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sabato 27 dicembre 2014

Secondi pensieri - 200

zeulig

Complotto – L’idea del complotto è più spesso l’esito dell’ignoranza consapevole, il metodo socratico della verità simulata, far credere che si sa pure ciò che s’ignora. È il vizio di chi, sapendo quello che non sa, pensa di doverlo denunciare come complotto: ciò che fa il piccolo borghese, nel fascismo e dopo, il soggetto politico contemporaneo, delle democrazie.

EssereA volte viene da dirsi che il lavoro è il miglior compagno, che è Goethe vecchio, il fare. Ma è dell’epoca un forte complesso del muratore, la ten-denza a tramutare l’evento in essere. Che è sempre il bisogno di sostantivare per sistematizzare, il positivismo non è una stagione culturale. O è un intimo bisogno di ancoraggio, sopravvenendo alla scuola del sospetto, che disintegra ogni consistenza. O l’ultima resistenza, prima di elevare  l’incertezza e l’inconsistenza a legge, il caos nella fisica della materia, l’errore nella ricerca. Non sarà più a lungo che l’identità dell’essere ec-cederà il suo realizzarsi, nella forma dell’azione costruttiva, secondo cioè regole passate, o dell’invenzione, o del gioco, se non della follia, quando è libera associazione e non blocco mentale e ripetizione compulsiva.

FreudIl dottor Gioia la filologia ha applicato ai miti, con pretese non ariostesche ma storiche, scientifiche, etiche. Contro la psicologia, d’“incorreggibile meccanicismo e materialismo”, scovando negli eventi casuali e le coincidenze la proiezione di possenti desideri. La scienza ha separato dalla filosofia, aprendole l’ignoto. E la ricerca, con l’invenzione, ha giustamente posto a motore della conoscenza, all’induzione e alla deduzione lasciando il ruolo tecnico della logica. Ma poi regola i sogni, nel mentre che, biblico e realistico, Heisenberg prima di Heisenberg, introduce la predizione che influenza l’evento – di cui resta da accertare la valenza, se è un bene o un male: rivoltarsi per esempio, che non è ribellarsi.

Il Doktor ha torto? Chi può dirlo. Ma per questo non ha ragione. Anche se la chiesa si è messa al suo traino in quest’epoca di stragi cupi, i santi avendo cassato la cui esistenza non è provata, Cristoforo, Giorgio, Giusto, Giustina. Non c’è il mito – l’impresa, l’opera, i profumi, nimbi - ma si-gnori e signorine che vogliono essere santi: ci sono procedure per questo. Margherita da Cortona, che Mauriac venera, scelse la santità quando le mostrarono l’amante decapitato nel bosco. Ma uno che l’amore non capisce, la speranza, la vita nella morte, il sacro, che medico è, che maestro?
La chiesa scolpisce il bene, il bene?, Freud il male. Qual è l’etica di una medicina che uccide? C’è un presupposto lamarckiano in cui Freud inciampa, quello del progresso. Lo rovescia, ma con analoga positiva esattezza: la sua scienza riduce la realtà a linguaggio, al codice che essa pratica. Riduce il linguaggio a un linguaggio. Sarà nella storia quello che ha indagato il sacro senza saperlo. Meritando per questo magari il paradiso, da povero di spirito: fosse stato cristiano se ne poteva fare un santo – com’egli stesso di sé presumeva, cacciatore solerte di eretici – di serie B.

È la parte innocua del teutonismo che, malgrado tutto, sempre ammorba il mondo, l’amore che si vergogna. Il Doktor ha amato molto le donne in famiglia, la madre Amalia naturalmente, che sempre fu giovane, senza complessi ricambiato, la cognata e la figlia Anna. Ma è subordinatrice al cubo: abdica al chi l’ha detto e al già detto. E non sapendosi bene che cosa sia stato detto è scuola del sospetto. Quella che produce insicurezza e non quella risolutrice dei gialli. Anche per la passione fredda, da filosofo autodidatta, che va, dopo tutta l’eversione, per legnose entità: l’inconscio per conoscere, la sessualità per scopare, o dilettarsi, diceva il confessore, il buongiorno per l’essere sociale, e ontologizza e assolutizza, scambiando la fotografia per il cinema. Uno che per fare chiarezza i fili annodasse in un inestricabile gliommero. Per tacere della storia, di cui traeva le regole leggendo la domenica. Per cui tremano i più dotati, mentre si consolida lo spazio di nessuno dei padroni, i quali risoluti se ne infischiano.

Da un lato le folle in farmacia, per la koiné virata sulla depressione, quelli che non hanno i soldi per il lettino, dall’altro i gonfi ras della opinione, l’informazione, il denaro, il potere, il delitto, dichiarato e occulto. Si scioglie così male il nodo dell’epoca, da “Totem e tabù” al “Disagio della civiltà”: il “conflitto nascosto” tra istinto e civiltà. Che sono per natura in conflitto, anche se l’uno si esprime con l’altra, ma sempre non si sa perché si combattono e si combinano. Il Doktor è l’Asclepio dei templi in Turchia, stregone di sogni, droghe, visioni, per la cura dell’ansia, i desideri, le paure. Torna così il tempo dell’orda.
Stupefacente il crimine all’origine della società, sognato e realizzato. E semplice: l’assassinio del capo dell’orda converte il killer in padre, l’orda in gruppo e i membri dell’orda in figli o fratelli. Anche per i noti poteri del numero tre, il triplice esito del crimine. Ma c’è di più. Hades e Dioniso, stabilì Eraclito quando c’era il politeismo, sono lo stesso dio: la morte prolunga la vita, ne è il compimento, a ogni istante, l’immediato sempre finisce. Il Dio dei Depressi ha invece stabilito che, sì, c’è la vita e c’è la morte, ma questa fa di testa sua e allora c’è solo la morte. Freud, stanco di donne isteriche, un giorno guardò nella storia. E non gli parve vero, c’era più merda che in tutti i sogni sul lettino.

I tipi e la qualità del ricordo non sono il fatto ma la diagnosi. Nella quale si misura la qualità del terapeuta. Freud guarda davanti a sé - o dietro di sé – coi suoi trentuno tumori per l’irrinunciabile sigaro, non ingenuo ciuccio, si traveste da Sartre, irretisce Fanon, e ipnotizza chi non gli crede, non cercando di credere, e chi lo teme. Che sono milioni, annota Giorgio Colli: il male metafisico è reale e non fisima intellettuale, è l’esperienza dell’epoca, che ha ejettato la letizia. Ora, se c’è solo la morte, il problema è spiegare perché siamo vivi, o vogliamo esserlo.

Morte – Diceva Solone che nessuno sa se è stato felice fino al giorno della morte - e onesto probabilmente, leale. Il senso della morte come senso della vita. Se ne è angosciati se si è vissuto spensieratamente, senza doveri e senza misura. Morire dopo una vita di capricci è il vuoto.
 
Problemi morali  - Gesù avrebbe gettato le pietre? Simone Weil dice di sì.
Il problema è posto da Simone Weil a commento del passo dei Vangeli in cui si parla della lapidazione: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Il precetto è nel Vangelo di san Giovanni, cap. 8, e solo in lui. Simone Weil arguisce che il Cristo con quell’intimazione previene e dissolve un gruppo prossimo alla violenza. Ma conclude: se fossero stati allo stadio in cui si gettavano ancora le pietre, il Cristo avrebbe gettato anche lui con loro le pietre. Effetto della storicizzazione totale che Simone Weil fa della Rivelazione del Cristo. Del Cristo come momento di passaggio verso la Rivelazione, se non ne è il Costruttore.
È la conclusione di una più vicina a Platone, come si sa, che al Vecchio Testamento, che comprende i dieci comandamenti. Potrebbe anche essere l’esito di una lettura chiusa del Vecchio Testamento: all’interno della vecchia si buttavano le pietre. O un effetto dell’antibiblismo di Simone Weil. Nel mentre però che coglie e mostra il rapporto tra il Vecchio e Nuovo Testamento.

zeulig@antiit.eu

Gogol era un altro

“Gogol è il più strano poeta in prosa che la Russia abbia mai prodotto”: l’esordio sembra strano. Ma Nabokov apprezza la stranezza, e la sa mettere in valore. Specie “Anime morte”, quella delle tre opere di Gogol che Nabokov analizza più in esteso, quasi riga per riga – le altre sono “Il revisore” e “Il cappotto” – dopo un capitolo generale d’introduzione. Per la felicità del lettore. Ma anche Gogol dovrebbe essere contento di questa resurrezione.
Nulla di miracoloso. Nabokov vuole liberare Gogol dall’etichetta di “Dickens russo” e di “scrittore sociale”, sotto cui il secondo Ottocento e poi il bolscevismo l’avevano seppellito. Voleva nel 1948, quando tenne le lezioni che sono all’origine del volume alla Cornell University, a un gruppo di studenti che non sapeva il russo e sapeva poco della Russia. “Anime morte”, “Il revisore” non sono la Russia, Gogol “conosceva la Russia male”, dal finestrino della carrozza venendo dall’Ucraina dove era cresciuto, nelle brevi pause dei lunghissimi soggiorni a Roma, dove s’inventava di dare un seguito a “Anime morte”, e le stazioni termali del Centro-Europa, una peregrinazione che Nabovkov documenta in dettaglio, una serie di località lunga cinque-sei righe. Non conosceva il “popolo”, che anzi gli dava fastidio, e non aveva “messaggi”.
Allora non era facile disincrostare Gogol dal realismo sovietico. Neanche ora per la verità, ma nessuno ora contesta Nabokov, che anzi si apprezza come il miglior compagno alla lettura. Con periodi lunghi e elaborati, per la precisione, ma anche pieni di sottigliezze, e di digressioni lampo euforizzanti. Le stesse che rendono la sua prosa elaborata (sveltita in questa edizione, rispetto all’originale inglese, dalle traduttrici Cinzia De Lotto e Susanna Zinato), talvolta a cerchi concentrici, l’una dentro l’altra. Nella pagina in cui tenta di spiegare il pošlost’ nelle sue intraducibili sfumature si accorge tra parentesi che il suo mentore Roget’s Thesaurus cataloga i topi tra gli insetti. 
Cicikov, il mercante delle anime morte, è un plasma informe, su cui Gogol concretizza il suo distacco semmai dalla realtà. Che usa solo per i suoi effetti stranianti: comici perlopiù, o sordidi. Dopo Sterne, naturalmente, ma prima di Kafka. Nabokov dà molto credito a Belyi, che la cassetta di Cicikov diceva la sua “moglie”, l’essere e il tipo di affetto cui Gogol fu totalmente estraneo. E la suffraga a modo suo: l’unica proprietaria donna del piccolo mondo di provincia di Cicikov, la “signora” Korobochka, significa “scatolina”, quindi la “scatolina” di Cicikov, “alla maniera come Arpagone esclama «la mia cassetta!» nell’«Avaro» di Molière”…
Il tutto sullo sfondo della deriva religiosa che Gogol esibiva, in qualche testo critico e soprattutto nella corrispondenza, di cui raccolse e pubblicò un volume a fini edificanti. Assumendo un’aria da profeta e inviato di Dio – fece pure il pellegrinaggio a Gerusalemme… Ossessionato dal pensiero che i grandi pittori italiani lo avevano fatto più e più volte, di coniugare il sacro e il profano. Nel mentre che assicurava che la seconda e la terza parte di “Anime morte” erano in arrivo. Al solo fine quindi di celare il blocco creativo di cui soffrì?
E Cervantes?
Non c’è il riferimento al “Chisciotte”, a proposito di Cicikov, che ci si aspetterebbe. Anche perché, leggendolo nella traduzione inglese di Nabokov, la prosa gogoliana sembra un calco di Cervantes, nella modulazione, nel girare attorno, nei personaggi visti e persi, nello humour. Ma Nabokov, che in America insegnò ai corsi per traduttori, oltre che letteratura russa, anche i Maestri della Narrativa Europea, si fermò all’Ottocento. Quanto al suo autore preferito, l’apprezzamento è reiterato all’inizio del capitolo dedicato al “Cappotto”: “Gogol era una strana creatura”. La differenza, dirà, tra il lato comico della cosa e il suo lato cosmico dipende da una sibilante – “Gogol era nato un primo di aprile”.
Nabokov voleva anche liberare Gogol dalle cattive traduzioni. Tutte, a suo dire, quelle allora in uso in inglese. E effettivamente a leggere questo suo “Gogol” in originale inglese, è un altro autore. Specie quello delle “Anime morte”, la cui traduzione in particolare aveva attirato le sue ire – anche perché è per le “Anime morte” che Gogol fu appropriato dal realismo socialista, seppure in forma dickensiana. Ne ritraduce numerose pagine, facendo rivivere Cicikov e il suo mondo di morti in un caleidoscopio di sensazioni e sentimenti nuovi.
Vladimir Nabokov, Nikolaj Gogol, Adelphi, pp. 183 € 18

Le sottigliezze del quotidiano

Si ripropongono i temi familiari a Irène Némirovsky, già variamente tradotti in altre edizioni – qui da Simona Mambrini, che ne sveltisce i ritmi. La famiglia è anche il tema prevalente fra i racconti qui raccolti.
“L’Orchessa”, che uscì il 24 ottobre 1941 su “Gringoire”, rivista peraltro antisemita, sotto lo pseudonimo Charles Brancat, a causa delle leggi razziali che impedivano alla scrittrice di pubblicare, è sul rapporto madre-figlia, tema inesausto di Irène Némirovsky, per ogni verso soffocante. In questa raccolta è il tema pure di “Ida”, in filigrana: la fine delle illusioni con l’età – la madre di Irène non voleva invecchiare. Così come vi si adombra l’altro suo tema ricorrente, l’insofferenza per l’ebraismo: qui con compassione, ma sempre con la sorpresa di doversi sentire in colpa per questo. Irène Némirovsky ne subì il pregiudizio nell’infanzia a Kiev, tra i pogrom contro gli ebrei, nel’isolamento della famiglia ricca, e poi sotto forma di diffidenza nella libera Parigi. Per una “identità di sangue” che, senza pregiudizio, sentiva però come una gabbia e un limite. Non per colpa ma per la forza dell’abitudine, del pregiudiziale “noi e loro”. La scrittrice credeva alla Francia, all’Europa, alla libertà: la denuncia nello sfollamento e la deportazione - probabilmente anche la morte a Auschwitz - la sorpresero.
 “La confidenza” narra le sottigliezze dell’amore mescolate al pigmalionismo. Che non può mutare le nature: l’ambizione, la bruttezza acuta, acuminata, la bellezza sciocca. Con “La confidente”, altro raccontò uscito su “Gringoire, il 20 marzo 1941, firmato  “Pierre Nerey”, siamo di nuovo nell’ambito delle estraneità tra familiari, per cui la più insignificante badante sa e sente di più.  “Domenica” è quella dei fratelli che si ritrovano con le consorti attorno alla vecchia madre. Un’occasione doverosa più che lieta: tutti “provano l’indicibile fatica che s’impossessa dei membri di una famiglia quando si trovano riuniti insieme da più di un’ora”. Per quell’indissolubile legame che, pur in mezzo a esperienze e ambizioni diverse, li soggioga. È insieme la critica e la nostalgia della famiglia: l’infelicità dell’amore nel giorno della festa, l’attesa gioiosa della figlia all’appuntamento mancato, il ricordo delle attese felici della madre, che il marito lascia per correre dall’amante, la madre che “non ama l’amore”, non più.
“Legami di sangue” – un racconto lungo che troverà un’architettura più solida nel romanzo “Il calore del sangue”, uno dei meglio riusciti – mescola i due temi dominanti: tratta i misfatti della consanguineità, dei legami familiari, anche se senza colpe specifiche. Nella coppia la consanguineità fa inevitabilmente aggio sull’affetto (rispetto) reciproco - lo stesso nella parentela e nella società.
Niente aneddoti sorprendenti, ma un tono accattivante: lieve, vero. Qualche volta insistito, ma raramente, a volte scherzoso. Che alla lettura dà l’impressione di futile. In questa raccolta anche di ripetitivo, omogeneo – mentre la cifra della narratrice è variatissima. Ma è un’apparenza: è la qualità della scrittura, nascondersi dietro questa apparente semplicità. Che è forse il solo modo di narrare quello di cui Némirovsky è specialista, il quotidiano. Rilevarlo dalla-nella sua sordidezza.
Irène Némirovsky, L’orchessa, Adelphi, pp. 260 € 18 

venerdì 26 dicembre 2014

I perché dell’Ucraina, e della Nato

Stiamo facendo la guerra alla Russia per che cosa? Per dare la libertà all’Ucraina di entrare nella Nato. E perché l’Ucraina dovrebbe entrare nella Nato? Perché così decidono i suoi governanti autonomamente. Quanto autonomamente? E autonomi da che cosa? Dato che questi governanti eroi della libertà irrimediabilmente si rivelano affaristi, molto, da Julia Timoshenko all’attuale dirigenza. Eletti liberamente, ma quanto liberamente?
E che cos’è la Nato? Non si sa più esattamente: da tempo gli Stati Uniti non parlano con l’Europa. Da Bush senior, quindi da un quarto di secolo. Coincidenti con la caduta del Muro. Ma non con la fine della guerra fredda? E che cos’era la guerra fredda: una guerra al bolscevismo o una guerra all’Europa – magari dell’Europa stessa, ma questo non importa (l’Europa si è sempre distrutta volentieri)?
Per il cinquantenario, quindici anni fa, gli Stati Uniti proposero un allargamento della Nato all’“arco della crisi” orientale. Con una forza di pronto intervento apposita. In difesa della democrazia. Una sorta di Onu occidentale, armata? Una polizia della democrazia? Ma la proposero larvatamente, e senza specificare quanto orientale. All’Afghanistan? Al Pakistan? E comprendendo il conflitto palestinese? Forse fino al Caucaso, si sussurrò. Ma non si disse. Dopo la Georgia anzi non si disse più niente.
La forza di pronto intervento, a comando unificato, non si costituì, gli Stati Uniti preferiscono agire da soli, di propria iniziativa, per finalità anche fuori dagli statuti dell’Alleanza, associandosi di volta in volta chi ci sta, i “volenterosi”. Che non sempre sono membri dell’Alleanza. A partire dalla guerra del Golfo nel 1991, e poi da quella alla Serbia - per un Kossovo indipendente di cui era ed è a capo una banda di malfattori. In Libia e ora nell’Irak settentrionale associandosi i potentati arabi del Golfo e la Giordania.Gli stessi con i quali avevano armato e finanziato l’Is che ora combattono - dicono di combattere ma non combattono. 

La rivoluzione come terapia

La rivoluzione come maschera del vuoto interiore. La sfida (ricerca) della morte del rivoluzionario Kyo é meno estetizzante, come si è detto, che filosofica: mascherare il senso di vuoto, del niente. Malraux si manifesterà in seguito uomo d’azione e ben sicuro di se stesso, se non  del reale. Ma la “condizione umana” sceneggia con angoscia.
L’azione rivoluzionaria di Kyo-Malraux, “sfuggire ala coscienza del vuoto dell’esistenza umana”, Simone Weil accostava al suo tempo, 1933, al “divertissement” di Pascal - piuttosto diversione che divertimento (e un divertissement nel quale Simone Weil sospetta Pascal includesse anche la religione): “Ciò che fa il fondo del romanzo, e l’unità dei suoi personaggi, anche i più dissimili, è la nozione del divertimento nel senso in cui Pascal ha usato questo termine, cioè l’idea che l’uomo non può prendere coscienza di se stesso senza un’angoscia intollerabile causata dal sentimento del suo proprio niente, e si getta nell’azione per perdere coscienza di sé e per fuggire questa angoscia”.
André Malraux, La condizione umana

L’amore divino di Balzac

“Il vento di una sommossa ha sempre fatto svariare i parigini dal Nord al Mezzogiorno, sotto tutti i regimi”. Il meglio del racconto è l’analisi politica, breve e già storica, sul regno di Luigi Filippo attorno al 1837, e sui fatti di Polonia nel 1830-1831. Poniatowski, l’ultimo re di Polonia, il re di Polonia che voleva liberare la Russia e perdette la Polonia, era “tanto incompreso che forse non si comprendeva bene lui stesso”. Balzac è già sintonizzato sulla Polonia, avendo avviato la relazione, ancora epistolare, con la contessa Eva Hanska, “la straniera” di tanta appassionata corrispondenza che poi conoscerà e amerà. Qui divide le sue simpatie per la Polonia – sono polacchi emigrati politici a Parigi i protagonisti – con quelle per l’Italia, da cui era reduce dopo un lungo soggiorno, e a cui vanno tutti i riferimenti lusinghieri, fino a dare antenati e lineamenti italiani al polacco sedotto.
Il racconto è dedicato alla contessa Chiara Maffei, la giovane gentildonna, minuta e sensibile, che a Milano teneva un salotto patriottico e anticonformista, e nel 1837 lo ebbe visitatore quotidiano e un po’ lo innamorò – “Avrei dato dieci anni della mia vita per essere amato da lei per tre mesi. Eppure a quell’epoca della mia vita io avevo già viaggiato molto, avevo vissuto con donne di quasi tutti i paesi dell’Europa. Ma nessuna aveva prodotto su di me un’impressione altrettanto viva, profonda, istantanea”, scriverà. La contessa Clémentine, la protagonista del racconto, le si ispira, acuta e volage. Sono i dolori di un amore che si vuole sacrificato ad altre passioni, l’amicizia, la riconoscenza.
L’omaggio all’Italia si estende, con interiezioni italiane, a Dante e Michelangelo, alla commedia dell’arte, ai Pazzi di Firenze. L’eroe è un discendente polacco dei Pazzi dopo l’esilio, bello, forte, generoso. Al punto d’inventarsi un’amante, una saltimbanca di circo, per evitare di essere corrisposto dalla moglie dell’amico e benefattore, di guerra e d’esilio, della quale è perdutamente innamorato. Con pagine magistrali, oltre che sulla Francia di Luigi Filippo e sulla Polonia, sulla parigina donna di mondo, sulla gastrite, sull’“amore senza speranza”: “Questi (dell’amore, n.d.r..) piaceri silenziosi furono seppelliti nel suo cuore come quelli della madre il cui bambino non sa nulla mai del cuore della madre”. E sull’“amore senza speranza” come “amore divino”.
Balzac filosofo è una sorpresa totale, ed è la pagina centrale del racconto: Un uomo deve avere una certa profondità nel cuore per sacrificarsi nel silenzio e nell’oscurità”. L’Effetto è la natura, la Causa è Dio.
Honoré de Balzac, La falsa amante

martedì 23 dicembre 2014

Il morbo di Cassandra

“È un grande paese, si riprenderà”, sbrigativo e serafico risponde a Maria Teresa Cometto il premio Nobel per l’Economia Robert Shiller, che nel 2000 ha individuato la bolla hi-tech e nel 2005 quella dei mutui senza garanzie. Anche perché non ci vuole il Nobel, tutti lo credono, i fondamentali non sono chiacchiere. Tutti, eccetto l’Italia. Eccetto i media italiani, intossicati e tossici: l’Italia è certamente malata, ma del morbo di Cassandra.
Che il problema dell’Italia sia la sua opinione sembra assurdo, ma così è. Questa informazione tossica monta la politica vacua, la giustizia violenta, e i tartufi della morale, bloccando da un quarto di secolo ormai il paese e anzi spolpandolo. Per la caduta delle illusioni (1989), soprattutto fra gli intellettuali di mezza tacca, che dominano l’opinione. E per interessi non dichiarati, ma tutti convergenti nel sensazionalismo del nulla, degli scandali che ora si inseguono a ritmo giornaliero (ah, le intercettazioni a puntate, con video ‘n coppa….).
Questo sensazionalismo vacuo si direbbe che non paga. L’informazione non ha nessun credito, gli italiani non votano più e i giornali hanno dimezzato le vendite. Ma evidentemente c’è un dividendo coperto.
Shiller spiega a Maria Teresa Cometto che la bolla in Borsa deriva forse dall’ansia: “Si percepisce quasi il panico: avrò un lavoro fra venti ani? E i miei figli? Sono le domande più frequenti. Così si spiega la strana combinazione di un’economia debole con le Borse in rialzo”. Peggio per il reddito fisso: “I titoli del Tesoro Usa trentennali hanno quotazioni altissime e rendimenti ai minimi storici. Perfino i titoli indicizzati all’inflazione sono così cari che il loro rendimento è negativo. Ma la gente li compra lo stesso, accettando di non guadagnare alcunché”. Materia di riflessione, concisa e illuminante. Ma il “Corriere della sera” relega l’intervista al supplemento “Economia” del lunedì. E il supplemento alla p. 29.

Letture - 197

letterautore

Amore – Balzac, “La falsa amante”, lo dice complicato dalla “religione cattolica”: “La religione cattolica ha talmente ingrandito l’amore che vi ha sposato per così dire indissolubilmente la stima e la nobiltà”. La religione sarebbe da intendersi “cristiana”, ma l’indissolubilità è propriamente cattolica.
Balzac, scapolo e scettico, era in questo praticante.

Dante – Fazioso come tutti ma l’“Inferno” curiosamente, a un secondo sguardo, e anche il “Purgatorio”, è equanime, non ci sono vendette.

Esilio – “Si porta il proprio paese e i suoi odi con sé”, è riflessione di Balzac, “La falsa amante”. Che aggiungeva: “Dante avrebbe volentieri pugnalato nel suo esilio un rappresentante dei Bianchi”. Dante non avrebbe osato. Ma pensato sì?

Fine – Hemingway ha scritto 47 finali di “Addio alle Armi”. La fine ha sempre contato nei romanzi più dell’inizio.

Hacker - È industriale, urbano, settentrionale. È difficile dargli un’identità, e quindi caratterizzarlo, perché si definisce proprio in quanto si nasconde. E tuttavia la casistica è quella: californiano, scandinavo per ragioni di temperamento, nordcoreano o russo per ragioni di spionaggio, rumeno al bancomat.

Incipit – È arte tarda. Nemmeno novecentesca. È connessa al best-seller, da vendere in fretta – si dice da consumare, ma non è necessario. Creando speculazioni anche ridicole: l’incipit di Proust è moscissimo.
L’arte dell’incipit che imperversa, fra redattori e critici letterari, potrebbe essere dettata dal desiderio di non leggere, fermandosi alla prima pagina.

Mondo di mezzo – Il Mondo di Mezzo, il nome che gli inquirenti hanno dato all’intrallazzo a Roma, secondo la felice espressione di uno dei protagonisti, Massimo Carminati, evoca quello di Tolkien, il mondo operoso degli hobbit sassoni (celtici) inquinato dai traditori più che dai nemici. Secondo gli inquirenti, invece, evoca un mondo oscuro, un po’ criminale un po’ corrotto. Balzac ha l’espressione, per il mondo equivoco che s’intrufola nella buona società, “le monde interlope”. Che in francese ha questi significati, di mondo equivoco, sul versante del poco di buono. Ma per chi pratica le lingue indifferentemente ha anche il senso inglese – originario - di “ingerirsi, intrufolarsi, interferire, contrabbandare”.
Le parole dicono la verità: l’inchiesta romana è molto da “buona società” contro intrusi di vario genere, assassini, terroristi, scassinatori, benché redenti dal carcere. Anche Mafia Capitale, l’altro nome dell’inchiesta, sa di intrusione. Mentre il fenomeno è romano e non mafioso – non violento. Di una società del malaffare contrapposta cioè alla società civile, ma è la società civile romana, dei quartieri bene o quartieri alti compresi: il funzionario fa normalmente marcato delle sue competenze.

Monomotapa – È Monomatopa in Balzac, “La falsa amante”. Non è la stessa cosa, e suona anche sconcio. Il Monomotapa è l’impero Shona, tra lo Zambezi e il Limpopo, l’ex Rhodesia con una parte del Mozambico, che durò fino alla riscoperta dell’Africa per lo schiavismo, a fine Quattrocento.
Ma l’Africa è tornata nell’oblio, come al tempo di Balzac. Era riemersa – storia e cultura e tutto – con le indipendenze, cinquant’anni fa, si è riseppellita da sola. Ci vorrà una nuova scoperta dell’Africa?

Neo realismo – Confina col realismo sovietico, la rilettura rimanda irresistibilmente alla letteratura da Comitato Centrale. Di Pratolini per esempio. Anche di Pasolini per i due romanzi romani di grande successo che si continuano a distillare nei domenicali gruppi di lettura. Di Pasolini fa più senso perché sapeva quello che faceva, aveva più corde e le usava di proposito. Lingua di legno. Sentimentalismo. Proletarismi di maniera, anche quando si vogliono di prima mano: la lotta di classe come unico motore. False coscienza, purtroppo, se tutte concludono al linguaggio vuoto: ipocrisia? opportunismo?
Resta viva negli episodi crepuscolari, di bimbi malati e sudici, di sporcizia prima che di sesso a pagamento. Nessun romanzo di officina, o di contadini, o di vita comunque vissuta come il genere si vorrebbe, suonano tutti falsi.
È la stessa lingua falsa che ancora ammorba l’editoria e il giornalismo. Che ha bloccato e avvilito l’Italia. Che vuole spegnerne gli istinti vitali e gli umori.

Rito – L’“arte completa, l’Opera Totale” Simone Weil trovò a San Pietro a messa, per la Pentecoste del 1937, in una messa di Palestrina, cantata da voci bianche. Con architetture di grandi spazi, macchie di paramenti multicolori, e “folle in gran parte inginocchiate, con molti uomini e donne del popolo,  queste con un fazzoletto sui capelli”. Come si troverebbe Wagner ora, nel rito sanitarizzato? È un rito non wagneriano, questo sì.

Roma – Arrivata a Roma il 15 maggio (1937), a mezzogiorno di un sabato, Simone Weil passa il pomeriggio e la domenica successiva tra lunghe sessioni di musica religiosa, spostandosi a piedi o in tram. Subito, sabato, a Sant’Anselmo e poi all’Adriano – un bel pezzo di strada, da Termini all’Aventino e a piazza Cavour. Il giorno dopo, Pentecoste, la mattina a messa a San Pietro, cantata  dalle voci bianche, poi tra i Vespri a Sant’Anselmo e i Vespri di nuovo in Vaticano. Musica “meravigliosa” gregoriana a Sant’Anselmo, canti ortodossi all’Sdriano, Palestrina alla messa in San Pietro. Oggi si fanno a Roma, che pure è sempre la capitale della cristianità, cinque funzioni religiose cantate al mese? All’anno? Come va la freccia del progresso?
In compenso, Simone Weil non ha trovano in tutto il Borgo un libro da messa. Oggi invece ce n’è in abbondanza, anche se nessuno lo usa, né saprebbe – è tra i ricordini.

Seduttore – È volentieri italiano, nella letteratura francese e tedesca, anche inglese. Nei tratti e\o nel tipo (psicologia, maniere). Non sempre sciocco o falso.

Sherlock Holmes –  È niente di più che lo stolido Conan Doyle, medico molestatore di fate e continenti sommersi.

Stile Libero – Giorgio Falco, “”La gemella H”, ha vinto quest’anno sei premi letterari, ed è stato finalista ad altri tre. Anche per questo ha una pagina di pubblicità, tutta intera, sul “Corriere della sera”. Da outsider?

Wilde – Nelle lettere dopo la prigione, a Parigi e in Sud Italia, è un altro Wilde rispetto alla vulgata, che lo vuole depresso e indigente. È al contrario pieno di soldi, che spreca come di consueto, “trenta pezzi d’argento” per “vedere” il papa in chiesa, seduttore-manipolatore a Palermo di ragazzini che riempie di mance, vetturini o seminaristi, uno dei quali in particolare si pregia di sorprendere “ogni giorno” dietro l’altare maggiore. Perché nascono le leggende?

letterautore@antiit.eu 

Il fantasma dell’amore a Oriente

Loti prova a rinnovare i fasti di “Aziyadé”, il suo primo romanzo, di successo fulmineo, che consacrò l’esotismo dell’Oriente, con l’amore libero, carnale. In un certo senso lo racconta meglio che in “Aziyadé” un viaggio tra l’onirico e l’immaginario, ma sempre sostenuto, dell’amore smarrito nel cafarnao di Stambul-Costantinopoli. Roba però da non credere, oggi come probabilmente allora, neppure nella chiave maschilista dell’epoca. L’Europa ha bisogno di illudersi?
Pierre Loti, Fantasma d’Oriente, Asterios, pp. 94 € 10

lunedì 22 dicembre 2014

Il mercato delle quattro chiacchiere

Il mercato rionale non conviene più. Non da ora. Molti supermercati sono sorti nel quartiere, grandi e piccoli, che offrono più varietà, prezzi più convenienti, anche di molto, e prodotti freschi più freschi . Il mercato ne tiene conto, che ha dimezzato i banchi. E tuttavia è sempre frequentato, specie dalle persone che meno di tutti se lo possono permettere, pensionati di una certa età e, si suppone, di minore capacità di spesa. È un luogo d’incontro. Quasi tutti in effetti si conoscono, i commercianti coi clienti e i clienti tra di loro, dopo anni di frequentazione.
Così è sempre stato visto il mercato di quartiere, come il negozietto dell’angolo, dai viaggiatori e residenti stranieri. Come un’istituzione molto italiana – che anch’essa, dunque, va a morire? Le persone che non se lo potrebbero permettere si pagano volentieri le quattro chiacchiere.
Una istituzione italiana anche nell’obbrobrio, soprattutto degli inglesi, che all’estero amano essere intelligenti e non hanno mai “capito” – l’inglese difficilmente capisce - come uno possa andare al banco o nel negozio d’angolo e pagare di più la stessa cosa che compra in un supermarket a meno. Il “Times” ha scritto molto in argomento, non solo per riempire l’estate.
Nell’inflazione degli anni 1970, dei manifesti “telefonate al governo” (contro i commercianti esosi), i mercatini furono indicati da economisti e giornalisti come fattori d’inflazione. Un’inflazione di parole perse?   

Simone apprendista filosofa

Una Weil machiavellica? Nel senso scientifico (filosofico) del termine sì: “Secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino a farsi amare”, confida a una delle note sparse confluite negli “Écrits historiques”. Senza però che questo liberi i padroni: “Il potere racchiude una sorta di fatalità che pesa implacabilmente sia  su quelli che obbediscono che su quelli che comandano”. I padroni sono anche loro costretti: “Conservare il potere è, per i potenti, una necessità vitale… I padroni possono pure sognare la moderazione, ma è a loro proibito praticare questa virtù”. È il “pensiero cinico del Rinascimento”, nota Jean-Marc Ghitti, uno degli autori di questa affascinata raccolta, ma in senso buono, critico. Di una pensatrice che fu certamente filosofa, ma filosofa pratica, con tutta la sua riflessione su Platone, Dio e la verità. A suo modo e per sua scelta anche cristiana, ma contro l’idea di progresso del cristianesimo.
Che resta da dire di Simone Weil? Molto, tolto l’impegno politico, e i veleni interreligiosi – l’ebraismo rifiutato, forse sconosciuto, l’adesione al cristianesimo romano. Questo dossier nutrito, di testi scelti, interventi e saggi l’uno più godibile del precedente, avrà accertato che Simone fu filosofa,  pratica. Con le categorie di Foucault, contro il parere di Gabriel Marcel - ma, questo, in medias res, da filosofo a filosofa: ha condotto una “vita filosofica”, in cerca di una “filosofia di vita”.
Un saggio di René Girard in forma di intervista ne svolge il pensiero. Dalle radici pre-cristiane in Platone e Pitagora allo sfruttamento contemporaneo del fatto religioso: “Ne parla meno di Nietzsche  ma discerne perfettamente la corruzione del religioso al coperto del religioso stesso.  Presentiva lo sfruttamento ideologico del religioso, il fatto che finalmente è presente dappertutto sotto una forma corrotta: corruptio optimi pessima. Avrebbe avuto molte cose da dire sulla nostra epoca”. Michel Serres la scopre mistica come – meglio di – nessun altro. E la sola filosofa che sapeva di scienza, di matematiche e fisica quantistica, e ne teneva conto.
Non una “filosofa sistematica”, argomenta Pascal David, domenicano foucaultiano, e questo ognuno lo può vedere: redige e pubblica poco, soprattutto articoli, quasi tutti su pubblicazioni politiche, di estrema sinistra, e in parallelo con una vita di impegno. Lascia l’insegnamento della filosofia per fare l’operaia in fabbrica, in varie fabbriche, poi la giornalista, in Germania e altrove, la militante di sinistra, la guerra di Spagna, l’operaia agricola, la Resistenza, dapprima a Marsiglia, poi a Londra. Morendo a 34 anni. Ma le sue annotazioni, per quanto sparse, mostrano che sa quello che fa: “Filosofia (ivi compresi i problemi della conoscenza, etc.), cosa esclusivamente pratica e in atto”. La filosofia come prassi più che sapere teorico: “Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire chiaramente i problemi insolubili nella loro insolubilità, poi a contemplarli senza più, fissamente, instancabilmente, per anni, senza alcuna speranza, nell’attesa”. Con questo criterio, aggiunge, “ci sono pochi filosofi. Pochi è ancora dire molti”. La filosofia è un “apprendistato” della verità, imprescindibile: “La verità sola distrugge il male in noi”. Ma senza illusioni: “La vera filosofia non costruisce niente”, approfondisce. Sgombera, come diceva Kant, “dinamita i falsi dei e i falsi beni”.
Senza Marx, né la Bibbia
Un dossier ricco, con molti materiali grafici, e foto d’epoca. Una settantina tra interventi critici e testi trascurati. Sul colonialismo, l’hitlerismo trionfante, la vita universitaria. E vedute inedite. Di Malraux, “La condizione umana”, che l’impegno riduce al bel gesto. Di Marx ponendo la domanda “c’è una dottrina marxista?”, che oggi fa l’unanimità – dal punto di vista spirituale Marx è idolatra, da quello materialista è religioso. Con conclusioni forti, se Platone è, più o meno, Gesù. Ipotesi tuttavia argomentata, anche non infondata filologicamente, se non  storicamente, nel senso del prima e dopo, cioè, come causa ed effetto. E alcuni dei problemi etici che la inquietavano. A lungo discute l’impegno a non dare mai indicazioni se nella lotta partigiana si cade in mano al nemico – sottinteso: il suicidio? Nella Resistenza si volle coinvolta nel sabotaggio, non alla propaganda – la filosofia è azione.
Con molti contributi sul suo antibiblismo, e quindi antisemitismo. Vittima, negli ultimi decenni del Novecento, del “pansemitismo”. Con le argomentazioni di Paul Giniewski, lo scrittore sionista, che cinquant’anni fa l’ha ascritta all’“odio-di-sé” degli assimilati, e ultimamente la inscriveva agli “alterebrei”, gli ebrei che criticano Israele - la categoria che una quindicina d’anni fa ha formulato Muriel Darmon, redattrice della rivista “Controverse”. E insomma, senza rimedio: chi tocca Israele muore. Giniewski anzi, personalmente, metteva Simone Weil al livello di Rosenberg, il razzista di Hitler. Per questo, e più in generale, questione leggermente forse fuori tempo, oltre che fuori quadro per eccesso.
Sempre in materia, di Edgar Morin il dossier ricorda che fa Simone Weil “figura complessa di identità ebraico-gentile”. Di Leslie Fiedler che invece se l’annette, in quanto “mistica ebrea”. E di George Steiner che si chiede, a proposito dell’ebraismo di Simone Weil: “Mi sono sempre domandato perché Socrate non era ebreo”. Emmanuel Gabellieri ristabilisce e redistribuisce i pesi, tra le “due sorgenti”, greca e biblica. Tra il cosiddetto ebraismo involontario e\o odio-di-sé dell’ebraismo secolarizzato (di Marx, Weininger, Theodor Lessing), e il marcionismo gnostico, che rifiuta l’Antico Testamento.
Con molti contributi italiani, di Domenico Canciani, suo editore ultimamente, Attilio Danese e Giulia-Paola di Nicola, Massimiliano Marianelli. Un’operazione praticamente franco-italiana, anche se Simone Weil è largamente edita in lingua tedesca e negli Stati Uniti, in letture diverse, di cui sarebbe convenuto tenere conto. Negli studi inglesi no, è assente: il dossier non trova di meglio che la famosa prefazione di T.S.Eliot alla traduzione di “Radici” nel 1951. Famosa perché è una stroncatura, a opera del curatore stesso della traduzione.
L’Europa sradicata
Eliot ne volle la traduzione immediata in inglese, per la casa editrice Faber di cui era uno dei direttori, per essere stata la raccolta postuma curata a Parigi da Camus e d’immediato successo. Ma la presentò con una critica insistita di “errori e esagerazioni”, e una professione di estraneità. Una stroncatura tanto più perfida perché “scritta” – riscritta, curata, si vede, pesata. Il poeta anglo-americano, più curiosamente ancora, riflette in questa assurda lettura la “bella guerra” come se la rappresentava l’Inghilterra, una guerra naturalmente  vittoriosa a motivo della libertà e non dell’arsenale americano, con soldati lustri e scattanti. L’autodistruzione dell’Europa che terrificava Simone Weil, a opera della Germania certo, ma la Germania è ben europea? No, il problema per Eliot è se Simone Weil sapesse il sanscrito , “lingua molto complessa”, per apprezzare le “Upanishad”, e abbastanza di greco.
“Radici” era, è, dopo la “Krisis” di Husserl, la sola opera sul problema Europa, pur così invasivo, grossolano perfino. La sola Europa radicata era allora quella che Valéry, dopo la prima catastrofe, sintetizzava nel 1919 (“Che cos’è l’Europa?”) in romana, cristiana e greca, che oggi si rifiuta. Lo scasso di Simone Weil sapeva di questo rifiuto latente e probabilmente ne ha individuato le vere ragioni.
Tutte le questioni personali che le vengono rimproverate, non solo da Eliot, e principalmente quella di volersi cristiana e rifiutare il battesimo, sono nella professione di fede cattolica a Jacques Maritain che il dossier riporta per intero: “Non sono battezzata. Tuttavia, quando mi si domanda se sono cattolica, rispondendo no mi sembra che mento”. Radicata si voleva ed era nella Francia, nella Francia del Seicento, Descartes e, malgrado tutto, Pascal.
 “Donna di genio, prossima alla santità”, ma “uno spirito che procede per folgorazioni”, su questo doppio binario procedeva Eliot. Contro la sua bolla, che ancora fa testo, il dossier de L’Herne ne traccia invece delle costanti. Una, la più originale, la pone lo stesso Eliot: il cristianesimo non può essere per lei che romano, ma “il suo rifiuto d’Israele” ne fa “una cristiana particolarmente eterodossa. Il fatto che ricusi l’Antico Testamento (e che, nei rari passaggi che trovano grazia ai suoi occhi, vi ravvisi una influenza caldea o egizia o indù) l’apparenta all’eresia marcionita. Rifiutandosi si ammettere che Israele sia investito d’una missione divina, rifiuta insieme il principio fondatore della chiesa cristiana. È qui ciò che spiega i suoi tormenti”. Senza contare che nella sua chiesa romana non c’è la Vergine e non ci sono i santi, se non come pensatori.
Ma l’asistematicità, la casualità perfino, della riflessione apre uno scrigno. Della divinità com’è noto, ma anche del bello e del vero. E della schiavitù, della libertà. Sulla coerenza Gabriel Marcel ha qui una pagina impegnativa, a proposito di Simone Weil che fu sua allieva: “Come avviene che la non-coerenza sia probabilmente il riscatto dell’atto col quale un essere abitato dal fuoco si dà all’assoluto – senza restrizione – irremissibilmente?...  Forse la coerenza è come l’economia, virtù di proprietario. Ma le virtù di questa specie sono di quelle che a un testimone dell’assoluto appaiono inevitabilmente come delle mancanze, che dico, come degli abusi”.
Lo spirito di Camus
La riscoperta del dossier va su entrambi i fronti, della riflessione e dell’impegno. Ma è su questo che ristabilisce alcuni punti. Compreso l’antisemitismo. Rimossa dal Diamat, il sistema a lungo dominante, Simone Weil è il “più grande del nostro tempo”, a opinione di Camus nel 1957, tra gli spiriti che contrassegnano l’epoca. Che comunque non ha lasciato indifferenti le migliori intelligenze del secondo Novecento, che il dossier ricorda. Pur impegnando i suoi pochi anni, di fatto e senza risparmio di forze, per quanto esili, nella realtà quotidiana dei suoi anni. Un pensiero fecondato da una vita intensa. Avendo cominciato a ragionare dall’adolescenza, compagna di studi, nel liceo di Alain e alla Scuola Normale, di Maurice Schumann, René Daumal, col quale studiò anche il sanscrito, Simone de Beauvoir, lo stesso Sartre.
Di Valéry, coscienza dell’Europa, di cui ha preso il testimone con “Radici”, era stata uditrice attenta al Collège de France nel 1937-38, spiega Florence de Lussy, in quanto filosofa e poetessa in erba. A suo interlocutore eleggendolo sulle questioni del linguaggio, più che dell’Europa. In un rapporto semplice ma non semplicistico. In uno dei “quaderni inediti” annota, a margine dei rilievi di Valéry all’argomentazione filosofica tipo, “verbalistica” e spesso incoerente: “Il linguaggio non è fatto per esprimere la riflessione filosofica; la riflessione non può utilizzare il linguaggio che con un adattamento delle parole che ne trasforma il senso, senza che il loro significato nuovo possa essere in se stesso definito da delle parole… È dell’opera filosofica come di certi quadri: non sono che un ammasso informe di colori fino a che non ci si sia posti a un certo punto da cui tutto si ordina”. E altrove:”L’oggetto della filosofia è reale”.
Simone Weil, Cahiers de L’Herne, pp. 407 € 39€ 

domenica 21 dicembre 2014

Una festa per i non credenti

Londra festeggia il Natale ma evita di collegarlo per nessun segno all’Incarnazione, favola o vangelo che sia. L’Italia si pregia di non festeggiarlo, le città per queste notti natalizie oscurando o ingrigendo. Una convergenza di opposte esigenze, che si vogliono ispirate e razionali, il culmine della buona volontà, e ne denudano l’angustia, se non la stupidità.
Per contro, il senso del Natale si moltiplica e imbellisce negli Usa, la cultura forse più materialistica in corso. Senza ridursi ai fini utilitari delle sue poche manifestazioni residue in Italia, la culla del cristianesimo, allo scambio cioè dei doni, anche se indigesti: l’Incarnazione vi è un’occasione per suoni, canti, poesia, colori, leggende, gentilezze. O nei paesi non cristiani, in India per esempio, dove molte scuole fanno il presepe, con la Madonna, il Bambinello, san Giuseppe, i Magi – scuole indù e islamiche. O in Cina, che pure è sempre comunista. Solo la concorrenza semita si astiene, ma per ragioni appunto di concorrenza.
Il rifiuto del Natale è triste non in sé. Ci può stare, le feste non sono obbligatorie. Ma per il ragionamento che sta dietro, specie negli educatori, che ormai sono soltanto educatrici. Un falso senso dei doveri, dei diritti. Dei diritti che sono da inculcare. Esito di generazioni di un linguaggio falso, fazioso al fondo, anche se non sapeva – non sa – di che, e tartufesco in superficie, che non muore e anzi imperversa più che mai.
Una ragione stitica cui la chiesa di Roma si è adeguata con l’aggiornamento conciliare, abbandonando e anzi  stigmatizzando il rito, la preghiera, la festa. Qualche anno fa alla “Franceschi” di Roma, asilo-scuola materna per un duecento bambini, il presepe non si faceva per non urtare la suscettibilità dei bambini mussulmani. Che erano due, di genitori assenti, e magari avrebbero volentieri fatto una festa a scuola. A Bergamo invece sappiamo la sorpresa dei genitori mussulmani, a vedere i bambini privati di una festa che si attendevano -  anche perché l’assimilazione in questa fase aiuta.

Il Natale del papa senza Natale

Questo “Natale” inaugura una collana del “Corriere della sera”, in venti uscite settimanali, su temi pastorali, costruita collazionando scritti vari e dispersi dl papa. Lorenzo Fazzini, che cura il florilegio, schiaccia il papa sul cardinale Martini, in ogni sua espressione: il riferimento costante alla Scrittura, l’occasionalità e dispersione delle sue prediche e lettere, e l’uso della Storia come Scrittura. E un ritrovamento fra gesuiti questa piccola raccolta per tre quarti è.
Sono testi omiletici che il papa indirizza piuttosto a se stesso che non ai fedeli, in famiglia, al lavoro (o alla disoccupazione), in società. A se stesso in quanto gesuita, la speranza rimembrandosi spesso, la perseveranza, la prudenza, la fermezza, o fortezza, la magnanimità, i temi dell’eterno esercizio spirituale cui sant’Ignazio sottoponeva il suo animo impetuoso, la discrezione, il silenzio – il capitolo migliore di questa antologia natalizia è “il silenzio”.
Il Natale di papa Francesco, “spoglio di ogni mondanità”, è un invito al pauperismo. Delle cose e, purtroppo, dello spirito. Un prolungamento del pauperismo egualitarista che si pensava estinto con le cattive ideologie: non il povero portare alla festa dell’Incarnazione, ma la festa abolire per non fare torto al povero. Un Natale senza Natale. Tutti buoni, per carità, ma senza Natale.
È o non l’Incarnazione una festa? Il papa evidentemente lo sa, ma non lo dice. Nei pochi cenni al Natale, si limita a prediche a bassa intensità, bassissima. Fazzini dice il papa Bergoglio simpatico a tutti perché “dogmatico dell’antidogmatismo”, cioè sincretico. Non un prete ma un compagnone. Vedendolo in tv forse sì, qui è perfino tristanzuolo.
Jorge Mario Bergoglio, Natale, “Le parole di papa Francesco”, Corriere della sera, pp. 134 € 1