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sabato 4 settembre 2010

Problemi di base - 36

spock

Rosy Bindi vuole Gianfranco Fini, e si capisce, ma perché Fini dovrebbe volere la Bindi?

Ma è Fini, o l'avatar di “Avatar”? Ne ha pure la soma e il fisico, a parte la coda.

L’intelligenza non può essere che umile, ma si è intelligenti solo se si è umili?

Un governo istituzionale istituisce o è istituito? E in questo caso cosa governa?

Un governo a scadenza significa che è scadente?

“Dio è nei fiori”, dice Sherlock Holmes a un certo punto. E in Sherlock Holmes?

È il linguaggio insignificante la causa dell’insignificanza della comunicazione, o è l’inesistenza della comunicazione (verità, bisogni, progetti) a favorire il linguaggio insignificante?

Se nulla è insignificante, e nulla è casuale o inutile, è il linguaggio insignificante un linguaggio coperto?

Se l’ozono ci protegge dalla troppa luce, perché ci protegge da morte sicura? La morte viene attraverso la luce?

Se un bambino ha già a sei anni l’esperienza di centomila anni, quale è l’età dell’homo sapiens?

spock@antiit.eu

La Calabria, un mondo a parte, apprezzabile

Due memorie di viaggio, nel 1928 e nel 1930, dell’italianista Tuzet allora ventiseienne, invitata dall’Animi, l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia fondata da Zanotti Bianco e Giuseppe Isnardi, e del giornalista e politico socialista belga Destrées, ministro, ambasciatore prima della guerra a Pietroburgo. Due viaggi senza preconcetti, anche se il “Sud” era già una nozione senza appello, ed entrambi i viaggiatori diffidano del fascismo e della sua propaganda. Nei loro ricordi s’incontra la povertà, ma anche la dignità e la speranza. Con tutte le idiosincrasie dei viaggiatori – Hélène trova Catanzaro abominevole, mentre Destrées due anni dopo dice la città “uno dei luoghi dove l’ospitalità è più completa”.
Il paesaggio è attraente. I costumi delle donne pure. E l’onestà dei propositi – particolarmente apprezzata da Destrées, che proveniva da Napoli. I briganti ci sono, ce n’è la memoria, ma come di criminali – nulla che lasci presagire l’epopea che le istituzioni costruiranno sui loro successori, gli ‘ndranghetisti. Il linguaggio diverso di un mondo a parte, delle maestre, dei bambini, degli anfitrioni occasionali, è accattivante anche se contestabile. Divertente più che risentito nelle sue espressioni estreme: Destrées invita al ristorante per sdebitarsi un gentiluomo di Catanzaro che l’ha colmato di cortesie, ordina specialità e vini pregiati, invia a tavoli di conoscenti, “secondo la consuetudine del luogo”, vini e dolcetti, e al momento del conto lo trova pagato, dal suo ospite – la nota defatigante consuetudine de “il caffè è pagato”.
Hélène Tuzet, Jules Destrées, In Calabria durante il fascismo, Rubbettino, pp. 150, € 7,90

venerdì 3 settembre 2010

Il narratore di S.Holmes è meretrice

Si rilegge Sherlock Holmes con interesse, ogni volta scoprendo altre curiosità. “L’uomo deforme” è la storia di David nell’episodio di Uria e Bethsabea, dichiara lo stesso Doyle con nonchalance, “al Libro Primo o Secondo di Samuele” – al Libro Secondo, 11-12. Il segreto di Sherlock Holmes e Watson è quello del romanziere: “Il ragionatore può produrre un effetto che sembra notevole a chi lo ascolta, perché questi ha mancato proprio quel piccolo punto da cui si dipana la deduzione. Lo stesso si può dire, caro amico, dell’effetto di questi suoi piccoli schizzi (Watson sta trascrivendo i racconti di Sherlock Holmes, n.d.r.), che è del tutto meretricious, dipendendo esso dal fatto che lei si tiene per le mani alcuni fattori del problema invece di spartirli col lettore”.
Si rivede invece Sherlock Holmes senza interesse. Conan Doyle, pure non molto curato e spesso ripetitivo, regge meglio dei suoi registi - l'effetto è all'opposto di Montalbano, che invece è soprattutto il personaggio dei film. Ne sono state tentate tante raffigurazoni ma nessuna regge.
Il famoso metodo è tutto in “Silver Blaze”, il racconto che introduce le “Memorie”: “Il problema è distaccare la cornice del fatto – dell’assoluto, innegabile fatto – dagli abbellimenti di teorici e reporter”, che specie negli eventi di grande richiamo abbondano, “una pletora di presunzione, congettura, ipotesi”. Il problema, cioè il metodo. E alla pagina seguente c’è la ragione di Watson: “Niente chiarisce un caso tanto quanto riferirlo a un’altra persona”. Senza contare l’utilità: il personaggio cronista elimina i discorsi indiretti, le ipotesi, i flashback, e altre noie della lettura.
Arthur Conan Doyle, Le memorie di Sherlock Holmes

Secondi pensieri - 51

zeulig

Cicli – Ascese e cadute sono diventate un pattern psicologico di massa. È vero che non si ascende mai definitivamente, mentre l’unico esito umano certo è la caduta. Però, prima di questo punto, ascesa e caduta, le oscillazioni della sorte, sono un pattern solido.

Civiltà – C’è, e progredisce. Risalendo un fiume, andando cioè alla sorgente, si vede il progredire della civiltà. Che è anzitutto un fatto fisco, di depositi alluvionali e acque dolci a ogni uso.

Denaro – Ha una logica semplice, aritmetica: o c’è o non c’è. Non significa e non implica altro: non prestigio, non influenza, e nemmeno potere. Non ha un potere di accumulo sulla psicologia sociale: viene e va senza residui. Una legge, un errore, un incidente possono disperdere un patrimonio dall’oggi all’indomani, e col patrimonio scompaiono il prestigio e il potere a esso legati – altri sono i fattori del prestigio e della rispettabilità.
Si muove rapidamente, per sequenze esponenziali, questo sì: denaro chiama denaro, è cioè più facile che guadagni un ricco. Ma con altrettanta rapidità il denaro scompare: non è titolo di affidamento per banche e creditori.

Dio – Dante lo chiama l’Altro. Nell’“Inferno”, dopo avere deciso che non se ne può pronunciare il nome. È cioè tutto-il-resto? Sarebbe un’elusione costante.

Diversità – È il segno del’uomo. Non c’è cosa (gesto, pensiero, affetto, passione…) nel mondo uguale, e nemmeno simile, istante per istante, fra i cinque o sei miliardi di esseri umani. Ma non conta, non essendo possibile non essere diversi. La diversità è l’unità.

Educazione – Nulla può sostituire una buona educazione. Ma è un bene rifugio.

Ermeneutica - È un ottimo cuscino – cuscino da testa, da letto, per sognare senza incubi.
Insuperabile come esercizio alimentare. Quante persone e carriere non ha nutrito la Bibbia, per sapere cosa la Bibbia dice, prediche comprese.

Erotismo – È sempre autogeno, anche nel rapporto più appassionato: è l’immaginazione che lo stimola. Da qui il fascino di Proust.
Un fascino non elementare: l’autoerotismo non è elementare, evitando la soddisfazione.

Esistenza - È incidentale. Specie in filosofia – nella realtà è più spesso triviale e ripetitiva. Incidentale nel senso della finitezza, oltre che della casualità. Dove può portare filosoficamente se non ai piani bassi: impotenza e piagnisteo (complotto)?
Può essere una modalità dell’essere, ma insignificante come ogni granello di una serie storica – e più per l’essere.

Filosofia – Si può dire il più vasto, e il più serio, parco di divertimenti che sia stato escogitato, che non porta a nessun fine.

Igiene – Porta alla pulizia, morale, religiosa, politica, etnica. Arcigni censori tengono il mondo pulito con gran di varechinate, lasciandosi dietro campi desolati.
È l’ideologia del Novecento che perdura: fare piazza pulita. La storia contemporanea nasce dall’asepsi del dottor Semmelweiss?

Immaginazione – La realtà va oggi per close-up, primi piani – tanto illusori quanto invadenti. Non c’è però ancora oggi realtà fuori dell’immaginazione. Comunicare onestamente è accentuare (sottolineare e non dissimulare) l’immaginazione.

Individuo – È cattolico: si estrinseca nel perdonarsi, non nella grazia, che viene da Dio. E se la salvezza è nelle opere, allora anche il capitalismo è cattolico.
Se l’ingrediente primo del buon imprenditore è la personalità, il capitalismo è di nuovo cattolico. Il capitalismo si è radicato nel calvinismo solo in quanto denaro e artificio finanzario, per la nota difficoltà della chiesa in materia di usura.

Informazione – È disinformazione.

Intellettuale – È middle-class, ne è l’essenza – non la promozione sociale ma l’affermazione di certezze attrae il ceto medio.

È l’uomo delle idee più che delle cose e degli uomini – della verità, della realtà. Di idee però scadenti. È questo che ne fa la forza – e la perpetuazione – e la condanna.
Si esprime al meglio nelle crisi, per il suo senso d’incompiutezza e ansia (Angst). Le crisi perciò cerca e trova in ogni realtà, i punti di frattura, e quindi in una certa misura le provoca. La crisi attuale, strisciante, senza punti di rottura, non avendo assunto la caduta del Muro, né la globalizzazione, e per questo effettivamente disperante, lo trova disorientato – la crisi è normalmente un arco teso, una possente catapulta.

Legittimità – O dell’irrealtà del diritto. Carlo V era legittimato a governare in Italia, e così i suoi discendenti, spagnoli o austriaci. Hitler era legittimato alla Slesia, e anche a Danzica, perché no. Una moglie, o un marito, legittimi possono viceversa non ereditare nulla della moglie o del marito. Il principio di legittimità fissa un diritto, e anche il contrario: fissa l’irrealtà.

Nichilismo – È un’oscura camicia di forza, non è liberazione, wilderness, born free. Si qualifica per il rifiuto della tecnica, che è il proprio dell’uomo. È un rifiuto – un aristocratismo dsumano – che apre forse una nuova dimensione, un “buco nero” dello spirito.
Ma forse è solo un sottoprodotto del Novecento, della cultura del sospetto. Quell’Angst che lo sottende è un’estenuazione del romanticismo decadente – il Novecento essendo stato una deriva dell’Ottocento.

Potere – Nella chiave di Swedenborg è il demonio. Swedenborg vede il demonio non come un individuo ma come una serie di individui, tutti perpetuamente litigiosi, impegnati tutti l’uno contro l’altro.

È la tela di Penelope. Si potrebbe rileggere Penelope in questa chiave – più iinterssante di omero è donna.

Povertà – Non è un fatto economico, è la bruttezza. Che non è un fatto estetico, ma etico.

Viaggiare - È avvicinarsi. O allontanarsi? È tutt’e due, una compresenza: nel mentre che ci si approssima alla novità si ritorna con occhio nuovo al noto, sotto forma di nostalgia, critica, rifiuto, per la prospettiva mutata – è l’eterna tela di Penelope dell’ermeneutica. Succede di spostarsi anche senza viaggiare, navigando con la memoria.
Il viaggio si connota per la lontananza. Succede nella vita di ogni giorno con l’ironia, la lontananza di chi è condannato allo straniamento. Chi ha provato la lontananza, in realtà, ritorna più volentieri.
Se non che l’esilio c’è, la voglia di espulsione, l’ostracismo non l’ha inventato la politica greca, e uno si ritrova spesso fuori, tenuto alla porta.

Siamo nomadi. Uno pensa di trovare una casa, un approdo, ma in realtà è sempre on the road. Anche la nostalgia è del viaggio più che della casa Viaggio nell’immaginario, nel desiderio, nel ricordo, ma sempre una ricerca è.

zeulig@antiit.eu

giovedì 2 settembre 2010

Moravia-Kissinger, la nota coppia clandestina

La collaborazione di Moravia con la rivista di Kissinger dei primi anni Cinquanta, “Confluence”, è una colpa per lo scrittore. Lo scrive il “Corriere della sera”, e lo annuncia nei titoli: “Il silenzio del «doppio» Moravia”. Lo scrittore, aggiunge il giornale, se ne vergognava, al punto di non parlarne mai. E fa puntellare il senso di colpa dalle testimonianze di “strane omissioni” e silenzi da parte dei suoi intimi, Dacia Maraini, La Capria, Antonio Debenedetti, Alain Elkann e Montefoschi. Una “denuncia”, una cistka si sarebbe detto nell’Urss, che è un esempio incredibile di perdurante sovietismo, in Italia, nell’anno 2010 – devono essere stati amici distratti, questi di Moravia, si capisce che lo scrittore ne fosse insofferente. 
La collaborazione di Moravia a “Confluence” Enrico Mannucci, purtroppo per lui, tenta di far diventare “coperta”, mentre era pubblica e nota. “Confluence” non era una rivista clandestina. Ed era una rivista di Harvard, non della Cia, alla quale collaborarono Hannah Arendt, Karl Jaspers, lo storico poi kennedyano Schlesinger, Arthur Miller tra i tanti.
Nel 1957 Adriano Olivetti ne volle una corposa antologia in italiano, oltre cinquecento pagine, intitolata “Totalitarismo e cultura”, per le sue Edizioni di Comunità, a cura di Leo Valiani, con prefazione di Garosci, che fu molto letta. Nella quale c’è anche Moravia, che non vi ha un solo contributo. Il “Corriere della sera” lo limita a uno forse per il titolo, “Communism and art”, pronubo di gossip. Moravia era invitato a scrivere su “Confluence” come altri scrittori italiani, progressisti ma non comunisti, per esempio Corrado Alvaro, o Enzo Enriques Agnoletti – di cui Enrico Mannucci dovrebbe avere conservato memoria.
Mannucci, sempre lui, trova a Firenze un professore moraviano che dice: “L’articolo americano non figura nelle bibliografie compilate finora. Non ne conoscevo l’esistenza”. Male. Poi lo stesso professore trova che l’articolo era stato già pubblicato da Moravia su “Nuovi Argomenti”. Che non vuole dire nulla. Infine scopre che la redazione kissingeriana, benché più breve di quella italiana, contiene diversi “aforismi” (il testo è in forma di riflessioni brevi, la futura scrittura di frammenti) di elogio dell’arte nell’Urss.

Evitare Gheddafi? Troppi 7 anni al Quirinale

Napolitano non vuole incontrare Gheddafi, che è dopotutto un capo di Stato, e allora s’inscena la mancata comunicazione al Quirinale della visita da parte del ministero degli Esteri. Che è esattamente la sindrome gheddafiana, l’estemporaneità. Mentre lo stesso Napolitano prende gusto, in mancanza di meglio, alla sceneggiata politica quotidiana, e dall’intervento quotidiano su qualsiasi argomento passa all’ironia e agli sfottimenti. Anche dove meno uno se lo aspetterebbe, a Venezia, e a Venezia al festival del cinema. Una visita che sembrava un ottimo segnale, un capo dello Stato capace di sgranchirsi la mente. Ma è divenuta un inciampo e un incubo. “La bussola del colle” è il titolo di qualche commento, ma è una bussola che non ha più il Nord.
Uno dei migliori, se non il migliore negli ultimi decenni, presidenti della Repubblica, praticante della Costituzione, equilibrato, guida politica accorta, scende, non al livello del golpista Scalfaro né a quello demenziale di Cossiga, ma solo poco più su, alla chiacchiera da bar. C’è chi vuole che la cosa non sia casuale: Napolitano vorrebbe far finire la legislatura anzitempo, in modo che l’elezione del suo successore sia fatta da un altro Parlamento. È improbabile, fino ad ora ha sempre mostrato di volersi tenere i governi che il Parlamento gli ha espresso, ma è possibile. Allora, però, si rafforza l’argomento principale di chi vede troppo lungo il mandato presidenziale. Sette anni sono troppi, e l’attitudine dei capi dello Stato dopo Einaudi (una presidenza temperata da De Gasperi) lo dimostra: Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Cossiga, Scalfaro. Pertini e Ciampi hanno mostrato più equilibrio, ma non senza smagliature. Cinque anni sarebbe il periodo massimo di tolleranza del potere assoluto, come è stato riconosciuto in Francia, dopo le troppo lunghe esperienze dei successori di De Gaulle – o quattro, come negli Usa, se non si vuole fa combaciare la presidenza col mandato parlamentare.

mercoledì 1 settembre 2010

Ombre - 60

La società creata da De Benedetti in Borsa a fini speculativi, la CdbWebTech, è sanzionata dalla Consob, dopo tormentata istruttoria, per insider trading nel 2005. La Consob va così veloce?
Tra i tanti giornali, la "Repubblica" di De Benedetti è quello che dà i particolari veri della multa: la speculazione a opera di cognate, cognati, e nipoti di De Benedetti. Segno che l'esitore non è cattivo, la servitù è solo volontaria (ogni giornalista ambisce a "Repubblica")

“Alcuni boss praticano regolarmente l’omosessualità”, assicura il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gratteri. Non ci lasciano scampo.
“È innegabile che gli arresti ci siano, ma la mafia se la ride”, aggiunge Gratteri. Dobbiamo dunque non arrestarli?
Lo stesso Procuratore aggiunto critica il papa: “Papa Ratzinger sta troppo zitto sulla mafia”. L’antimafia ha bisogno che se ne parli?

Però il dottor Gratteri ha perso una battuta, o i boss: quest’estate vanno i trans - fully functional, non opérée, assicura “Sette-Corriere della sera”.

Avanza Passera, il candidato di Fini per il governo “istituzionale” – i governo sono parlamentari, ma i democratici in Italia fanno eccezioni.
Abbiamo avuto i candidati dello schermo, belli, fotogenici. Avremo i candidati ombra? Perché certi politici si vergognano?.

Un deputato aborigeno è stato eletto in Australia a centodieci anni dalla Costituzione. Al Sud è andata meglio.

Alvise Zorzi scrive una lettera indignata, che il “Corriere della sera” pubblica come articolo, in cui plaude alla bocciatura della pubblicità nuda in piazza San Marco a Venezia decretata dal sindaco. È vero che Venezia era libertina, dice lo scrittore, ma non in pubblico. Non tra il popolo, avrebbe dovuto dire, al quale invece la Repubblica imponeva leggi severissime. Quanto ai gay, aggiunge, li decapitava in Piazzetta, tra due colonne. Falliche? Senso del ridicolo?

L’ex medico della nazionale francese di calcio pubblica le memorie. Che non interessano a nessuno. Ma sa che potrà venderle in Italia mettendoci dentro Zidane e Deschamps drogati al campionato del mondo del 1998, che la Francia vinse. Titolo appannato? No, si sa che il medico è un opportunista. E perché Zidane e Deschamps, e non altri? Perché erano giocatori della Juventus, e quindi… Non propriamente positivi, li dice il dottore, il dottore non lo sa, ma un po’ troppo bravi per i suoi gusti. Anzi, nemmeno questo il dottore dice, ma dice che tutti sapevano che la Juventus adoperava all’epoca suo speciali preparati.

Sfilata di architetti sul “Messaggero”, che progettano nuovi quartieri al posti di quelli vecchi, volta a volta “insostenibili”, “inabitabili” eccetera. A Roma, la città che è in rosso per un miliardo, o poco meno. Sul giornale di Caltagirone, il costruttore più grande.

È insofferente Pierluigi Battista, nella sua rubrica di spazzature sul “Corriere della sera”, della finta polemica con cui il teologo Mancuso è diventato uno dei famosi. Ma non osa dirlo, lo fa dire a Travaglio. Perché Mancuso lo corteggia la Bompiani-Corriere della sera?

Dunque i Passera, del partito degli onesti, tenevano i soldi nel paradiso fiscale di Madeira, al largo del Portogallo. Lo ha scoperto Mario Gerevini del “Corriere della sera”. Undici milioni e mezzo. Di cui otto avuti in mutuo nel lontano 1999 dal San Paolo di Torino, che poi Corrado comprerà,su un loro albergo non di lusso a Como, “Villa Fiori”. Gli altri 3,5 milioni sono i dividendi e le riserve utili maturate in questi undici anni, investendo il mutuo in reddito fisso. Poi si dice che le banche non promuovono gli investimenti.

Tutte le operazioni dei Passera sono dichiarate in bilancio. Gerevini ha trovato i movimenti e gli ammontari tutti ben specificati nel bilancio 2009 della Lariohotels della famiglia Passera. E questo è il punto: il reddito si sottrae al fisco in Italia alla luce del sole, l’evasione fiscale è un problema di leggi, non del cattivo carattere degli italiani.

“Forza Inter” scritto a “Quelli che il calcio” pare che volesse dire: “Ammazza il tale”. Lo assicura un “pentito” che naturalmente è creduto. Ma la cosa non è inverosimile: Moratti e la sua squadra hanno qualcosa del killer.

Ristagno, il prezzo della delocalizzazione

La delocalizzazione esporta lavoro e capitali, a Timisoara, in Albania, in Slovenia, in Turchia, dove il lavoro costa meno per unità di produzione standard. Ma riducendo, alla sommatoria, il reddito disponibile: i capitali, il monte salari, e in circolo ogni altra fonte di reddito. La delocalizzazione è esportazione di reddito e quindi di capacità d’acquisto. Per questo la domanda interna ristagna.
La delocalizzazione è anche una pausa, quando non una riduzione, della produttività. Settoriale, nelle attività coinvolte, e generale. Per i mancati investimenti nei settori coinvolti, e per effetto del peso cresciuto che le attività protette o captive, banca, assicurazioni, servizi, e lo sterminato comparto della pubblica Amministrazione, hanno nell’economia generale.
Il fatto è ben noto in Germania, dove la delocalizzazione si fa a condizione di accrescere i beni e servizi nazionali da conglobare nell’accresciuta produzione. Con l’effetto di avere una produttività cresciuta di un 10 per cento negli ultimi dodici anni, quelli della ristrutturazione più massiccia, mentre in Italia la produttività risulta ridotta del 6 per cento. Con la creazione di una forbice insostenibile, in un mercato aperto, concorrenziale, tra i margini della produzione unitaria in Germania e in Italia.
Il fatto è peraltro noto anche in Italia. La voragine tra i due sistemi produttivi è dovuta alla risposta diametralmente contraria del sindacato italiano rispetto a quello tedesco. La posizione italiana è sempre quella della difesa del contratto nazionale e dello statuto dei lavoratori, con paghe stagnanti o in calo in termini reali, e un mercato del lavoro sempre più asfittico. Mentre quella tedesca è stata di salvare il reddito complessivo, garantendone una crescita adeguata, e il mercato del lavoro. Questa posizione ha anche giovato al sistema produttivo, come si vede, in una sorta di circolo virtuoso.

lunedì 30 agosto 2010

La Lega fa trent’anni

astolfo

La Lega è ignobile. La Lega di Bossi. Il leghismo ha una storia onorevole, specie al Sud, in fatto di mutualità e perfino di socialismo, quando l'Italia, cioè Milano, perseguitava queste cose, e al Sud ce l'ha in Sicilia. L'Italia del resto si sa che è varia, tutte le città italiane sono diverse, e anche i paesi: è questo che ne ha sempre fatto la diversità dalle altre nazioni, e il bisogno di percorrerla tutta, più o meno, non solo nelle città capitali. Ma Bossi ha infettato l’Italia, più di Berlusconi, le cui tv hanno anzi un messaggio buono, nel senso della bontà, e onesto, nel senso di dichiarato: non esibiscono cosce pretendendole cervello. E la sopraffà.
La vulgata postelettorale vuole la Lega fatta di buoni amministratori. Sobri cioè, non megalomani. Non approfittatori. E operosi. Con un linguaggio semplice, e perciò onesto, e una concezione democratica o popolare della politica. Il che è vero: fin qui il leghismo è un reagente sano, un anticorpo contro l’avvitamento nel quale l’opinione politica è trascinata ogni giorno dall’antipolitica. E può essere un anticorpo, un bacillo pestifero che si inocula contro la peste. Si difende – ci difende – contro il brulicame di mitopoietiche siciliane e napoletane di cui non si può più, da ultimo in dialetto strettissimo, sicilitudini e napoletanità che non si ammantano più nemmeno di folklore, tanto sono aggressive – e tutte quelle giaculatorie impossibili sul sono misero perché sono povero, sono povero perché sono oppresso, eccetera (da o malgrado Garibaldi, dipende dal partito), il terzomondismo è infettivo. Il lombardo può dirlo, o il veneto, o il piemontese: io non sono mai venuto a inondarvi di lombardismi dai palcoscenici e dagli schermi.
Ciò non toglie però che la Lega è odiosa. Perché è confusa, è tronfia, è cattiva, è sottilmente all’origine in realtà di tutta l’antipolitica. È padana, e anzi milanese. Ha imposto un linguaggio e una mentalità provinciali, gretti, cattivi – anche se si è limitata in realtà a farli emergere, dietro il manzonismo e gli altri buoni propositi. Leggere il Sud attraverso il “Corriere della sera”, seppure per fortuna raramente, è un’aggressione costante, senza eccezioni. E insinuante, come un bacillo, e contagioso. Contro non solo gli aspetti deleteri del Sud - e in questo in modo sempre squilibrato, prevenuto, eccessivo, mentre non c’è critica, non c’è nemmeno la cronaca, degli aspetti deteriori del Nord (sprechi, malversazioni, concussioni, delinquenza finanziaria). Ma contro tutto il Sud. Pompei è una rovina, Ercolano idem, o Paestum, il Parco dell’Aspromonte è dei banditi, Agrigento della speculazione, il parco archeologico meglio tenuto del mondo, la malasanità è solo al Sud, dove i bambini sono picchiati a scuola, e le promozioni facili, a scuola e nei concorsi. Un linguaggio che induce la barbarie.
Idee politiche poche peraltro, anzi una sola è buona, il decentramento amministrativo. Per il resto la Lega è il peggior difensore del peggio del peggio. Attaccò le pensioni baby in quanto ne beneficiavano le insegnanti del Sud. Ma quelle del Nord le volle e le vuole mantenute. Abbatté Berlusconi nel 1994, rischiando di scomparire come partito, pur di difendere le pensioni di anzianità, a cinquant’anni. Critica la spesa pubblica, ma la vuole incrementata al Nord. Non vuole gli extracomunitari perché li vuole a condizioni di fame: la legge Bossi-Fini che regola l’immigrazione è uno strumento di vessazione infinito, anche per le imprese e le famiglie. La sua liturgia è ridicola: Pontida, l’ampolla, il matrimonio del mare, i Parlamenti, i ministri. Non si può che riderne.
Ma nessuno ne ride. Non c’è nella sterminata passerella degli Zelig, o dei talk show resistenziali della Rai con caricaturista. Nessuno che vi si azzardi. Come nei regimi di vera mafia, dove non si scherza, il viso dell’arme fa parte dell’omertà. È anzi vero che con queste castronerie la Lega raccoglie voti in quantità. Come dove regna la mafia. E che le castronerie rende produttive, spostando soldi, appalti e posti alla Rai, alle Poste, alla Consob, all’Antitrust, ai ministeri, e dove altro metterà gli occhi. La razza naturalmente non è un fondamento, specie per una popolazione molto mobile. Se Roma è la più grande città calabrese, Milano è la quarta, o terza, città pugliese, e ci sono tanti paesi lombardi in Sicilia dai tempi di Federico II. Il quale era tedesco. E conformava l’Italia “esportando” l’italiano, negli atti del governo, che sono la base di una lingua, e nella poesia. Ma appellarvisi evidentemente aiuta, fa squadra.
Molto interessato alla “«immunizzazione» civica eccezionale in Italia, a fronte degli “etnicismi” (razzismi) più o meno violenti oltralpe, lo storico israeliano Shlomo Sand (“Come il popolo ebreo fu inventato”) ne trova le cause “nel peso enorme del papato e dell’universalismo cattolico”, che come si sa sono il fondamento della democrazia moderna, e nel mito della Repubblica dell’antica Roma. Ma anche nella “differenza marcata tra gli italiani del Nord e quelli del Sud”. Nell’impossibilità cioè di un razzismo. Perché ci sono longobardi al Sud, sassoni e normanni, e bizantini a Lucca, Ravenna e Venezia, Lombardie in Sicilia, Piemonti in Calabria.
Vista da domani, l’epoca sarà stata di gigantesche trasformazioni, per la globalizzazione e l’opzione transpacifica che soppiantano l’integrazione atlantica e mettono in ombra l’Europa, avviandone quello che sembra l’irreversibile declino. Perlomeno in termini comparativi: il piccolo continente resta sempre il più ricco, ma è asfittico: da settant’anni non sa più pensare il mondo, nelle scienze umane come in quelle fisiche, e da trent’anni, crollato il sovietismo, non ha più una proposta politica – il comunismo sovietico sarà stato l’ultimo imperialismo europeo. In questo mutamento epocale l’Italia sta dietro a Bossi, Castelli e Calderoli, alle ampolle celtiche, alle panchine etniche ai giardinetti, e all’invasione dei calabresi, forestali e insegnanti. Ma non si può rimproverare a Bossi e Castelli, che sono di Varese, di essere migliori di Milano – Calderoli, che è milanese, perlomeno ha un mestiere, se è dentista.
Com’è vera la postilla di Hobsbawm (“Nazioni e nazionalismo dopo il 1870”) a Gellner, “Nazioni e nazionalismo”: la nazione è “un fenomeno duplice, essenzialmente costruito dall’alto, ma che non può essere compreso se non lo si analizza anche dal basso, cioè a partire dalle ipotesi, dalle speranze, dai bisogni, dalle nostalgie e dagli interessi… della gente comune”. Bisogna tenere conto È peraltro vero – Gellner – che “è il nazionalismo che crea le nazioni, e non il contrario”.
Bossi può pure essere quello che James Hillman (“Il potere. Come usarlo con intelligenza“) direbbe l’anti-Peitho, la persuasione in greco, l’antiretorica: “Nella vita pubblica, coloro che parlano in modo semplice e deciso, e duro anziché dolce, Ross Perot per esempio, sono più convincenti di coloro che sono in buoni rapporti con Peitho”, che parlano “rotondo” si direbbe nel caso di Berlusconi – di cui Ross Perot è un’anticipazione, un uomo d’affari avventuroso che trent’anni fa pensò di diventare presidente degli Stati Uniti, poi spazzato via dalla vera destra di Reagan. Ma attraverso Bossi Milano ha disintegrato e asservito l’Italia. Con le ali marcianti venete, e ora piemontesi, col mito della Mi-To. Anche se non è tanto forte quanto Milano pretende.

§Quanto ce l’ha grande Bossi?
Nel linguaggio bossiano: quanto ce l’ha grande la Lega? È accreditata, dai sociologi e dai politologi oltre che da Milano, della capacità di cogliere con immediatezza gli umori popolari e capitalizzarli in voto. Non è vero, non sempre è stato così da quando la Lega esiste. Né la correlazione tra opinione e leader d’opinione è univoca. Ma la questione non si chiude, resta aperta. Stando ai fatti, alle votazioni, la Lega ha avuto momenti migliori quindici anni fa, alle politiche del 1996, quando arrivò al 10,1 per cento del voto nazionale e fece l'uananimità della Milano vera e propria, a partire dal suo cuore finanziario, politico, culturale e d'opinione, Milano 1. Oggi, malgrado tutto, è meno forte. Era partita trionfante nel 1992, con l’8,7 per cento del voto nazionale. Sulle ali della governabilità, o voglia di governo, sancita dai referendum di Segni, e prima di Mani Pulite. La discesa in campo di Berlusconi portò a un primo indebolimento: alle elezioni del 1994 Bossi scese all’8,4 per cento. Si rifece due anni dopo, ma il record lo ottenne paradossalmente a spese del suo schieramento: avendo Bossi rifiutato l’apparentamento con Berlusconi, il centro destra ottenne più voti del centro-sinistra ma meno parlamentari. Nel 2001 la Lega non si qualificò per la Camera, fermandosi al 3,9 per cento. Nel 2006 ottenne poco di più, il 4,2. La ripresa è partita nel 2008, con l’8,3 per cento.
Il preteso risultato straordinario in voti alle regionali 2010 è che la Lega ha ricentrato, ma non con la stessa forza, alcuni risultati del 1996. Già allora aveva superato in una regione l’attuale Pdl, già allora aveva “sfondato” sotto l’Appennino. Dopo avere eletto nel 1993 a sindaco di Milano un proprio uomo, Marco Formentini. Ma allora la Lega aveva voti e percentuali localizzate molto superiori a quelle dell’ultimo scrutinio.
L’analisi dei flussi elettorali dice che la Lega ha incrementato i voti rispetto al 2005 del 3,3 per cento. Che non è poco ma non è un risultato eccezionale. Dice anche un 2 per cento lo ha preso al Pdl. Ma per metà questo deflusso il Pdl lo ha compensato con voti in arrivo dal Pd. La Lega ha tenuto soprattutto perché non c’è stato astensionismo nelle sue file, non nelle ultime elezioni – mentre non sono andati a votare, in aggiunta agli astenuti del 2005, un altro 2,5 per cento di elettori Pd, un 1,3 di elettori Pdl, e un 1 per cento di elettori dei gruppi di sinistra. Ma questa mobilitazione non ha compensato il precedente crollo dei suffragi leghisti: Bossi viene da un lungo inverno, quello successivo alla sua esperienza di ruota di scorta anti-Berlusconi – cui ora si vuole devotamente fedele.
Alle politiche del 1996 la Lega aveva raccolto quasi 3,5 milioni di voti. A marzo ne ha avuti 2,7, il 21 per cento in meno. Nel 1996 aveva superato nel Veneto i voti di Forza Italia e An sommate: 928 mila contro 914 mila. E aveva avuto la sorpresa di “sfondare” in Emilia-Romagna, con 216 mila voti e in Toscana – qui con poche migliaia di voti, ma visibili, concentrati in poche situazioni locali.
La Lega ebbe a Milano nel 1993, come voto di lista per il suo oscuro candidato sindaco, il 40 per cento – non un grande personaggio Formentini, un socialista di terza o quarta fila, ma Milano lo preferì al sociologo Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato in Sicilia, che allora era un nel nome. Poi ha avuto, per l’avventurismo bossiano, la fase di sinistra - e per la debolezza di Scalfaro, che pure tuonava contro la Lega, e dei delfini di Berlinguer. Nel 2001 per questo ha rischiato la scomparsa dal Parlamento. Berlusconi l’ha salvata, e da allora con Berlusconi si è ricondotta a profittevole ragione. Ora è come l’Inter: si è deciso di farla vincere.
Ciò che colpisce nella storia ormai ragguardevole di questo inizio di millennio è che la Lega non fa più scandalo: la Lega non è il vilain dell’epoca. Non si scrivono libri su Bossi e il sottobosco, non si fanno inchieste, non si diffondo intercettazioni, non si sollecita la curiosità per un privato pure non commendevole. Questo ruolo è lasciato a Berlusconi: un barlume residuo di scienza politica, nella nuvolaglia che oscura questa come le altre scienze, lascia capire che il nume politico di questa democrazia dei consumi è il magnate dei media (è anche ovvio che i media privilegino se stessi, il medium è narcisista). Ma c’è una ragione meno scientifica all’asimmetria dei media, ed è che Berlusconi è Roma, col suo carico di Centro-Sud, mentre Bossi è il Centro-Nord in marcia gloriosa, liberato dalla zavorra. Che corrisponde al modo di governare di Berlusconi con Tremonti: rispondere alle esigenze del Centro-Nord, col vincolo europeo, e ammansire il Sud, evitare che faccia troppi danni. Da qui l’apparente schizofrenia di Milano: merda su Berlusconi, e viva Bossi.
Si può però dire anche così: la Lega oggi è tutti noi, nel senso che ci ha infettati. Venisse un terremoto, sotto la linea del Volturno, o del “muro di Ancona”, oggi non si troverebbe nel Trentino un Paolo Orsi, a Torino uno Zanotti Bianco, a Genova un Isnardi. Né viene da Trieste un Danilo Dolci contro la mafia – un vescovo sceso provvidenzialmente dal Trentino a Locri, monsignor Bregantini, è stato allontanato dalla chiesa. E questo è l'effetto di "Milano", del dominio totale di Milano sulla cultura e la comunicazione.
Non senza radici, anche sorprendenti. L’uso volgare, brutale, provocatore del linguaggio da parte di Bossi, per smontare la politica tradizionale. Il suo parcheggio in una zona ben visibile, un teatro all’aperto da commedia dell’arte, con ruoli riconoscibili, e per questo stesso fatto rassicuranti oltre che distruttivi. La riconquista su queste basi affidabili – la semplicità, la chiarezza, la secchezza - della politica. È “l’arroganza della semplicità”, è stato detto. No, purtroppo è Gramsci, l’infausta egemonia coniugata col nazionalpopolare. Ottima nozione di sociologia politica, ma cappello della brutta politica più spesso che della buona – della prepotenza più che della persuasione. Bossi recupera dal nulla, insomma con poco, l’egemonia culturale, molto al di là dei suoi esiti elettorali, che pure sono lusinghieri. Cattura il borbottio lombardo, veneto, e lo trasforma in egemonia mutandolo in odio, verso il Sud, verso la politica.
Si può discutere se è la Lombardia razzista, col Veneto, e Bossi solo un pennacchio. Oppure se Bossi non abbia condotto il Nord verso questo vicolo cieco. Prima l’uovo o prima la gallina? Prima Bossi o prima il leghismo, che Bossi ha messo a frutto politicamente? Entrambi, non c’è altra risposta: il leghismo non si distingueva dal campanilismo, Bossi l’ha indirizzato su Nord e Sud, contro il Sud.

§ La Lega è di Milano
La ridicola ascesa al Quirinale di Calderoli, l’ultimo ministro del governo, col suo pomposo progetto di riforma della Costituzione, sarebbe stato accolto con risate a Napoli o in Sicilia. Ma lì non ci sono più giornali, sono tutti a Milano. Dove invece se ne sono inorgogliti. E quando il Quirinale ha manifestato insofferenza, pronti i giornaloni lombardi l’hanno attribuita a Berlusconi, la parte di Milano che si vorrebbe perdente – in attesa di fare la festa infine a Bossi?
Queste è la specialità di Milano, essere e non essere. Negando cioè di essere quello che pure vuole essere, perché non si sa mai, il vento può girare. Una delle specialità di Milano. La principale è di buttare la spazzatura ai piani inferiori, anche fuori del palazzo, ma prima di tutto fuori di casa. Milano è sempre in gara: vuole essere la prima in tutto e anche la migliore, la più buona, la più considerata, la più disinteressata, di Bergamo e di Piacenza, dei sarti francesi e se possibile anche dei banchieri svizzeri. Gli altri vanno a dormire senza pensare agli altri, Milano no, gareggia incessantemente, con Londra, con Pavia, coi terroni di varia specie. Gareggia con se stessa naturalmente, per un qualche cosa che le manca (la buona coscienza?), ma questo spirito competitivo rovescia all’esterno. A fasi alterne.
Dopo il successo elettorale nelle regioni del Nord la Lega è diventata la beniamina dell’establishment nazionale, talk-show, giornali, commentatori, e Bossi è Bismarck, se non Cavour. Ma è questa la novità, non il voto. Che è buono ma non eccezionale. Di nuovo c’è solo il patrocinio rinnovato della Milano che conta, la Curia, le banche, l’editoria. Che glielo aveva dato all'inizio della Nuova Era, dell'Italia milanese, nel 1996, quando Milano 1 votò compatta Bossi, le centomila persone che fanno i soldi, le banche, i giornali, i libri e il calcio per l'Italia tutta - la circoscrizione elettorale che nel 1982 aveva portato Spadolini e nel 1987 Craxi. Alla Lega in funzione di buona amministratrice, di partito del Nord, di baluardo contro la corruzione e il burocratismo, di partito del fare, della modernizzazione. Una delega ora limitata, a differenza che nel 1994-6, che Bossi ha accettato di buon grado, dopo le avventure di quel lontano biennio, prono alle gerarchie della Milano che conta: voleva qualche posto nelle fondazioni bancarie, non glielo hanno dato, e lui non ci è più tornato su. E ingoierà anche Gheddafi in Unicredit. A fronte dei risultati storici, la sorpresa delle ultime regionali è insomma la sorpresa, benevola, della Milano che conta.
La Lega è Milano. La Lega era lombarda quando veniva snobbata, per essere razzista, rozza, estremista. E lo è ora che la beatificano, benché esprima personaggi sempre straordinariamente inadeguati. Milano è il Senatür, affettuosa, sicura, sprezzante. Tutt’altra cosa dalla Milano manzoniana. Se manzoniano non è proprio il Senatür, meglio che non gli zii illuministi. Di Bossi Milano approva generosa, fra i tanti oltraggi, perfino il familismo esasperato, coi suoi tardi figli, recalcitranti. E la neghittosità, di un lombardo operoso che a quarant’anni fu lasciato dalla moglie perché diceva di lavorare e non lavorava, diceva di studiare e non studiava. Bossi è un lombardo atipico, sfaccendato. Ha avuto tardi la visione borromeiana del lombardismo, il “lavorerio”, sia pure degli altri.
Si può immaginare un leghismo non lombardo. E questo è l'Italia. Totò e Peppino sbarcavano a Milano in pelliccia polare, parlando francese “come all’estero”, una cinquantina d’anni fa. Il localismo è certo la parte più attraente e costruttiva della cultura italiana: consente una vita integrata, comunque meno scissa e nevrotica delle culture metropolitane, e dà fiato all’anima, oltre a conservare la diversità, cioè i piaceri – di essere, o di scoprire cose nuove alla porta accanto. Cosa è raccapricciante allora nella Lega? A parte i discorsi alla Miglio, personaggio che sembrava inventato, la Lega è il tradimento del modo d’essere italiano, uniti nella diversità. Tradisce un disegno di egemonia, che non è il primo e in sé non è abietto, ma è incerto e malevolo: esprime la paura della diversità e la volontà di chiudersi. I suoi simboli e i suoi ideali sono “feudali”: tutto è politica e il gruppo si preserva non nel confronto, nell’incontro, nella sorpresa, nella gioia, ma in un cupo isolamento.
La Lega è un fenomeno certamente padano come si vuole. Esprime il grigiore della pianura padana. Che non è brutta – non si vede perché la Lomellina debba essere stata “scoperta” dopo la fuga in massa in Liguria, o la Brianza sia trascurabile. Anzi, tre quarti buoni della pianura padana, lungo i fiumi e attorno ai laghi, nelle città, guardando le Prealpi, sono di per sé bellissimi. Li intristisce la gente – nella Padania il fattore geografico agisce rovesciato: è il fattore umano che influenza la geografia. E senza ragione, non più da almeno un secolo: hanno accumulato grandi ricchezze, sono vicini a mezza Europa, hanno il mare e la montagna a portata di week-end – che dovrebbero dire nella Ruhr? Sono tristi come se avessero coscienza, una coscienza rimossa, di una colpa.
Il leghismo fa paura non come l’ombra d’un gigante ma per esprimere un livore che è una sorta di cilicio, di autopunizione. Non fa paura ma rabbia. Per la delusione di scoprire che i nostri punti cardinali erano sbagliati, che a Nord ci saranno i soldi ma non c’è sostanza. Perché il leghismo è Milano che ci governa, ne è l’essenza, e questa è la sua essenza - non i dialetti, che tutti praticano, con maggior successo il siciliano Camilleri. Milano che si cura, è sensibile, e da tempo, prima dei programmi scolastici, ha cancellato la geografia, se mai l’ha imparata, come una capitale al fondo di un paese continentale. È, in modo non sottile, il “Corriere della sera”, con gli altri giornali della capitale morale. Al suo interno il primo giornale italiano, che è da sempre il giornale di Milano, può contare sull’antimeridionalismo esasperato di un columnist veneto e di uno lucano, un ex socialista e un ex Pci, quali Stella e Rizzo, ma questo non sposta: i due dominano il giornale perché ne esprimono le pulsioni - perfino la raccolta dei funghi il “Corriere della sera” illustra in chiave leghista, limitandola dalla Liguria al Veneto. O l'editoria, che il trend del Sud oggi ipostatizza nel best-seller di Luca Ricolfi,"Il sacco del Nord", una contabilità tanto violenta quanto furba.
Da giornalista, si vede che gli articoli di Stella contro la Sicilia e la Calabria sono precisi al dettaglio, sono cioè documentati . Da buoni informatori, più considerati anche che pettegoli o faziosi, locali, a Palermo come a Palmi: bene informati, cioè, e in grado di valutare le informazioni. Questo si vede anche a “Report”, in forma meno odiosa, e fra le apparenti divagazioni di “Striscia la notizia”. Ma niente di simile c’è, evidentemente, a Brescia o Trieste, contro le malefatte locali. Il leghismo può cioè sfruttare un persistente illuminismo meridionale, in mezzo alle faziosità di partito, di testimoni che, come per i “Washington Papers” nella guerra del Vietnam, non hanno remore a mettere in difficoltà il proprio paese per amore della verità, seppure proteggendosi con l’anonimato. Si può anche dirla così: Stella, il “Corriere della sera” e Bossi sfruttano il civismo, che dunque ancora residua, del Meridione (che è in realtà un aspetto del disadattamento meridionale, dell’odio-di-sé, incapace qui di contestualizzare, di capire come va il mondo nel suo insieme, Sicilia e Lombardia, ma questo è un altro discorso, complesso, che porterebbe lontano).
Milano il leghismo esercita come disprezzo dell’Italia. Anche se la Lega supponente contesta “Roma”, cioè la politica, grazie alla quale invece esiste, solo grazie alla politica e a Roma: fare i ministri, andare sui tg, venire da Santoro, e insomma fare la Repubblica, dalla Pivetti eletta latinista e santa maria goretti all’ingegner Castelli (che galleria, se non se ne perderà il nome!). E anche se il conto del dare e avere di Milano con l’Italia non è apprezzabile: Manzoni, Bava Beccaris, l’interventismo, Mussolini, le stragi di Stato, Mani Pulite, il falso dossier contro Berlusconi nel 1994 per invalidare il voto, i tanti Moratti, che prosperano dell’altrui, la Borsa, e sempre l’affarismo, con i giornali che dell’Italia fanno ludibrio per dissanguarla meglio. Solo il leghismo si può mettere all’attivo di Milano, e ancora non nell’accezione milanese, esclusiva: come liberazione degli altri popoli d’Italia da Milano, dalla moda, i giornali, i consumi, i modi d’essere e di pensare dei milanesi - Milano è capitale morale d’Italia in quanto profondamente immorale.
Senza la Borsa di Milano l’Italia non potrebbe che essere più ricca. Anche due e tre volte più ricca di quanto è: fra patrimoni bruciati e patrimoni sottratti (in Svizzera, a Londra, a Hong Kong, a Montecarlo, alle Caimane) quante risorse Milano ogni giorno distrugge più di Roma, di Quirinale, Camere, Ministeri e Autorità messi insieme, due volte tanto? tre volte? La coscienza stessa non sempre è compatta: Milano ha mezzo milione di abitanti in meno che nel 1980. Sempre presume di se stessa, ma deve temere l’inferno.
“La Lega non è propriamente milanese, ma essendo Milano la capitale naturale del Nord, si è rapidamente radicata nella città”, eleggendosi un sindaco leghista. “Anche Mani pulite è nata a Milano. E non si è trattato solo di un fatto giudiziario, ma di un grande sommovimento popolare. La forza di Di Pietro non dipendeva dalla legge, ma dall’appoggio dei milanesi che scrivevano dovunque «Grazie Di Pietro». Di Pietro non era solo un magistrato, era un eroe popolare, un giustiziere, un capo carismatico. Infine da Milano è partita Forza Italia. Di cui in pochi mesi sono sorti dodicimila club. Dopo le elezioni del 27 marzo del 1994 Berlusconi andava al governo. Tre mesi dopo nelle elezioni europee otteneva il 30 per cento dei voti e tre milioni di preferenze personali”. Perché, si chiedeva Francesco Alberoni nel 1997, dopo aver fatto l’elenco dei primati di Milano, “a due mesi dalle elezioni del sindaco di Milano, c’è in giro tanta perplessità e, in alcuni casi, tanta indifferenza?”
È vero che Lega e Mani Pulite vanno assieme. Non sono il ripudio di Roma Ladrona e dell’Italia Unita. Sono la riconquista del Sud – Roma è il Resto d’Italia. Da parte dei milanesi, dopo la conquista piemontese. A condizioni di realizzo: un mercato di sbocco, per la moda pronta, le arguzie Mediaset, i vini algidi dell’Oltrepò, e un mercato del lavoro, si spera, di nuovo a buon mercato con le gabbie salariali. Se ci sono perplessità, quando periodicamente emergono, è perché Milano è frou-frou, è volubile, si stanca presto. Così la città ama rispondersi. La verità è che Milano sfrutta l’Italia, la tiene col morso stretto: li fa, e li manda a Roma. A quindici anni data, la natura dei primati milanesi fa solo paura. Dopo Formentini, il sindaco leghista plebiscitato nel 1993 da Milano 1, il centro degli intellettuali e dei ricchi, Berlusconi dovette nominare sindaco, l’anno dopo i tremori di Alberoni, un dirigente dell’Assolombarda, Albertini, per raddrizzare in qualche modo il bilancio del Comune. La Lega è accreditata, a Milano, di buongoverno: ha successo perché gli assessori fanno un buon lavoro. Mentre i suoi sindaci e assessori, a cominciare dal dimenticato Formentini, sono mediocri. Vicenza, Treviso, Bergamo si governavano bene anche con gli assessori Dc. Il Friuli pure, e il Veneto, e la Lombardia tutta. La Lega è solo la migliore “invenzione” di Milano per il controllo dell’Italia.

§ L’amore dei luoghi
Una lattina di Coca-Cola sul tavolo e liquori col tappo a vite per la torta di compleanno di Tremonti a Calalzo, con Bossi al tavolo. E cori di montagna. Per chi conosce le sofisticherie di Tremonti è un falso. Ma è un falso parte di un linguaggio inderogabile, che i potenti fingano di brindare con la grappa a tre euro la bottiglia: la semplicità. In aggiunta all’onestà, il messaggio è: “Siamo bravi politici e non ci siamo arricchiti”.
A volte Bossi è tutta Milano come portabandiera dell’antipolitica. O la politica della non politica. Del non governo. Ma questa è la parte ridicola di Milano, i suoi giornali. La Lega invece è seria.
Bossi “nasce” imitando Le Pen. Con meno pregiudizi e più sbandamenti. È solo, ma è diretto, dice le cose che “tutti” pensano, si pone al Centro, al posto della Dc, non ha apparati né carrozzoni da proteggere, è simpatico sbruffone. Sarà quello che le pulsioni violente e segrete della Lega, della sua base elettorale, popolare, ha purgato e reinridirizzato: uno statista. Bossi sa che la chiarezza in politica paga. Sa anche che gli italiani metterebbero le bombe pur di liberarsi dei rigurgiti del democristianismo, del ci sono e non ci sono, lo dico e lo nego, forse sì forse no, e ce n’è solo per il vescovo. Berlusconi non lo sa, anzi crede che paghino le chiacchiere, più parlo più mi credono, e non la chiarezza. Perché è un democristiano mancato. Al punto che non sa, malgrado le tante elezioni e i sondaggi, che il democristianismo è il residuo 4 per cento di Casini e Rotondi, più il 4 per cento di democristianismo di complemento di Fini, Gianni Letta, Pisanu e Scajola messi assieme.
La Lega è il solo soggetto politico innovatore di questo lungo purgatorio, o agonia che sia. Berlusconi pure, ma con più robusti limiti, di legge (conflitto d’interessi) e caratteriali, molto incisivi questi in un partito del Capo. Le leggi liberali di Berlusconi ancora le aspettiamo, dopo vent’anni: sui giudici e i corpi di polizia, sulle tasse, sulla burocrazia, sugli appalti onesti. Quelle della Lega, col decentramento a oltranza di ogni potere politico, sono un fatto. Che non sono avventizie e improvvisate come i suoi nemici vorrebbero, ma capitalizzano una consistente tradizione culturale e politica, liberale (Cattaneo, Ferrari) e cattolica (le casse di risparmio, le popolari,le Raiffeinsenkasse della Lombardia e del Triveneto).
La Lega festeggia quest’anno i trent’anni, anzi tipicamente non li festeggia, e quindi si può dire. Il linguaggio semplice e incontrovertibile, la totale non-ideologizzazione, etnicismo compreso (“vediamo che mi dicono o mi portano di buono, se e quando non mi va li mando a fare in culo” è il solo modo di procedere di Bossi), Bossi parla diretto, di cose – Bossi è il miglior Pannella prima dell’involuzione partitocratica, la radicalità dev’essere semplice. La stessa mediocrit dei suoi orimi esponenti, Borghezio, Speroni, va in questo senso.E ha creato un’architettura di partito solida e semplice, solida perché semplice. Bossi rompe: urla, sfida, aizza. Maroni media e ricuce, amico del bar e dei rossi. Due parti in una partita che per la Lega è ora chiaramente una commedia, una gioppinata.
Dopo la paralisi i due ruoli si sono effacés, Bossi non è più tanto Olio, e Maroni non è più tanto Stanlio, è uomo di Stato solido. Ma, ora come prima, la Lega governa dal ministero dell’Interno, il ministero dei prefetti. Nella diarchia c’è anche l’eversione-cum-istituzioni. Nel mentre che minaccia, minacciava, la fine, Bossi ha voluto la presidenza della Camera, l’Interno, le Riforme Istituzionali, quanto di meglio e di più italianofilo.
C’è una vena libertaria nel leghismo di Bossi. Non per ridere, o per gusto del paradosso, c’è nel razzismo originario, nel rifiuto dell’immigrato, specie se terrone. In più di un senso questo rifiuto è liberatorio – lo sarebbe. Se:
1)Elimina la retorica
2)Blocca l’emigrazione – che è sempre un arricchimento indebito per l’area di destinazione
3)Esibisce l’avidità di Milano
4)Mostra che il problema del Sud è anche il Nord
5)Lascia i terroni soli, finalmente obbligati a sbrogliarsela.
Si può pensare la Lega l’intercettore dell’Italia profonda, contro il “garibaldinismo” eterno che inquina ogni famiglia, eroico e profittatore.
Tipico l’impegno di Maroni contro la mafia. Che è problema soprattutto meridionale. Impegno costante e di grande esito. Nel primo passaggio al Viminale Maroni sbaragliò una mafia potente, quella dei terreni a Oppido Mamertina, col semplice portare un bicchiere d’acqua alla baronessa Cordopatri. La mafia dei terreni le aveva ucciso il fratello, benché rifugga dai delitti contro la persona, è una mafia che lavora col codice. Teresa Cordopatri ci vide un punto di debolezza, e si attendò in piazza quando il processo cominciò. Maroni per solidarietà fece il viaggio fino a Reggio Calabria. E l’uomo più potente di quella mafia, Saro Mammoliti, fu condannato. Non resse il carcere, si pentì subito, in modo da salvare una parte del maltolo, e la mafia dei terreni fu sbaragliata.
Tornato al Viminale, Maroni ha fatto l’accordo con Gheddafi, riducendo gli sbarchi di clandestini dalla Libia da diecine di migliaia a poche diecine. Probabilmente domerà i tifosi che rendono impraticabili gli stadi, gli “animali” che già la baronessa Thatcher ha domato. E ha fatto fare in pochi mesi al capo della Polizia Manganelli quello che i suoi predecessori Pisanu e Amato non avevano fatto in otto anni: la cattura dei latitanti, la trasformazione dei sequestri in confische, le indagini patrimoniali. Sembra poco, è poco, ma ha significato lo smantellamento di molte mafie, il dislocamento di altre, e su tutte la paura, finalmente. Il miglior ministro per la Calabria, per il Sud, un vero ministro dell’Interno, sarà stato Maroni, un leghista. Poi Bossi lamenta di essere sommerso dalla mafia nel suo Nord, e l’antimafia leghista si spiega. Ma ha lasciato il segno: se Maroni si candidasse al Sud prenderebbe molti più voti del suo prediletto Berlusconi, prediletto del Sud.
Il leghismo è amore del proprio luogo – terra, borgo, città. Buono o cattivo? È la base della democrazia americana, lo è stato dell’Italia dei Comuni. Sarebbe un ricostituente decisivo, e comunque è necessario, per il Sud, che da un paio di secoli si distrugge, e forse si amerebbe cancellato. I popoli in fuga restano condannati, alla diaspora e all’inferno, se non si ritrovano, nella terra, nella storia, nel modo d’essere. Pernicioso è il leghismo che esclude, di chi, nella sua stabilità, rifiuta il diverso che non si assoggetta, non omogeneizzato. Si può dire Bossi giano bifronte – gli piacerebbe? lui dirà di no. E cosi è, deve essere: l’amore dei propri luoghi è, nella selvaggia psicologia della Lega, il disprezzo e non la curiosità degli altri. Il “Corriere della sera” ne dà l’esempio, che della Calabria azzanna periodicamente non solo la sanità e la ‘ndrangheta, ma le spiagge, l’Aspromonte, le donne e Polsi, il luogo di culto con più continuità in Europa, da quasi tre millenni – per non dire di Napoli, o della Regione Sicilia.

§ Il leghismo è molto meridionale
Grande rilievo dà il “Corriere della sera” all’informativa dei Ros, o della Procura di Firenze, che Bondi ha assegnato la direzione dei lavori agli Uffizi a un parrucchiere siciliano. Che ha un fratello legato alla mafia. Poi nulla risulta vero: Bondi non ha assegnato l’incarico, il siciliano che ha avuto l’incarico (non da Bondi), l’ha rifiutato, è un ingegnere e non un parrucchiere, e suo fratello è un architetto che non ha nessuna ditta e, dice, “aborro la mafia, la sola parola mi fa paura”. Ma il “Corriere della sera” non si scusa, la buona coscienza di Milano. È così che nascono le storie, quelle del Sud. Da un provincialismo-strapaesismo revanscista, in una città che malgrado tutto è l’unico foyer con qualche pretesa internazionale in tutta l’Italia. Ma che ama assolversi di ogni infamia e la merda, come diceva Malaparte, butta sul resto d’Italia. Per un fatto fisico, geografico, E per dominare l’opinione pubblica.
La Lega è odiosa soprattutto per il ceto medio professionale del resto d’Italia, insegnanti, medici, ingegneri, avvocati, magistrati cresciuti nel mito di Milano. Che hanno scoperto in età adulta di essere degli estranei, non apprezzati, solo tollerati. La Lega ha cassato l’infanzia di molti in Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna, che si lega alla “Piccola vedetta lombarda” alle elementari, e ai cori alpini nelle riunioni di famiglia, a Pasquetta, per i compleanni, per le gite, con le parole e le intonazioni giuste, mediate dai militari a Casarsa. Mentre non si conoscevano le parole di “Calabresella” o “Vitti na crozza”.
La Lega è l’orrida scoperta di essere “fatti”. Non manipolati, non utilizzati ma proprio costruiti, pezzo a pezzo, coi libri di scuola, i giornali, il birignao e la banca. Il Nord ha fatto il meridionale, come il puparo fa i Pulcinella, e ogni tanto lo bastona. Un emigrato negli Usa, in Australia, in Canada, si integra. Raro è il desiderio del ritorno. Uno emigrato a Torino o Milano resta estraneo, talvolta anche alla seconda e alla terza generazione. Questo anche prima che Bossi ne facesse una dottrina. Mondi molto diversi accettano l’immigrato, mondi simili no. L’integrazione è forte però, e spesso identificazione già alla prima generazione, anche in paesi fortemente stabilizzati, e perfino sciovinisti: Svizzera, Germania, Belgio, Gran Bretagna, e in parte anche la Francia.
Ma questo non si può imputare a Bossi. Fra gli aneddoti di Beppe Viola, “Quelli che…”, p. 62, uno conferma che il leghismo c’è sempre stato. Il maestro elementare di Viola diceva su “Linus” già trent’anni fa: “Nella mia scuola ci sono più meridionali che italiani”. O la poetessa Alda Merini, che nella raccolta “Come polvere o vento” dà un esempio ante litteram, del 1986, di lombardismo, “La siciliana”: è costei una “furbona”, una fruttivendola, che “guarda i milanesi\ come fossero bestie\ e bestie lo sono certo\ se danno pane e companatico agli altri”. La siciliana è una dei tanti che “spaventano i milanesi\ con la loro bella faccia tosta\ lavata dai mari del Sud”. La milanesissima Merini era a Milano reduce da Taranto, da un matrimonio sfortunato con il poeta tarentino Pierri. A Pierri e ai suoi familiari aveva dedicato un’antologia classicheggiante di rara umanità, compresa nella stessa raccolta. E in particolare, a Mimma Pierri, un generoso elogio etnico, “Le donne del Sud”.
Il padano, si sa, è malinconico. Quindi sentimentale, estetizzante, folle. È ordinato per non essere folle. L’ipocrisia, che ne sostanzia anche l’impegno, è la valvola di sfogo di questo universo d’ordine che principi e cardinali hanno imposto a partire dall’impossibile Seicento dei bravi, in Piemonte, Lombardia, le Venezie. Ma anche l’ipocrisia ha bisogno periodicamente di una stura, di poter defluire libera – la schizofrenia è prepotente, per quanto sotto controllo.
È così che la Lega di Bossi è stata ineluttabile, inevitabile. Necessaria: ha fatto con i suoi respingimenti un’operazione meritoria, costringendo i pugliesi, i siciliani e i calabresi a guardarsi attorno. Questa Lega, insomma, è molto “meridionale”. Al modo come Milano ha creato il Sud - Milano si finge Londra, e ributta sull’Italia la Lega, che invece è proprio milanese. Se non fosse diventato il Senatür, Bossi si sarebbe detto, e si direbbe, un qualsiasi figlio di famiglia di un paese in Calabria o in Sicilia, che fa finta di studiare fino a quarant’anni – a quarantuno gli mancavano ancora undici esami di medicina. Quanto alla Lega, il Sud ne è maestro: è maestro del mugugno. A questa partita non è detto che la Lega esca vincente: Camilleri è il miglior leghista, “l’autore italiano più letto e amato degli ultimi anni”, che il Nord riduce a Boccadasse, fidanzate stinte, prefetti cialtroni, e spaccia in tutta Italia, sempre battendo ogni concorrenza, il dialetto agrigentino.
Dice Bossi: “Quelli lì, poco o molto che gli diamo, se lo mangiano subito”. E non ha torto. Ma le generalizzazioni etniche sono spesso più negative di quelle nazionali. Sicilitudine e napoletanità sono connotazioni negative, anche se inalberate con orgoglio. Sono scarti regressivi, innestandosi in una situazione di dipendenza che non ribaltano e anzi aggravano.
La differenza è positiva nell’unità di intenti, o civile, o sociale, o culturale. Altrimenti è separatezza, e ostilità. Le generalizzazioni, spiega Gershom Scholem a Walter Benjamin, “Teologia e Utopia”, sottintendono o sottolineano non la diversità ma un senso di ostilità. È vero e rilevabile di ogni stereotipia, non solo di quella (anti)semita. Un napoletano e un toscano sono diversi e l’hanno sempre saputo La napoletanità scatta quando il toscano non ne può più.
Si può insomma dire che il vero Sud è al Nord. Ma è arguzia futile: certamente il Nord è ricco.
Ma è vero che tra Nord e Sud il rapporto è intricato e intrecciato. Protesta la pia Gelmini per i troppi 100 e 100 e lode dispensati al Sud alla maturità. Ma questo non è leghismo, dev’essere il correntismo democristiano: le commissioni sono state larghe soprattutto nei licei vescovili, gli ex seminari. Anche le invalidità si giustificano. Se ne riconoscono di più al Sud perché il Sud è povero e quindi si nutre male, e il lavoro vi si fa senza precauzioni, anzi fuorilegge – sennò, che ci starebbe a fare il Sud? No, il rapporto della Lega col Sud è complesso.
Berlusconi, per dire, fiducioso milanese, è stato personalmente e politicamente distrutto da una signorina napoletana e da una barese. Ma già prima da una moglie lombarda che, non essendo all’altezza di seguirlo a Roma e parlare con le mogli degli altri capi di governo, l’ha lasciato solo e vitupera. Mentre Bossi l’ha salvato una moglie “calabrese” - di origini in realtà siciliane, co-fondatrice della Lega, ma la le geografia è incerta al Nord. Una cioè che sa che deve sopportare (supportare) il marito. Che dev’essere stato insopportabile, quando usciva la mattina con la borsa da dottore, quale non era.
Anche questa pretesa, non sarà “meridionale”? La laurea, sia pure falsa, è il totem della Lega. Umberto Bossi giovane, sposato a Gigliola Guidali e con un figlio, disse per anni alla moglie, partendo la mattina con la valigetta, che andava a lavorare in ospedale. Dove svolgeva le mansioni di perito elettrotecnico e non di analista come pretendeva (quando la moglie scoprì che non era medico ma solo iscritto a Medicina, con undici esami da superare, per lo choc divorziò). Anche uno dei figli Bossi, quello soprannominato “Trota”, se n’è attribuita una. L’assessora regionale Monica Rizzi di Brescia, bella donna, si pretende psicologa infantile, cosa che tutti sanno che lei non è, anche se nessuno lo scrive – l’arcigno Censore Lombardo su questo tace. Famoso quasi come il suo capo è diventato l’“ingegner” Regis, detto “Lampada” perché era elettricista, che fu senatore. Essere elettricista e senatore è la forza della Lega e anche il suo bello. Ma il preteso ingegnere, per questo poi condannato, ascese grazie al titolo al consiglio d’amministrazione dell’Enea. Dove, forte di tanta specializzazione, giunse a insolentire il presidente, il professore di fisica premio Nobel Carlo Rubbia.
Ma di questo, non solo di Monica Rizzi, non si può parlare al Nord.
Al Nord
la furbizia è meridionale
la corruzione è meridionale
senza il Sud il Nord sarebbe più ricco, il più ricco d’Europa
la burocrazia è meridionale
gli sbirri sono meridionali.
Tutto ciò si può rovesciare. È anzi vero che il Nord è molto ricco, ma perché ha avuto e ha un Sud, senza sarebbe meno ricco. Il ribaltamento della questione meridionale in settentrionale è paradossale. È anche una furbata, per i meridionali e per i settentrionali. E tuttavia c’è un che di vero nel messaggio della Lega: non fidarsi. Il Sud deve fare da sé.
“«Forse è anche un po’ troppo rustico nei modi, non trovi?», disse Buddenbrook al console.
«Eh, che vuoi, è un meridionale», disse il console soffiando il fuoco nella stanza”.
Il meridionale dei “Buddenbrook” viene da Monaco di Baviera, che era ed è la città più ricca della Germania, al centro della regione più ricca, ma innominabile per un amburghese. L’amburghese è anche poco tedescofilo e piuttosto anglofilo. Così come i lombardi, o i veneti, che a correnti alterne si scoprono tedeschi. Bisogna sempre guardare in alto.
“Ciò che è misantropico è falso”, scriveva il filosofo francese Alain alla filosofa Simone Weil, che progettava saggi risentiti. Il risentimento, su cui nulla si costruisce, è la passione forte del Sud, un revanscismo vago, che si traduce in lagnosità: inesistenti diritti, colpe immaginarie, risarcimenti impossibili, eccetera. Il leghismo invece è assertivo. È per questo produttivo, supera il risentimento, seppure non lo rifiuta. Per ritenersi, anche quando non lo dice, superiore e migliore. È per questo produttivo, benché ridicolo, incolto, impaziente.
Il Sud invece affoga nel risentimento. Evidentemente incapace di ogni mossa leghista: sabotare il panettone per esempio, non mangiarlo, non è neanche una grande privazione. Pretendere un vero federalismo fiscale, esteso all’Iva, la tassa iniqua che i consumatori del Sud pagano ai produttori del Nord, anche quando la fabbrica è al Sud. Oscurare magari le tv di Berlusconi, invece di votare in massa per lui.
La Lega è, come in generale il nordismo nell’Unione europea, perbenista. Ma è un reagente: usa argomenti che il Sud deve fare propri, la cura del lavoro, la probità, l’impegno costante, i conti onesti, la buona amministrazione. Poco importa se il Nord si appropria di valori che invece sono di tutti. E se il suo perbenismo è di facciata. La sua sommatoria è vincente, e questo basta. Poco importa se la corruzione è diffusa nella provincia tedesca: l’usura, la raccomandazione, l’esportazione di capitali, i concorsi ad personam. Bisogna rubare all’Unione europea secondo le regole. Non c’è comunque in Germania qualcosa che possa somigliare in turpitudine al napoletano o alla Sicilia. E comunque il Nord è vincente, su tutti i fronti: della moralità, sia pure ipocrita, come dell’economia-ricchezza.

§ L’unità degli errori
“Posso chiedere da dove venite?”, fa l’addetta alle informazioni incuriosita da una parlata italiana non familiare tra i tedeschi. Roma è risposta che le sembra straordinaria, e sgrana gli occhi. C'è già una generazione di veneti, soprattutto, e lombardi che ha un'idea remota del Sud, se ne ha una, a cominciare da Roma. Il colloquio si svolge a Villa Manin di Codroipo, dunque nel Friuli liberato con grande spargimento di sangue, un luogo d’arte che pure conta molti visitatori, la residenza dell’ultimo doge. Ma non si può dire ignoranza: la geografia torna immaginaria, come al Medio Evo, quando conoscere e descrivere non interessava ma creare mostri e portenti: Bossi, che ha ideato la sacralizzazione del Po, non sarebbe strano che ci marciasse sopra - così come la storia, del resto: quando Bossi faceva il crociato nessuno rideva, o si sposava il mare a Venezia, come un doge.
Per i quarantenni friulani e veneti il Sud è ancora una risorsa, al modo come lo erano i romani negli anni Cinquanta e Sessanta nel Sud Tirolo, che riempivano caciaroni le piste da sci e i rifugi col portafogli aperto - rispetto ai timorati teutoni, che spendevano tremila lire per un piattone alla bolognese , in cui c'era anche il secondo, la carne del sugo, e il dessert, il formaggio grattuggiato in libero uso sui tavoli. Oggi il Triveneto si ritiene remoto dall’Italia. Dopo avere unificato l’Italia nel sangue delle guerre, e nella pancia, con la polenta e il baccalà, oltre che coi cori.
Il problema non sono i lamenti, questi si lamentano sempre. Appena liberati a caro prezzo, già i triveneti si lamentavano – copiano anche in questo il Sud, diceva Salvemini nel 1920, rieditando le terribili “Lettere meridionali” dello storico Pasquale Villari: “Leggendole, pare di ascoltare i lamenti che gl’italiani del Trentino e della Venezia Giulia fanno di questi giorni” contro Roma. È che la distanza è abissale. Non chilometrica, in fondo Trieste è più vicina a Roma di Reggio Calabria, per non dire di Palermo. Ma mentale: questi stanno in Italia per caso, non malvolentieri forse, ma non si rendono conto di quante turpitudini l’Italia ha loro risparmiato, nella loro tanto vagheggiata Mitteleuropa, con gli slavi e i tedeschi.
L’Australia, che non si può non dire un paese democratico, elegge il suo primo deputato aborigeno oggi, dopo alcuni secoli. Al Sud quindi è andata meglio. Ma si celebra con disagio il centocinquantenario dell’unità. Per il leghismo incombente e anche, se non di più, per la coscienza, al Sud, al Nord, nelle città, nelle campagne, che il Risorgimento fu dei Savoia e non di Cavour. Che l’Italia fu ed è del compromesso e non della libertà.
Il Risorgimento ha una parabola nettissima a coda di pesce: dal grande movimento di libertà che fu il 1848, in tutta l’Italia, anche nei paesi più remoti dell’Aspromonte o delle Madonie, al liberalismo modernizzante e industrioso di Cavour, alla cortigianeria dei Savoia. Dopo non c’è più storia fino al fascismo, primo regime “democratico”, o popolare, della storia unitaria (ceto politico nuovo, opere sociali, edilizia popolare, scuole, ospedali, ruralità). Che però era una dittatura, in reazione alla quale l’Italia si è precipitata in un democraticismo anarcoide, impossibile da governare.
Liquidando Cavour, i Savoia hanno liquidato il liberalismo, che in Italia non c’è più stato e non c’è. Centro-sinistra con Rattazzi, centro-destra con Quintino Sella, quindi centro-sinistra, con Depretis, Crispi e Giolitti. Ma sempre e solo l’interclassismo che fa bene ai moderati (i futuri gattopardi), con qualche aggiustamento, sofferto, dopo gli scossoni violenti, tra essi il fascismo. L’Italia repubblicana s’è riagganciata al modulo Savoia, recuperandone il linguaggio, lo schema di cooptazione politica (seppure nobilitandolo in Giolitti, a opera dei grandi storici, Spadolini, Galli della Loggia), e perfino il personale. I socialisti, che hanno tentato di rompere questa gabbia, sono stati sterminati. Da qui il successo – l’attenzione, l’attesa – dell’impresentabile Bossi.
Si può contestare l’affermazione leghista che “il federalismo è l’unica via per tenere unita l’Italia”. Per i suoi costi. Per l’inevitabile divaricazione. Ma è anche un fatto che l’Italia non è molto unita. L’Italia è anzi piena di situazioni che si vogliono speciali. Le isole – le isole maggiori, ma anche le Eolie rispetto alla Sicilia e le Pelagie – e le regioni di frontiera bilingui binazionali. Specialità più o meno vere e false, come la napoletanità, e la sicilianità – che si preferisce alla francese, sicilitudine. Il primo, e finora unico, movimento separatista, si è avuto in Sicilia - o bisognerà dire Bossi al carro della Sicilia, in fatto di regionalismo e di separatismo, oltre che di leghismo originario delle buone intenzioni?
Il patriottismo delle piccole patrie è in chiave leghista il “narcisismo delle piccole differenze” di Freud. C’è un particolare piacere, notava Freud, nell’odiare, disprezzare, perseguitare, o quanto meno ridicolizzare, il vicino più prossimo: i portoghesi per gli spagnoli, i tedeschi del Sud per i tedeschi del Nord. Essere un mondo a parte, dichiararsi tale più che esserlo, è necessario (vero) e conveniente. Capitalizzare sulla distinzione, si può e si deve: farne la “capitale” di un qualcosa, di qualsiasi cosa. Bisogna fare il brand e affermarlo, “l’invenzione della tradizione” è al cuore delle patrie.
Sono diversità che si vogliono nazionali, cioè tribali, cioè esclusive – avverse a un Nemico. Che non sono simpatiche, ma non infondate. È anche il pregio dell’Italia, un paese di diversità, caratteriali, linguistiche, morfologiche, di tradizioni, in pochi kmq. Mentre la Lega si vuole diversa per essere migliore e un po’ superiore. Che è antipatico, ma anche veritiero. La fiducia in se stessi è produttiva, anche di buona amministrazione, e viceversa, in circolo virtuoso, l’operosità rialimenta la fiducia in se stessi. Fino alla pretesa di tornare ai dialetti, che altrove si direbbe assurda.

§ La questione meridionale si risolve col dialetto
La Regione Friuli Venezia Giulia ha varato il bilinguismo. Di fatto di trilinguismo. Che nel triestino può giu-stificarsi, anche se nessuno lo chiedeva: la seconda lingua è lo sloveno. Nel Friuli è solo ridicolo: Udene per Udine, Ĉervignan per Cervignano. Il bilinguismo, adottato dal governatore illuminato Riccardo Illy, è un modo per spendere soldi: rifare i segnali stradali, creare centri studi, fondazioni eccetera, assegnare qual-che centinaio di cattedre. La Corte costituzionale a maggio 2009 ha rigettato il bilinguismo, Illy non ne aveva il potere. Due settimane dopo il nuovo governatore Tondo, pur criticando il bilinguismo, stanzia 600 mila euro per il 2009. Non è molto, ma è tre volte la somma che la Regione stanzia per promuovere le lingue straniere.
Nel Veneto Galan è trombato perché tiepido sul bilinguismo. Per il quale tuttavia accetta di stanziare 250 mila euro. Il suo eiettore Luca Zaia subito crea una cattedra di dialettologia a Venezia.
Il ritorno al dialetto ha messo in apprensione il “Corriere della sera”, che ne ha fatto una delle questioni estive 2009, dedicando l’apertura mercoledì 29 luglio alla richiesta della Lega di formare insegnanti di dialetto. Dicendo a rischio l’unità, il Risorgimento, l’innovazione tecnologica, le tre i del cavaliere milanese - oggi quattro con l’idiozia: il solito argomentare stanco degli ultimi venti anni. È il pendolo: un giorno il “Corriere” ci impone la Lega, e il giorno dopo la denigra, per lasciarci nell’incertezza. È pure vero che la Lega ama spararle sempre grosse, è un modo di sentirsi vivi che piace, non solo al Nord-Est suo feudo.
Ma non dispiacerebbe a nessuno che Milano si manifestasse per una volta quella che è, incapace d’imparare l’inglese, e forte dove si sente protetta. Se non fosse che è l’ennesima manifestazione d’invidia: Milano, l’eletta della nazione, invidia il detestato Sud, dove si parla dialetto con gusto - per non riuscire ad imparare nemmeno l’italiano, cosa che anche un bambino sa fare. Questa non si sapeva, ma non è una novità.
È da tempo che Milano invidia a Napoli il dialetto che vuole la traduzione in sovrimpressione, delle canzoni e dei film. Che è cioè un’altra lingua, e ben efficace. A Roma il romanesco: ogni estate da molti anni la Lega propone di eliminare dalla Rai gli speaker e i presentatori che parlano romano, e di ridurre i finanziamenti al cinema, dove di solito si parla romano. E alla Sicilia il dialetto con cui fa letteratura da storia se non da manuale, da Cielo d’Alcamo a Verga e al Montalbano di Camilleri – eh sì: il personaggio e lo scrittore e più letti di tutta la storia libraria scrivono e parlano e pensano in dialetto. Non solo la cucina, quindi, il sole e la strafottenza, il vero portamento elegante, ma anche la sicumera con cui si chiudono a riccio Milano invidia ai terroni.
Questo è un fatto. Ma non negativo, dal punto di vista risorgimentale, e anzi potrebbe entrare nei programmi, ancora vuoti, del Comitato di studiosi del centocinquantenario: la proposta potrebbe finalmente risolvere la questione meridionale. Proprio nel momento in cui la questione meridionale insorge con prepotenza, con sicuri gladiatori tipo Micciché, benché ingrassato, Lombardo, nomen omen, e la signora Poli Bortone. Una piccola trasformazione che potrebbe infine dopo due secoli, o sono millenni, disinnescare il divario Nord-Sud. Se Milano pensasse in dialetto, si ristabilirebbero condizioni di parità con Napoli e la Sicilia.
È noto che la dilettazione a pensare e scrivere localmente va di pari passo con due fenomeni che oggi più non si citano per la vergogna ma che hanno avuto fino a ieri cultori illustri, la napoletanità e la sicilitudine. Quella centrata sull’anema e core, questa sulla metafisica, due falsi, se non erano prese per il culo del protervo Nord. Di cui non si può dire che siano all’origine del divario Nord-Sud, ma sicuramente ne sono espressione. Con la connessa difficoltà a pensare un’altra lingua, sia pure l’italiano facile facile, per la comune ascendenza latina. Il sardo, che non è latino, non ha difficoltà a imparare l’italiano, così che l’isola pietrosa è meglio amministrata e ben più ricca della ferace Campania, della Sicilia che la storia più antica dell’Europa e dell’Occidente, e della Calabria che ha il suo stesso chilometraggio marino. Ma questo non importa. Ora, se si creasse un lombardismo, con gli zoccoli, gli olmi, le sciure palanche e i cumenda, il divario, chissà, si ridurrebbe.
In uno scritto del 1945 sul “Ponte” Giani Stuparich rievoca le ore passate al caffè Garibaldi, poi al caffè Nazionale, a Trieste, con gli amici artisti, e Umberto Saba, “Bobi” Bazlen, Giorgio Fano e altri letterati meno noti. Il dominus della compagnia era Vigilio Giotti, scrive Stuparich, il poeta dialettale, che conosceva la città e i suoi aneddoti e sapeva raccontarli: “Era come se disegnasse e dipingesse, e tutti l’ascoltavano e «vedevano». Gustosissimo narratore questo poeta”. Ma, “più strano”, scrive ancora Stuparich, è che “mentre nei suoi versi adopera il dialetto, parlando s’esprime in lingua: il poeta «dialettale» (tanto poco dialettale nel senso comune della parola) era il solo che in mezzo a noi parlasse in lingua, una sobria lingua toscana, rimastagli dal suo lungo soggiorno tra Firenze e Pisa”. Tanto più strano in quanto di nome tedesco, all’anagrafe Giotti faceva Schönbeck: “La madre di Giotti era d’origine veneta e il padre, un curioso tipo di mistico svedenborghiano, figlio d’un ufficiale austriaco e d’una mantovana, era venuto a Trieste dalla Boemia”. Prima della prima guerra, Giotti aveva completato la sua educazione italiana in Toscana.
Stuparich ipostatizza in breve la “questione del dialetto”. Che non può essere il bilinguismo forzoso che la Lega introduce dove amministra, specialmente ridicolo in Veneto, dove la toponomastica italiana viene doppiata da una pronuncia dialettale. Il dialetto è la lingua identitaria di una città, Trieste. Mentre l’identità di Giotti era italiana, e non poteva che esserlo.
Il leghismo è amore del proprio logo, terra, borgo, città. Buono o cattivo? È la base della democrazia americana, lo è stata dell’Italia dei Comuni. Sarebbe un ricostituente per il Sud: i popoli in fuga si condannano se non si ritrovano, nella storia, la tradizione, la psicologia. Ma col leghismo ritorna la chiave strapaese. E il risultato è che Bossi ci ha tolto, a mezza Italia se non a tre quarti, la tradizione. Non ci sono più i punti di appoggio, quasi tutti lombardi: i Foscolo, i Monti, i Parini, i Manzoni, gli Amatore Sciesa, i Viva Verdi, e forse anche Cavour. Resiste stranamente Garibaldi: per l’aspetto ribaldo?
C’è, c’è stata, un’era leghista, e questa è l’Italia che ha prodotto. L’asserita specificità culturale del leghismo coincide paradossalmente con la scomparsa del vernacolo, presente diffusamente in tutta la vicenda della Repubblica, e probabilmente nell’Italia anteriore, nel teatro, le canzoni, la comicità, le parlate radiotelevisive. Niente più stornelli romani o romanze napoletane, niente più comici napoletani, romani, siciliani - solo ora, dopo quindici anni, riemergono Verdone e i siculi Ficarra e Picone. Ma neppure “Belle Madunine”, né cori alpini. L’ortodossia leghista limita il vernacolo alla sola parlata radiotelevisiva, non per nulla ha voluto mezza Rai a Milano. E questa limita, sia alla Rai che a Mediaset, al birignao lombardo - lo impongono anche alle figlie romanissime del “telegiornale delle figlie” a Canale 5. Al lombardo propriamente detto associando l’apulo-lombardo di Abatantuono e Banfi. Ma le parole non sono inoffensive: le parole tracciano un solco, e per questo i dialetti vengono imposti, per delimitare il territorio. Mentalmente. Per la secessione che, seppure impossibile giuridicamente, è nei fatti.
Bene o male che sia l’italiano, è la lingua che ha alimentato e tracciato l’Italia, da Brunetto Latini a Leon Battista Alberti e al Bembo, che andò a Messina a perfezionarlo. La lingua è la koiné comune, la vera patria, di sentire, di logica, di linguaggio. Il dialetto si rilancia come veicolo all’autenticità – checché questa sia. Ma il dialetto circoscrive ed esclude. Anche il solo accento – è stato il caso dell’eccessivo romanesco in tv, e ora delle parlate lombarde, mentre la comunicazione generale si vuole di accento non connotato. La lingua comune dev’essere veicolo neutro, seppure sostanziale, non discriminatorio.
Il leghismo è l’imposizione di Milano, dell’insicurezza, la superficialità, l’arroganza milanese sul brio italiano, la normalizzazione: l’esito è la scomparsa dell’Italia. Si capisce che Gadda ne fuggisse, e lo stesso milanesisissimo Arbasino.

§ La palamita a Grado
Il signor Lega di Chioggia, che non è mai stato in campagna, l’ha scoperta al Sud. Non ha mai vissuto la vita di paese, la fa al Sud. Non ha mai visto un matrimonio in paese, lo ha visto al Sud. Non ha mai mangiato dai parenti, lo fa al Sud. È stato sposo giovane di Adriana, giovane chimica siciliana della Montedison a Marghera, che lo innamorava in ogni piega. Col tempo Adriana sviluppò un ritorno sentimentale alle radici, passando parte dellle vacanze e qualche Pasqua nella casa di famiglia ereditata in paese in Sicilia. Il signor Lega volentieri l’accompagnò.
Fu così che scoprì la vita di paese, la campagna, i contadini, i parenti, i matrimoni, il controllo sociale, le chiacchiere. Con curiosità, ma con un sottile effetto: tutto fu per lui estremamente siciliano. Compresa la strana usanza di meriggiare con le imposte chiuse. Lo pensò e prese a dirlo in ogni occasione.
Adriana se ne risentì. Provò a spiegargli che la campagna nel Veneto è probabilmente uguale, rispettosa e dispettosa, amichevole e insolente, come forse dev’essere in tutte le comunità piccole e chiuse. Lo spiegò ripetutamente. Ma il signor Lega la spiegazione prese a conferma della diversità. Nel caso, come una prevaricazione – anch’essa caratteristica, siciliana, eccetera.
Il dissidio si complicò quando con la ristrutturazione il signor Lega fu prepensionato, mentre la moglie restò in azienda in attività fino all’età canonica. E ora il signor Lega è uno di quelli che alla panchina sul canale dicono che gli immigrati ci tolgono il lavoro.
Ma un problema è sopravvenuto. Scoprendo il Sud, il signor Lega ci aveva trovato il palamito. Che, non ci credereste, è il pesce sott’olio come lo chiamano al Sud. Non tonno all’olio ma palamito. Se lo scambiano per i morti – i parenti del mare lo mandano a quelli di campagna - e lo mettono in conserva per l’inverno. Il che in sé non è un problema. Il problema è che ora il sindaco di Grado e Matteo Piervincenzi fanno la sagra della palamita. Anzi, non la sagra, un festival. Una festa a cui invitano storici, geografi, artisti, e filosofi – Piervincenzi è cuoco di stelle Michelin, cucina quindi col pensiero. La Festa della palamita, che secondo loro si è sempre pescata nell’Adriatico, e sarebbe nientemeno sorella-fratello nobile del tonno. Resta sempre al si-gnor Lega, a moderare lo stupore, il fatto che al Sud lo chiamano, non si capisce perché, palamito, con la o.
Grado è la città di Biagio Marin, poeta superiore e amabile. Tutto vi è pulito, ordinato, colorato, gradevole. Anche il mare lagunoso. Con fioriere altre tre e quattro piani sempre rinfrescate, un fiore sforito o una foglia secca non si trova a cercarla con la lente. Grado è anche il posto di mare di un retroterra, da Aquileia in su, anch’esso ordinato, pulito, fiorito, gradevole, e ricco, e da Aquileia in qua, verso Monfalcone. Duino, Trieste. La pulizia, che è sempre stata un dono dei veneti, ed è la migliore carta da visita, fa il miracolo.
Alzandosi alle sei una mattina di notte insonne si può vedere a Grado una donnetta che con un trabiccolo a scala esamina e pulisce con cura, con modestia, con applicazione, a uno a uno i tre o quattro piani di ogni fioriera. E poi spazza e raccoglie le foglie secche per terra e i fiori sfioriti. Che sembra niente, è il suo lavoro, ed è tutto: è l’applicazione. Alle sei gli operai del Comune spazzano, lustrano, e innaffiano i fiori. Non c’è bisogno di spie del Comune. A Palmi, cittadina illustre della Calabria, il sindaco senatore Veneto, altro nomen omen, dovette fare la spia per alcune notti, per costringere gli operai della nettezza urbana a raccogliere i rifiuti.
Grado è cittadina di turisti, e quindi di pizzerie. Ma in nessuna pizzeria e in nessun bar s’incontra un inserviente, neanche di sguincio nelle cucine, che non sia italiano. Al più qualche ragazza slovena, che però in questi posti è di casa, tanto più che parla il dialetto più che l’italiano. E si capisce la pretesa leghista al lavoro di casa nostra, in certo senso anche si può apprezzare. Se nessuna pizzeria impiega un immigrato a 25-30 euro al giorno senza contributi, allora non si creano svantaggi alle altre pizzerie, e non viene abbandonata un’occupazione, non si generalizza l’uso del lavoro sottopagato senza contributi: servire la pizza resta comodo sfogo, part-time, stagionale eccetera, ai giovani e alle donne senza mestiere del luogo. Con forme di lavoro che, seppure nella contrattualistica dimessa che si è imposta, sono però legali, evitano il lavoro nero, evitano l’occultamento del reddito.
Si apprezza anche l’integrazione etnica: non ci sono scarti nel servizio – il servizio non deve farsi notare. L’unico scarto è, a Udine, nel ristorante dove tutti sono sempre andati, la cui gestione è passata dalla famiglia del luogo che l’ha creato a una famiglia di catanesi, e nulla più funziona, tutto avviene per eccezione, sulla base dell’umoralità o della furbizia. Si capisce insomma anche la riserva leghista della etnicità.
Non solo Grado, le tre Venezie hanno il record del turismo, sessanta milioni di presenze l'anno. Di cui solo 12-13 milioni sono dovute a Venezia, e ben trenta sulle spiagge. Che sono a un’ora, due, dal nebbioso Centro Europa, d’accordo. Ma non si può mettere la laguna al confonto con le spiagge dell Sicilia, della Calabria, migliaia di km di mari cristallini. Non c’è, non ci dovrebbe essere, paragone. Ma il fatto è quello che è, la laguna anche prima nel turismo marino.
Grado non è leghista, la provincia di Gorizia non lo è, non politicamente, come rappresentanza politica. Ma è come se. Lo stesso a Trieste. Che è governata dai berlusconiani e non dai leghisti. Ma dove gestori, commessi e camerieri sono triestini, magari dei ragazzotti ma coscienziosi nelle poche ore o mezzore che fanno quel lavoro, sanno i prezzi e la merce, non confondono le ordinazioni, sono rapidi e sono garbati. Si può chiedere a loro anche un’informazione, su una strada, un orario, la sanno. E anche gli argomenti di conversazione breve, se se ne ha voglia, ci sono, sono comuni. L’accoglienza è la cartina di tornasole del vago discorso allofobo, se c’è.
E tuttavia qualcosa c'è, qualcosa che non va. Ad Aquileia le eccezionali basiliche paleocristiane che dovrebbero diventare un meraviglia dell’universo, a Udine il Tiepolo, a Trieste tutto, i monumenti sono in fruizione gratuita, o con biglietto nominale, talvolta con la guida di un gentile professore: le stesse grandezzate che in Sicilia. A Trieste sembra che tutti stiano al mare, tutti i giorni, a tutte le ore del giorno. Molto più che in Sicilia. E il vezzo della pennichella? A Marta Marzotto, veneta doc, il Sud piace tanto che le piace ancora di più in Libia, dove parlano il dialetto calabro-siculo di prima della guerra, tra deserto, rovine e mare cristallino: ci ha portato la figlia Diamante, dice trionfante al “Corriere della sera”, la nipote Isabella Borromeo col marito Ugo Brachetti Peretti, le amiche Eva Cavalli e Sandra Carraro, e sogna a LeptisMagna una comune di lusso, con clubhouse per i bambini. Questo è il vecchio sogno del colonialismo. Ma tutto è in questo Triveneto leghista Tutto è molto italiano, anzi di più, per essere questi territori di frontiera, con i tedeschi e con gli slavi. La differenza apprezzabile è che nel museo diocesano di Udine qualcuno apre e spegne la luce al visitatore.

§ Se la provincia fa il carattere
Non solo a Grado, è da dire, anche a Vicenza, a Padova, a Treviso, nel veronese, i comuni si amministravano bene prima di essere leghisti, quando in massima parte erano democristiani e anzi vescovili. È il fenomeno delle persistenze, già noto in Emilia e in Toscana, anche se lì ha fatto le fortune delle amministrazioni compagne: Bologna si amministrava bene anche sotto il papa, o Siena, o Ancona. Quello che si può dire a merito e a vantaggio della Lega è che non ha contrastato questa discreta disponibilità, e la semplicità d’animo, con le gaglioffate e le scioccherie che ogni tanto minaccia – in un film di Moretti, “Aprile”, c’è un quarto d’ora di Lega a Venezia che sembra uscito, nel Duemila, dalla commedia dell’arte. Insomma, il leghista buon amministratore che Paolo Mieli ha inventato cinico al “Corriere della sera” e ancora spopola va ridimensionato – basta che non faccia danni.
È bensì vero che Grado non è Jesolo, con la quale pure compartisce la laguna. Perché Grado è friulana, o giuliana, e Jesolo è veneta. Ogni città, ogni paese, finisce per avere una sua “configurazione” (Norbert Elias), un sistema di interrelazioni specifico o “chiuso”, che cristallizza nel tempo in comportamenti e mentalità, pur attraverso frizioni, e anche conflitti, che la stessa interdipendenza accentua. Questi nuclei, "configurati", si identificano nella rete di cui sono parte, etnica, storica, linguistica. E tuttavia le differenze ci sono pure. O, se si vuole, Uno dei fili o delle gabbie di questa rete è il sistema di relazioni amministrative, istituzionali. Ma a volte basta una semplice linea amministrativa per segnare differenze vistose. Si segua la statale 116 Ionica e a un certo punto, prima dei segnali, si avverte un cambiamento: la stessa strada non ha più buche, ha l’asfalto liscio e la barra continua bianca ai bordi e al centro, perché si è lasciata la Calabria e si è entrati in Basilicata. Le stesse popolazioni, le stesse famiglie probabilmente, hanno una diversa sensibilità da un lato e dall’altri della provincia, tra Cosenza, che pure in Calabria è bene amministrata, e Potenza.
La differenza talvolta la fa la natura. Si può capire che Faenza abbia una cucina totalmente diversa dal Mugello, con cui pure condivide la strada e molta storia: di mezzo c’è l’Appennino. Non c’è invece soluzione di continuità tra Siena e Viterbo, scendendo lungo la Cassia. Ma sono due mondi incomparabilmente diversi, di colori, dimensioni e cura delle case, di atteggiamento e perfino di abbigliamento, di parlata, la cui diversità è segnata dal limite burocratico. La divisione amministrativa consolida una diversa lingua, e un diverso linguaggio. Mentalità. Costumi. Giudizio. Fedi, religiose, politiche. Consumi, stili di vita: un pasto a Marta costa la metà che a Montefiascone, sullo stesso lago di Bolsena. Tra Massa e Lucca, due province finitime della stessa Regione, e ugualmente “bianche”, la differenza giunge all’estraneità. Tra Ronchi di Massa e Vittoria Apuania di Forte dei Marmi, che pure sono località balneari senza soluzione di continuità. Per storie diverse, certo: spesso le divisioni amministrative ricalcano storie diverse. Ma più spesso tagliano territori contigui, uguali, simili, complementari. Ma, poi, non è semplice nemmeno questo: Forte e Viareggio sono da sempre di sinistra e fanno turismo di lusso, come non si fa nel resto della bianca Lucchesia.
Una città in Italia può fare un mondo a parte. Lucca non ha nulla in comune con Massa, a parte, un po’, la lingua – ma non il linguaggio. Michael Dibdin, il giallista inglese italianato, a un certo punto, in “… e poi muori”, ambientato in Versilia e a Lucca, nota nella piazza Napoleone una rivista che insulta i pisani: “Una scoperta medica rivela perché i pisani nascono – il rimedio non c’è”. E se la spiega come il un riflesso dispettoso della città “industriosa, mercantile” verso “la città di mare, con la sua inaffidabile ciurma di briganti e avventurieri”. Mentre la rivista è chiaramente “il Vernacoliere”, pensato, scritto e pubblicato a Livorno. Che quindi opera al contrario: è la ciurma di briganti e avventurieri che insulta la paciosa, torpida, città di terra che Pisa nel frattempo è diventata.
Diverso il caso di una trasformazione invece voluta. Talamone che in cinque anni si trasforma da borgo sonnolento, con la sua storia garibaldina, in marina: un pied-à-terre rifatto, acciottolato e arredato d’architetto, per barche enormi tirate sempre a lucido. Questa è l’opera della politica, che dunque può fare nell’arco di pochi anni. Si vede dall’autostrada: stessi luoghi, stesse popolazioni, divisi amministrativamente: dopo qualche decennio, la diversa gestione politica cambia anche i connotati. La forza della politica, dell’azione, dell’attività. Per politica intendendosi non il partito, non tanto il partito, quanto la tradizione dentro il partito. Perché Livorno e Grosseto, province confinanti, hanno da sessantenni un’amministrazione dello stesso colore politico, ma interpretata diversamente: sotto la stessa politica la diversa tradizione, o la persistenza dei caratteri, fa la differenza.
Bisognerà rifare la storia dei caratteri originali. Si è più spesso contigui e diversi per non si sa bene che. Per immigrazioni. Per lunghi domini-principati che hanno lasciato un imprinting. Per la natura dei luoghi. Tra Forte dei Marmi e Marina di Massa c’è una differenza abissale, malgrado la contiguità e la comunanza della natura. Perché l’una fu nel duecento a.C. colonia latina, mentre Massa è rimasta agli Apuani ribelli? E quando questi furono deportati nel Sannio, ai sanniti ribelli che li sostituirono nelle montagne? Gli stupefacenti Campi Flegrei alla periferia Nord di Napoli hanno il vizio d’incutere paura, forse senza colpa degli abitanti. Sono essi gli eredi della flotta romana, delle galere? Si spiegherebbero i diavoli nel paradiso. Al castello restaurato e adibito a museo il barista in giacca verde e fiocchetto si abbraccia con la ragazza. Richiesto di un caffè risponde che la macchina è rotta. Richiesto di un po’ d’urbanità, ribatte torvo che lui è un lavoratore socialmente utile e non deve fare il caffè. La Piscina Mirabile è guardata da un grappolo di uomini di campagna in tenti a fumare e giocare a carte, che non guardano nemmeno il visitatore. A Miseno, dove avevano sede le galere, non si può scendere dalla macchina, i camerieri divelgono letteralmente i pochi visitatori al loro ristorante. A Santa Maria Capua Vetere, che pure ha un anfiteatro romano molto visitato, ogni sguardo trasuda violenza. Insomma, le specificità ci sono.

§ Il governo del non governo
Il leghismo è odioso perché è rancoroso, vittimista, nevrotico, prepotente. Che però potrebbe essere una maschera. Il leghismo è ignobile nei suoi veri interessi: quelli di prosperare a danno degli altri. Che può anche essere la sostanza del lombardismo, che ci governa da vent’anni.
La Lega è più del partito E non è solo Milano. È tutto il Nord-Est, compresi i giuliani, e anche i bellunesi della linea del Piave. È la parte più ricca d’Italia che vuole tutto a danno degli altri. E per questo fa di tutto perché l’Italia non sia governata. Si è fatte le varie leggi di decentramento, dall’elezione diretta dei sindaci e i presidenti di Regione, alla devoluzione, fiscale, scolastica, e presto forse di polizia. Ma impedisce che si faccia governare il governo italiano, con la necessaria riforma dell’esecutivo. Lo impedisce in Parlamento e con i suoi tonitruanti giornali, che ogni pochi mesi abbattono un governo. Tutti di proprietà di ladri – speculatori, malversatori, corruttori, banche - e tutti moralisti. Un governo, nelle pause, sottoposto ai ras locali, come un tempo alle “correnti”.
Il decentramento presupponeva, nel progetto originario ante Mani pulite, il rafforzamento dell’esecutivo centrale, con l’elezione diretta del presidente del consiglio o del presidente della Repubblica. Le destre e la Lega lo affondarono con tutta la politica. Fini capì che poteva acquisire qualche credito recuperando questa parte mancante del progetto. Ma ne è stato alfiere per poco – Fini è uno che cambia spesso opinione.
La Lega propriamente detta non è razzista nel senso di Hitler, dell’inferiorità biologica degli altri, nemmeno degli africani. È anzi pietosa, pretastica, parrocchiale, e i negri li protegge, alla maniera dei bianchi del Sud americano, purché siano servili, e non si facciano le bianche, non prima del matrionio. No, quello che Bossi voleva negli anni 1990 erano i posti. Due tipi di posti. Quelli che i suoi compaesani avevano snobbato nei decenni precedenti e i meridionali avevano occupato. Non tutti: non quelli di infermiera, per esempio, o di sbirro. Ma sì quello di insegnante, prefetto, giudice, medico, direttore e vice direttore degli innumerevoli enti, uffici, consorzi, commissariati governativi, regionali, provinciali, cittadini. Nel privato il terrorismo di Bossi era inteso a scoraggiare la concorrenza del laureato-diplomato del Sud in azienda: in banca, nel marketing, nella progettazione, e soprattutto negli appalti – tutti i meridionali che osano prendere appalti al Nord finiscono inevitabilmente in galera, se non per latro come mafiosi. Si era aperta la grande falla in Europa nel mercato del lavoro per effetto della globalizzazione, e Bossi provvidenzialmente emerse a creare barriere e promuovere espulsioni in questo ristretto, ma poi non tanto, mercato di élite.
Il rimpianto è che la Lega non sia tutta né abbastanza leghista. Al contrario, sia furbescamente unitaria e leghista: sta a Roma e la governa, al governo attraverso le teste di pezza di Berlusconi, Scalfaro, D’Alema, Amato, in Parlamento e nei talk show con gli sghignazzi, mentre si tiene strette la Lombardia e le tre Venezie, di cui esaudisce e coltiva il rancore e le pretese. Dominando così il Sud e l’Italia, altro che secessione!
Si potrebbe dire che abbaia ma non morde, ma non è così. Si prenda l’immigrazione, il fatto più nuovo, sensibile, rilevante, che artatamente si riduce alla cronaca degli stupri. La Lega, impedendo una politica dell’immigrazione, fomenta il campo più rischioso di disordine, e anche di delinquenza. Bossi è nato politicamente, e cresce, fomentando la xenofobia, sia pure nell’aspetto di un italianofono del Sud. Salvo poi avallare, se non promuovere, le più cospicue e incontrollate sanatorie degli immigrati clandestini che abbiano uno straccio di lavoro. Bossi personalmente ha reso impossibile, nella legge che porta il suo nome con quello del galantuomo Fini, la regolazione dell’immigrazione, negli accessi, e fra i clandestini che hanno comunque un lavoro. Ci vuole da un anno a un anno e mezzo per avere un permesso di lavoro, che dura un anno…
Si può dire che era così già sessant’anni fa, agli albori della Repubblica che non sapeva staccarsi dal fascismo, specie a Milano: James Hadley Chase ci scrisse nel 1952 un romanzo giallo che ancora si vende, “Inutile prudenza”. Si può dire l’efficientismo lombardo all’opera. Ma non è materia di scherzo. L’opportunismo di Bossi alimenta l’insicurezza, il mercato clandestino (degli ingressi, delle pratiche di un anno mezzo, delle sanatorie), e la non qualificazione dell’immigrazione – chi fa un anno e mezzo di pratiche per un permesso di lavoro che dura un anno? Una università di Milano ha dovuto rinviare a casa uno studioso indiano a cui teneva perché dopo un anno non gli aveva ottenuto un permesso di lavoro. Ma Milano dà la colpa a Roma, perché no, e questo è tutto.