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sabato 17 marzo 2018

Il mondo com'è (336)

astolfo

Capitalismo - È vecchio di mille anni. E ben cattolico – allora cristiano – e italiano prima che ebraico e, dopo la Riforma,  protestante. Nella finanza: gente di denaro lombardi, fiorentini, genovesi monopolizzavano le fiere in Europa nel Due e Trecento. E nell’organizzazione della produzione - già Calimala nel Trecento importava panni grezzi per riesportarli impreziositi.
La storia non se ne scrive per un’accezione distorta del laicismo. Che è antisemita, a volte, e allora usa il capitalismo come un’imputazione. Oppure è filo protestante, nell’alveo della germanofilia – Max Weber, che avrebbe teorizzato l’esclusiva, in realtà non ci ha mai pensato: lui ha solo rintracciato le forme del capitale nelle forme del protestantesimo (e più nel pietismo, il luteranesimo più affine al cattolicesimo).
Giacomo Todeschini, “I mercanti e il tempio”, ci ha provato all’inizio del millennio: la maggior parte delle nozioni industriali e finanziarie che associamo al capitalismo hanno origine nella costruzione intellettuale cristiana. Di e attorno alla chiesa, tra il Mille e il Quattrocento: la proprietà, lo scambio, il consumo, anche suntuario (lusso),.il dono, l’accumulazione, il danno e l’indennizzo (l’assicurazione), l’investimento, l’industria, e l’interesse individuale in aggiunta al bene comune. Su questa base organizzando anche le proprietà ecclesiastiche, che potevano essere molto estese – come a Padula (BenediktBeuern, in Baviera, estendeva nel Duecento i suoi possedimenti fino in Lombardia). La ricostruzione è avallata ora da Thomas Piketty, “Le capital chrétien”, il titolo del saggio che premette alla traduzione francese, riveduta, de “I mercanti e il  tempio”. Dove sancisce “la modernità della concezione medievale e cristiana del capitale e dell’economia – o l’arcaismo della nostra supposta modernità, secondo il punto di vista che si adotta”. Sottolineando “l’importanza della proprietà e dello sviluppo economico e demografico  del Medio Evo”. Piketty cita  anche Peter Brown, studioso della trasformazione dei concetti di proprietà e benessere tra il IV e il V secolo, in concomitanza con l’affermazione del cristianesimo come religione di Stato, Jack Goody, “The European Family”, sull’evoluzione dell’economia domestica, e Mathieu Arnoux, “Le Temps des laboureurs. Travail, odre social et croissance en Europe (XI-XV siècle)” sulla stessa traccia di Todeschini, di cui ha voluto e organizzato la traduzione in francese.  

Capro espiatorio “Dal momento in cui divampa in un regno o in una repubblica questo fuoco violento e impetuoso, si vedono i magistrati frastornati, le popolazioni spaventate, il governo politico disarticolato. Tutto è ridotto in uno stato d’estrema confusione. Tutto è rovina. Quelli che ieri seppellivano oggi sono seppelliti”. È una citazione dal monaco portoghese Francisco da Santa Maria, 1687, che René Girard cita in apertura a “Il capro espiatorio”, 1982.

Fanculo – Il settimanale satirico “Cuore”, inserto di “resistenza umana” de “L’Unità”, diretto da Michele Serra, candida un comico al Quirinale. È il 1992.  Arricchendo la testata con una coccarda tricolore. Il comico è Beppe Grillo, non specialmente acclamato. Ma è stato escluso dalla Rai per aver detto i socialisti “ladri”, nel 1986. E gira l’Italia invitando il pubblico a gridare in coro “fanculo!”.

Grillo era cresciuto alla Rai. Dieci anni prima era regista di una trasmissione radio, “Voi  io punto e a capo”, protagonista Cesare Zavattini, in onda per venti puntate dalla casa di Zavattini, in cui lo scrittore il 25 ottobre s’immortalò per dire pubblicamente: “Cazzo!”. Giustificandosi poi col regista, che evidentemente non aveva concordato: “Caro Grillo scusami, scusami caro ma, un po’ per la tua natura preoccupazionale, un po’ perché mi rappresenti qui l’azienda… Ma tu dici sempre di no”.

Femminismo – Cinque ondate del movimento femminista classifica Naomi Wolf nella prefazione alla riedizione del suo “The Beauty Myth”.  L’Ottocento, prolungato nel Novecento, fino a Virginia Woolf. La “mistica femminile”, di e a partire da Betty Friedan, fino a Germaine Greer, anni 1960-1980. Una terza ondata a fine Novecento, comprensiva del – innestata dal? – suo “The Beauty Myth”: dell’azione affermativa, soprattutto al lavoro, per la carriera e la retribuzione. “Dopo gli anni 1990, il femminismo in Occidente è rimasto fresco, variato e vigoroso: c’è stata una quarta ondata, e direi che stiamo ammirando l’insorgenza di una quinta”. Di un femminismo “più pluralistico, più tollerante, più inclusivo degli uomini, più conscio dei temi Lgbtq, più sofisticato sulle intersezioni di razza, classe e genere, più rispondente ai problemi femministi dei paesi in via di sviluppo”. .

Porsche – All’origine era un carro armato, benché veloce.

Roma - Duraturo fu l’impero anche per essere fortemente allogeno, un vasto popolo di meteci attorno a un nucleo dominante. Per i molti una promessa e una speranza, malgrado la durezza. Da ammirare: se sono solitamente i migliori, i migranti sono anche i peggiori - si vede in America, che ha il destino che si è costruito, bene e male, al Nord e al Sud.
Romano non era latino, nome di una razza o tribù, ma un premio, il riconoscimento di un privilegio. L’imperium romanum non era militare né dittatoriale, neppure giuridico a guardarci bene, le leggi erano molteplici e anche contraddittorie, ma un comune sentire e un modo di vita. È riconoscersi nella causa dei soggetti, darne l’impressione. Un imperialismo che accomuna e non esclude i sudditi.
Roma fu repubblicana anche nell’impero: c’era a Roma una nobilitas plebea, pare a pieno titolo del gruppo dirigente: famiglie plebee sedevano in Senato e figuravano tra i cavalieri. Così oggi in America, dove c’è povertà e anzi indigenza, più che in paesi meno ricchi come l’Italia, ma non c’è l’invidia sociale. Il sogno americano del Number One è ridicolo, ma la storia speciale del paese riconosce a ognuno la dignità, il senso del diritto che è forte anche tra i criminali.

Tribù – Si dissolve il Kenya per la forza dirompente delle tribù contrapposte, inconciliabili. Della  tribù come punto di frattura sociale, che l’invenzione europea della tradizione ha imposto all’Africa, con l’obbligo di appartenere a una tribù. Il diritto consuetudinario che se ne è derivato è sclerotico, per chi ha voglia non c’è speranza. Kenyatta, il padre della patria, se ne felicitava ancora in vecchiaia, che Londra gli avesse spianato la strada col senso ereditario della proprietà dei kikuyu, la sua etnia, con il quale s’è impadronito del Kenya - i kikuyu sono capitalisti per imprinting, Karen Blixen l’attesta. Un primato che ora si contesta.
Ogni tribù va guarnita di caratteri nazionali, l’università anglo-tedesca di Gottinga ha ricostituito nel Sette-Ottocento  i caratteri originari, e all’Africa è toccata l’identità tribale. Per cui chi lavora, specie se giovane, deve pagare le decime ai capi tribù, in Sicilia direbbero ai capi cosca. I kikuyu del resto si presentano come una mafia: nodosi, le teste sghembe sotto inutili cappelli, l’occhio vago.

È e resta forte negli Stati Uniti: Che si sono costruiti come crogiuolo di popolazioni diverse, ma nella diversità. La migliore storia del Novecento riconosce l’impatto dell’America sui suoi immigrati, anche sui gruppi religiosi o nazionali più compatti, storici dell’immigrazione inclusi. Ma le differenze restano costituite: non nella legge, sì negli stili di vita.
Nell’Ottocento prevaleva la “germ theory”, anzi la continuità era scontata, per molti la rivoluzione americana fu un prolungamento dei dibattiti alla Camera dei Comuni. È vero che i futuri Stati Uniti d’America non furono mai colonie, erano pezzi delle madrepatrie, un’Europa trapiantata, inglese, olandese, francese, tedesca, russa perfino, seppure governata da Londra, alla lontana. Ora le tradizioni europee si riconoscono in America in quanto modificano le persistenze americane, alla pari delle tradizioni africane o asiatiche. C’erano del resto quattro Inghilterre in America, tutte protestanti e gelose della libertà, ma una cucinava al forno (East Anglia), una friggeva (Sud Inghilterra) e una bolliva (Nuova Inghilterra), mentre quella della Virginia (originaria del triangolo Bristol, Warwick, Kent, il Wessex di Hardy) era rurale e realista, molti anche di recente schiavitù, il cui uso fu prolungato nella madrepatria.

Vietato vietare – Berlusconi mobilita sotto questa insegna le star delle sue tv nel 1993 per protestare contro il divieto di telepromozioni durante i film. Era lo slogan del ’68 a Parigi: “Interdit d’interdire”.

astolfo@antiit.eu

Il pulpito inglese

Troppi nemici russi di Putin muoiono. Nemici anche della Russia, traditori o peculatori. E quindi dell’uomo che da vent’anni la impersona, e la controlla: non si può fare torto a Putin di considerarlo ignaro di quanto avviene a questi russi, per quanto traditori e ladri, lui è uno al comando. E tuttavia, troppi di questi incidenti avvengono in Inghilterra. Anzi, avvengono solo in Inghilterra, terra di elezione dei traditori e dei peculatori nei paesi di origine, in Asia, in Africa e anche in Russia.
Senza contare Boris Johnson. Uno vede il ministro degli Esteri di Londra, e si chiede, anche se per caso è sobrio: ma stiamo scherzando? O legge le cronache, e si conferma che Scotland Yard ha una fama usurpata. Già al tempo di Sherlock Holmes, e poi di Poirot. Che la centrale considerano stolida, o allora di obbedienza segreta, a poteri occulti.
Si ricordino i casi in cui italiani sono stati coinvolti: non c’è mai stata una risposta degli investigatori efficiente, rassicurante. Il banchiere Calvi. Qualche ladro di patrimoni – più di uno. Giulio Regeni. E ora la ragazza aggredita all’università di Nottingham, più volte, a morte, dalle coetanee inglesi, perché italiana, egiziana, bella e intelligente, senza che mai la polizia inglese si sia data cura di intervenire, neppure dopo morta. Roba da non credere, tanta inefficienza o albagia (l’ospedale non ha voluto curarla), se non fosse avvenuta – lo racconta Rinaldo Frignani:
Gli inglesi sono pieni di sé. Per questo hanno abbandonato la Ue. Pretendendo ora di farle fare la guerra a Putin, al coperto, solo perché Johnson lo dice. Non hanno mai fatto autocritica. L’Italia ama invece l’autocritica. Ma gli inglesi non sono un buon pulpito.

Come la guerra delle Falkland

“È la sua guerra delle Falkland”, è il commento dei laburisti inglesi a proposito della guerra delle spie scatenata da Theresa May. La guerra che Margaret Thatcher volle combattuta nella lontana Argentina nella primavera del 1982, in un momento in cui i conservatori sotto la sua guida avevano perduto il controllo politico del paese, per la disoccupazione e la recessione.
La guerra fu vinta facimente, malgrado l’ardua logistica, per l’incapacità dei generali argentini, e Thacher trionfante governò senza più rivali per altri otto anni.

Spiare dopo il Muro è tradire

La letteratura esornativa dello spionaggio e le spie è cresciuta durante la seconda guerra mondiale e nella guerra fredda: la spia come combattente per la libertà contro il male, a rischio della vita. Caduto il Muro, già da trent’anni, questa fama continua e perfino si rinforza. Alimentata soprattutto da Londra, da letterati e servizi segreti, da letterati che volentieri si vantano spie. Ma a torto: una spia, soprattutto se fa il doppio gioco, è un traditore. Della fede, degli amici, della patria, di sé. Con una scusa, certo, queste non mancano mai, ma è uno che non può pretendere diritti e giurisdizione di libertà.
È questo il caso della spia russa ora avvelenata in Inghilterra. Era un doppioghista per i servizi inglesi, pagato dall’Inghilterra, e poi, scoperto, pagato ancora dall’Inghilterra e protetto, bene o male. Mentre la sua famiglia poteva vivere, non perseguita, in Russia: la famiglia di un traditore dichiarato.
Spiare dopo la caduta del Muro è solo un affare. Oxford Analytica, che probabilmente è costata la vita a Giulio Regeni, e Cambridge Analytica, che ha manipolato la rete a favore di Trump nel 2016, ed è probabilmente all’origine di quello che per comodo definisce Russiagate, ne sono esempi milionari, nella stessa Gran Bretagna che finge l’innocenza. Nella consueta melma in cui si avvoltolano i servizi segreti. Non ci sono eroi in questo supplemento di spionaggio.

Un patto con la City

Merkel dà ragione a Londra perché ha un patto di ferro con la City, con le banche d’affari. Macron perché Merkel lo ha fatto. E questo è tutto, l’Europa funziona così: è la constatazione della Farnesina.
Il sostegno dell’Italia non è richiesto da Londra, è altra constatazione del ministero degli Esteri. Anche questa non una novità: era scontato che Londra assumesse questo atteggiamento verso l’Italia. Che però potrebbe nuocere a Londra, si dice, in più modi.
I modi non si dicono, ma si fa capire che sono legati alla fattispecie – la disinvoltura della polizia e dei servizi segreti britannici – e il negoziato per la Brexit. Lo scandalo dei russi avvelenati dovrebbe creare una solidarietà, di cui Londra si attende di beneficiare nel negoziato. Ma le due cose non avrebbero alcun legame. Quanto alla polizia britannica, la sua inefficienza è da tempo data per scontata.
Contatti sono però avviati con banche e fondi britannici. Per sondarne gli umori in rapporto alla prevedibile nuova crisi del debito pubblico, se il voto del 4 marzo non produrrà un governo stabile, e non anti-europeo. Due condizioni difficili da realizzare, e quindi un’offensiva al ribasso è temuta. Con effetti minori che nel 2011 – l’esposizione del debito sui creditori esteri è quasi dimezzata. Ma sempre sostenuti.
Una trattativa a distanza. Non facile. L’unica carta a disposizione della nostra politica estera è la condizione di bisogno in cui versano i conservatori, e i banchieri dietro di loro, di fronte allo spettro Corbyn, il laburista radicale: Theresa May ha assoluto bisogno di un successo nella questione delle spie. In aggiunta all’atteggiamento della Ue in materia di Brexit, cui l’Italia concorre con peso non trascurabile.

Una settimana di romanzi liberi

Tre graphic novel di novant’anni fa, tre “romanzi per immagini”. Racconti di sogni, molto surreali. Che però tengono il filo. Il primo, “La donna 100 teste”, per 160 tavole. In nove capitoli. 
Questo primo romanzo anche Ernst conclude, prima di Éluard e André Breton, con “L’immacolata concezione”, compito in classe dei surrealisti. Con molti “giochi diurni, crepuscolari e notturni”, di calze, cosce, seni e coltelli. Un surrealista infaticabile. Di visioni e didascalie oniriche.
Il secondo, “Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo”, è preceduto da una introduzione. Che invece è povera. Ma la storia e la grafica sono pregnanti. È la sua storia, di Max Ernst, alla Macron, rovesciata: l’artista a 36 anni s’invaghisce di una ragazzina quindicenne cresciuta in collegio da famiglia abbiente, che lo corrisponde, benché molto religiosa, e insieme vivono denunce parentali e cacce di polizia. “Tra inseguimenti alla Nestor Burma e fughe alla Charlot”, scrive Giuseppe Montesano che cura questa riedizione, “e con il provvisorio lieto fine dei due fuggitivi, che furono perdonati e andarono a vivere insieme”. Finché lei non tornò all’ossessione della religione della purezza, e dopo “una delirante confessione” con Artaud, incontrato a Londra,  lasciò Max e si cercò un confessore.
Il terzo, “Una settimana di bontà o i sette elementi capitali” è un vero romanzone, alla Victor Hugo, o alla Eugéne Sue, con molte cattiverie (impiccagioni, avvelenamenti, strangolamenti, naufragi, il genere catastrofico) e vittime giovani. Seppure con molte facce a becco, alla Savinio – o Savinio le faceva alla Max Ernst (erano coetanei)?
Molto collage, alla Max Ernst, e molto disegno alla Grandville. Anche alla Vallotton. Per la parte grafica. Per la narrativa storie surreali, ma già alla Marc Saporta: le graphic novel come il romanzo a pagine indipendenti, da mischiare liberamente, ognuno potendosi comporre una storia sua propria. Le sollecitazioni non mancano: un invito al racconto, al romanzo.
Max Ernst, Una settimana di bontà, Adelphi, pp. 497, ill. € 38

venerdì 16 marzo 2018

La Costituzione dei privilegi

La Corte Costituzionale, all’unanimità, ha deciso che il giudice Zanon non ha commesso nulla di male e respinge le sue dimissioni - “pur comprendendo e apprezzando la sensibilità istituzionale dimostrata” presentandole. È l’ennesimo caso di autoreferenzialità dei giudici: giudice non morde giudice. Ma in questo caso è anche di più: la Corte si autoassolve per un principio di autodichia, per cui solo essa può giudicare se stessa – diche è la giustizia in greco. Un caso unico, nessuno si può autoassolvere, e contrario al fondamento della giustizia, che è un fatto sociale, e chiarisce il privilegio sovrano della Corte Costituzionale.
È uno degli scompensi della Costituzione italiana, e non è l’unico. È uno dei motivi per cui una Costituzione poco praticabile, e in qualche caso contraddittoria, è intoccabile. È la Costituzione dei privilegi.

I privilegi costituzionali

L'abuso di auto blu da parte della moglie del giudice costituzionale Zanon porta alla ribalta i non piccoli privilegi di questa carica, mai denunciati dai denunciatori della casta, autori e\o editori.
La moglie di Zanon non è un caso isolato: l’abuso è pratica corrente. Lei è stata denunciata – dagli stessi autisti, grillini o salviniani? – per essere in politica a Milano, impegnata a favore di Renzi. Gli altri giudici, anche senza famiglia, utilizzano l’auto e l’autista di servizio come bene proprio.
L’auto blu con autista in “uso esclusivo” è anche il minore dei privilegi dei giudici. Il loro assegno, 360 mila euro lordi l’anno, è superiore a quello del presidente della Repubblica. Il loro presidente arriva a 432 mila, con l’indennità di funzione. Tutti i giudici fanno il presidente, anche per breve periodo, prima dell quiescenza, per incorporare l’indennità di funzione nella pensione Hanno inoltre un appartamento in comodato (foresteria) attorno a piazza del Quirinale. Benzina a gogò grazie a una tessera elettronica anonima, senza obbligo di giustificare i percorsi. I viaggi in treno o aereo. Il cellulare a scelta, senza tetti di spesa. Un pc a scelta.
Sabino Cassese tre anni fa, andato in pensione non da presidente, dopo nove anni di appartenenza alla Corte, ne ha fatto un voluminoso ritratto critico: la Consulta non funziona, funziona male, al di sotto delle attese. Specie per la pratica dello scaricabarile: sottrarsi il più possibile alla giurisdizione. Con un’aneddotica stupefacente.

L’Italia all’epoca dell’io sono mio

Più attuale – profetico – del recente “Processo al nuovo”, è questo libro di Damilano del 2015.
La Meglio Gioventù post-68 coniugata alla Peggio Gioventù degli “eredi di  Salò” e dei benpensanti dei Parioli. Giovani vecchi, quaranta-cinquantenni, da Di Pietro a Bossi, con molte occupazioni e nessun mestiere. Come oggi, l’epoca dell’io sono mio, che tutti sono presidenti del consiglio – gli stessi che una volta erano allenatori della nazionale.
Con un corollario che Damilano si limita a menzionare ma è fondamentale: chi sono questi, dove erano prima, cosa vogliono? Una domanda che è anche una risposta, e non lascia presumere nulla di buono. Vogliono il potere, con che diritto? Del numero? Del numero: è lo stato dell’Italia.
Questa verità Damilano approssima, al centro della trattazione, con Giovanni Raboni. Con un articolo di Raboni in prima pagina sul “Corriere della sera” il 15 maggio 1992. “Ma noi dov’eravamo?”, si chiede nel titolo il poeta. E si risponde: “Non riesco a partecipare al giubilo generale”, per Di Pietro, “a vietarmi l’entusiamso è un pensiero, sordo e ostinato e odioso come certi dolori, che con qalche semplificazione si potrebbe tradurre in questa domanda: e noi, nel frattempo, dov’eravamo?”.
Sullo sfondo della marcescenza del partito Comunista, che ha coinvolto tutti nel suo settarismo mortale, dal sindacato al giornalismo (opinione pubblica).  
Marco Damilano, Le repubblica del selfie. Dalla Meglio Gioventù a Matteo Renzi, Rizzoli, pp. 285, ril., € 18,50

giovedì 15 marzo 2018

Problemi di base spionici - 404

spock

Come credere a Boris Johnson – sobrio?


Boris?

È la guerra sul serio – sul serio?

Dobbiamo fare la guerra per i conservatori inglesi?

Non hanno fatto abbastanza scemenze?

Ma non se n’erano andati dall’Europa?

Ma Putin paga anche Theresa May?

O non paga nessuno, lavorano tutti per lui gratis?

E noi, ora, chi schieriamo, Di Maio e Salvini?

spock@antiit.eu

Garibaldi e il Sud traditi dall’unità

Il Risorgimento di corsa, come piace ai ragazzi, in una serie di momenti topici, da Pisacane e la guerra di Crimea all’Aspromonte e a Custoza. Probabili corsi scolastici prima di “salire a Milano” – non si dice a quando i testi risalgono, e per che occasione: Bianciardi fu per una decina d’anni insegnante nel grossetano e organizzatore di cultura popolare.
Bianciardi fu soprattutto un “risorgimentologo”: pensò e scrisse soprattutto del Risorgimento, almeno sei libri, compreso questo. Fu specialmente garibaldino – anche nelle storie che scrisse del Risorgimento, questa compresa.
Il “Risorgimento allegro” fa cominciare con lo sciopero del fumo a Milano. La spedizione dei Mille delinea alla notizia che Palermo si è sollevata – altre spedizioni erano in precedenza fallite, una miseria. Una prima organizzazione dei Mille in corpo di spedizione si ebbe solo a Talamone, alla conferma dei moti siciliani. E conclude con una postfazione amara, “La verità è un’altra”: “La verità è che fra questi uomini spesso non vi fu concordia, ma avversione e odio”. Fra gli uomini che fecero l’Italia. Peggiorandone le fratture: “Fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti”.
Di fatto si ride poco anche prima della conclusione, o amaro. In mezza pagina, a metà percorso, c’è già una sintesi spaventosa del Risorgimento. L’unità fu un miracolo, salutato come tale in tutta Europa e nel mondo, “ma fu un miracolo molto equivoco, che ci è costato cento anni di storia assai dolorosa, che potremmo riassumere in questi pochi eventi: guerra dei briganti, sommosse del ’66, convinzione radicata nel popolo che lo Stato sia oppressore, un’astratta entità ostile che si fa viva solo per esigere le tasse e mandarci a far la guerra, analfabetismo, mezzo milione di emigrati che ogni anno lasciano la «porca Italia», sottile e perfido razzismo interno, per cui i «terroni» sarebbero cittadini di seconda categoria, la mafia mai sconfitta, una dittatura ventennale e una guerra disastrosamente combattuta e persa” – una sola?
Dopo Teano, la liquidazione dei garibaldini fu rapidissima e radicale. Non poterono partecipare alle sfilate celebrative. Di settemila solo duemila furono raffermati, i loro ufficiali con gradi inferiori – mentre si offrivano trattamenti equipollenti ai borbonici. E poi: Garibaldi in prigione, dopo Aspromonte, contro lo sdegno di tutta Europa (a Londra si fece una colletta milionaria), operato della pallottola conficcata nella caviglia solo 87 giorni dopo la scaramuccia in Calabria, quindi rinchiuso a Caprera, guardato da una flotta militare di nove navi da guerra.   
Luciano Bianciardi, Il Risorgimento allegro, Stampa Alternativa, remainders, pp. 101 € 6

mercoledì 14 marzo 2018

Stupidario classifiche

“Italia ultima in Europa per le cremazioni – battuta solo dalla Grecia, dove però il rito era vietato fino al 2016” – “Il Messaggero”.

Gli italiani non s’intendono di soldi: hanno un’alfabetizzazione finanziaria tra le più basse dell’Europa e dell’Ocse – Standard and Poor’s. Più bassa, p.es, della Turchia, del Merssico?

Volare in Russia è quattro volte più pericoloso che altrove nel mondo - “The Atlantic”.

“Laureati e residenti al Nord, si vive fino a tre anni di più” - “Corriere della sera”.

I laureati o con titolo superiore vivono cinque anni di più di chi ha la licenza media - id..

Céline dal pulpito

“Céline parla come un libro di Céline”: il primo degli intervistatori di questa raccolta, Robert Massin, ne è sommerso. È il 1947, Céline è in Danimarca, in libertà provvisoria, in attesa di estardizone, ma non si risparmia: “A Copenaghen, amico mio, il giorno dela mia uscita dal carcere, m’imbatto in un ebreo scampato a Mauthausen. Comiciamo a parlare. Era uno spasso…. Pareva che tutt’e due assaggiassimo quella libertà miracolosa”. E giù lamenti sulle sofferenze patite a Sigmaringen, “dove mi ero rifugiato dopo essere stato internato, nell’agosto ’44, in una frazione a nord di Berlino”. Mentre era al seguito del governo francese collaborazionista in rotta : “Non ero mai stato così maltrattato in vita mia, crepavo di freddo, di stanchezza, minacciato, spiato, odiato dagli abitanti, provocato da due o tre polizie rivali…”. Ma c’è di che divertirsi – “la lingua è stata insegnata ai francesi dai gesuiti. La frase cade dal pulpito”.
Riedizione, l’ennesima, della fortunata silloge di trent’anni fa.
Louis-Ferdinand Céline, Polemiche 1947-1961, Guanda, pp. 128 € 13

martedì 13 marzo 2018

Ombre - 407

“Siamo un paese strano”, Emanuela Audisio riflette du “la Repubblica”: “Nel 2011 il premier Mario Monti, con il sindaco Alemanno favorevole, disse no a Roma 2010, la sindaca Raggi nel 2016, con il premier Matteo Renzi favorevole, cancellò Roma 2024. Ora Grillo e Appendino, senza nemmeno un governo fatto, sentono l’urgenza di aprire le braccia ai giochi. Sono incoerenti, realisti o solo dispettosi?” E se fossero corrotti?
Appendino certo no – chi è Appendino?

Dove ci sono affari c’è Grillo. Che si dice fuori dai 5 Stelle ma poi decide. Per l’immobiliare allo stadio della Roma. E ora a Torino, per l’Olimpiade invernale – che la città ha ospitato solo dodici anni fa. Per l’Olimpiade Roma 2024 invece Grillo non c’era, il Coni sprovveduto trattava col comune di Roma.

Due parlamentari su tre sono nuovi, al Parlamento e alla politica. È un bene? Sicuramente no: è un’estensione del “nuovismo” – il buono è nel nuovo. Ma anche un segno di strafottenza: arrangiatevi. Come se la politica fosse cosa d’altri.

“Sono schizofrenici e opachi”, dice l’architetto Berdini, ex assessore di Raggi a Roma, dei suoi ex compagni di partito. Non dice però l’essenziale: che lo stadio della Roma – un grande progetto immobiliare, l’unico che ha resistito per la capitale - lo fa Grillo in noto studio di avvocato d’affari. È pericoloso dirlo?

Quanto ha inciso sul voto la love story di Salvini? In puro stile Grande Fratello, con abbandoni, tradimenti, ricongiunzioni, promesse di eterno amore, e foto sempre per ogni momento, sempre “rubate”, di che riempire siti e novelle. È un’analisi del voto che non si fa, non si può fare, ma la più veridica sullo stato dell’opinione pubblica in Italia – del voto elettorale.

Google è sessista e razzista. Lo ha scoperto la professoressa della California del Sud Safiya Umoja Noble, e lo denuncia in un trattato, “Algorithms of Oppr ssion”: l’agoritmo del motore di ricerca riflette i pregiudizi dei progettisti, che sono uomini e bianchi. La scoperta dell’acqua calda è sempre rivoluzionaria.

Di fatto, da molti anni ormai, i progettisti di google non sono uomini e bianchi ma donne, anche bianche, e latine, asiatiche, afroamericane. Non vuol dire, possono avere assimilato i pregiudizi dei maschi bianchi? Nobel è professoressa in una delle infauste scuole di Comunicazione.

È diffusa, anche tra i patronati non Cgil, e quindi non è fake, la storia delle centinaia di richieste, già martedì, dei “moduli” per il reddito di cittadinanza, in Puglia e in Sicilia in gran numero, ma anche a Torino. L’analfabetismo politico, a cento anni dal suffragio universale e a settanta dal libero voto, è alto. L democrazia non educa - il voto non educa alla democrazia?

Record di voto per i 5 Stelle, pare, a Comitini, paese di mille abitanti del’agrigentino, famoso testimonial nel 2011, per il “New York Times”, dei buchi della spesa pubblica in Italia: 64 impiegati comunali, forse 67, uno ogni 14 abitanti, con nulla da fare.
I comitinesi il reddito garantito non ce l’avevano già? Ma non basta mai. Da qui il voto di protesta, in massa.

L’anno dopo Comitini era alle cronache per aver mandato in crociera  comunale 35 compaesani anziani, al costo di mille euro l’uno. Senza spreco, assicurava il sindaco Nico Contino, “pagano la Regione e lo Stato”.

La Lega a lungo ha prosperato, si sa, con “Roma ladrona”. Dove ora è il primo partito della destra. Tutti onesti ora a Roma, o tutti ladroni?

Abbiamo votato il 4 marzo o è stata un’edizione straordinaria del Grande Fratello?

Maria madre di misericordia

“Viaggio a Maria” è di Dante: “Nel suo cominciare e nel suo finire la «Divina Commedia» non è un «viaggio a Beatrice», ma nel poema, nella vita dell’autore e di everyman, un «viaggio a Maria»”. Una rilettura pianamente dotta, come è nelle corde dell’eminente filologo torinese trapiantato al Collège de France, della mariologia di Dante, nel “Paradiso” e prima: “Sin dall’inizio dell’«Inferno», Beatrice spiega come il «motore» dell’aiuto salvifico che viene offerto a Dante, per il tramite delle sue successive guide, sia Maria, il cui nome santo non può essere pronunciato nel luogo della dannazione eterna”, II, 94-96.
Proposto come “piccolo itinerario”, nel “lungo percorso che la Vergine ha compiuto nelle lettere e nella pieta dell’Occidente”, un atto di fede e di pietà “nell’anno giubilare della Misericordia”, il “viaggio” è nel suo fulcro parte della coeva “Introduction à la Divine Comédie”, 2016, che Ossola ha pubblicato a Parigi. Una revisione delle letture ultimamente accreditate della biografia e teologia di Dante, per ritornare al “più nitido contorno…che fu con tanta e lucida sobrietà meditato da Giorgio Petrocchi”. Partendo dalla lettera a Cangrande, dove Dante pretende che la sua preghiera è “vera” – “veritas de re… est similitude perfecta rei sicut est”: “Dante rovescia – con assoluta novità – il paradigma semantico dell’innologia”. Che arriva a considerare la maternità, ma non “la vertiginosa simmetria filiale (e non parentale) tra il divino e l’umano”. Un’altra lettura da quella di Auerbach, “che ci ha lasciato la più bella lettura della «preghiera alla Vergine» (“Studi su Dante”)”. Più propria di Dante.
Col dissotterramento di una vasta bibliografia mariana, specie del Sei-Settecento. Una rivisitazione delle origini del culto, dall’evangelista Luca a Gioacchino da Fiore – Maria parla poco e pensa-pesa molto. Con riguardo anche all’innologia, alla musica, e all’iconologia – materia, questa, del saggio di Massimo Cacciari un anno dopo, “Generare Dio”. E un’intrusione nel Manzoni romanziere, “alla «conversione» di poetica” che lo ha condotto da “Fermo e Lucia”, narrazione quasi realista, ai “Promessi sposi”: “Il grado nuovo di una più temperate fede e di un’umanità dolente da accogliere”, tra le braccia della Provvidenza, “è testimoniato proprio dal risuonare più dolce, nella voce dei giusti e nella confuse memoria degli smarriti, del nome di Maria”. Per gli ultimi due secoli, l’erudizione è rivisitata sui temi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione.,
Un excursus elegante, anche commosso, dedicato alla madre Maria, in memoriae comversatione, in lumine gratiae, nel dialogo del ricordo, alla luce della grazia. Nel solco della Madonna “Odigitria”, del buon cammino – “di cui le terre di Puglia, Sicilia, Sardegna conservano alta memoria”. Il tracciamento di un simbolo universale: “Nessun altro simbolo ha legato nei secoli l’anelito umano di elevarsi «in più spirabil aere» e il quotidiano bisogno di ricovero, rifugio, perdono, protezione”.

Carlo Maria Ossola, Viaggio a Maria, Salerno, pp. 89, ill. € 7,90


lunedì 12 marzo 2018

Secondi pensieri - 338

zeulig

Decostruzione – È più della detection? Derrida come Sherlock Holmes? Come Marlowe, più simpatico.

Filosofia - La filosofia, dice san Paolo, è follia agli occhi di Dio. E Dio non è folle?

Perché c’è sempre qualcosa, se c’è solo il niente? E come si fa a annegare nel niente, pensandolo? Questa si è già sentita. Nietzsche avrebbe voluto scrivere, nelle sue “transvalutazioni”, una “critica della filosofia come movimento nichilistico”. Non l’ha fatta, ma è presto detta.
Nessuno, Omero lo spiega, è un trucco, poiché è qui a raccontarla. Poi viene il tempo. Non si nasce in realtà, e non si muore, si è dentro il tempo. Anche prosaicamente, si è sempre affaccendati, anche nell’ozio. Ma questo annulla il tempo: lo dilata, lo accorcia. Il tempo è comprimibile, sia facendo che non facendo, e in durata – memoria, fantasia, ricostruzione – è estensibile senza limiti.
Ma il tempo è senza capo né coda, la stessa storia ha problemi a definirsi di un tempo preciso, e quindi non è. È questo il senso della vita. O della morte. L’eternullità che ha inventato Laforgue. O Falkenfeld, il kantiano: “Non posso credere che gli avvenimenti del mondo influiscano minimamente sulle nostre parti trascendentali” - che per questo non si può dire morto, dimenticato.
Si può continuare a volontà e finirla con Wittgenstein, l’idiota della famiglia, col noto superbo precetto: “Ciò di cui non si può parlare va taciuto”. Che già Alice spiega a Humpty-Dumpty.

O non sarà la filosofia la parola del silenzio? A Wittgenstein piaceva fischiettare la musica, usare le mani, educare i bambini, andare in barca, leggere i gialli comici di Norbert Davis e, probabilmente, “Alice nel paese delle meraviglie” – bisognerà cercarne le radici nella Symbolic Logic di Carroll, che il filosofo di Cambridge non menziona perché il reverendo era di Oxford. Ma il suo invito a tacere era già di Carlyle, teorico dell’eccezionale: la verità è cosa “di cui la logica dovrebbe sapere che non si può parlare”.
Wittgenstein non sapeva che si parla pure tacendo, Heidegger l’aveva appena accertato: “Il linguaggio parla quando si tace”.
Dio ogni tanto, anche nella Bibbia, si eclissa.

La filosofia è poesia per Hannah Arendt. Forse nel letto dei filosofi. In francese, la pensée, è la viola primaverile. L’italiano la dice “viola del pensiero” – o “tricolor”.
La viola mammola è nel Petit Robert pensée sauvage.
Mammola, mammoletta, è ragazza ingenua, disarmata – ma forse per finta.

Pretende di eliminare il badinage dell’immaginazione nel mondo dei possibili, niente giochi. Mentre la scienza se ne fa metodo, i filosofi se ne vergognano: la razionalità è il filo dell’ordine, del potere, mentre l’ordine reale, quello fisico, è il disordine.
Succede con la reductio ad unum, mania irrefrenabile. Con l’ontologia, che nessuno sa cosa sia, dalla Filosofia al Pensiero dell’Essere. Nemmeno Heidegger, il quale conclude: “Il pericolo per il pensiero è il pensiero medesimo” - crepuscolare fino alla fine: “Il dolore elargisce il suo balsamo là, dove\ Noi non lo aspettiamo”, nell’aldilà?

O sarà la filosofia la sentinella di Pompei che Spengler celebra, cadavere all’erta.
Oppure è mimo che, non trovando i capi della matassa della vita, gesticola senza soggetto, o oggetto.
Per Lévinas non è che una meditazione di Shakespeare. È una bella fine. Si potrebbe rifondarla sotto l’aspetto marivodiano dell’Indigent Philosophe, una gaia scienza alla Figaro: il vero falso non è il falso vero.

Filosofia tedesca - Il filosofo Falkenfeld, arruolato nel 1914 e mandato al fronte, dalla trincea scrisse all’amico Marcuse: “La terza antinomia di Kant è più importante di questa guerra”. Ma il dio tedesco, fra tutti gli dei imperiali, non ha lasciato tracce personali, un’estetica, un modo di vita, una pedagogia, uno sport, una cucina, una giustizia, una politica, se non la terribilità – sì le macchine, ma se ne fanno buone ovunque: finita quella guerra non c’era macchina migliore della Fiat. Il problema è nella filosofia.

Libertà - “La libertà non esiste finché non sia dichiarata dì’autorità”, afferma il signor Innocenzo, “uomo vivo” di Chesterston. E protetta, va aggiunto - con la violenza.

Opinione Pubblica – Un Weltjournalismus conia Heidegger nel “Quaderni Neri” 1942-1948, la parte ancora non tradotta. Per analogia col Weltjudentum, l’ebraismo mondiale, il complotto dei “Savi di Sion”, altgro suo rovello, ma non  senza verità nello specifico. C’è di fatto un giornalismo da tempo “mondiale”, anche da prima della rete, anche da prima dell’universo “in diretta” macluhaniano – della crisi dei missili a Cuba, della guerra al Vietnam. Una opinione unica e prevalente., Non critica. Ripetitiva – il “tormentone”.
L’opinione pubblica può essere molto “pubblicitaria”, cioè passiva. Riflettente. Messaggi trasmessi  (trasmissione di messaggi).

La Öffentlichkeit si pensa sempre più con Heidegger in Germania - dove più è stata pensata e  sistematizzata - e si traduce come “Pubblicità”, non più come sfera o opinione pubblica. Il timone è passato dalla ricezione critica alla trasmissione - ruminazione, amalgamazione. È lo strumento e lo strumentario di chi elabora e impone i messaggi.

Tribù - La percezione della tribù, dal vetero nazionalismo al vincolo fittizio del sangue e ora all’ideologia, una sovrastruttura senza necessità, se ce ne sono, e tuttavia urgente al pari della famiglia, appare nella forma della rigenerazione, di orrido battesimo di sangue. Una purezza acquisita nella distruzione. Non nell’annientamento, che è evento quasi naturale, a suo modo divino, ma nella distruzione pratica, gesto dopo gesto, vicino dopo vicino, giorno dopo giorno. La follia.
È questa purezza che ha contagiato Franz Fanon, psichiatra, negli anni delle indipendenze, dell’ultimo fuoco del nazionalismo – il nazionalismo è una forma di tribalismo? E gli psicagoghi di Parigi, per i quali nessuna rivoluzione era – è mai stata - quella giusta? La tribù come fatto rivoluzionario.

zeulig@antiit.eu

Erdogan va bene, il nemico è Putin

Si divide l’Occidente sul suo fianco destro. Mentre onora e finanzia Erdogan, che chiude i giornali, incarcera i giornalisti, manda all’ergastolo gli scrittori, e bombarda i curdi in ogni dove, Turchia, Siria, Iraq (gli manca l’Iran), si riarma contro la Russia, nell’Est Europa e nel Medio Oriente. Abbandonando i diritti civili, ogni diritto, che è il fondamento della libertà, in Turchia. E chiamando a una guerra fredda di nuovo conio contro la Russia.
È l’eredità di Obama, che Trump non sembra contestare. È un Occidente infatti americano: si dice Occidente, ma è un Occidente al carro della stampa e la politica Usa. La quale è al carro, per la prima volta nella sua storia, e forse nella storia mondiale, dei suoi innumeri servizi segreti. Tanto incapaci nel loro specifico (i vent’anni di terrorismo islamico) quanto intromettenti in politica, direttamente e indirettamente, attraverso i media. Al carro anche degli Usa che sappiamo bene esistere, ma da qualche tempo più non vediamo: il complesso bancario-finanziario, il complesso militare-industiale.
Se si vuole riarmare, a spese degli Usa, va anche bene – non possiamo opporci. Ma a che fine? E a che fine schierare l’Europa, contro questo e contro quello? Perché l’Europa si lascia schierare?

Il governo a 5 Stelle del niente

Si dice che l’elettorato ha punito i 5 Stelle a Torino e a Roma per la cattiva amministrazione. Sarà pure vero, qualche voto rispetto a due anni fa l’hanno perduto, a Roma. “Il M5S in città è crollato”, celebra “la Repubblica-Roma”, “perdendo in 20 mesi ben 13 punti rispetto alle comunali che incoronarono Virginia Raggi sindaca” - circa 160 mila voti, da 412.285 a 253.319. Sarà vero, ma è sempre tanto: in città i 5 Stelle, che controllano tutto, non ci sono. Si celebrano ma non hanno fatto e non fanno niente. Nelle circoscrizioni (verde, assistenza sociale) non ci sono: litigano, per  gettoni di presenza, e basta. Al Campidoglio (trasporti, nettezza urbana, viabilità) non hanno preso una sola iniziativa. In venti mesi, è tanto.
A 15 giorni dalla neve e la pioggia di fine febbraio, i parchi e gli spazi verdi a Roma restano recintati e chiusi. La neve è stata poca, e anche la pioggia, con poco vento, i danni minimi. Ma Roma non riesce ancora a “mettere in sicurezza” i propri alberi. Cioè a rimuovere i (pochi) rami caduti. Se non attraverso appalti. Nel silenzio dei fruitori naturali, i ceti medio-bassi, per bambini e anziani. Che forse non sanno nemmeno di avere spazi pubblici – e di questo la colpa effettivamente non è dei 5 Stelle.
Le strade non sono riasfaltate da decenni: se sono piene di buchi e voragin non si può farne colpa alal sindaca in carica. Ma la rappezzatura degli ultimi mesi è saltata con la (poca) neve e le (poche) piogge di fine febbraio. Senza che nessuno chiami in causa le imprese appaltatrici, e i servizi comunali di controllo e collaudo.  
Cornuti e contenti
Di fronte a questo niente, ci si aspetterebbe un niente al voto, e invece no. Meno, ma i romani continuano a votare un movimento di inesperti e incapaci, anche menefreghisti. La morale non è che i romani hanno dato una lezione il 4 marzo ai 5 S telle. La morale è questa: la città con questa sindacatura cilatrona ci va a nozze. Le ha tolto l’Olimpiade, un’occasione immensa di lavoro e di reddito (mentre la rivuole per Torino, che l’Olimpiade l’ha fatta dodici anni fa… - la rivuole Grillo, che è il vero Raggi), ma ai romani evidentemente pensare al futuro non piace. Né hanno problemi di lavoro e reddito: :nelle aziende e negli uffici capitolini sono più che contenti così, di non fare nulla tutto il giorno, e anzi di “non andare”.
C’è di che riflettere sui sistemi politici. Un De Maistre si troverebbe confermato e anzi provato nel suo disprezzo del suffragio universale L’interesse politico non è l’interesse pubblico, se l’Italia vota in massa un comico, un giullare, uno che la manda a fare in culo.

Porta per tutti

L’accostamento sembra strano: le velette di Patrizia Valduga non si vedono collimare con gli umori salaci di Porta, la sua partitura golosa dei sensi. E invece il miracolo avviene: l’orgia verbale sopraffà il perbenismo – il lutto? L’inventiva verbale di Porta è inimitabile, ma il resto c’è tutto (e molto anche di quella): ritmo, suoni, cadenze, e le indispensabili rime-assonanze.
Le rime, le sonorità sono poesia da sole, e di esse Valduga è come naturalmente prodiga. Ma qui fa un lavoro di rara operosità, e di perizia: di grazia. Un miracolo di “traduzione” – da giustificare, per una volta, l’arte. Stessi ritmi, stesse sonorità, stessa inventiva lessicale, stesse parole, quasi, nel tono, nel senso. Un poeta ora per tutti, malgrado i temi scabrosi, sesso, religione, nobiltà, ipocrisia, e forse per gli stessi milanesi. “Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter più comprendere e gustare Carlo Porta” è una delle “Note azzurre” del milanese Carlo Dossi. E Patrizia Valduga, milanese d’elezione, lo accontenta. Con una scelta dei “componimenti più belli”, dice l’editore, con una cura che li rende bellissimi. In questi tempi di #metoo, o di frigidità gratificante: donna bella e altera, sfida in allegria  l’interdetto virginale.
Porta è narratore di storie, minime. Di taglio, nei veloci sonetti. Distesamente, in componimenti lunghi: storie, nella scelta di Patrizia Valduga, di puttanesimo (“La Ninetta del Verzee”), corna (“Lament del Marchionn”, sotto altra mano interminabile), beffa (“Fra Diodat”, fra i tanti), stupidità (“Desgrazzi de Giovannin Bongee”), satira (del classicismo, “Sonettin col covon”), dileggio (della falsa pietà, “Offerta a Dio”). Cose non memorabili, ma i suoi personaggi sì.
“Vittima” del quasi contemporaneo, ma ben più longevo, Belli, della fama del poeta romanesco, Porta è altro. Non è il popolano scettico, ventriloquo, sfacciato, cinico. È una polifonia. Sa far parlare le donne. Gli stupidi contenti. E il corpo, con parole-opera non lontane dal Baffo. La corporalità è il suo forte, un basso continuo, livellatore al giusto, che dà sostanza narrativa ai semplici e i balordi. Ai vinti, si sarebbe detto in altro ambito. Che invece Porta risolve d’impeto – e Valduga con lui: è il cornuto che racconta le sue pene d’amore, la puttana i tradimenti, il vagheggino la sua stolidità. Un teatro di impuniti, ognuno contento della sua sorte. Un “Decamerone” in rima. Da scongelatore anche del linguaggio poetico, dopo l’ibernazione del Sei-Settecento. Curiosamente anticipando due secoli fa, da “amico di Manzoni, Stendhal e Foscolo, di Totti, Grossi e altri esponenti del romanticismo milanese”, quale lo presenta l’editore, la koiné odierna, giovanilistica e grandefratellesca, facebookiana, instagrammiana, verbale e iconica. Nel filone burlesco-“bernesco”, che è poi all’origine in Toscana, con Cecco, Meo, Rustico e altri sodali “realistici” del teologale Dante, della poesia e la lingua italiana.
La raccolta bilingue presenta 24 componimenti, brevi, lunghi e lunghissimi. Un monumento al poeta, che Milano trascura – Carlo Porta è un paio d’isolati, anonimi. Un gesto di umiltà dell’altera Valduga. E un omaggio, ancora un altro, al suo grande amore Raboni, che Porta voleva instaurato, con Belli, a colonne dell’Ottocento italiano, al posto della triade di De Sanctis, Foscolo, Leopardi, Manzoni: Valduga lo ricorda nell’introduzione, completando una triade alternativa con l’aggiunta di Prati, da lei riscoperto con molta stima (di Porta Raboni aveva pure iniziato la traduzione, la raccolta ne riporta un sonetto). Ma si dev’essere pure divertita.
Il lettore sicuramente sì. Rileggendolo, anzi, altri ghiribizzi l’enorme lessico di Porta solleva. Il Bongee, non sarebbe un bon jeu maccheronico – del francese storpiato Porta fa uso in altri componimenti? Anche il Giovannin suona analogo – il torinese Giuanìn, il tizio. E “En fan toninna” non è il meridionale, tuttora in uso, “fare tonnina”, fare a pezzi?
Carlo Porta, Poesie, Einaudi, pp. 172 € 15

domenica 11 marzo 2018

Appalti, fisco, abusi (116)


A 15 giorni dalla neve e la pioggia di fine febbraio, i parchi e gli spazi verdi a Roma restano recintati e chiusi. La neve è stata poca, e anche la pioggia, con poco vento, i danni minimi. Ma Roma non riesce ancora a “mettere in sicurezza” i propri alberi. Cioè a rimuovere i (pochi) rami caduti. Se non attraverso appalti. A imprese che se li litigano.

Il Comune di Roma vanta nel sito una procedura di conciliazione sui problemi insorgenti con l'amministrazione. Ma la procedura è inattivabile. Il referente telefonico non risponde mai. Si fa la rete solo per un appaltino a chi la disegna. Non è imperizia, è malaffare.
La corruzione dei 5 Stelle in effetti è minima. Ma l’operatività è inesistente.

O è una corruzione diffusa – di importi limitati ma moltiplicati? La ventina di strade di cui il Campidoglio vantava il rifacimento a maggio si sono disintegrate con la (poca) neve e le (poche)
piogge di fine febbraio.

L’Autorità per le telecomunicazioni sanziona le società telefoniche per l'abuso del mese tariffario di 28 giorni in questa misura: per ogni 10 euro pagati in più devono rimborsare 57 centesimi.
E non è detto: sulla decisione del Garante per le Telecomunicazioni pende la sospensiva del Tar del Lazio, cui le società telefoniche prontamente si sono rivolte. Con un unico ricorso per risparmiare sulle spese.

In quasi due anni di bollette a 28 giorni invece che mensili, le società telefoniche hanno guadagnato poco meno di due miliardi, 1,8.

Questo sito segnalava l’abuso delle bollette a 28 giorni un paio d’anni fa. L’Autorità per le Telecomunicazioni se ne accorge a dicembre del 2017. Ma non è che sono distratti, è che non ci sono – giusto per l’onorario, sui 100 mila (i funzionari)-200 mila (i dirigenti) a testa.

L’Europa in pausa, aspettando gli anti-Ue

Tutto è rinviato da quasi un anno in Europa. Come se il continente fosse in apnea. Dapprima per amalgamare Macron, il corpo nuovo francese, poi per le elezioni e il dopo elezioni in Germania, ora per le elezioni in Italia, che hanno dato una maggioranza parlamentare anti-europea, e per l’avvio del nuovo governo tedesco, che sarà lento. L’Europa è abituata alle pause, ma ora è come se non esistesse. Tacciono perfino i trombettieri dello zero virgola che solitamente la impestano.
Le occasioni di esistere non mancano. C’è Trump, con i dazi. Ci sono le tante, troppe guerre “umanitarie” americane nelle quali l’Europa è alla spicciolata impegnata senza strategie e senza vie d’uscita. C’è il vicino Medio Oriente in radicale trasformazione, con l’insorgenza saudita, l’espansione iraniana, la presenza ormai consolidata della Russia, un Israele indebolito dalla crisi politica. C’è la Turchia, alleato importante e quasi membro della Ue, che violenta ogni diritto umanitario, civile, politico: bombarda i curdi ovunque, in Turchia, in Siria, in Iraq, inarcera i giornalisti, condanna all’ergastolo gli scrittori. Per non dire della Cina, che con la dittatura restaurata ha cambiato le carte, dei diritti politici e civili non solo, anche degli investimenti e il commercio esteri, ora funzionali a un progetto politico egemonico.
È come se le forze anti-Ue che l’elettorato ha consacrato in Italia fossero da tempo attive in Europa. Con l’handicap ulteriore, però, che non c’è alternativa: o la Ue o niente. Del resto, ha votato contro la Ue l’elettorato che più si dichiara europeista in Europa.
Si potrebbe dire che l’Europa è confusione, ma non sarebbe un buona cosa – produttiva, costruttiva. L’Europa non può essere cabaret, uno spettacolo comico, satirico. Cominciare a ipotizzare un futuro diverso sembra impossibile, ma potrebbe essere necessario.
Un altro anno di pausa, dopo quello trascorso, è ipotizzabile: tra un anno si rinnova il Parlamento europeo, e oggi le forze anti-Ue sono già le seconde per rappresentatività, dietro i cristiano-democratici. 
Uno scenario ancora peggiore si potrebbe tra un anno ipotizzare, non più di confusione o di stallo. Gli europeisti sono in calo, Cd e socialisti, mentre gli anti-Ue vanno in forte crescita. In tutta l'Europa.

La rivoluzione utopia dell’intellettuale

Gli ultimi scritti politici, 1957-1960, dello psichiatra filosofo francese della Martinica, discendente di schiavi africani – nel 1961 Fanon morirà. Scritti militanti: in quegli anni era in corso la guerra di liberazione algerina, avviata nel 1956, e la Francia intellettuale era mobilitata.
Fanon fu tra i primi sostenitori del Front de Libération National, che infine l’avrà vinta sul Mouvement National Algérien, il fronte di liberazione concorrente, e sulla Francia. Ne scrive entusiasta, nel mentre che opera per le attività militari del Fronte, dalla Tunisia, dove è stato espulso dal governo francese. Con molti spropositi. Il rivoluzionario è l’“uomo nuovo”, che libererà il mondo. De Gaulle, venuto al potere con un colpo di mano nel 1958, effetto della guerra in Nord Africa, e che subito poi darà l’indipendenza all’Algeria, al costo di una mezza guerra civile con i suoi generali coloniali, è lo “strumento più esecrabile della reazione colonialista più ostinata e più bestiale”. Il popolo è “un’autentica forza politica”, viatico al partito unico che ha governato l’Algeria indipendente con la corruzione e l’inefficienza - fino alla guerra civile decennale negli anni 1990, con un milione probabilmente di morti, per ragioni religiose e non.
Curiosa riedizione di un messaggio spento. Come un riscontro involontario dei rischi intellettuali in politica, nell’impegno e nella valutazione degli eventi. Ma non un caso isolato, tutto Fanon è in riedizione: il suo messaggio esercita ancora un forte richiamo. Pubblicato quasi tutto da Sartre, come fu il caso per questa raccolta, si potrebbe supporre di Fanon una valenza di pensiero, al di sotto dellimpegno politico e pratico, ma qui non si trova.
Franz Fanon, La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa, Ombre corte, pp. 113 € 12