha “tradito la missione cui doveva dedicarsi”. Di più: la fotografia è vedere il falso. La proposta cioè di un falso. Il fotografo vede il vero ma rappresenta-fotografa una sua idea, e quindi rappresenta il falso. Chi, dove? Gli esempi sono ormai noti, “Il miliziano” di Robert Capa, la “Bandiera a Iwo Jima” di Joe Rosenthal, la “Napalm Girl” di Nick Ut – e la fame in Africa, i bambini denutriti, malati, abbandonati? tutta roba di Madison Avenue, la centrale della pubblicità, e poi di Hollywood, di docufilm di studio, ma pur sempre favoriti, stimolati, dall’immagine.
Sono “verità” anche sopravvalutate. Si fa finire – perdere – la guerra Americana al Vietnam con la “Napalm Girl” l’8 giugno 1972. Ma la guerra era stata già perduta dagli Usa, nell’opinione americana e secondo l’arte militare, già quattro anni prima, il 16 marzo 1968, col massacro di My Lai. Quando un plotone americano, al comando di un sottotenente di 25 anni più inetto che cattivo, sterminò 347 persone inermi – era la coda dell’offensiva del Tet, la pazzesca battaglia scatenata dal generale vietnamita Giap, che così vinse la guerra pur perdendo la battaglia.
Ma a Zoja questo non interessa. Segue il percorso come l’immagine si impone a verità, e ne scova sottintesi, precedenti, derive. Una trattazione agile, benché impervia, con riferimenti estetici, religiosi, espistemologici, psicologici.  Su un fondo di iconoclastia, l’avversione per le immagini, fisse o in moto che siano: l’immagine come una profanazione dell’umano. Giusto l’interdetto di Claude Lanzmann sulle immagini della Shoah, e le immagini in genere di orrori. Di Lanzamnn regista di molti film, anche dell’Olocausto.
La fotografia come specchio di verità era lascito positivista, l’espressione propria di un secolo Excelsior, presuntuoso più che bugiardo - ma non solo la fotografia, bisogna aggiungere, la fine della storia non era allora vicina. Il lampo di luce che fa la fotografia ne fa anche la mobilità, parzialità, irrealtà. Di cui è summa, spiega lo psicoanalista, l’immagine fissa, quella fotografica.
Con chi ce l’ha lo psiocoanalista? Non con chi crede alla fotografia – credere è un atto, una scelta. Con chi la - o se la - presenta come prova di verità. Si sono fatti processi sulla foto di My Lai. Era già detto in Barthes. O in Susan Sontag: “Possedere il mondo sotto forma di immagini significa, esattamente, risperimentare l’irrealtà e la lontananza del reale”.
Un’altra immagine dell’immagine è tuttavia possibile. Ernst Jünger, il narratore della guerra, e della nuova condizione umana, del guerriero diventato lavoratore, curò attorno al 1930 ben cinque volumi di fotografie. Colpito dalla capacità dell’obiettivo di cogliere le “espressioni” degli uomini e delle cose. In contesto e fuori, ma sempre in un momento metamorfico, capace di documentarlo. Nel quadro della sua traccia caratterizzante,della modernità egualizzatrice (uniformante), per i singoli e per la società. “La vita moderna produce immagini caratterizzate da una sempre maggiore geometria… Una disciplina automatica cui sono sottoposti sia l’essere umano sia I suoi strumenti”. In un breve saggio confluito nel catalogo della mostra fotografica “La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger” nel 2007 a Brera, mette in guardia sul “nuovo primitivismo” della civiltà delle immagini, e sulla sua violenza “tecnica”, connaturata al mezzo. Nel quadro del suo tema più noto, la non verginità del mezzo: “La tecnica possiede il senso di un mezzo esistenziale in confronto al quale la differenza delle opinioni non ha che un ruolo subordinato”. Non si tratta di verità ma di realtà effettuali.
Jünger è autore problematico, ma la sua lettura è quella di tutti, senza colpe, nemmeno veniali – siamo nella civiltà dell’immagine per qualche motivo. Il suo è solo il primo ripensamento del linguaggio delle immagini, che sarebbe stato successivamente fertile, tra gli altri con Benjamin, Barthes, Sontag – la quale spesso cita Jünger.
L’intuizione jüngeriana della diabolicità del mezzo è più che suggestiva. Nel suo breve testo della mostra milanese esemplifica questa conclusione con “La corazzata Potëmkin” e, con qualche riserva per le alcune parti “sterili” del film, con “Metropolis”. Posteriormente avrebbe trovato lo stesso linguaggio violento (manipolativo, impositivo) in “Arancia meccanica”, in “Odissea “2001”. Ma non ci sono romanzi o racconti altrettanto evocativi delle tre epoche o mondi. Anche storici, storicamente “esatti”. L’immagine che crea il mondo resta ipotesi dubbia. Ma se Jünger avesse pubblicato libri illustrati dopo il 1933 forse avrebbe trovati altri esempi: quanta Leni Riefenstahl è Hitler, e quanto Hitler è Riefenstahl, giovinezza, forza, bellezza?
Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi, pp. 125 € 12

venerdì 21 settembre 2018

Letture - 359

letterautore


Amore – “La più elitistica delle passioni” lo dice Brodskij (“Fuga da Bisanzio”, 102). Ma per un motivo: “Perché occupa più spazio nella mente che nel corpo”.

Antifemminismo – In letteratura  spesso, curiosamente, femminista. Opera di scrittori curiosi e  studiosi dell’animo e la condizione femminili, senza pregiudizio, costruendone di convincenti, e appassionanti: non solo Leopardi e Kierkegaard, o Pavese, ma anche Flaubert, e lo stesso Tolstòj, malgrado il lungo matrimonio e i tanti figli.  

Berlusconi – Quaranta e passa anni di Berlusconi in tv – il mobiliere Aiazzone – e venticinque in politica, e il correttore google non ha imparato a declinarlo: lo scrive Berlsuconi e non Berlusconi. 
Un premio Resistenza? Vuole impedire di scriverne?

Civiltà - “Le civiltà si muovono seguendo i meridiani, i nomadi seguendo le latitudini” – Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”.

Collezionista – È il Kaspar Utz del romanzo omonimo di Bruce Chatwin, il quale aveva fatto una modesta carriera da Sotheby’s prima di debuttare scrittore.
Harold Acton ne fa la rapida classificazione basandosi sulla sua esperienza di una vita a Firenze, col padre Arthur a Villa La Pietra, e su quella di grandi collezionisti, come i Sitwell, Osbert e suo padre George. Nel Prologo alla sua raccolta di racconti anglo fiorentini “Fin de race” così ne tratteggia la figura: “Allora”, fine Ottocento, primo Novecento, “Firenze pullulava di collezionisti stranieri che nella maggioranza, ossessionati dalla loro eterna caccia al tesoro, si disinteressavano della vita di tutti i giorni. Era quella una fame struggente del dipinto, della scultura o del cassone che aveva colpito o infiammato la loro fantasia”. Ce n’era che non avevano i mezzi, ma sacrificavano tutto: “Erano totalmente posseduti dagli oggetti che possedevano”.

Dialetto – Sostanzia la lingua. Nell’uso surrettizio che c’è, se ne può fare, parlando o scrivendo in lingua, in quello che Gian Luigi Beccaria dice “volgare illustre”. Lo dice a proposito di Pavese, “Il «volgare illustre» di Cesare Pavese”, che pur avendo fatto gli studi classi, quando arrivò a scrivere ebbe il bisogno di farsi un vocabolario, annotando parole e espressioni evidentemente a lui ignote o non familiari. “Il dialetto è nobilitato senza abbassare la lingua”, nota Beccaria di questo particolare uso: “Più che abbassamento della lingua al dialetto o innalzamento del dialetto alla lingua, si tratta di un’allusione al dialetto da parte della lingua”. Di un radicamento si potrebbe dire della lingua.

Discorso indiretto – La negazione dell’Autore. Nel mentre che si infila dappertutto. “J.S.Bach ebbe una grande fortuna”, I. Brodskij fa dire a Auden in conversazione (“Fuga daBisanzio”, 113): “Quando voleva lodare il Signore scriveva un corale o una cantata, rivolgendosi all’Onnipotente senza intermediari, a tu per tu. Oggi, se un poeta vuol fare la stessa cosa, deve ricorrere al discorso indiretto”. Rispettoso forse, corretto, come una dichiarazione preventiva di fallibilità da parte dell’Autore, ma quanto inutile. E faticoso.

Gioconda – “Opera pop, madre naturale di Chiara Ferragni”,Vittorio Sgarbi. Anche in questo Leonardo precursore? O è che il Louvre non ha nulla di meglio da vendere, di meglio di un Leonardo?

Moravia – Alla galleria fotografica in memoria di Inge Feltrinelli il”Corriere della sera” allinea queste didascalie: con la giornalista Camilla Cederna, con gli scrittori Amos Oz, Daniel Pennac , Jonathan Coe, con Giangiacomo e il figlio Carlo, con il premio Nobel Günther Grass, con lo scrittore romano Alberto Moravia.

Renoir – “Pletorico pittore” lo vuole Harold Acton, “esteta” e collezionista d’arte (nel racconto “Fin de race”), “di aragostacee bagnanti”.

Roma – È di Belli, Pascarella, Trilussa, Petrolini, Proietti, ma più e meglio – più “profonda”, varia, complessa, rimarchevole – di non romani: Gadda, Pasolini, Fellini, nonché degli scrittori immigrati con l’unità dopo Porta Pia: Chelli, Dossi, lo stesso D’Annunzio. Roma è dei non romani.

Sette – Enrico Malato introduce la sua riedizione critica della “Divina Commedia” per i settecento anni della morte di Dante nel 2012 con l’importanza per il poeta del numero sette, specie in questa ricorrenza, “non un centenario come gli altri”: “Sono 700 anni, cento volte sette, che per Dante è il numero sacro per eccellenza: 7 furono i giorni della creazione; 7 sono le virtù (4 cardinali + 3 teologali) cui corrisponde la loro negazione, nei 7 vizi capitali; settemplice, “costituito da sette elementi, è lo spirito di Dio;, da cui d erivano i 7 doni dello Spirito Santo, simbolicamente evocati nella processione mistica del paradiso terrestre, con i 7 cndelabri che lasciano altrettante scie luminose dietro di sé;  7, ancora, sono le cornici del purgatorio,  7 i cieli, 7 i sigilli dell’Apocalisse, 7 i sacramenti”. Sul 7 lo studioso vede imperniata l’intera struttura dell’opera. 
“A voler approfondire”, commenta Paolo Di Stefano presentando lo studio di Malato sul “Corriere della sera”, “le cifre del suo anno di morte, 1321, sommate, danno 7, e 21 è un suo multiplo. Ma almeno per il momento”, conclude, “va escluso che (Dante) l’abbia voluto”.
Sulla mania del 7 nella vita comune e nelle opere letterarie un repertorio lungo quattro pagine ha costruito Giuseppe Leuzzi nel romanzo “In virtù della follia”, 1992. Con l’ausilio di Elémire Zolla e altri studiosi.

Vedove – “In Russia il regime, negli anni Trenta e Quaranta sfornava vedove di scrittori con una tale efficienza che verso la metà dei Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato” – I.Brodskij, “Fuga da Bisanzio”, 93.


letterautore@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (127)


Quello del Polcevera e di Autostrade è chiaro: è un problema dei controlli, delle Autorità di controllo. Sui termini delle privatizzazioni e sulla gestione ordinaria. Nel caso del ministero dei Trasporti, con l’Anas quale agente tecnico. Autorità che lavorano invece per le concessionarie, delle quali sono, saranno o sono stati collaboratori o consulenti, anche informali, e perfino dirigenti. Questo è un fatto e non un’opinione. Anche se su questo non indaga la magistratura né le forze dell’ordine. Il piatto delle concessioni è in Italia talmente ricco che ce n’è per tutti.

Lo stesso sistema delle tariffe rende esplicito che il prezzo dei servizi, anche essenziali, quali l’acqua e la spazzatura. è una rendita. Con la divisione tra rete, pubblica, e servizio, privato o a gestione privatistica. Tra investimento, da ammortizzare a parte, e servizio, da remunerare proficuamente. In teoria per finanziare gli investimenti, di fatto a gonfiare la rendita. Non c’è rischio per i concessionari. Ma non c’è nessuna garanzia per gli utenti, né di qualità del servizio né di prezzo.

Avviene per la privatizzazione delle autostrade come è avvenuto per i treni in Gran Bretagna, la madre di tutte le privatizzazioni, disposta da Margaret Thatcher. I concessionari per decenni sfruttarono al massimo la rete esistente, senza migliorie, Fino a che il numero eccessivo di incidenti e di vittime di incidenti non le costrinse ad ammodernare la rete.

Austostrade importanti sono rimaste ai tracciati di sessant’anni fa – per la Firenze–Mare di quasi novant’anni fa – con volumi di traffico centuplicati: la Orte-Firenze, la Firenze-Mare, la Milano-Genova.

Il triolismo per finirla, col porno e non solo


Ph. Roth prova l’amore con una lesbica. Completo di triolismo. Con corredo di abusi paterni sulla figlioletta – l’amore con la lesbica ne è un’estensione, una sorta di figlioccia, vista nascere e allattare, figlia di amici di gioventù.
Un racconto in tre atti. “L’umiliazione” non rende bene il titolo originale, “The Humbling”, che è più attivo che passivo, un farsi piccolo. Di un attore famoso e bello colpito dal trac. Abbandonato dalla moglie e tentato dal suicidio, si ricovera in clinica psichiatrica, dove è troppo scaltro per le terapie. L’amore della lesbica segue. Ma non cambia il finale.  
Ph. Roth completa il suo racconto pornosoft delle forme contemporanee dell’erotismo, la sua cifra d’autore. Più esplicito del tentativo di Moravia qualche decennio prima, ma meno consistente: procede come un cronista giallo-rosa. Personaggi e situazioni evaporano come quelli del Prospero di Shakespeare che l’attore col trac evoca, che “si sciolgono in aria, in aria sottile”.
Nella “rothiana” questo “Umiliazione” assume anche un configurazione malinconica. È l’ultimo, o il penultimo, dei suoi racconti, prima della scelta del silenzio.
Philip Roth, L’umiliazione, Einaudi, Libraccio, p. 115 € 4,75

giovedì 20 settembre 2018

Problemi di base calcistici - 447

spock


Perché è impossibile immaginare Ronaldo espulso, per non aver commesso il fatto, negli anni del Real Madrid?

Nove minuti in più per il Valencia, per stancare la Juventus, tre rigori, uno al 96mo, per scavalcare Campbell nel Guinness?

L’arbitro Brych non è un fesso?

Mai espulso in Spagna nelle coppe un calciatore spagnolo, i portoghesi, colombiani, peruviani, argentini, brasiliani, camerunensi etc. sono correttissimi quando giocano nelle squadre spagnole, scorrettissimi quando giocano nelle squadre di altra nazionalità: la Spagna ha la ricetta della buona condotta?

È costosa?

Una partita di coppa in Spagna è come alla corrida: il nemico deve morire?


spock@antiit.eu

W le polizie - cronache dell'altro mondo 8

È formidabile come l’America creda alle sue polizie, Fbi, Cia e altre. Che non hanno saputo nulla dell’11 settembre, né del Russiagate. Ma intercettavano tutto il mondo. Le polizie garanti della libertà e la democrazia? In America sì.
Ora l’America si affida all’Fbi per sapere se quarant’anni fa, alla Scuola Preparatoria all’università, il giudice costituzionale Brett Kavanaugh ha molestato una fidanzatina. Il discusso giurisperito Brett Kavanaugh, nominato giudice costituzionale dal contestatissimo  Trump, non trova obiezioni alla sua nomina in Senato altro che una lettera brandita dalla senatrice Dianne Fenstein, del partito Democratico. Gliel’ha scritta un donna oggi cinquantaepiùenne che lamenta il fidanzatino di allora.
E quando si fa a meno delle polizie? Peggio. Il direttore della “New York Review of Boks”, Ian Buruma, viene licenziato per avere ospitato un articolo, peraltro leggibile online, di uno scrittore e personaggio tv canadese vittima del #metoo – accusato e licenziato in tutti gli incarichi, ma poi assolto, le accusatrici non sapendo che dire. In America è proibito difendersi.  
John Kerry, buon candidato presidenziale nel 2008, le elezioni di Obama, ebbe la corsa alle primarie stroncata  al possesso di un Suv: contraddiceva la patente ambientalista. Non la sponsorizzazione dell’iperdemocratico dagli iperricchi del Massachusetts. No, il suv - nel paese dei suv e degli ancora più monumentali pick-up.
Altri candidati presidenziali sono stati bloccati dall’improvvisa efflorescenza di prostitute o amanti. Ricercate con asutute polizie e pagate dai concorrenti, ma non questo non incide.
Quando Geraldine Ferraro nel 1983 maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno successivo in ticket col candidato democratico di sinistra Walter Mondale, subito un investigatore inviato, diceva, dal partito Democratico si presentò a Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno, risultava essere o essere stato nel messinese. O così si premurava di far sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla “Gazzetta del Sud”, il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi si premurò di far sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la lauta parcella anzi se la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di raccontargli che Geraldine aveva un zio pregiudicato - una lezione per i Carabinieri, che sempre lamentano l’omertà. Che lei non ne sapesse l’esistenza non voleva dire nulla.
L’investigatore anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci fosse, o ci fosse una parentela riconosciuta. Aveva il compito d’indagare, disse, su tutto: sulla cartella penale ma anche sulle cartelle fiscali, su quelle mediche, se l’uomo non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc. Costruiva con elementi sicuri un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da provare – se necessario (non lo fu, il ticket Mondale-Ferraro si scontrò male col Reagan bis) - un qualche legame familiare con la vice-presidente candidata.


Meno di uno

“Fuga da Bisanzio” è uno dei saggi - non il più cospicuo - di una serie intitolata in originale “Less than one”, meno di uno. Una sorta di selfie a largo spettro che il poeta russo, espulso in America, ha voluto scrivere per ricordare la sua città, Leningrado-Pietroburgo, “Peter”, i genitori, la Russia. Brodskij è stato uno degli emigrati più cospicui dell’Unione Sovietica, espulso appena trentaduenne, nel 1972, dopo vari confini in patria, a partire dal 1963, quando un giornale ne denunciò la poesia come “pornografica e anti-sovietica”, arrestato e quindi più volte confinato per “parassitismo sociale”, insignito del Nobel pochi anni dopo, nel 1987 – la raccolta è di un anno prima. Di una generazione in Russia, nelle città, che viveva, assicura, di libri. E di ubriachezza, il non detto dell’“era poderosa” o “paradiso in terra”, del Primo Stato Socialista nella Storia della Umanità, che il sociologo e narratore Viktor Zaslavsky documentava allora in contemporanea.
Operaio a 15 anni, apprendista fresatore, all’Arsenale, la grandissima fabbrica metallurgica di Leningrado-Pietroburgo. Poi all’obitorio dell’adiacente ospedale, per diventare medico. A 14 anni aveva superato gli esami per accedere a un’accademia per sommergibilisti, ma per via del “quinto paragrafo”, la nazionalità, ne fu escluso – la quota per gli ebrei essendo stata superata. Quella di essere ebreo è una condizione di cui Brodskij risente. La prima bugia che ricorda, a sette anni, è stata, nella scheda d’iscrizione a una biblioteca, l’aver detto alla bibliotecaria che non sapeva di che nazionalità fosse.
Un ragazzo avventuroso. Di buon umore malgrado tutto:  il carcere gli ha evitato la naja, si consola, il peggio del peggio. Anche se non è una soluzione: la condanna in prigione è “mancanza di spazio controbilanciata da eccesso di tempo”. Espulso senza preavviso nel 1972 a Vienna, prima ancora degli accordi di Kissinger a Mosca per un’emigrazione regolata, sopratutto si cura nelle 48 ore successive di cercare Auden, il suo poeta eletto, che sa villeggiare in un villaggio austriaco – ma quale? Finché lo trova. Poi un anno e mezzo a Roma, dice, ma non nei saggi non ce n’è traccia – sposa anche un’italiana, Maria Sozzani, che gli premuore nel 1990. Quindi in America, nel Michigan, professore in varie università.
Una guida nostalgica a “Peter”, il nomignolo in uso tra i residenti per l’allora Leningrado, di un figlio affettuoso, riconoscente. Eletta dai versi di Puškin e Mandel’stam. Poetica e romanzesca, malgrado Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo”. Una formidabile nostalgia, in ogni saggio. Brodskij parla a lungo di Bisanzio e dell’Oriente, nel saggio del titolo, ma anche lì “Peter” riemerge diffusamente. Col ritratto celebrativo di Mandel’štam, “voce tanto più stonata quanto più è limpida”, fuori posto, controcorrente. Che il regime non saprà come combattere, salvo farlo sparire, dalle parti della Kamchatka. E poi di W. H. Auden, suo poeta di elezione, che per una serie di casi fortuiti lo accoglierà e ne patrocinerà i primi tempi dell’esilio – l’inglese dirà di avere adottato per entrare nel mondo di Auden, “per l’intelligenza di questo poeta”. Ma anche di Anna Achmàtova, di sbieco, e frontalmente di Nadežda Mandel’štam, la moglie fragile, combattiva, e poi, ottuagenaria, vincente.
Con molte pointes: Brodskij si compiace di scandalizzare il benpensante. Ma poi si spiega. Gli elegiaci, Properzio, Ovidio, contro Virgilio. Per invidia? Avevano anche argomenti – sapevano per esempio perché l “Eneide” non si poteva concludere. Ma dimenticavano che Virgilio era stato prima poeta di “Bucoliche “ e “Georgiche”. E ripetutamente “il delirio e l’orrore dell’Est”. L’ultimo saggio, “In una stanza e mezzo”, è un com’eravamo, nel ricordo dei genitori appena deceduti. Che non ha più il taglio informativo di quando fu scritto, trentatré anni fa. Ma lo stesso sorprendente. Nel quadro di una storia che si finge non avvenuta, una parentesi vuota. La vita tribale nell’appartamento condiviso, una stanza a famiglia, cucina, gabinetto, bagno in comune. Di vite alterate, deviate, dal regime. Di un padre, nel caso, che da ragazzo aveva studiato il altino, e di una madre che parlava il francese ma doveva nasconderlo.
Una nostalgia irrimediabile, pur negli agi e gli onori della nuova vita Americana. Molti gli attacchi al sovietismo, peri colpe inimmaginabili ma reali. La Russia si salva con la lingua: “La lingua russa e la sua letteratura, specialmente la sua poesia, sono le cose migliori che quel Paese possieda”. Non  nuovo, ma impegnativo.
Il totalitarismo rende autocoscienti, acuisce l’autocontrollo. “Nel paese in cui ho trascorso trentadue anni l’adulterio e l’andare al cinema sono le uniche forme di libera iniziativa. Più l’Arte”. Ma di fatto, non solo nel totalitarismo, “uno è forse meno di «uno»”. Non per fare dispetto a Grilo, ma alla letteratura, alla storia, dell’Io, magmatico e inconclusivo, benché perfettibile.

Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, pp. 243 € 12

mercoledì 19 settembre 2018

Il mondo com'è (353)

astolfo


Bisanzio – Fu l’avamposto dell’Occidente o non il suo tradimento? In una sorta di anticipazione dell’islam, col quale collimerà? Ponendo il quesito, nel lungo saggio “Fuga da Bisanzio” (nella raccolta di saggi scritti in inglese e pubblicati in America “Less than one”, meno di uno), il poeta russo Iosif Brodsky, emigrato giovane in Occidente, premio Nobel 1987,  dà per implicita la risposta. Ma è pieno di argomenti. Partendo dal fatto che il Drang nach Osten di Costantino, come potremmo chiamarlo modernamente,a seguito della visione “in hoc signo vinces”, nel segno della croce, è alla ricerca di una croce viaria con cui Roma costruiva le città. Irridente ma non troppo: Costantino andò cioè a creare un’altra città. Prova ne sia che prima esaminò il sito di Troia e poi decise per i Dardanelli. Il cristianesimo c’era già, si può aggiungere, in tutto il Medio Oriente e fino in India.
Non il cristianesimo, dunque, ma un certo principio politico interessava Costantino: “Ciò che Costantino portò a Bisanzio aveva connotati che non erano più quelli della cultura classica: era già la cultura di un evo nuovo, maturata sotto il segno del monoteismo”. Che il potere vuole assoluto. “Lo sforzo di Costantino, uomo del’Est”, cresciuto all’Est col padrino Diocleziano, “è solo un episodio della generale spinta dell’Est verso Ovest” – “un nomade cavalca sempre verso un tramonto” (180).
Brodsky ha un’altra idea di Costantino. Il cui passaggio a Oriente analizza come una fuga da Roma. Dove abbandona la chiesa, malgrado l’appello della croce. Per esercitare il potere nelle forme orientali, asiatiche. Una specie di primo crociato. Che si fece però un impero duraturo, si può aggiungere, e poco “franco”. Servendosi di una forma riduttiva di chiesa. Da cui per questo  dopo qualche secolo Roma ebbe difficoltà a non separarsi.
Di seguito alcuni estratti delle argomentazioni di Brodsky.
“Che cosa vide e che cosa non vide Costantino mentre guardava la carta di Bisanzio?Vide, per usare un eufemismo, una tabula rasa. Una provincia imperiale abitata da greci, ebrei, persiani e simili- una delle popolazioni con cui aveva di solito a che fare, tipi sudditi della parte orientale del suo impero”…
“Non vide, invece, che aveva a che fare con l’Est. Una cosa è scendere in guerra contro l’Est – o anche liberare l’Est – e un’altra è viverci. Con tutta la sua grecità, Bisanzio apparteneva a un mondo nel quale il valore dell’esistenza umana era misurato secondo idee totalmente diverse da quelle accettate all’Ovest: a Roma, per quanto pagana fosse”. C’era la Persia, non c’era l’Ellade: “Se ad Atene Socrate poteva essere processato pubblicamente e poteva pronunciare interi discorsi – tre discorsi! – in propria difesa, a Isfahan mettiamo, o a Bagdad, un Socrate sarebbe stato impalato seduta stante, impalato o flagellato, e tutto sarebbe finito lì. Non ci sarebbero stati dialoghi platonici, né neoplatonismo, niente: infatti non ci furono”. RE qui c’è la continuità: “Ci sarebbe stato solamente il monologo del Corano: infatti ci fu.Bisanzio era un ponte verso l’Asia, ma il traffico che lo attraversava fluiva nella direzione opposta. Certo, Bisanzio accettò il cristianesimo. Ma questa fede , lì, era destinata a orientalizzarsi”.
Numerosi saranno i segni di questa predisposizione, di questa linea di continuità. Con l’iconoclastia che monta insieme con l’islam. “Tutta la scolastica bizantina, tutta la dottrina e il fervore ecclesiastico di Bisanzio, il suo cesaropapismo, il suo dogmatismo teologico e amministrativo, tutti i trionfi di Fozio e i suoi venti anatemi – tutte queste cose derivarono dal complesso d’inferiorità della nuova capitale, da un patriarcato ultimogenito che doveva fare i conti con la sua stessa incoerenza etnica”. Bisanzio si distinse nelle guerre soprattutto contro l’Ovest, portando a “una lenta ma costante erosione della croce e a un crescente relativismo nella mentalità bizantina”. E “chi sa se la sconfitta finale dell’iconoclastia non si debba spiegare con la sensazione di un’inadeguatezza della croce come simbolo e con la necessità di una contrapposizione visiva all’arte antifigurativa dell’islam? E se non fu l’ossessivo merletto arabo, l’incubo dell’arabesco, a spronare Giovanni Damasceno?)”, il teologo arabo di fede cristiana, vissuto forse cent’anni a cavaliere del 700, venerato come santo dagli ortodossi e dai cattolici, in primo piano contro l’iconoclastia decretata dal 726 dall’imperatore Leone III.
Prima l’islam, poi la Russia, c’è un filo con Bisanzio: “L’antiindividualismo dell’Islam avrebbe trovato a Bisanzio un terreno così propizio che col nono secolo il Cristianesimo non si sarebbe fatto pregare per fuggire verso Nord”. Lo scollamento era già radicale: “Il Cristianesimo che la Rus’ ricevette da Bisanzio nel nono secolo non aveva assolutamente nulla in comune, ormai, con Roma. Perché, nel suo viaggio verso la Rus’, il Cristianesimo si lasciò dietro non solo toghe e statue, ma anche il codice civile di Giustiniano”.
(continua)

Civiltà – Si diffonde da Sud a Nord. Come la vegetazione. In direzione opposta a quella dei ghiacciai.
Ma questo nell’emisfero Nord.

Lira turca – Era “un irreale mezzo di pagamento per prestazioni reali” già quarant’anni fa per il viaggiatore Josif Brodsky.

Nomadismo – Va, è andato, da Est a Ovest. E dentro una fascia climatica. I tartari e i mongoli nella fascia delle terre nere. I beduini nel deserto. I boscimani nel Kalahari. Gli eschimesi dentro il circolo polare artico.

Oriente – Il “fascino” dell’Oriente non sarà il servizio senza prezzo, dal lustrascarpe al tè, molto buono, in un mercato senza valore, opina il poeta russo Brodsky in “Fuga da Bisanzio”, 164. “Al  grido di guerra della bionda che sta diventando grigia: «Che affare! Che affare!»”, al bazar e davanti alle vetrine.

Nutre le religioni: tutte le religioni vengono da Oriente. Nessuna religione – un corpo strutturato di credenze - è germogliata in Occidente, le Americhe e l’Africa comprese (molti profeti ma nessuno stabile, dotato di fondo). O sì, la religione copta e il culto di Isis in Egitto. Ma quanto l’Egitto africano, sahelico, non deve all’Asia?


astolfo@antiit.eu

L'euroismo è vangelo

È una esercitazione dell’Istituto Bruno Leoni, “idee per il libero mercato”, una costola dei governi Berlusconi operativa da quindici anni, affidata a una dozzina di esperti. Avviata dopo che gli euroscettici in Italia hanno superato la soglia del 50 per cento. Naturalmente, per dire che sarebbe una catastrofe “per un Paese come l’Italia”: svalutazione, debito, inflazione, credito a zero, produttività negative.
Niente di diverso dagli esercizi già noti, su cui si cimentano i giornali. Senza effetto. Perché è come dire: alimentiamo la sfiducia. Se l’euro è intoccabile. “Un paese come l’Italia” non riesce a riprendersi dalla crisi del 2007.  Non c’è lavoro, non c’è reddito. E rischia l’uscita dalle economie più ricche. Perché l’Italia fa parte dell’euro mentre forse non dovrebbe. Non alle condizioni che le sono state imposte – imposte è la parola giusta.
L’impoverimento è una brutta cosa. Ma niente, il pensiero liberale non se ne preoccupa, e nemmeno se ne occupa. Non in Italia – in America sì, in Inghilterra, nella stessa Germania, che pure tanto ne beneficia. È la debolezza dell’euroismo, considerarsi vangelo.
Forse era meglio analizzare vizi e virtù dell’euro in questi quindici o sedici anni. E vedere se e come rattopparlo. L’euro come una prigione. È nato male e funziona peggio, ma non ci si salva.
L’Italia che non si riprende dalla crisi del 2007 non è colpa dell’euro, spiega Veronica De Romanis nel capitolo forse più contestabile. Come no? L’Italia è, è stata, una grande Grecia – non una Magna Grecia, come i greci, antichi e moderni, pensano alI'talia, ma un caso Grecia gonfiato. Dalla Bce di Trichet e Draghi, e da un governo Merkel che, con la lesina del “troppo poco troppo tardi”, però non ha risparmiato energie per indebolire l’Italia sui mercati, con parole, opere e omissioni.
Aderire ai fatti, per un istituto liberale, si penserebbe decisivo. L’Italia deve restare nell’euro, ha sbagliato e deve pagare? Diciamolo. Ma chi deve pagare?
Il fideismo non funziona in economia.
Carlo Stagnaro, (a cura di), Cosa succede se usciamo dall’euro, Ibl Libri, pp. 140… € 16

martedì 18 settembre 2018

L'Asia alla Russia


Turchia, Siria, Iran, Cina, playmaker di mezza Asia è diventata la Russia. La Turchia di Edogan ci trova l’unica sponda. Col beneficio di un quasi protettorato sulla regione siriana di Idlib. La Siria non può farne a meno, tanto più se, come sembra, resterà in mano a Assad. Dell’Iran degli ayatollah la Russia è rimasta l’unico grande sponsor internazionale. Con la Cina la cogestione obbligata della nuova Via della seta, per la parte terrestre, si arricchisce di investimenti e interventi finanziari – niente al paragone con gli interessi cinesi in Occidente, ma è un inizio.
È anche per questo, probabilmente, per l’interscambio con la parte non occidentale del mondo, che la Russia, che dovrebbe essere in ginocchio dopo un quinquennio di sanzioni, sopravvive e anzi prospera.
Non c’è la Russia invece nelle aree problematiche, Afghanistan e Iraq. Un tentativo di intromettersi in Libia e nel conflitto arabo-israeliano prendendo contatti con l’Arabia Saudita è stato presto abbandonato - la liquidazione dei Palestinesi da parte degli Usa spalancherà un’altra prateria?
Putin va sul sicuro. In aree di influenza occidentale che l’Occidente trascura. Gli Stati Uniti per conto dell’Occidente, l’Europa non conta. Nessuna inziativa in Medio Oriente né in Asia, se non antagonista. Singolarmente aggrappati a una confrontation con la Russia sul tipo della guerra fredda, con spie e controspie.  Di cui è emblema il Russiagate, un romanzo di Le Carré – che forse c’è stato ma non si prova, e comunque sarebbe una risposta allo spionaggio elettronico americano rivelato da Snowden, proprio come nei vecchi romanzi di spionaggio.

Dio è in fieri


La secolarizzazione – siamo negli anni del pontificato di Ratzinger – ricondotta dal teologo Dotolo e da Vattimo a una matrice ebraico-cristiana, come distinta e opposta alla matrice ellenistico-cristiana. È la conclusione di un dibattito che i due svolgono in varie sedi tra il 1999 e il 2005, sul presupposto del Dio ebraico nel cristianesimo, di Dio e uomo partner di una libera alleanza, adombrato da Vattimo nel saggio “Credere di credere”, 1996, attraverso la kenosis di san Paolo, “l’abbassamento, lo svuotamento, l’annichilamento di Cristo nell’incarnazione” (G.Giorgio).
Il filosofo Giovanni Giorgio ne ha riordinato gli svolgimenti, in due distinte interviste, poi confluite nel libro in forma di dibattito. Vattimo ne chiarisce il senso all’inizio dell’intervista, pur escludendosi dal terreno della teologia. Il cristianesimo è a un bivio, se “assumere con coerenza le implicazioni o le conseguenze di una prospettiva di secolarizzazione” oppure no, se essere statico o dinamico. Ma non a una scelta: “Questo tipo di cristianesimo che apparentemente dispensa sicurezza, risponde più ad una religione statica stanca che non a un’esperienza religiosa radicata nell’affermazione biblica di un rapport tra partner  liberi e affidabili”.
Un dibattito curioso, che ribalta molto senso comune. Ma senza eccessi né riserve. La secolarizzazione si radica nella tradizione ebraico-cristiana, il filosofo e il telogo convergono. Una revisione suicida? No. “L’enfasi sulla capacità di azione dell’uomo”, Giorgio anticipa la conclusione,  “inteso ormai come soggetto, su una natura non più sacralmete intoccabile, intesa ormai come oggetto, dentro una storia di emancipazione di cui egli appare protagonista, apre possibilità nuove di comprensione”. Questo Prometeo è cristiano: la secolarizzazione va “intesa come interpretazione dei contenuti della rivelazione cristiana, e non come sua liquidazione”.
La conclusione non è subdola. La “desacralizzazione si basa, in effetti, sull’idea della mondanità del mondo che è tipica della tradizione ebraico-cristiana, e sulla quale si reggono la dottrina della creazione e quella dell’incarnazione”. Ma “se il rapporto di creazione che articola la relazione tra Dio e mondo, legittima il mondo come altro da Dio, come ciò che Dio stesso non è”, se la creazione è “di uno spazio ateo, per dirla con Lévinas o con la Weil”, bene, “in questo spazio abita l’uomo, e proprio perché Dio e mondo non sono lo stesso, Dio e uomo possono incontrarsi come partners di una libera alleanza”. L’incanazione è l’accettazione di questa alterità – irriducibilità.
Ne consegue che – o ne è il presupposto – il cristianesimo è “l’antidoto a ogni fondazionalismo”, a chi ritiene di “poter raggiungere il fundamentum inconcussum “ sul quale “incastrate la realtà una volta per tutte. Chiudendo così, senza ironia, ilcerchio: “Troppi sono stati i fundamenta inconcussa nella storia del pensiero occidentale per poterci ancora credere”.
Si radica qui il Dio in fieri di Vattimo. Le vecchie storie di “come è fatto Dio” essendo state annichilate dalla kénosis, dall’incarnazione, dalla rinuncia di Dio a fare il Dio, Dio di volta in volta è la “possibilità buona”, storicizzata. Pur arguendo infine, nel “Proscritto” a “Credere di credere”, un “bisogno della grazia come dono che viene da un altro”, sia esso ente, storia, tradizione, eserienza, un dono comunque da coltivare. Si salva chi vuole.
Gianni Vattimo-Carmelo Dotolo, Dio: la possibilità buona, Rubbettino, remainders, pp.XXIII + 87 € 5

lunedì 17 settembre 2018

Secondi pensieri - 360

zeulig


Amore-morte - “Estro del tempo, l’arbitro totale,\ dispone amore, non morte, degli amici”, si direbbe dei poeti. Ma è un lapsus: Auden, distratto forse dal “tempio”, le colonne dei coatti di Amburgo, voleva dire “nemici”. Il Tempo cancella estroso l’odio, fra i belligeranti, fra gli amanti. E invece ha detto amici. Correttamente sarebbe allora da dire, con la grammatica e non solo: “Dispone morte, non amore, degli amici”. L’equivalenza amore-morte, giochetto enigmistico, sostituendosi una a con una t, da tempo serpeggia fra i poeti, con complotto e senza. Ma applicata agli amici, ai compagni, è una rarità. La morte era pulsione fascista, da SS, da Tercio.

Discussione – Implica una comunione, di linguaggio, e anche di consenso: si discute con chi si è d’accordo. Se non sulla questione specifica, sui criteri di discussione. Oltre che sul significato delle parole, i gesti, le cause – la comunicazione. Era questi il precetto di Leopardi: per discutere bisogna condividere, gli interessi, il linguaggio, e i valori, o principi.

Emigrazione – È una cesura, sempre, anche quando i fili non fossero recisi. “Amo S. Stefano alla follia”, scriveva Cesare Pavese nel diario poco prima della morte, scriveva del suo paese natio, Santo Stefano Belbo, “ma perché vengo da molto lontano”. Da tutt’altro mondo, esperienza di vita.  Si continuerà a coltivare la memoria, ma di sé infanti, più che del luogo o della sua gente. Nel quale l’emigrato non ha più nessun ruolo, e non potrebbe averlo anche se gliene offrissero l’opportunità. È escisso da quel corpo, per quanto vi si possa identificare.

Esilio – Acumina (nostalgia) e consolida (memoria) l’appartenenza. Dante, condannato all’esilio per venti anni di fila, e anzi morto in esilio, è “il” fiorentino per eccellenza.
Raramente produce un rifiuto, una negazione.

Fondamentalismo – È laico più che religioso, di una ragione “inconcussa”, indiscutibile – il principio del fundamentum inconcussum in base al quale strutturare la realtà, ogni realtà, di per sé quindi ontologizzata. Antiseri ne fa l’elenco, di questa ontologie laiche o atee, “razionali” (“Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano”). Sono state numerose: “Essenze, entelechie e sostanze  nel pensiero antico e medievale; i principi autoevidenti della tradizione razionalistica; le sensazioni degli empiristi; le idee chiare e distinte dei cartesiani;  le categorie kantiane intese come strutture stabili della mente umana; la ‘materia’ o, alternativamente, lo ‘spirito’; il ‘fatto’ dei positivisti (o di molti positivisti); la ‘natura umana’ dei giusnaturalisti; le ferree ed ineluttabili leggi della storia umana nella sua totalità (leggi che molti filosofi della storia hanno garantito di avere scoperto); la struttura economica dei marxisti; il principio di verificazione dei neopositivisti”. Sono tutti esempi, conclude, e non sono tutti, “di quel fundamentum inconcussum  di cui la ragione forte (o giustificazionista, o fondazionista, o fondamentalistica, cioè metafisica) è andata senza sosta alla ricerca”. E senza esito.
Non c’è Nietzsche nell’elenco. Resta Nietzsche. Che però è probabilmente il più religioso di tutti - come poi il suo epigono Heidegger. Nel senso che oggi vuole la chiesa cattolica: ebraico-cristiano, di un patto tra Dio e l’uomo.

Natura – “Natura non vincitur nisi perendo”, il principio della salvezza è sempre quello di Bacone: della natura non si viene a capo se non assecondandola. Ma non ci sono statistiche dei turisti dispersi, per esempio in Africa, o nei posti dove la “natura” “domina” “incontaminata”.
La nuova scienza della protezione della natura va calibrata. L’evoluzione dell’uomo è unica perché è mentale. Gli altri esseri si difendono e migliorano specializzando il fisico. È così che l’alano è un cane come il chiwawa, ma bisogna saperlo. L’uomo evolve – si identifica – attraverso le proprie estensioni, la tecnica e la società - beh, ma questo non si sa?

Solitudine – La rete la allevia o la aggrava, i social? Connessi e isolati è tema di più di una ricerca: la connessione isola, se non altro per il tempo che assorbe, e in un corpo a corpo senza in realtà un dialogo. Particolarmente attivo nella fase di crescita, tra i teen-ager. In una fascia d’età, l’adolescenza, in cui i social si combinano al rifiuto del mondo. Di fatto sono un passatempo, come i cruciverba, e i solitari. A tutte le età.  

Storia – Prospera nella soddisfazione – fa tutti contenti. Lo scopre indirettamente, parlando di sé giovane a Leningrado, nell’Unione Sovietica, il poeta russo-americano Brodskij, “Meno di uno”,  (in “Fuga da Bisanzio”): “C’è più soddisfazione a guardare indietro che avanti”. Poiché da qualche parte bisogna guardare. “Il domani è meno attraente dell’ieri. Per una ragione o per l’altra il passato non irradia l’immensa monotonia che il futuro promette” – il futuro è vago: “Di futuro ce n’è tanto. E a causa della sua abbondanza è propaganda. Come l’erba”.


zeulig@antiit.eu

I dolori delle Autorità

Le Autorità  di settore, create nel 1995 per “mettere nelle mani di esperti indipendenti la regolazione di settori particolarmente importanti (ad esempio le comunicazioni, l’elettricità e il gas, i trasporti, la ‘privacy’)”, in realtà per controllare i settori privatizzati nell’interesse degli utenti, hanno “subito una duplice erosione da parte del legislatore e da parte dell’esecutivo”, commenta Sabino Cassese sul “Corriere della sera”. Da una parte “il Parlamento ha abbondantemente legiferato in materie che erano state rimesse alle Autorità”. Mentre “il governo ha autorizzato le autorità indipendenti per chiedere pareri e fare accertamenti”.
No, sia la legiferazione del Parlamento sia “l’“uso” delle Autorità da parte del governo sono leciti. Le Autorità sono sotto accusa perché costano molto. E perché vigilano poco, dalla Consob in giù. Se non per fare gli interessi settoriali, delle imprese e non degli utenti. Con un commistione variegata, di consulenze, secondi lavori, scambi di occupazione, appalti di favore.
Ogni utente ne può fare la prova, specie con l’Agcom (telefoni) e con l’Autorità per l’energia (gas e luce), settori di abusi di ogni genere.

Berlusconi non esiste - 28

La politica per le aziende, per salvare le aziende, per proteggere le aziende, per favorire le aziende, è tutto il succo. Non abbiamo avuto Berlusconi per un quarto di secolo che per beneficare le sue aziende – che peraltro sono molto meglio gestite della Rai. Non manca il Cavaliere Nero, con altri epiteti. E la polemica si ripete contro chi ha sostenuto quello che tutti vedono, che l’anticomunismo è stato negli anni 1980-1990 più attivo, reattivo, dell’antifascismo, se non altro per essere contemporaneo. Certo, non c’è paragone tra il fascismo, che in Italia c’è stato, e il comunismo, che non c’è stato, ma poi Gibelli non si risparmia la polemica contro De Felice che lo disse, da comunista a ex comunista…  
La storia si vuole della “discesa in campo” di Berlusconi. In videocassetta, fatta pervenire ai tg del 26 gennaio 1994 dalle 17.30 alle 24. Nove minuti e mezzo di proclama, a beneficio di una audience che alla fine della giornata sarà calcolata in 26 milioni – ma i più non l’avranno sentito due e tre vte? Una decisione, l’entrata in politica, presa in poco ore, pochi giorni, per salvare l’impresa d famiglia, l’unico fine delle azioni di Berlusconi. Non importa che l’uomo abbia “fatto” la politica così a lungo. Anche aprendo la strada a Grillo, a Renzi e a Salvini. I suoi programmi sono confusi, gli interessi sempre personali, familiari, patrimoniali. Contro lo Stato e le sue istituzioni. Per primi l’ordinamento e l’ordine giudiziario, le leggi e i giudici. Con la tv evasione o spazzatura, e l’onnipresenza in tv per castrare l’opinione, tutta di poveri imbecilli. Per una democrazia da audience tv.
Se non che Renzi viene da lontano, molto dc vecchia maniera – è la copia esatta di Fanfani. E Salvini di oggi è perfino moderato rispetto al Bossi di Berlusconi, del 1994. Quello che ce l’aveva duro, girava in canottiera, voleva Milano legata al marco, e l’Italia in tre tronconi, e animava milizie. Che Berlusconi ha addomesticato. Mentre non si valuta bene il marketing politico. Che è lecito, e che Berlusconi non ha inventato, semmai adottato. Spendendoci peraltro poco, l’uomo è sparagnino - nulla al confronto delle spese faraoniche di una campagna presidenziale Americana, lunga un anno e mezzo, o anche solo parlamentare, per solo sei mesi. Con i sondaggi, i campioni, e la tipologia delle candidature e dei messaggi. Con l’ausilio di consulenti specializzati, sociologi, politologi.
Gibelli, storico emerito all’università di Genova del movimento operaio e della Resistenza, si diletta in  divagazioni. “26 Gennaio 1994” ha scritto per una collana “10 giorni che hanno fatto l’Italia”, e non si cimenta, benché contemporaneista, oltre i cliché. L’azienda da salvare – da chi? Il partito di plastica televisivo. La demagogia (oggi populismo) nascente, tra il picconatore Cossiga, il referendario Segni,  il “barbaro” Bossi.
Resta da spiegare uno che in tv, specie nelle sue, non “buca lo schermo” - il “contratto con gli italiani” da Vespa e la sedia di Travaglio ripulita da Santoro si ricordano perché sono performances  eccezionali nel suo presenzialismo, altrimenti bolso e dannoso. Uno che ha vinto da solo tre elezioni. Quattro con quella che ha perso nel 1996, per avere fallito proprio nella sua specialità, le candidature uninominali, avendo raccolto un milione di voti più di Prodi. Che ha addomesticato, oltre al barbaro Bossi, il fascismo degli ex Msi. Che ha portato al voto i residuati democristiani,  socialisti e laici – one man’sband, o non pluralismo? E non ha favorito i grandi interessi – i “monopoli” – come invece la coalizione avversaria: i grandi immobiliaristi, la grande distribuzione, le privatizzazioni di favore, senza impegni d’investimento, e senza controlli a valle.
Avendo a suo tempo sollevato il conflitto d’interessi di Berlusconi, sul settimanale “Il mondo”, in  quattordici diversi settori economici, bisogna anche testimoniare che in nessuno di essi si sono segnalati abusi. I processi, certo. Ma voleva al governo ministro della Giustizia proprio il giudice che lo voleva “sfasciare”, Antonio Di Pietro. L’antigiustizialismo di Berlusconi è successivo, a seguito delle migliaia di perquisizioni, indagini, accuse, email, convegni, articoli. Condannato per evasione fiscal sui diritti tv comprati all’estero, ma tutti sanno che la sovrafatturazione era normale, la sua azienda ne fece poco uso, rispetto alla Rai e a Rcs Video – “Mediobanca Editore”, tuttora in edizione, lo documentava vent’anni fa. Ma, più di tutto, Berlusconi non si spiega senza il Pci, quello che ne restava era evidentemente sempre troppo – Gibelli si rassegni, De Felice era miglior storico.
Con una curiosità. Per molti anni erano impilati in evidenza in libreria cinquanta e anche cento libri contro Berlusconi. Oggi c’è solo Gibelli, e in poche copie. Si vede che Berlsuconi non “tira” più, non vende: i compagni si saranno stancati. Forse dicendo loro delle storie vere ritornerebbero alla lettura, anche di Berlusconi, e al voto.
Antonio Gibelli, 26 gennaio 1994, Laterza, pp. 272 € 18

domenica 16 settembre 2018

Ombre - 432


“Ecco perché hanno pure il telefonino”, Saviano spiega sull’“Espresso”: “Per i trafficanti è fondamentale far parlare i migranti con le famiglie. E li torturano in diretta per far arrivare i soldi”. Per money transfer? Nel deserto?
Ma gli immigrati non sono per ridere.

Il racconto di un impegno, contro Salvini e per gli infelici migranti raccolti dalle ong, di Sandro Veronesi oggi su “La Lettura”, “Con gli dei del mare c’è Beckett”, è alla lettura un’autocaricatura, anche feroce.  Sempre l’intellettuale che gira attorno al fatto. Uno dei cani del racconto di Veronesi.
I cani però non parlano – abbaiano, ma quello potrebbe essere un canto, irrelato. Conoscere il fatto no? Magari con un viaggio in Africa, ce n’è che costano poco. Fa caldo ma non sempre, e poi c’è l’aria condizionata.

“Inter battuto in casa dal Parma” – “la Repubblica”. Transgender nel calcio anche le squadre?

Si fa scandalo anche della fede in musica cantata e ballata al Metropolitan, il museo di New York, voluta dal cardinale Ravasi, uno pure molto “francescano”: troppe attrici e cantanti con le tette, la Cappella  Sistina (coro) è stata pagata poco, eccetera, i ragazzi della Cappella si sono lamentati. Papa Francesco non capisce che lo scandalo non è evangelico, è fatto solo per metterlo in ridicolo, lui e la sua chiesa.

Ragazzi che non si lamentano? Genitori che non protestano? Ma il papa ha mai diretto un coro, o ne ha fatto parte? Bisogna educare i papi alla vita di gruppo.

Vincono le primarie Usa del partito Democratico i candidati-candidate che “scoprono qualcosa che Trump sa da tempo”, è la conclusione, sconclusionata, del ferventissimo anti-Trump “New Yorker”: “Comunicare direttamente con la gente ha la precedenza su qualsiasi cosa riportino i giornali”. E mo’ lo scoprono? Ma senza effetto – l’unica ragione di vita del “New Yorker” da un paio d’anni è di combattere Trump.

Non passa settimana che il presidente della Confindustria non bacchetti il governo: il deficit, il reddito di cittadinanza, il “decreto dignità”, la stessa riduzione fiscale. Una Confindustria all’opposizione era da vedere. Sarà come sostiene il politologo Pombeni, “Il Mulino”, che l’opposizione è ora di élites: “alta burocrazia”, “qualche potere economico”, “qualche ‘tecnico’ prestato al governo”, “qualche centro decisionale internazionale. Non contano i media, che unanimi sono all’opposizione: come se si sbracciassero in piscina non sapendo nuotare.  

La superstrada Pontina a Roma, Roma-Latina, la più intasata, a tutte le ore, e malandata d’Italia, necessita di un uplifting ad autostrada. Ma non si può fare: ogni appalto viene contestato al Tar, che prende tempo e poi “cancellicchia” il bando. “Non si può fare un appalto pubblico” è la conclusione del presidente della Regione Lazio Zingaretti, meglio fare le opere in concessione. La “legalità” come strumento del malaffare era del Settecento, una delle cause della rivoluzione. I giudici non sono mai autocritici: è un difetto della funzione?

Zingaretti, candidato segretario del Pd, non si propone di cambiare le leggi sugli appalti, evidentemente impraticabili, ma di bypassarle. Non c’è più critico delle disfunzionalità della politica che i politici.

La Pontina, e la Reatina, la Salaria parallela, erano progetti quindici anni fa della Regione Lazio di Storace, allora dell’ex Msi-Fronte Nazionale, prima dell’infausto Marrazzo. Progetti solamente necessari ma avversatissimi dal Pci-Pds-Ds poi Pd. Il declino parte da lontano.

Si moltiplicano i convegni internazionali a Roma in cui il rettore della Sapienza Gaudio parla un perfetto inglese, a braccio – parla inglese come l’italiano, con la cadenza calabrese, ma chiaro, fluente e senza errori. Convegni diversi, interventi sempre mirati. Con assessori della Regione Lazio che parlano inglese, e in tema, anche senza cadenza. E viene in mente Renzi, che invece di parlare con Hollande e Merkel in italiano,com’è il diritto di un presidente del consiglio, si produceva in un inglese smozzicato e demenziale. Un presuntuoso? Il presuntuoso è stupido?

Senza vergogna la giustizia sportiva. Senza regole, di cordate e gruppi di potere. Che dice oggi una cosa e subito dopo il contrario. Punisce chi vuole e quando vuole, mentre assolve anche reati più gravi. È forse l’indice più vero dell’Italia, e della giustizia in Italia: non si nasconde.

Nel 2006, al tempo della condanna-farsa della Juvents, la giustizia sportiva si muoveva sul supporto dell’inchiesta farlocca dei giudici napoletani Narducci e Beatrice, nell’interesse degli altri grandi club – era comandata dal Milan di Berlusconi e Galliani, che per molto peggio della Juventus (i pranzi settimanali con l’arbitro Collina) ebbe pene miti, nel mentre che favoriva l’altro club milanese, l’Inter. Ora siamo al livello “signora mia”, come in politica. La “giustizia sportiva” come specchio dell’Italia? Le aderisce perfettamente.

Crollo di iscritti ai sindacati, specie alla Cgil. Ma non se ne fa uno storione, non si sentono pareri, non si propongono reazioni. Solo sui giornali del gruppo Riffeser, che sono di destra.
Non c’è censura, il sindacato non conta nulla – il Pd meno del sindacato. Ma l’autocensura è sempre forte a sinistra.

La direttiva Bolkestein, che liberalizzava i servizi, mirava in realtà a favorire la grande distribuzione, annientando i piccoli e i medi-piccoli. Dal commercio ora si vuole estendere alle concessioni. Che invece si prendono come bene inerte, sul quale fare investimenti. Qui non si riesce a capire dov’è la logica Bolkestein. Ma forse, dopo aver favorito la grande distribuzione, non voleva avere altra logica.

Si agita ancora Bolkestein in Italia come vessillo liberalizzatore, da caste, riserve, privilegi. Mentre altrove, passato l’effetto grande distribuzione livellatrice, è stata circoscritta con leggi settoriali nazionali. In Italia è diverso per servilismo? Per stupidità?

L’Italia si adegua alla Ue in fatto di armi detenibili a casa. Un arsenale. Meno i cannoni, si può detenere di tutto, in gran numero. Liberalizzare in Europa è fare vendere, i monopoli – quelli che si pagano a Bruxelles munifiche lobbies.

Un barbone fruga nei cassonetti. Una donna lo riprende e posta la foto. I carabinieri vedono la foto e denunciano il barbone: furto e violenza alle cose, essendosi “appropriato di oggetti esporti alla pubblica fede” . Non è una barzelletta sui Carabinieri. Non solo, “uno dei cassonetti della raccolta differenziata risulta rovinato”.  Ma non hanno altro da fare? I Carabinieri, a Rimini, non il barbone.

Succede nelle Autostrade quello che è successo nelle ferrovie britanniche dopo la privatizzazione di Margaret Thatcher: che i gestori privati sfruttarono al massimo le strutture ereditate, per profitti, accumulare, con tariffe di favore, senza ammodernare la rete, e gli incidenti si moltiplicarono. Grazie anche ai mancati controlli dell’Autorità di vigilanza. .