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mercoledì 1 ottobre 2008

Draghi vigila, ma Tremonti sospetta

Le riunioni al Tesoro del Comitato per la stabilità finanziaria sono state rassicuranti, ma si sono svolte nella freddezza. Nessun timore d’insolvenza, ma è gelo fra Tremonti e Draghi. Il ministro dell’Economia si era già detto scontento della risposta delle banche al provvedimento di rinegoziazione dei mutui: per troppi aspetti essa è troppo onerosa. Alle riunioni ha fatto pesare un difetto di vigilanza sui coefficienti di patrimonializzazione. Di più di una banca, compresa Unicredit, che adesso si dovrà in qualche modo rimpolpare. Col sospetto successivo che la speculazione su Unicredit sia originata da indiscrezioni sul Csf più che dalla richiesta da parte della Consob di rafforzamento dei coefficienti patrimoniali, non nuova. Indiscrezioni su Londra o altra piazza d’affari – di banca d’affari.
Al paragone con le famose riunioni del Cicr di tre anni fa quelle di questi giorni, benché in successione affrettata, sono innocue. Non c’è un’Antonveneta di mezzo da cedere, né un Fazio che si candida a Palazzo Chigi – Draghi si illude, come tutti quelli che non hanno mai faticato, ma dopo le elezioni non c’è materia. Si è quindi discusso dei problemi specifici, coefficienti, liquidità, sofferenze. Ma non c’è armonia. Draghi come uomo delle banche di affari, alla cui avidità e a niente altro è da ricondurre la tremenda crisi finanziaria, non può avere la fiducia di Tremonti, nè di qualsiasi altro ministro politico non legato alla palude romana. È Tremonti che a suo tempo ha nominato Draghi per la Banca d’Italia. Ma, in fondo, perché lo voleva l’allora presidente della Repubblica Ciampi.
In una Repubblica bene ordinata un ministro del Tesoro e un governatore della Banca centrale che polemizzano in pubblico sarebbe materia di preoccupazione. In Italia questo è uno scandalo minore, lo scarso peso che viene dato alla lite. Va pure detto che Draghi non è più il banchiere centrale: le funzioni di banchiere centrale sono passate alla Bce, il governatore mantiene il vecchio status per la pigrizia o la pusillanimità dei media. Fa solo degli studi, che però, politicamente schierato, egli stesso riduce a documenti di parte. Ha però un rapporto stretto con le banche, per la vigilanza, il mercato interbancario, gli investimenti del suo Fondo pensioni, una simbiosi di cui non si saprebbe dire quella delle due parti è il saprofita. La freddezza con cui Tremonti reagisce - questa è la terza o quarta volta in quattro mesi - alla alterigia di Draghi significa che Berlusconi non ha più contro le banche.
Nei rapporti con le grandi banche, tutte in qualche maniera legate a Prodi, questo si vede in più modi. Da Intesa Berlusconi ha avuto l’aiuto decisivo per riportare in bonis Alitalia. Il patron di Intesa, Bazoli, ha usato la sua influenza sul gruppo Rcs per una posizione più equa nei confronti del governo, e il richiamo è stato ascoltato. Sulla lealtà di Profumo Berlusconi si sente ora garantito da Geronzi, il nuovo influente socio di Unicredit nonché presidente di Mediobanca. Lo stesso Profumo sembrerebbe aver fatto tesoro del tentativo ennesimo in primavera dei suoi soci di maggioranza, le fondazioni bianche delle ex Casse di risparmio, di sbarazzarsene, evitando l'esposizione politica a favore del partito Democratico.

Il Santander sbianca troppe banche

Ha la politica di non commentare le voci, e così è da un mese il salvatore di numerose banche. È Botin, il patron del Santander. Che è stato visto cavaliere bianco ultimamente a Londra, poi negli Usa, e infine di Unicredit. Che però non ha bisogno di essere salvata. Ha una gestione tropo complessa da digerire, col suo partner tedesco Hypovereinsbank. Costerebbe troppo. Ha troppo peso in Italia, in banca e altrove. E troverebbe difensori strenui. Magari controvoglia, in Banca d’Italia, ma obbligati. Magari non voluti, come il governo Berlusconi, ma insuperabili. La Baviera, parte non minore della partita, è essa pure di ostacolo, avendo consolidato con Unicredit il rettangolo col Lombardo-Veneto che ne fa la regione più ricca in Europa e nel mondo.
Unicredit ha troppe presenze ingombranti, in Mediobanca, Generali e altrove. Botìn ne ha fatto esperienza personale a gennaio del 2007, quando pensava di potervisi avvicinare attraverso Capitalia, sponsorizzando Geronzi: non ha avuto alcuna possibilità, e Capitalia è finita a Unicredit. Botìn si è contentato di fare un affarone con la compravendita di Antonveneta, mettendo da parte ben 2,4 miliardi in tre mesi. Il Santander inoltre è liquido ma non troppo: fu grazie alla vendita fortunata di Antonveneta al Monte dei Paschi che Botìn potè evitare un aumento di capitale da 4 miliardi altrimenti necessario per sostenere la scorribanda su Abn Amro. Il quasi fallimento di uno dei due soci del raid su Abn Amro, Fortis, ammonisce peraltro a stare più liquidi, e più patrimonializzati, possibile.
Non è aria per interventi salvifici di mercato - a meno di non essere il braccio della Fed, o della Bce: la crisi si vuole risolvere nel mercantilismo, ognuno si tiene i suoi pezzi, per quanto bacati. Come gli ultraliberisti Usa e Regno Unito, la Germania tenta ora di salvare la sua (prima) mela marcia, la Hypo Real Estate. Unicredit è poi palesemente vittima di una speculazione: almeno la metà delle vendite sono allo scoperto, il disimpegno dei fondi è solo un esito degli automatismi con cui si regolano. Una disinvolta speculazione - su Unicredit e Intesa, i gruppi più liquidi e anche più solidi, col Santander - che il tardivo blocco della Consob sulle vendite a brevissimo dovrebbe avere sgonfiato. Da solo basta a spiegare il rimbalzo: Unicredit ai minimi è un invito da non trascurare.

martedì 30 settembre 2008

Gli imperi crollano per debolezza interna

C’è naturalmente la profondità e vastità dei buchi bancari in questa Grande Crisi del 2008, a mano a mano che la piramide dei derivati viene a scadenza. C’è l’interesse delle famiglie nel no al piano Bush di salvataggio: “Salvate i nostri mutui non le banche”. E c’è l’ideologia antistatalista, la conferma che l’America è un paese di radicatissima ideologia – i repubblicani preferiscono perdere le elezioni, con pregiudizio grave che sarà durevole, piuttosto che venire meno al loro principio. Ma c’è nella crisi soprattutto l’uso non convinto della forza, che ha caratterizzato le amministrazioni Bush, ed è la radice della decadenza degli imperi.
È questione aperta se gli imperi cadono per la forza dei nemici, oppure per debolezza interna. Ma ogni impero ha sempre nemici forti, ognuno ogni volta per motivi suoi pericoloso, è la forza interna che regge l’impero. Che non ha nessuna “naturalità”, ha bisogno appunto della forza. Il caso dottrinale non è comunque quello dell’America, e con essa dell’Europa: al fondo della crisi non c’è una sfida oggi all’impero, c’è solo l’ideologia americana. Da tutto il mondo c’è anzi una gara a venire in soccorso all’imperatore. Ma l’America recalcitra. Giovedì il Congresso voterà il pacchetto di salvataggio, e la crisi verrà quindi prevenuta, solo a un costo più caro per i risparmiatori, chi ha investito in azioni e fondi azionari, oltre che in fondi immobiliari e immobili. Ma il nodo, della crisi e degli assetti futuri, è l’America nella sua ideologia “selvaggia”, dell’autodifesa. È ridicolo vedere l’America, che è la sola superpotenza, nella veste dell’ultimo dei Mohicani, ma questa è la sindrome di questo impero riluttante.
L’ideologia americana
All’origine dei profondi buchi costruiti dall’incontrollata speculazione delle grandi banche è infatti la stessa ideologia che ora ne rifiuta il salvataggio. E del resto non è la bontà d’animo che ha reso irresoluto il governo Bush, che al contrario è stato a lungo feudo della mentalità estremista conservatrice, e dei suoi teorici. Bush non rimuove i controllori che non hanno controllato. Nel suo pacchetto di pronto intervento non ci sono nuovi controlli, nemmeno regole di comportamento, il mercato resta “libero”. Resta da vedere se questa è ancora una forza, o se al contrario è il cancro risorgente dell’America, e quanto avanzato è nella congiuntura.

Il successo scontato di Alitalia

Non c’è mai stato dubbio, Alitalia doveva passare a Passera, Colaninno e soci, auspice Berlusconi, un sinistra-destra imbattibile, e così è stato. S’è intromessa la sceneggiata di Epifani, ma questo è un problema - un altro - del partito Democratico. Che invece di cavalcare la soluzione scontata, e necessaria, perché no, ha cercato, peraltro senza convinzione, di osteggiarla – i casi sono ormai troppi di masochismo per domandarsi perché. Completando la "putinata" con la improvvida soluzione a tre a casa per il tè, en petit comité si diceva nella Francia degli affari.
L’esito della trattativa, e il suo successo, erano assicurati in partenza. Alitalia ha “in tasca” il secondo maggior mercato aereo europeo, e c’è solo da mettere mano alla miniera. Ci saranno due hub, come in Germania, con l’intensificazione del traffico intercontinentale. Rientra quindi il problema di Malpensa. Almeno per quanto concerne l’uso dello scalo – i problemi di Malpensa sono tutti di terra. La partecipazione straniera ci sarà, ma non è indispensabile. Indispensabile è la partecipazione di Alitalia, che già c’è, in un pool internazionale. Il rischio per i compratori è minimo, come l’esborso richiesto. E, in dipendenza dalle condizioni che Passera farà ai vecchi sottoscrittori Alitalia, potranno alleggerirsi presto col ricorso al mercato.

lunedì 29 settembre 2008

Tante "putinate", e per il resto copiare B.

L’Italia, il tricolore, le convention, i sondaggi, le veline, le fiorettiste, non c’è trovata berlusconiana – per non dire dell’agenda - che la sinistra non ricalchi. Rimproverandola a Berlusconi, la sinistra è per bene. Riservandosi di criticarne sempre e comunque la politica, di cartavelina, di plastica, di specchietti, triviale, mafiosa, e anche fascista.
O altrimenti è la follia. Veltroni, che ha preso il Pd d’assalto, e lo tiene con pugno di ferro, che evoca Putin e il putinismo. Orlando che rincara: è l’America Latina. Che non vuole dire niente, ma è lo stesso Orlando che vuole la presidenza della Commisione Rai, una delle più sensibili politicamente. Essendo stato lo stesso Orlando, Leoluca, che nel 1990 voleva prendersi tutta la Dc. Per il motivo che nelle sezioni elettorali di Brancaccio a Palermo prendeva il 100 per cento dei voti, non uno di meno. E insieme difendono alla morte l’“autonomia” della magistratura. Che non vuole dire niente, se non che entrambi isolarono e additarono ai killer Giovanni Falcone, Veltroni coi suoi rappresentanti al Csm, Orlando nella compiacente Rai, con l’impavido Santoro.
Lo storico fra cinquant’anni non si raccapezzerà tra tante "putinate" - oggi, poi, il "putinismo" non è di Alemanno a Roma ma delle banche, che la fanno pagare cara. Mentre per chi ha vissuto prima è un trito già visto: della debolezza dei compagni di strada, della loro inutilità. Si sono fermati al compromesso storico, all’ombra del Forte Partito, degli onesti, dei capaci, dei furbi, se non intelligenti, della tribù civile in mezzo ai barbari. Sono poveretti e andrebbero compianti. Non capiscono e non sanno che altro dire, se non infangare la Resistenza. Ma questi politici e intellettuali sono anche dannosi, e qui non c’è ricetta, se non buttarli a mare. Bisogna dunque sperare in un’alluvione, un maremoto, uno tsunami.

"Chiuderanno le università", il "Sole" non ci sta

La ricerca scientifica? Il dottorando può al massimo “aspirare a uno stipendio pari a quello che, nel ’46, i braccianti di Bergamo non erano più disposti ad accettare”. Ma poi è solo “frustrante” parlare dell’università e della ricerca: “Le cifre sono grottesche, nessuno ci fa più caso. Tanto per dirne una: per i diritti degli higlights della Serie A la Rai ha speso più di quanto nel 2008 l’Italia ha investito nella ricerca di base, i cosiddetti Progetti Prin”. L’Italia è all’ultimo posto fra i paesi industriali per l’impegno nella ricerca: “Dietro di noi c’è solo la Slovacchia, per un pelo. Gli Stati Uniti investono nelle istituzioni universitarie il 2,9 per cento del loro prodotto lordo, il Canada il 2,6 per cento”, l’Italia lo 0,9. Summa iniuria, “negli Stati Uniti di George W.Bush i finanziamenti pubblici dell’Università sono il doppio che in Italia”.
Al “Sole 24 Ore” non sono piaciuti gli ultimi affondi del governo contro l’università e la ricerca scientifica. La critica è per ora confinata al supplemento culturale della domenica, a opera del genetista Guido Barbujani, un collaboratore. Ma il tono è duro. Specie contro il decreto legge di agosto: “A colpi di un’assunzione ogni cinque pensionamenti c’è poco da fare: presto i docenti non basteranno più. Chiuderanno i corsi di laurea, poi le facoltà, poi interi atenei”. La privatizzazione è uno slogan semplicistico, è criticato anche il presupposto della “riforma” Moratti-Gelmini: “Oggi le tasse nelle università private sono dieci volte più alte che in quella pubbliche”. È facile a dire ma non a fare.
Si profila dunque battaglia tra la Confindustria e il governo, che sull’università è privatizzatore e decisionista: titubante in altri settori, in materia il governo è compatto e deciso, la componente ciellina o confessionale, di Moratti e Gelmini, concorde con quella laica, degli ex socialisti Tremonti e Brunetta. Con parentele strette, quest’ultima, in D’Alema e Berlinguer, oltre che ovviamente in Berlusconi. La partita d’altra parte è "decisiva" pure per il paese. È opinione condivisa che l’Italia ha tenuto, negli ultimi disastrosi trent’anni, malgrado la politica, per la cultura, la formazione. Ma ora, conclude il “Sole”, “in controtendenza con tutto il mondo civile, stiamo gettando nel cesso un patrimonio culturale accumulato attraverso secoli”. Il governo ha infatti le leve per farlo.
Il disastro dell’università, l’ingovernabilità, è l’effetto per metà dell’autonomia e per metà del governo. Come i medici negli ospedali, così i professori: gli intellettuali italiani non sono in grado di fare buon governo. Il presidente uscente della conferenza dei rettori, l’ex rettore di Siena Tosi, ha lasciato la sua università praticamente alla bancarotta. Si moltiplicano sfrenatamente corsi insulsi. C’è nepotismo oltre ogni limite tollerabile. Ma il governo mantiene leve importanti nell’ordinamento, oltre che per i finanziamenti ora cancellati per decreto da Gelmini e Tremonti. Leve anzi decisive se la distruzione dell’università è un disegno compiuto: Berlinguer moltiplicò le frequenze senza assicurare i corsi, Moratti ha bandito nei fatti ogni concorso e ogni ricambio, Brunetta ha cancellato con un emendamento i “precari”, dai cultori della materia ai ricercatori a contratto, circa la metà del “corpo insegnante”.

La Linea Gotica, o Maginot?, del Pd

Nel cuore rosso, o zoccolo duro, della sinistra, da Bologna a Firenze, Prato, Massa e Carrara, Viareggio, Livorno, il partito Democratico si divide con asprezza. Non solo tra ex Dc e ex Pci, ma anche tra questi ultimi. Una sorta di tutti contro tutti che è la sola reazione al vecchio centralismo democratico, ed è la voglia di dissoluzione tipica delle età di decadenza, direbbe Santo Mazzarino, lo studioso della decadenza dell’impero romano.
Le divisioni emergono in preparazione alle primarie per le prossime elezioni amministrative, e anche per le europee. Sarebbero da dirsi quindi fisiologiche: il nuovo metodo di scelta dei candidati implica un’efflorescenza di candidati, con l’esigenza di caratterizzarsi, e quindi di polemizzare. Ma tra i Ds si va oltre, a punti già di non ritorno, anche se le scadenze elettorali sono lontane otto-nove mesi. Si sa già che s’infoltirà, e si estenderà alle città grandi, il fenomeno emerso a maggio, di candidati del Pd in lizza contro il candidato ufficiale del partito, contribuendo talvolta, al ballottaggio, alla sconfitta dello schieramento.
È una sorta di Linea Gotica che rinasce, o Linea Maginot, a seconda che il buono (il nuovo?) si veda all’attacco, oppure in difesa (il vecchio Partito?). Entrando nelle situazioni singole, però, non si vedono buoni. Non ci sono politiche diverse, né tattiche o strategie politiche, di alleanze, di formule, di programmi. È una moltiplicazione di capi e capetti, ognuno dei quali si differenzia dagli altri per voler scalzare il sindaco uscente, in genere perché è più bello (proprio, fisicamente), oppure perché il seggio promesso alla Regione o al Parlamento non è arrivato, o la presidenza dell’Ente.