Cerca nel blog

sabato 1 ottobre 2016

Il Nerone Berlusconi - 22

Il Sansone Berlusconi proponeva questo sito un mese fa. Ma il Sansone agonista della tragedia di Milton, il combattente? No, sarà quello del muoia Sansone con tutti i filistei.
Fuori di retorica, per gli ottant’anni, e delle mafie giudiziarie, che se ne servono per non lavorare, non se ne vede altro. Quest’uomo non ha fatto nulla, e anzi ha impedito che si facesse. Si, è ricco, ma per una sola idea, il mobiliere Aiazzone: riempire l’etere, che non si paga e non costa, di pubblicità, anche minima, è sempre grasso che cola, e tutto o quasi profitto netto. Ha portato con questa ideuzza il mercato della pubblicità dai miserevoli 600 milioni del 1970 a 6 miliardi, e questo è certo un successo. Ma a noi ce l’ha fatto pagare avvelenando la politica.
Da ultimo col sindaco di Roma. Ha fatto in modo, da tattico delle tecniche elettorali, di non avere un suo candidato. Anzi ne ha promossi tre, in maniera che si elidessero al primo turno, e al ballottaggio ha fatto confluire tre-quattrocentomila voti su Raggi, la modesta candidata di 5 Stelle. Con lo stesso colpo distruggendo la sua parte, la destra, e promuovendo Grillo in pole position nella griglia politica.
Bel colpo, geniale. C’è di che farlo felice e vincente per altri ottant’anni. Poiché l’uomo certo non è stupido, e il suicidio ha programmato, degli altri. Un bel finale, neroniano. Ha molto, sicuramente nel suo intimo, il genio distruttivo del milanese, quando ha guadagnato abbastanza e si occupa di  Italia. Ma non negli eccessi, come nel caso Roma: ora si sente libero di essere se stesso, senza più ipocrisie.
Lo stesso con le riforme. Ha subito abbandonato l’ottima riforma delle pensioni che Mastella, Dini e Martino avevano preparato nel suo primo governo, che avrebbe evitato all’Italia la crisi fiscale e lo spread. E non ha sostenuto lo “scalone” di Maroni e Sacconi, che in qualche modo avrebbe rimediato dieci anni dopo. Votando poi la riforma, in edizione molto peggiorata, punitiva in modi assurdi, quasi vent’anni dopo come legge Fornero.
Lo stesso con la riforma dello Stato. Ha tirato al volata a D’Alema e poi, al momento di concludere, s’è sfilato. Poi s’è messo con Renzi. Ma poi anche qui si è sfilato, e farà naufragare la riforma anche ora. Se è un genio, è perverso.
Se ne potrebbe ridere. Ma Berlusconi non è un comico. Anzi, non è nemmeno un imprenditore egomaniaco. È “un politico di razza”, attesta D’Alema. E allora, sarà questa politica tutta un falso?

Secondi pensieri - 279

zeulig

Buddismo – È – è recepito come – un anestetico. Insegna a rimondare (d a “rimonda”,)-potare,rimuovere le passioni: desideri, sofferenze, coinvolgimenti. Fa della “inadeguatezza” un volontario esercizio, dell’inappetenza. Dell’socialità sotto forma di disponibilità totale..

Nietzsche lo compara favorevolmente al cristianesimo perché “più freddo, più obiettivo, più veridico”. Obiettivo? Veridico? Nietzsche era un Gran Lettore, frettoloso.

Destino – È più spesso, Kant lo sa, una buona coscienza. Ma allora dovrebbe essere individuale, mentre più spesso ancora è collettivo, specie quando è avverso (una guerra, un terremoto), e senza colpa.
E non c’è un destino dei luoghi? Quelli esposti ai terremoti ma non solo. Il Reno a vederlo non si direbbe, pacifico e fiabesco, nelle anse, i vapori, ma è pure quello delle mille sanguinose battaglie per nulla, per attraversarlo – “Der Rhein, sei Lebensraum, sein Schicksal”, lo spazio e il destino del Reno, del geopolitista Karl Haushofer, è tutto un inno allo “spazio vitale”, che tanti lutti ha addotto. Carini è il luogo della Baronessa e, in quanto Hyrcana dei Sicani, patria di Laide, “la cui divina bellezza generò Eros”. Sapri, prima che a Pisacane, fu fatale a Adelchi, che vi sbarcò da Costantinopoli, dove più spesso viveva, per finire trucidato a Benevento. “Muto e silenzioso\ il cuor mio si rinvigorì”, è il motto del paese di Sciascia. È virtù romana ma potrebbe essere il motto della mafia. Il

Età - Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del numero degli anni.

Il prezioso Cerruti-Rostagno, l’ultimo vocabolario con “ricca nomenclatura, figurata e non figurata”, calcolava sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai dodici, adolescenza fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
Una volta si era tassonomici: i venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove. Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73 e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età attiva verso i quaranta.
Sarebbe solo logico ribaltare il principio dell’eredità in morte o vecchiaia, a vantaggio immediato dei giovani, ai quali incombe la costruzione del futuro. .

Gioventù – È tendenza durevole, ormai da mezzo secolo, in tutti i continenti - eccetto la Cina. Ma c’è giù tutta nei riti classici, la coprolalia delle ragazze inclusa e lo streaking, nei riti tribali che manifestano i significati nel corpo, in linguaggi epilettici, e li secretano nell’iniziazione: la gioventù è argine alla mediocrità. Napoleone fu generale a venticinque anni, Alessandro morì a trentatré, Robespierre a trentacinque, tardi. E chi non è generale a quell’età non merita di diventarlo, si diceva a Parigi fino al Settecento.

Lo scrittore Céline concorda: “La civiltà occidentale è anale, la qualità si associa al botto di un peto venuto bene, e chi non rinnega il culo e se ne assume la responsabilità è l’Uomo, l’Eroe, Giulio, Orlando: i nostri Eroi non escono dalla infanzia”. I rivoluzionari del Novecento, secolo sciocco ma ricco, ricchissimo come non mai, e democratico benché deragliato, Mussolini, Stalin, Hitler, hanno confidato nei giovani – Hitler stesso, cancelliere a 44 anni, è un giovane. E Heidegger, che studenti e professori voleva senza gerarchia e lo studente disse motore della rivoluzione, lo studente lavoratore. O il Presidente Mao: “I giovani sono la forza attiva e vitale della società. I giovani imparano meglio e sono meno conservatori”. Il segreto è che i giovani non lavorano. Non sanno che fare, ma il lavoro stanca.

Ipocondria – È un patire aggressivo. Anche molto, è una forma di vampirismo. Inattaccabile perché è una debolezza e una passività, ma è una che lega a sé la vita circostante, che infetta e ammorba, mentre lei non deperisce, e anzi si nutre dell’infezione. Non c’è – non è possibile - nella solitudine.
È una di quelle condanne a morte senza costi vivi inventate dalla rivoluzione francese, che consisteva nel legare il vivo a un morto come zavorra e poi buttarlo in mare, perché il morto lo trascinasse lentamente al fondo.

Religione – Freud la vuole ricerca del padre – un  “complesso del padre”.  E della madre?

VecchiaiaAbbie Hoffman e Jerry Rubin proponevano cinquant’anni fa di uccidere i padri e cancellare all’anagrafe chi compie trent’anni - l’età era allora discriminante, ai tavoli negoziali operai-studenti oltre che a mensa all’università. Un governo volevano di Roboam, dove, dice la Bibbia, i giovani comandano sui vecchi. Un limbus patrum. La vecchia pratica degli svedesi trogloditi, i nomadi dell’antico Egitto, i sardi, di uccidere gli anziani a colpi di clava o pietra.
Gli indiani del Brasile uccidevano così gli infermi. I massageti e i derbicciani uccidevano gli ultrasettantenni. E i càtari pii di Monforte d’Alba o Asti, che le endura abbreviavano alla fine, i suicidi dei saggi anziani per digiuno, per evitare loro i patimenti dell’agonia. Gli abitanti dell’isola di Choa, dove l’aria pura dà lunga vita, ci pensavano invece da soli: prima dell’ebetudine o la malattia i vecchi prendevano la papaverina o la cicuta. Analogamente l’eschimese o inuit che, prossimo alla fine, inutile alla famiglia, esce dall’iglù e si perde nel pack.
Fra i batak di Raffles, esploratore fededegno, che sarebbero i dagroian di Marco Polo, i vecchi erano mangiati: “Un uomo che sia stanco di vivere invita i figli a divorarlo nel momento in cui il sale e i limoni sono a buon mercato”.
Limbus patrum, o sinus Abrahae, è nella scolastica il posto sottoterra, non paradiso né inferno, dove chi ben meritò in base al futuro Nuovo Testamento, patriarchi, profeti, restò fino alla vittoria di Cristo su Satana, distinto dal limbus infantum, dei neonati non battezzati. Il consiglio di Roboam è nel libro dei Re.

zeulig@antiit.eu

La satira dello stile

Una superedizione, in originale francese con la traduzione di Umberto Eco, la prefazione dello stesso Eco alla prima ediizione italiana, e una postfazione di Bartezzaghi . nonché materili preparatori e una prefazione dello stesso Queneau nel 1963. Quasi di un classico. Che non è tale. È anzi una rivolta dell’auore contro se stesso, contro le possibilità o la desiderabilità della narrazione, tanto la rende inconsistente. Un anticipo di decostruzione, dall’interno, come un suicidio d’autore.  Prose brevi e brevissime, molto organizzate secondo i canoni della retorica e tuttavia umorali, quasi annoiate, di non-eventi, sogni, parodie, parodie della parodia, tutte bruciate all’acido dell’ironia – una satira più che un’impresa conoscitiva o pedagogica, amara. Eco ne vuole fare una poetica, ma Queneau sfugge, anche a lui.
Precursore, nel 1947, del teatro dell’assurdo, di Adamov e Ioneco, mette in scena (anche in senso proprio, molti cabarettisti vi si sono esercitati quando c’era l’arte del cabaret), un giovane che il narratore incontra sull’autobus, dal colo lungo e un cappello con una treccia al posto del nastro, che ha un piccolo diverbio con un altro viaggiatore e e poi prende un posto che s’è liberato,  Questo stesso icontro è raccontato novantanove volte, in novantanove versioni differenti. Ogni pezzullo ha titolo dalla stilistica: Poliptot, Aferesi, Apocope… e anche Tanka
Definita anti-surrealista perché alza un mutro contro il flusso di coscienza, la narrazione Queneau anzi vuole di testa, questa degli “Esercizi” in realtà non è una narrazione, è una anti-narrazione. Per ciò stesso, a chi non è studioso di retorica, o delle avanguardie (che sono retorica), indigesta – per ridere bisogna avere interpreti che ne sappiano estrarre il riso, questione di tempi e metodi. . ,
Raymond Queneau, Esercizi di stile, Einaudi, pp. XIX-309 € 12,50

venerdì 30 settembre 2016

Lavoro forzato per l’integrazione

La cancelliera Angela Merkel fa dietro-front. Aveva detto “possiamo farcela” un anno fa di fronte all’immigrazione di massa dal Medio Oriente. Ora dice la formula superata, anzi “una formula vuota”. E prepara una legge per l’Integrazione.
Sarà una legge restrittiva. Per riprendere il voto moderato, che alle ultime elezioni locali è andato ai partiti della protesta. Ma con alcuni punti che si preannunciano più restrittivi rispetto alle richieste degli anti-immigrati. Gli immigrati avranno il permesso di soggiorno se seguono corsi di lingua. Il soggiorno sarà concesso a discrezione del governo. L’immigrato dovrà lavorare, a una paga oraria minima di ottanta centesimi l’ora, un decimo del salario minimo – una sorta di lavoro forzato.
Oltre che lo spostamento dell’elettorato su formazioni anti-immigrati, Angela Merkel teme la formazione di una “quinta colonna” turca all’interno. I turchi sono la comunità immigrata più numerosa, circa 3,5 milioni, di cui 1,6 con cittadinanza turca. È rimasta sfavorevolmente impressionata dalla gestione degli accordi con Bruxelles sull’immigrazione da lei voluti da parte del presidente turco Erdogan. E dalle continue manifestazioni di piazza in Germania dei turchi pro-Erdogan e dei curdi turchi anti-Erdogan.  

La banca non è virtuosa in Germania

Va a rotoli Deutsche Bank, da un decennio molto mal governata: una dele amggiori banche del mondo impelagata nella speculazione, come una qualsiasi banchetta d’affari. Ma non si dice. Se va male, si dice, è perché il governo Usa intende multarla per pratica illegali fino a 14 miliardi. Che è nascondere i fatti dietro un’ipotesi. Non bisogna mai criticare la Germania, che pure al suo interno si critica molto C’è un conventio ad  excludendum? Pagherà la Germania per questo, almeno qualche birra?
Commerzbank, la seconda maggiore banca tedesca, rischia di fallire, per la terza o quarta volta in vent’anni – una volta fu salvata da Generali. Con Deutsche Bank e le banche regionali, Commerzbank completa un sistema bancario in dissesto. L’Italia non lo sa perché la colpa, in Germania, e anche in Italia, è sempre dell’Italia - e della Grecia.
L’Europa andrebbe ripensata col metodo tedesco, di incolpare la Germania, soprattutto se a ragione. Chissà se non si salverebbe. Il nazionalismo va combattuto col nazionalismo.

Letture - 275

letterautore

Camilleri – Avalla immancabilmente, con blurb firmati, gli autori dei gialli e i gialli Sellerio. Li legge tutti, a novant’anni, ammirevole. O ci mette solo la firma?

Giuseppe Flavio – Lo scrittore dell’orgoglio ebraico è – era – “il quinto evangelista”. Così lo voleva Arnaud d’Andilly, il giansenista, figlio di Antoine Arnauld, il “Grande Arnauld” capofila del giansenismo, fratello della badessa do Port-Royal Angélique Arnauld, consigliere di Maria dei Medici, che ne tradusse le “Antichità giudaiche” nel Seicento Un rinnegato, alla fede e alla patria. E all’origine della brutta fama che ha circondato gli ebrei in molti luoghi della cristianità e anche delle lettere, come infidi, d furbo opportunismo.
Conosciuto dai posteri come Giuseppe Flavio, era nato Giuseppe ben Mattia. Un ebreo aristocratico, di una grande famiglia sacerdotale, ragazzo prodigio degli studi religiosi, a sedici anni aveva completato un excursus delle sette di Giudea, alla stregua di scuole filosofiche. Culminando la sua formazione religiosa con un soggiorno nel deserto. Ma non era un mistico, era un uomo di potere ambizioso, con una  fortissima coscienza di classe, e il gusto dell’intrigo, col quale si teneva in equilibrio. Grazie a lui, alla sua raccolta di “Antichità giudaiche” e alla voluminosa “Guerra giudaica”, dopo la caduta di Gerusalemme, la storia ebraica nel primo secolo è la meglio conosciuta dopo quella di Roma – compresi Gesù detto “il Cristo” e suo fratello Giacomo.
Legato agli imperatori Vespasiano e Tito, che erano stati governatori di Israele, e artefici della distruzione,  era noto a Roma come Tito Flavio Giuseppe, avendo preso il nome dei suoi protettori romani. Da prigioniero di guerra divenne una sorta di commissario governativo agli affari ebraici, un piccolo Eichmann, distaccato presso Vespasiano e poi presso Tito, generalissimi per l’Oriente. In una col reuccio israeliano Agrippa e con la di lui sorella Berenice, che venne messa – e si mise volentieri – nel letto di Tito. Due collaborazionisti, ma molto dignitosi, senza vantaggi personali, che in realtà si sacrificavano per alleviare le pene al popolo ebraico.
Anche Giuseppe si pose a mediatore col generalissimo Tito, per la salvezza degli ebrei che si fossero arresi. Ma Tito fu richiesto dal padre Vespasiano di meritarsi la successione con una grande vittoria sul campo, e allora, malgrado l’amore di Berenice e le promesse a Giuseppe, fece incendiare e distruggere il Tempio e ogni altro simulacro ebraico. Giuseppe Flavio lo assolve, dicendo che aveva ordinato una strage moderata. Ma donne e bambini bruciarono nel Tempio, dove si erano rifugiati, e centinaia di migliaia di ebrei, ribelli e non, e anche di pellegrini innocui furono uccisi, e altrettanti – cioè un gran numero – rinchiusi in campi di concentramento per essere venduti a mano a mano come schiavi, o tenuti in ceppi per onorare il trionfo del generalissimo di ritorno a Roma. Poi Tito fece radere al suolo Gerusalemme, abbattere le mura, radere al suolo quello che restava del Tempio, e perfino rompere le strade a metà, per snidare eventuali cecchini nascosti nei cunicoli di scolo. Dice Giuseppe Flavio serafico: “La ribellione ha distrutto al città, e Roma distrugge la ribellione”.
Ne “La guerra giudaica” Giuseppe Flavio racconta – ala terza persona, come Mennea: Giuseppe dice, Giuseppe fa - che era capo di un manipolo d’insorti. Una quarantina di ebrei in fuga dalla legione di Tito, con cui si era rifugiato in una caverna di montagna nella zona di Jotapata. Lui è per la resa onorevole, i suoi compagni per la resistenza a oltranza. Ma l’impresa è disperata, e i compagni decidono che è meglio uccidersi, piuttosto che cadere vivi nelle mani dei romani. Bene, dice Giuseppe. Ma piuttosto che uccidersi singolarmente, tanto vale tagliarsi la gola reciprocamente, tirando a sorte. E fa in modo di essere l’ultimo, naturalmente favorito dalla sorte – il trucco è diventato un problema di matematica, chiamato il “problema di Giuseppe” o la “permutazione di Giuseppe”. Dopodiché esce dalla grotta con le braccia alzate.

Lavoro – Non ha buona fama tra gli intellettuali. Per questo è fallito il ‘48, la rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro. Hitler l’ha sbugiardato, assicurando “il lavoro rende liberi” a chi mandava a morte, e i campi di sterminio chiamò campi di lavoro. “Prendi i miei desideri per la realtà, perché io non credo nella realtà dei miei desideri”, hanno scritto a Parigi sull’Odéon nel maggio 1968, checché voglia dire. Il Sessantotto sarebbe stato la vittoria del proletario, che è, Stirner lo spiega nell’“Unico”, chi che non ha nulla da perdere: il cavaliere d’industria anzitutto, e poi puttane, ladri, briganti, bari, assassini, i miserabili, i frivoli – i cavalieri d’industria erano già nel “Buscòn” di Quevedo una società di birbanti che venera l’Industria.

Lingua – Gli scrittori che cambiano lingua sono soprattutto donne:  Edith Bruck, Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek,  Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, Jumpha Lahiri. Ce ne sono anche di italiane che hanno scelto di scrivere in un’altra lingua: Tiziana Rinaldi Castro e Francesca Marciano, che lavorano molto per il cinema e hanno scelto l’inglese, Gilda Piersanti il francese, e una metà della coppia Monaldi & Sorti, che vivono a Vienna.
Tiziana Rinaldi Castro e Jumpha Lahiri, in colloquio su “la Repubblica” sul cambiamento di lingua, lo fanno rimontare alla separazione dalla madre: la madrelingua come fosse la madre naturale.

Ozio – Potrebbe essere la salvezza, posto che “il lavoro non si trova”? Il marxista Labriola l’ha previsto: l’uomo del futuro sarà un genio felice e pigro. E l’infaticabile Trockij. Lo auspica il teutone Lessing: “Oziamo in tutto, eccetto che per amare e bere, eccetto che per oziare”. Lafargue, il genero di Marx, l’aveva stabilito: “L’ozio è indipendenza e fierezza”. È legge fondamentale dell’universo einsteiniano.

Psicoanalisi Sterilizza la creatività, o la stimola? Walter Benjamin dice che la sterilizza, scrivendo a Horkheimer il 23 marzo 1940: “È poco probabile che un uomo che sia stato spinto a censire tanto scrupolosamente le sue riserve psichiche possa mantenere la speranza di opere future”.

VecchiaiaUna ragione per eliminare i vecchi c’è, spiega Propp, l’analista delle fiabe: “Tra l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”.
È una commistione: a Creta, alle origini dell’Occidente, una statua di bronzo fu donata, di nome Telo, che ogni giorno faceva il giro dell’isola, e se incontrava un nemico fenicio lo arroventava abbracciandolo ridendo. La risata passò in Sardegna quando Telo e i cretesi, fonditori di metallo, si trasferirono nell’isola ricca di miniere – via Sardi di Libia, lì vicino?

letterautore@antiit.eu

Melville socialista scientifico

“In America i poveri non perdono mai né riguardo né orgoglio, e così – sebbene non giungano all’abbrutimnto fisico dei mendicanti d’Europa – proprio per questo, mentalmete soffrono assai di più dei miserabili di qualsiai altra nazione”. C’è anche un Melville dei poveri. Non pe filantropia, la deride. Un socialista, quasi scientifico. Dalle ricette semplici: “Pane e carne di manzo, e lavoro adeguatamente pagato”. Racconti che forse per questo reggono all’usura: non si piange, semmai si ride, ma ma la sensazione della povertà diffua a Londra, la megalopoli, e nella remota campagna amaricana è vivissima.
Sei racconti in coppia, uno negli States, l’altro a Londra, con o stesso personaggio per la coppia. Raccnt di metà Ottocente, per due riviste di svago, “Putnam’s” e “Harper’s”. La prima coppia di racconti fu rifiutata da “Harper’s”, rivista brilante, che pubblicava soprattutto eseti inglesi: Ma fu rifiutata per non offendere la sensibilità religiosa dei lettori: il racconto americano è di un povero che si vede rifiutata l’entrata in un tempio lussuoso nuovo di zecca per la funzione domenicale da un sacrestano-buttafuori. Le altre due coppie uscirono su “Putnam’s”, rivista mensile seriosa.
Herman Melville, Il paradiso dei celibi, Passigli, pp. 106 € 8,50

giovedì 29 settembre 2016

Problemi di base riformistici - 294

spock

“La proprietà dei vocaboli è soggetta al più e al meno, noi ignoriamo il vocabolo preciso” (Cusano) – e la riforma?

“Ogni principiato dipende dal principio infinito” (id.): Renzi, cioè, viene da un Renzi infinito? E Grillo?

“Non ci sono molteplici infiniti distinti” (Id.): c’è Renzi, e ci sono Salvini e Di Maio? O non ci sono?

È il Parlamento o il Grande fratello – i selezionatori sono gli stessi?

Si dice Grande Fratello come si diceva grande bordello?

Perché abolire il Senato (che tanta tradizione ha avuto per sei secoli a Roma e due a Washington) e non la Camera?

Si diceva “signori in camera”, si dice tuttora?

spock@antiit.eu

Iperselfie, il regno della masturbazione

“Malgrado tentativi ripetuti, non sono mai arrivato alla fine delle «Memorie di Adriano»”. Tutte finezze così, per 600 pagine – 400 nella traduzione lodevolmente compressa di Francesco Bergamasco, ma ugualmente dense.
Un polpettone, scollato, indigesto. Carrère rifila al lettore i suoi vecchi progetti, dice, su san Paolo, duecento pagine, san Luca, altre duecento, come fossero la preistoria delle sue biopsie di successo,  Limonov, Phlip K. Dick. Più altre duecento di se stesso: la sua attività, e inattività, le sue famiglie, la madre, l’eccezionale madrina Jacqueline, l’amico costante Hervé, la “visione” del Cristo, che ha colpito anche lui. Omaggio indiretto alla filosofia di Ernst Bloch: “Solo un ateo può essere buon cristiano, solo un cristiano può essere ateo”, il paradosso di “Ateismo nel cristianesimo. Per una religione dell’Esodo e del Regno”, 1968, ed è tutto dire, il lettore dovrebbe - avrebbe dovuto - essere avvisato. 
La cosa migliore è il porno serale su internet, nel rifugio alpestre dove gni anno Carrère si purifica con l’Hervé buddista. Ma sono solo quattro pagine. Anche il “grande Roustang”, decano emerito della psicoanalisi, il santone che salva Carrère, che scopriremo essere un gesuita spretato, autre a suo tempo di una lacrimosa “iniziazione alla vita spirituale”. Ma questo è proprio poche righe, la masturbazione gli viene meglio.
Volendolo prendere sul serio, è una riedizione di Renan nell’età dell’Acquario. Di uno scetticismo così, per dire: un po’ di yoga, un po’ di psicoanalisi, la scoperta che il sesso può piacere, e naturalmente molta “visibilità”: social, giornali, tv, conferenze, festival. Contro la religione. Cioè no, contro il cristianesimo, come vuole l’Europa al declino: contro il proprio brodo di cultura. “Il «Credo» in ogni sua frase è un insulto al buon senso”, e cose del genere.
La fede, che propone come tema del malloppo, Carrère ha vissuto come un’infatuazione, in parallelo con la psicoanalisi. Un’esperienza che ha confinato - freudianamente? – tra le carte del processo Romand nel 1993 a cui si è appassionato e di cui ha scritto, uno che aveva ucciso moglie, figli e genitori dopo che per quindici anni aveva fatto credere di essere medico. Che ci azzecca? Niente – tre anni di crisi mistica invece dei quindici di bugie di Romande hanno risparmiato le mogli e i figli di Carrère, e Hélène Carrère d’Encausse?
Sgangherato, fin dall’inizio. Dove sovrappone il serial “Revenants”, a cui collabora, alla religione.  E sembra pure divertirsi.
Una ricetta anche: un po’ di “Revenants”, un po’ di Philip K. Dick, “il Dostoevskij del nostro tempo”, una lettura sparsa di Nietzsche, e la cosa è fatta. Il cristianesimo? Invenzione del bizzarro tessitore di Corinto, l’ebreo grecizzato Paolo di Tarso.
Niente ha più successo del successo, è proprio vero – i campioni ti possono rifilare qualsiasi cosa, ogni appunto sperso.
Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi, pp. 428 € 14

mercoledì 28 settembre 2016

Spatuzza santo subito, dei killer

Spatuzza non ha niente da dire che non abbia detto. E sempre si lamenta povero e abbandonato – come tutti, primo Ottocento (già Dickens ne sa di più).
Non si capisce la ratio  di questo libro. Non è nemmeno il solito sermone anti-Berlusconi, quelli che si scrivono, si scrivevano, per uscire su “la Repubblica” o “l’Espresso” – il rito degli autori della “resistenza”. Berlusconi viene abbondante quarto nelle citazioni – dal suo nome Spatuzza non si aspetta più nulla? Qui si parla soprattutto dei tre Graviano, i padri-padroni del killer. Del quale non c’è una piega di condanna, solo comprensione – “misericordia”?
Ben nove incontri tra la studiosa e il killer. Dino dice che sono avvenuti nel mezzo di un periodo “di grande sofferenza”, poteva almeno risparmiarsi Spatuzza. E le venerabili edizioni del Mulino? Dov’è finita la sociologia?
 “Un racconto di vita una storia di stragi” è il sottotitolo. Di stragi, s’intuisce naturalmente, a opera dello Stato, con o senza Berlusconi, di vita invece di Spatuzza. E di vita del centinaio di persone da lui uccise, molte delle quali non erano nemmeno mafiose? Una testimonianza “pulsante”, dice la studiosa. Di che?
Di Spatuzza, il centokiller, valga quello che si scriveva su questo sito il 7 dicembre 2009:

Il corteo palermitano a Torino in onore di Spatuzza è una coppa del mondo data vinta alla mafia, alla mafia mafiosa degli Spatuzza e dei Graviano, i killer e i boss. Un mago del marketing mafioso non avrebbe saputo inventare di meglio. E tutto gratis, a spese dello Stato, cioè degli onesti. La Corte d’Assise d’Appello, completa di giuria, che viaggia da Palermo a Torino per ascoltare il gran pentito Spatuzza, alla presenza di duecento giornalisti, che c’entra con la mafia? Che c’entra con il Sud? È una guerra tra De Benedetti e Berlusconi, tra Bazoli e Berlusconi, cui i giudici siciliani si prestano proni per loro particolari ragioni, e anzi in contrasto con i loro doveri istituzionali. Una scaramuccia in realtà, lupo non mangia lupo: non ci libereremo di Berlusconi, il padrone dei nostri voti, né di De Benedetti o Bazoli, i padroni della nostra opinione e dei nostri soldi.
“Spatuzza è un killer brutto quanto spietato, l’emblema anche fisico della stupidità assassina. Lo proteggono venti agenti addetti alla sua protezione personale, venticinque agenti in vario modo incaricati del trasporto, e settanta tra poliziotti e carabinieri addetti alla sorveglianza…
Uno che denunciasse un sopruso di mafia, un danneggiamento, un’estorsione, Libero Grassi per esempio, non avrebbe, non ha mai avuto, neanche un millesimo di questa sollecitudine. Bisogna arguirne che lo Stato è mafioso? No.
“Il pentito Spatuzza è un caso abnorme. Uno che da tempo studia teologia in carcere, ma si ricorda dopo quindici anni. E dopo che da ben sette anni i suoi (ex?) capi mafiosi gli chiedono di ricordare. Capi in isolamento, che però lo possono incontrare nel supercarcere di Tolmezzo, per distesi dialoghi – Spatuzza è uno che è lento a capire.
“Ma più del colloquio boss-killer a Tolmezzo, è mafiosissimo il colloquio tra Procuratore e boss, il giudice Alessandro Crini e uno dei fratelli Graviano, Filippo, a proposito del convitato di pietra Berlusconi, qui riportato nella redazione del “Corriere della sera” del 29 novembre: http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_29/pm-domande-spatuzza-berlusconi-bianconi_c286a9a4-dcbf-11de-8223-00144f02aabc.shtml

Procuratore: «Con lei si parla bene, un italiano consapevole, queste cose le capisce al volo... Noi pensiamo che Spatuzza abbia capito bene, e pensiamo che lei si sia difeso molto bene, con un’interpretazione molto saggia, che però secondo noi non è quella giusta».
Graviano risponde che lui non dice bugie; semmai non dice. E ribadisce di «non avere cognizione, né diretta né indiretta, di questi impegni, accordi, o come si possono chiamare; ma quella risposta articolata che vi ho dato è per aprirvi un sentiero, diciamo... ».
“Pier Luigi Vigna è il giudice fiorentino che è stato a capo della Procura nazionale antimafia. Al “Corriere della sera” del 29 novembre ricorda di avere incontrato un paio di volte Spatuzza, “nel 1999 o nel 2000”. Lo ricorda “intenso”, e “assai tormentato”. Un killer di mafia, autore di almeno cento assassinii. Sotto l’incubo del 41 bis. E uno dice: chi ci protegge? Non dai mafiosi.
“Spatuzza in carcere diventa teologo. Un killer volpino (il tipo qui lo dico, qui lo nego) nella foto dell’arresto. Il suo boss Graviano diventa economista. Tutti con buoni voti. Bene assistiti dai tutor. È il carcere una buona università, o viceversa?
“La storia dei pentiti è tutta disonorevole. Il pentito negli Usa si deve pentire “tutto insieme”: deve dire tutto quello che sa, dopo essersi preparato, a tutti gli inquirenti che possano essere interessati alle sue confessioni, magistrati o poliziotti. Non all’orecchio di questo o quell’inquirente, magari suo sodale. Non a rate. Il nemico, seppure retribuito, in America è sempre un criminale. Roba da sbirri, che sempre hanno avuto da fare con confidenti e mezzani. Solo nella giustizia italiana diventano martiri, per sbugiardare la giustizia.
“Buscetta, a parlarci, era un evidente bugiardo. E tuttavia scrittori molto apprezzati e molto pieni della propria onestà, Biagi, Bocca, i sicilianisti, ne hanno fatto un monumento: di correttezza, onestà, coraggio. Un criminale che ha vissuto magnificamente metà della sua vita, protetto come un capo di Stato e con lauti rimborsi spese dello Stato. Era pronto anche a chiamare in causa Andreotti, dopo avere negato questo favore a Falcone, quando i nuovi procuratori ebbero bisogno della sua collaborazione”.
Alessandra Dino, A colloquio con Gaspare Spatuzza, Il Mulino, pp. 312 € 20

Ombre - 335

Riccardo Perissich conferma, sulla fede di Tommaso Padoa Schioppa, primo collaboratore nel 1992 di Ciampi, che la svalutazione della lira fu decisa dalla Banca d’Italia solo su pressione della Bundesbank. Che Ciampi era deciso a resistere quel giorno di più che avrebbe sventato l’attacco speculativo. Perissich conferma Amato una settimana fa. Ma confinato alle lettere al direttore – il fato più importante della storia recente dell’Italia, che ne condiziona tuttora l’economia.

Periodicamente, non solo sui suoi “Repubblica” e “l’Espresso”, anche il “Corriere della sera” e altri giornali blasonati interrogano Carlo De Benedetti sulla terza guerra mondiale, la fine dell’Europa, la fine dell’economia, e la fine del governo in carica. Ma non dicono mai per quali motivi, titoli, esperienze, si appellano a De Benedetti: cosa ha fatto di buono?

Di Pietro dovrà dare 2,7 milioni indietro a Occhetto, Chiesa e Veltri, gli allora Riformisti per l’Ulivo che alle Europee del 1004 si consociarono con la sua Italia dei Valori. Di Pietro dice di no, che non glieli darà, ma non è questo il problema. È che un raggruppamento che ebbe il 2,14 per cento del voto incassò 5 milioni di contributi pubblici. La politica come un investimento, sui soldi degli altri.

Era quella la formazione dei famosi Girotondi, che si organizzavano per l’Italia all’insegna della probità e del rinnovamento.
Dei Riformisti dipietristi faceva parte Sylos Labini, che pure era un economista intelligente e una persona onesta.

I conti del partito di Di Pietro, Italia dei Valori, erano gestiti da una srl, si scopre al processo per le indennità. Di cui erano titolari Di Pietro, sua moglie, e la sua segretaria.
Ma le numerose proprietà immobiliari acquistate da Di Pietro e sua moglie non sono collegabili a questa società, i tribunali hanno detto di no.

Il processo per i fondi pubblici alle Europee del 2004 è il primo in cui Di Pietro è perdente, su trecento a passa che lo hanno visto protagonista. È il primo processo che si è concluso dopo il suo forzato ritiro dalla politica.

Ilary Blasi ha aspettato che la Roma andasse male, e il compleanno del marito, beniamino universale, i quaranta, anniversario importante,  per buttarla in vacca. La festa è stata rovinata, le polemiche hanno dominato invece del divertimento . Ma, certo, non l’ha fatto apposta: le prove non si troverebbero.

Con analoga sensibilità, Ilary non invita alla festa di compleanno i Sensi. Che si sono svenati per fare grande la Roma di Totti. Senza ambizioni politiche, la loro Roma non era un predellino.

Sorrentino spara a zero, non richiesto, contro “Fuocammare” candidato all’Oscar. Che vincerà, ha più titoli di “Julieta” o “Elle”. Sorrentino che imita il suo “Tony Pagoda” è uno spettacolo – Tony Pagoda non teme la risata, non teme la lacrima, non teme la sprezzatura, o lo sfottò”, dice la pubblicità. Ma non sarà che Dio perde coloro che ama?

“Noi non vendiamo gadget, pubblichiamo giornali” è il primo messaggio del nuovo padrone del “Corriere della sera”, Cairo. Fantastico, detto del primo e più autorevole giornale. Ce n’era bisogno, evidentemente.

Cento copertine dell’ “Espresso” contro Berlusconi. Cento. Si capisce che sia finito a zoccolo di “Repubblica” la domenica, molle.
Poi dice la crisi della lettura.

Si celebrano Berlusconi, 80 anni, con Scalfari, 90. Che la Repubblica hanno ridotto col loro finto duello in briciole. Venticinque anni di duelli, a spese dell’Italia e degli italiani. Per una copia o un decimale di audience in più. Vecchi non saggi, veri filibustieri.

“L’Espresso” fa un supplemento domenica per chiedere l’immediata liberalizzazione della marijuana. Lo stesso giorno in ci il settimanale si vende a panino con “la Repubblica”, che invece ospita un saggio-dossier di Don Winslow contro: “Voglio dirlo chiaro e tondo: l’eroina è diventata un’epidemia a causa della legalizzazione della marijuana”. A chi credere? Ma la superficialità è sempre monolitica.

“Accoglieremo centinaia di profughi dalla Grecia e dall’Italia”, annuncia Angela Merkel. Titoli ammirati. Non doveva accoglierli da un paio d’anni? Ne accoglierà centinaia.  Mentre solo in Italia ne arrivano migliaia, ogni giorno. Li accoglierà “una volta che in Italia abbiano ottenuto il permesso di soggiorno”. Ancora più ammirati?

Renzi omaggia Volkswagen. Che ha meritato, avendo “salvato” e rilanciato Lamborghini e Ducati. Nel mentre che rende sberle da Angela Merkel – le sue arrabbiature, di Renzi, contro la Germania sono (deboli) forme di difese dall’aggressività merkeliana. Un po’ di misericordia per lui no?

La Rai innova. Una trasmissione intitola Politics. Un’altra Sunday Tabloid. Un’altra Calcio champagne. Non vuole farsi vedere?

La Rai nuova di Renzi si vota il tetto massimo dei 240 mila euro di stipendio. Anche per la presidente, che non fa nulla - non ha nulla da fare. E per i consiglieri, che ci fanno per il caffè. In più se ne aggiunge 50 mila di bonus. Fa finta di non essere di Stato. E nessuno glielo contesta, nessun giudice contabile, nessun giudice penale.

Una parlamentare , in cerca di casa in affitto a Londra per il figlio che ci vuole studiare, si sente chiedere dall’agenzia, oltre gli anticipi salati, la garanzia del “datore d lavoro”. Cioè dell’ufficio di presidenza della Camera? La parlamentare protesta ma è ammirata: a Londra non si deroga. Se gliel’avessero chiesta in Italia una simile garanzia, a lei come a chiunque altro? Se in Italia si chiedessero garanzie contro chi entra in casa e poi non paga l’affitto, tanto il giudice deciderà fra quattro anni? Illegale, illegale.

La parlamentare di cui sopra paga senza battere ciglio 31 mila sterline anticipate di affitto di un appartamento per il figlio a Londra che studia all’università. Solo di affitto.

De Luca, il presidente della Campana, prende in giro i giovani grillini. Falsi come Giuda, che si sorridono e si pugnalano, incapaci di fare la o col bicchiere, Di Maio rende la paghetta, etc.
Ira di Grillo: De Luca va fermato, De Luca va cacciato, etc. Ma Grillo non è un comico?

martedì 27 settembre 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (302)

Giuseppe Leuzzi

A Pavia, capitale dei Lombardi, i mercanti viaggiatori mussulmani del IX-XII secolo trovavano meravigliati che vivessero “alla maniera dei Curdi”, tra tende e capanne. Mentre Roma è per loro sempre fonte di ammirazione. Per le ricchezze incalcolabili. Per il senso di giustizia

Il Nord come “Terra di Caino”. Il repertorio del Nord dell’appassionato nordista Peter Davidson, “The Idea of North”, non si fa sconti: “L’idea del Nord in Canada è infetta, forse più che in qualsiasi altro paese eccetto che in Russia, dalle associazioni primordiali come «terra di Caino», e cioè da tristezza, smarrimento e esilio”.
Un’altra associazione “primordiale”, con la pazzia, l’ha introdtotta vent’anni fa Margaret Atwood in un saggio dedicato, “Strange Things: The Malevolent North in Canadian Literature” “Uno degli argomenti avrà a che fare con l’impazzimento nel Nord – o essere portati alla pazzia dal Nord”.

Il mercato è al Nord
L’Italia viene ventesima al mondo epr la sanit: non ci si cura bene in Italia. Meglio nei paesi scandinavi. Dove se stai proprio male ti suicidi. O la Germania, con l’Olanda, dove se hai 75 anni e un tumore puoi solo morire.
Il Nord viene sempre prima, in tutte le classifiche. Il Sud viene primo nella malavita, anche se ce n’è di più, in proporzione, nella distinta Svezia.
Il Sud ha inventato il mercato, con i mercatini. Ma li pratica meglio il Nord, come tutto del resto.

L’Irlanda è il cattivo d’Europa, che ospita Apple, AirBnb, Ryan e altre aziende di malaffare. E le lascia lavorare in pace, e non le tassa. No, non funziona così: il mercato non ammette sconti fiscali. Questi possono permetterseli solo le potenze: Gran Bretagna, gli Stati Usa, e Olanda e Lussemburgo per conto della Germania.
C’è un Sud anche al Nord: l’Irlanda è cattolica. Per questo non ha sconti, per questa storia che si perdona i peccati: il mercato è molto protestante, e infatti fa vincere sempre e solo il migliore.

Resta da dire, in materia di sanità, che di una cosa sicuramente il Sud è pienamente responsabile, della sua malagestione. Con regioni che pagano cifre consistenti per far curare i propri assicurati altrove, la Sicilia, la Calabria e la Campania soprattutto.. Per incapacità, scarsa professionalità, corruzione.
Molte debolezze il decentramento amministrativo ha evidenziato al Sud di cui il Sud è solo responsabile, la viabilità, l’urbanistica, le politiche attive del lavoro, ma nella sanità la colpa è totale. Non c’è mafia che scusi, né scarsità di capitali.

Suono
È – era – il nome della tarantella, da ballo popolare? Ettore Castagna lo arguisce nella monografia “U sonu” per la “musica a ballo” di Cardeto sull’Aspromonte, una tarantella aspromontana ingentilita. Un trattato singolare, pro e contro la tarantella ballo colto e non popolare. Che però ha un’eco in Danilo Dolci. Che in una poesia della raccolta “Il limone lunare”, fa ricordare a Rosa: “A sedici anni mi hanno invitata a un suono\, a una festa da ballo in casa di parenti” – Rosa è un’anziana contadina dell’agrigentino che “sembra uscita\ da un quadro veneziano del seicento”:
Castagna, sbollito il furore iconoclasta, il “suono” ricompone come musica coreutica, sonu a ballu: se non si balla, “si perdi u sonu”. A un sentimento e un bisogno che vengono da lontano. La danza, “deposito sedimentato”, e quindi il “sonu a ballu”, insomma la tarantella, ha “una spiccata caratterizzazione in senso rituale”.

La Sicilia invasiva dei siciliani
La “linea della palma” che sale al Nord, e lo occupa, lo avvelena, è copyright di Sciascia, che vedeva la Sicilia come un’infezione, anzi una metastasi. Che ogni poco si alzava  invadere il continente. Camilleri non è da meno. Più avvertito di Sciascia, perché ha vissuto a Roma - non nell’isola, lusingato da francesi e milanesi per un pizzico di esotismo. Camilleri non considera l’isola il cuore del mondo. Ma anche lui è, incontenuto e forse incontenibile, per la favola che i siciliani si raccontano, dell’isola rivoltata in continente: non più esteriore, lontana, marginale, ma invasiva e dominante.
L’interlocutore di Camilleri è siciliano anche lui, Saverio Lodato, a differenza di Sciascia che ne discuteva con Walter Vecellio, tripolino cosmopolita, o del giudice Falcone, del memorabile “Cose di cosa nostra”, scritto con Marcelle Padovani. E tre lunghi volumi ne nascono quasi assurdi: oltre mille pagine di delirio piatto. Subito, la colpa è anche qui degli americani: Sciascia pianse quando sbarcarono gli americani, e anche Camilleri: con loro sbarcava la mafia. Giuliano (non) era un bandito. Nel ’48 vinse la mafia. E ora McDonald’s, Camilleri non ha più illusioni: “Nel centro delle più belle città italiane troverò McDonald’s”. Cioè, per intendersi: McDonald’s è siciliano, della mafia? Oppure no? Certo che no, ma è qui la verità: è la Sicilia che si è impadronita degli Usa, la mafia, e governa il mondo, coi McDonald’s. È chiaro, bisognava pensarci – ecco perché Obama è un po’ scuro, è siciliano.

La mafia dell’antimafia
Il tutto mafia è merchandising: un affare, e quindi un progetto commerciale, la vendita facile del  quadretto in voga, in multipli: “La mafia tira? Allora sotto, produciamo mafia”. Milano con i suoi media, giornali, libri, televisioni. E la Rai per non saper che fare. Referenti i meno implicati, o implicabili: sociologi valdostani, Rosy Bindi che non ne capisce nulla, e qualche prete che invece ci sa fare, i giudici naturalmente – “sempre meglio che lavorare”.
La mafia è un fatto, molto nocivo: quotidiano, asfissiante, avvilente. Un sistema di furto costante, dei beni e della dignità. Alla luce del sole, un mercato parallelo. Con uomini di mano, ricettatori, mediatori, promotori, investitori, banchieri, joint-ventures. Ma se ne dispone poco o nulla, in genere dopo trent’anni. Se ne parla invece molto, moltissimo. Con profitto evidentemente, e quindi con diletto. Non si interviene per poterne parlare? È come se.

Calabria
La collana Rubbettino dei viaggiatori, una quarantina ormai di titoli, fa della Calabria la destinazione privilegiata del viaggio avventuroso in solitario euroamericano, da metà Settecento al primo Novecento. Anche nel repertorio di Attanasio Mozzillo sui viaggiatori nel Sud la presenza della Calabria è preponderante, con Napoli e la Sicilia. Poi più niente: finito l’esotismo, finita la Calabria.

È difficile scrivere della Calabria”, comincia col dire Margaret Carlyle, solitamente misurata e cheerful,  nel capitolo “Calabria” di “The Awakening of Southern Italy”, 1962, “senza fare quelli che potrebbero sembrare affermazioni contraddittorie, in parte forse perché è impossibile passare qualche tempo in questa poco nota parte d’Italia senza sentirsi depressi dalla perversità degli esseri umani, e dalle circostanze che hanno reso una delle più belle regioni d’Italia un fardello sulla sua economia e una macchia sulla sua civiltà”.

Nel 902 il principe aglabita Ibrahim ibn Ahmed lascia Kairuan, in Tunisia, dove era riverito fosco e cruento, per conquistare l’Italia – la parte continentale, la Sicilia è già conquistata. “Uno dei personaggi più controversi della storia del jihad nel Mezzogiorno”, lo definisce lo storico Feniello in “Sotto ils egno del leone. Storia dell’Italia musulmana”: violentissimo, oppure mistico, e pio santone. A un certo punto decide di conquistare l’Italia peninsulare. Ma a Cosenza la dissenteria lo ferma, e ne muore.

Notevoli gli echi di Provenza in Calabria. Da Frassineto-Frascineto a Aspromonte. E culinari: l’aglio, la cipolla, il pane biscotto con l’olio e l’origano, pan bagnat. A metà del Duecento Carlo d’Angiò fuse la contea di Provenza, portata in dote dalla moglie Beatrice, coi regni acquisiti di Napoli e di Sicilia, e il matrimonio topografico e culinario fu così probabile. O già via Normanni, che passarono in Calabria il più del loro tempo in Italia, e vi promossero le chansons de geste – benché di Provenza vi se ne parli poco – attorno e dentro l’Aspromonte. Che è toponimo appunto normanno.

Non poteva mancare un sant’Elia in Calabria – dappertutto dove ci sono stati i greci c’è un santo a questo nome. Quello di Palmi è però storico: Elia il Giovane, che aveva un convento alle Saline, cioè nella piana oggi di Gioia Tauro. E fu impegnato nella difesa di Taormina contro l’assedio arabo nel secolo IX.

Taormina cioè Messina. Che è la città con cui Palmi condivide la religione e forse la popolazione: la Varia, i Giganti, la Madonna della Lettera. Senza che oggi niente più le colleghi.

In “Filoxenìa”, in cui ha fissato la sua scoperta dell’area grecanica attorno a capo Spartivento, e nelle trasmissioni per la rubrica “Passioni” di Radio Tre che ne ha tratto, “Volti e voci della Calabria greca”, l’antropologa Patrizia Giancotti fa parlare Martina, una bambina di Bova di dieci anni, della montagna che la sovrasta, l’Aspromonte, e della montagna sotto il suo paese, Bova, la colonia greca probabilmente più elevata, a quasi mille metri di altitudine: “Il mare sembra di averlo vicino a noi, qui davanti. Oppure, guardando le nuvole, sembra di toccarle”. E della montagna sotto di lei: “Qui siamo a mille metri. Vedere le montagne da sopra, queste colline, dà una sensazione come di brividi”.

Si lega la Calabria – distribuzione geografica, coltivazioni, carattere – alla montagna. Mentre è la regione che ha più mare e litorale di tutta l’Europa continentale.È del resto formazione geologica recente, soprattutto nella parte meridionale, l’Aspromonte, che conserva tuttora molti segni del mare da cui è emerso.  

leuzzi@antiit.eu

La vertigine del sette

“Dal Boeing 777 alle 7 meraviglie, dai 7 peccati capitali allo 007” è il sottotitolo. Ma i 707 sette catalogati non bastano, l’elenco sarebbe interminabile – infinito? C’è la “nemesi del 7” di Samsung vs. Apple? Non ci può essere. Ci sono i sette gol che la Roma becca fisso in Champions League? No. Ma ci sono geografie, anche remote, del numero. E immagini colorate della sua ubiquità. In tutti i campi dell’umano. Meri Franco Lao si è divertita, sempre sbarazzina, e diverte. Senza fugare, non lo vuole ma non lo potrebbe, l’inquietudine: avendo affrontato la questione, in breve ma con molti altri sette, nel romanzo “In virtù della follia”, non si può che covenire.
È un numero di tenebre, più che di gioia. Anche dove non sembra, come in san Giovanni e l’“Apocalisse”, o già nella Bibbia, dove appare come accrescitivo, o superlativo. Filone d’Alessandria, dotto ebreo grecizzato, conciliatore di fede e filosofia, l’aveva esorcizzato, forse prima di Giovanni: la potenza del numero, scrisse diffusamente, si esplica ovunque, in aritmetica, geometria, biologia, astronomia, cosmologia, musica, moto, cicli della luna, e dunque ha “valore divino”. Ma il papa Sisto V Peretti a fine Cinquecento dovette giustificarlo, con apposita bolla: le sette Chiese dell’apostolo Giovanni si stabilirono in Roma, “con grande arcano del numero stesso”, per farsi una. Senza più arcano?
“Tutto fa sette”, concludeva Margaret Millar, “anche se la gente non lo sa”. La grande giallista riecheggiava Elémire Zola, che così presentava “Il signore degli anelli”: “Al tre, numero dello spirito e della germinazione di ogni forma, si aggiunga il quattro, numero della materia, e si avrà la completezza, il sette, proprio dei nani costruttori”. Oppure sant’Agostino, il quale ha visto il numero sette, “simbolo ordinario di universalità”, anche nel dodici, il numero dei patriarchi e degli apostoli, come prodotto di tre per quattro, o di qatro per tre, e nei dieci comndamenti, che sono tre più sette – ma ammoniva: “Ci sarebbe molto da dire sulla perfezione del numero sette. Ma questo libro (“La città di Dio”) è già abbastanza prolisso, e potrebbe sembrare che voglia prendere l’occasione per esibire finezze culturali a scopi di nessun interesse invece che a vantaggio delle lettere”.
Meri Lao, Dizionario maniacale del sette, Digiset, pp. 360, ill., € 23

lunedì 26 settembre 2016

Il bamboccione può poco

Interminabile il tormentone – da ultimo ieri su “la Repubblica”, con una prima pagina del demografo milanese Rosina, sui figli che, “anche con un lavoro”, non lasciano la casa dei genitori. Infiniti lutti creando alla demografia (non mettono su famiglia), e alla stesa economia (non mettono su casa). Con gli psicologismi di rito: l’incertezza, l’insicurezza, la crisi.
Trent’anni o più da quando De Rita impose il tema, e nessun passo avanti. Anzi, col gigantesco passo indietro di quando l’economista Tommaso Padoa Schioppa, ministro del Tesoro, portò la questione in Parlamento, forte di suoi figli che disse bamboccioni. Mentre la spiegazione è proprio  economica, ed è sotto gli occhi di tutti – questo minisito lo ha detto più volte: uno stipendio oggi non compra una casa. Neanche uno stipendio buono. Anche due stipendi hanno difficoltà a comprarla.
A parità di potere d’acquisto il reddito medio italiano è al livello di vent’anni fa, 1996, questo è un calcolo dell’Istat.
È come questo sito spiegava ultimamente: “Uno stipendio, un lavoro bastava fino a due generazioni fa per mantenere la famiglia, acquistare casa, cioè pagare il mutuo, e perfino risparmiare. Si facevano anche vacanze lunghe, non una settimanella scappa e fuggi. Oggi non bastano due stipendi, e comprare casa è affardellarsi per tutta la vita attiva. Il reddito è taglieggiato. La capacità di spesa è cronicamente ridotta, da un carovita tanto elevato quanto negato”
“La deflazione che si lamenta è solo statistica – “ufficiale”. È il gelo della spesa e degli investimenti, ma per effetto del carovita, non di un crollo dei prezzi. Dove questo si produce, per alcune materie prime, non riguarda le nostre economie – semmai ne è un effetto, è un effetto della domanda depressa”.

Grillo ha sempre ragione

Grillo si riprende a Palermo i 5 Stelle, che da movimento erano diventati un partito: “Sono io il capo politico”. Accantonando il direttorio, senza nemmeno nominarlo. Ma d’accordo con Davide Casaleggio, che non ha le ambizioni di guru che aveva il padre. Si sapeva http://www.antiit.com/2016/09/niente-direttorio-un-altro-assetto-per.html
ma non si diceva.
Grillo, sempre a Palermo, prende le distanze anche da Roma: “Decide la signora”. Dove la signora Raggi non riesce nemmeno a nominare i suoi assessori, a 100 giorni dall’elezione, ad avviare la sua giunta. E non trova dirigenti per le aziende pubbliche, se non i soliti ex di qualcosa pensionati: chi ha ambizioni si tiene lontano dalle aziende pubbliche romane, cioè dai capricci della sindaca, palesemente inadeguata.
A Palermo è anche il Grillo padre-padrone. Ipereccitato. Che straparla, a volte sconnesso, incomprensibile. In tv ora dà licenza di andarci a chiunque, ma a parlare “solo di programma”. Maestrino meticoloso. E vuole un nuovo regolamento, l’ennesimo, per le espulsioni: il movimento, che per natura è confuso e limaccioso, lui lo vuole puro.
Palermo è stato una scena aperta. Ma non per i media. Passati dalla guerra a Grillo al conformismo piatto – se non lo dice Grillo non è vero. L’ambizione è sempre servile.

Il Sud era ricco con gli arabi

Cinque secoli di storia, dall’attacco alla Sicilia tra l’Ottavo e il Nono secolo, dopo un primo approccio nel 652,  fino a metà Trecento. Un altro Mediterraneo, un altro Sud. Con un curioso effetto apologetico dell’islam, di tutto ciò che è arabo e musulmano. Ma forse è l’effetto dell’uso delle fonti arabe, molto più vasto che in altri studi. Che sono esse stesse molto ammirate dei mondi, musulmano e cristiano, che trovavano nel Sud Italia. Oppure – o anche – l’effetto della ripresa degli studi sui musulmani in Italia, fermi a Michele Amari, 130 anni fa. Con curiose anticipazioni peraltro degli schemi odierni. L’immigrazione invadente, dal Maghreb, dall’Africa, dalla Spagna, “in una situazione spesso di vera e propria emergenza umanitaria”, per epidemie carestie, scontri. Il jihad, costante, determinato, invasivo. L’invasione non si limitò al Sud: furono investire anche Roma e Ostia, nell’estate dell’846, il litorale toscano, la Liguria con l’Appennino e fino in Piemonte. Né mancano le lotte intestine, di potentati e tribali – non settarie o di confessione: a Palermo la Kalsa siita conviveva col Cassero sunnita. Ma con una differenza: le guerre etniche o religiose non hanno la precedenza – non sono più gravi: cruente, distruttive – di quelle dinastiche, oggi si direbbe nazionali.
Il jihad ha già invaso Roma
L’attacco a Roma ha un percorso istruttivo. Napoli ha chiamato in aiuto gli arabi di Sicilia contro i longobardi che la insidiavano. Gli stessi longobardi, poi, si dividono e chiamano gli arabi. Gli arabi dei contendenti longobardi alla fine si mettono insieme e marciano su Benevento, la capitale longobarda del Sud. E subito dopo, nell’agosto del’847, su Bari – vi costituiranno un emirato che durò vent’anni.
Principi e imperatori longobardi si distinguono per l’incapacità. Che gli arabi di Sicilia tenteranno di mettere a frutto. Un primo tentativo d’invasione della penisola è fermato nel 902 a Cosenza da un attacco ferale di diarrea del califfo Ibrahim. Nel 934-5 l’assedio è portato a Genova. Nel 950-52 di nuovo alla Calabria bizantina, conquistata. Ma per poco: il califfo omayyade si allea con i bizantini contro i fatimidi, gli arabo-berberi che dal Maghreb attaccavano l’Italia, e la flotta fatimide vieve distruttura di fronte a Reggio.
Alla sommatoria, dell’824 al 968 è un secolo è mezzo di razzie. Ma non è tanto alla storia miltare che Feniello è interessato. Più gli urge comunicare il senso di comunità che, malgrado le ostilità continue, comuni del resto al mondo cristiano, regnava in quei secoli. Di massima effervescenza al Sud. Attorno alle navi di A amalfi, e in rivoli dispersi: fu una stagione d’oro. Mai il Sud è stato così ricco, le relazioni di mercanti e viaggiori arabi, o arabizzati, e la profusa documentazione della Genitsa ebraica al Cairo, i minuziosi registri di commercio per più secoli a valiere dell’anno Mille, ne dicono solo meraviglie e lasciano intuire un’economia florida. Le sete si producono in Calabria per tutto il ricco mercato mediterrano, il lino a Napoli, grano e vino in Sicilia e in Puglia. Il fulgore si conclude con un mesto § “Da Nord del mondo a Sud d’Europa”. Da Nord del mondo mediterraneo, islamico – i cui dinari e tarì hanno soppiantato il solidus bizantino, il “dollaro del Mediterraneo”. Un mesto passaggio con la conquista latina, via Normanni.
Resta il quesito: perché il jihad sul Sud fallì, malgrado le fose dispiegate, mentre la conquista riuscì ai Normmani in poco tempo e con poche forse? Le risposte sono varie, che Feniello elenca. Ma eccettua la più probabile: la religione.
Un libro repertorio. Con molte illustrazioni a colori, e una serie di indici: una vastissima bibliografia, carte dettagliate storico-geografiche, i nomi.
Amedeo Feniello, Sotto il segno del leone, Laterza, pp.306, ill. € 13

domenica 25 settembre 2016

Il miracolo tedesco si chiama Eucken, o della produttività

Cosa vuole la Germania? Le risposte si affollano da un paio d’anni. La più semplice – articolata, comparata – rimanda a Walter Eucken, l’economista in voga negli anni 1930, teorico dell’Ordoliberalismus. Non all’economia sociale di mercato e a Ludwig Ehrard che ne fu il fautore, i soliti riferimenti, ma a un professore antikeynesiano.
Eucken fu antikeynesiano al punto di non nominare il rivale nella sua trattatistica, nemmeno per caso. Ma poi, benché morto nel 1950, negli scritti 1930-1945 pare che non menzioni neanche il nazismo: un macro-economista teorico, fuori dalla storia. La sua Ordnungspolitik non vuole la piena occupazione, non vuole cioè i sindacati, il potere sindacale. E non vuole investimenti pubblici e altri incentivi all’occupazione. Solo punta sulla competitività: sul miglioramento della produttività, del lavoro e del capitale. È da lui che discendono le cosiddette “riforme strutturali”. E sulla rigidità monetaria.
Due saggi recenti ne danno un quadro articolato,
Più semplice quello di Peter Bofinger, l’economista di Wurzburg che è tra i consiglieri economici del governo di Berlino:

Dalla Grande Depressione Keynes trasse l’insegnamento che una politica attiva della domanda era necessaria. Eucken non ne tenne conto, nel presupposto che una politica dell’occupazione conduce a un’economia pianificata. La Depressione, che Keynes imputava – come oggi si è  obbligati a fare – all’instabilità dell’economia di mercato, Eucken la attribuì a un’insufficiente flessibilità salariale e a un’inadeguata rigidità monetaria (ordo come ordinato, rigido): con prezzi e salari flessibili e un apprezzabile ordine monetario l’instabilità recede e si annulla.
È tutta qui la politica dei governi tedeschi dopo Kohl, del socialista Schröder e della democristiana Merkel: rigore di bilancio, stabilità dei prezzi, flessibilità salariale.
È qui il nodo afflittivo per i partner Ue. Che la Germania della Ordungspolitik condiziona anche attraverso la Banca centrale europea, quella di Draghi inclusa.
E un nodo che sembra ora costare caro ai partiti socialista e democristiani in Germania. La porta aperta all’immigrazione per alimentare la flessibilità salariale, e lo zero deficit sono più consoni all’ultraliberismo di Alternative für Deutschland, che ha soppiantato l’inetto partito Liberale – AfD vuole “controllare” l’immigrazione, l’ordine pubblico legando al’ordine monetario, non bloccarla. 

Come non cambiare le cose

Un strano libro, di uno che era sceso da Milano a Roma per tagliare la spesa, dopo un paio di settimane se n’è tornato a Milano senza cominciare, e vuole dare lezioni. Perotti è simpatico, ma è un maestro senza carisma, avendo avviato la “sindrome Raggi”, dei nominati a Roma, specie milanesi, che lasciano dopo avere accettato.
Come arriva al sottotitolo: “Perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo)”, con che autorità? Forse “così difficile” intende “cominciare a farlo”? Tanto valeva risparmiarsi.
Tra le solite facezie di cui la spesa pubblica non è avara – dare all’ippica 200 milioni, etc. – e le solite rigidezze della burocrazia, simboleggiata in copertina da un lucchetto cacerario, Perotti non aggiunge nulla. La spesa pubblica va risanata? Questa è un’altra facezia – o rigidità? – tematica.
Nulla sulla qualità della spesa, altro che la solita filippica antikeynesiana. Come se fossimo ancora a Keynes, dismesso da almeno quarant’anni, da quando  è stata inventa(ria)ta la crisi fiscale dello stato. Nulla sull’imprescindibile consolidamento del debito pubblico, i cui costi sono la sola ragione della permanente crisi fiscale dello Stato Italiano - che non ha più niente per nessuno, altro che Keynes. Che altro può fare lo Stato, altro che produrre un saldo primario attivo da venticinque anni, al netto cioè del costo del debito? O il debito non si può toccare, perché le banche ci devono guadagnare?
Roberto Perotti, Status quo, Feltrinelli, pp. 208 € 16