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sabato 30 marzo 2013

Letture - 132

letterautore

Dante – Umanizza l’aldilà (l’eternità) - è questo che Benigni, guitto, evidenzia, ma è così, lo è sempre stato malgrado tutto, alla lettura.
Questa – quella della “Divina Commedia” – è una lettura anche teologica, teologicamente diversa, l’umanizzazione cioè dell’aldilà (nessun aldilà se non umano). In particolare, colma la faglia che la figura del Cristo prospetta, di un Redentore che crede nell’inferno e anzi lo minaccia - un Salvatore che introduce la dannazione eterna ha disturbato e disturba mollti, anche cristiani (anche se poi non è così).

Internet - Il flusso di coscienza dilaga su Internet, ma per fortuna in pillole.

Passione – Bach vuole Cristo baritono nella “Passione secondo san Matteo”. E lo fa cantare impervio. Irritato, anche. Si scioglie solo quando parla al Padre, memoria non ingrata a Johann Sebastian – mentre i discepoli. Inetti, arruffoni, sono le accozzaglie di giovanotti che doveva addomesticare per quattro soldi nelle scuole dei principi, o la sua stessa figliolanza, numerosa e riottosa – eccetto il più piccolo, che diventerà italiano, “Giovannino”, prima che inglese.

Pinocchio - È curioso che non sia un personaggio analizzato dalla letteratura psicoanalitica, benché vasta. È rivelatore (lapsus)? Con l’eccezione di Servadio, che però, grande massone, ci vedeva simbologie massoniche. E quella tutta di scuola di Iakov Levi (online, sul sito psicoanalisi.it, o maranola.it/pinocchio), che dice tutto cioè e niente. Suzanne Stewart-Steinberg, che infine ci prova con una corposa ricerca, “L’effetto Pinocchio”, ci scopre numerose “evidenze - Pinocchio è come la lettera di Poe che nessuno vede perché è squadernata. È l’italiano-che-non-si-fa, secondo la conclusione della stessa studiosa (ci arriva dopo aver letto il leggibile in fatto di “italianità”, dalla Serao alla Montessori, da Sighele a Lombroso). Ma è anche, di suo, spiega Stewart-Steinberg a Pierangelo Garzia (l’intervista è online), “ribelle laico” e “Cristo moderno e popolare”, burattino ma capace di decisioni, un ragazzo sventato e un adulto riflessivo, credulone e inventivo. Il personaggio unico di un libro “allo stesso tempo fin troppo leggibile e profondamente illeggibile”.

Calvino lo vuole un pìcaro, “l’unico vero pìcaro della letteratura italiana”, seppure in forma fantastica. Un modo come un altro per non dire nulla – in un articolo-saggio pubblicato su “Repubblica” nel 1981, “Ma collodi non esiste”, 19-20 aprile 1981, e non ripreso nelle raccolte successive. Le avventure di Pinocchio, spensierate tanto quanto drammatiche, Calvino liquida come “tipiche di questa figura letteraria” – che, aggiunge, non registra grandi presenza nella letteratura italiana.
Calvino ha molte pagine anche buone sulle fiabe e i racconti per ragazzi, di cui era un amatore, e un fertile collazionista. Ma non su Pinocchio: non amava il burattino, che forse lo metteva a disagio?

Profetismo – “La caduta dell’America” è poema d Allen Ginsberg del 1972. Molto ben argomentato, specie sulla distruzione dell’ambiente. Di cui però l’America si è fatta la salvatrice – già al tempo del poema, e con Nixon… – promuovendo la normativa nazionale e internazionale a difesa. Dopo quarant’anni l’America è più potente e meglio messa.
Il poeta diventa profeta, più che per la capacità antevisiva (di previsione), quando la sua stessa forza, la capacità di convincimento legata alla sua persona e alla sua parola, diventa reale. Pasolini ne è il caso più illustre. Il suo “io so” ha influenzato l’epoca, e resta vivo, anche se ingiusto (forse in toto). L’io so di cui molti suoi epigoni si dilettano non ha rilievo – anche se in più casi ben argomentato.
Storia - Goethe la cancella in un momento di stanchezza, negli ultimi anni, nel secondo “Faust”, 11596-11603: “Passato’! Che parola stupida!\ Perché ‘passato’?\ Passato e puro nulla sono un tutt'uno.\ E perché allora questo continuo creare?\ Per travolgere\ nel nulla quello che è stato creato?\ ‘È passato!’ Come dobbiamo\ concepire questa parola?\ È come non fosse mai stato\ eppure vi giriamo in tondo, come esistesse.\ Se fosse per me\ preferirei al passato\ il vuoto eterno...”.
Il nichilismo teutonico non poteva risparmiare Goethe. Che così si cancellava, questa presenza così ingombrante, in Germania e non solo, ancora per un paio di secoli fino a oggi.

Traduzione - Tradurre l’ “Ulisse” di Joyce è impossibile per Borges., Le traduzioni letterali sono brutte, perché traducono il senso, là dove in inglese “ci sono come dei versi, e comunque dei ritmo molto felici all’ascolto”, che in traduzione sono soltanto turpi: “ Mentre le tante parole composte appaiono artificiose o troppo ricercate” – ma solo in traduzione?

Tedeschi poveri, profondamente ingiusti

In Germania la ricchezza è fortemente sperequata: il 10 per cento più ricco della popolazione ha il 58,2 per cento della ricchezza netta di tutte le famiglie. È il risultato, a sorpresa, dello studio condotto dalla Bundesbank tra settembre 2010 e luglio 2011, su una campione di 3.565 famiglie, sulla consistenza e la natura del patrimonio familiare a fine 2010. La ricchezza media lorda per famiglia viene stimata a 222.200 euro, quella netta (il patrimonio meno i debiti) a 195.200.
Sembra molto ma è un valore ipotetico, avverte lo studio: la ricchezza nazionale divisa per il numero delle famiglie è un indicazione statistica di scarso senso. Un valore di riferimento più veritiero è la mediana, la ricchezza cioè posseduta, o non posseduta, dalla metà della popolazione. Questo valore è molto più basso: la ricchezza mediana lorda si situa a 67.900 euro, quella netta a 51.400. Non è un fatto eccezionale, avverte lo studio: i valori mediani solitamente sono molto inferiori a quelli medi, e la distribuzione della ricchezza (il reddito accumulato nel tempo) è solitamente distribuita meno equamente che il reddito annuo. Il fatto inatteso è che ben il 73 per cento delle famiglie tedesche hanno una ricchezza media al di sotto della mediana.
Lo studio arriva a questa conclusione anche applicando l’indice Gini, il metodo statistico di calcolo riconosciuto della distribuzione della ricchezza, che pone a 0 una distribuzione “perfettamente eguale” e a 100 una distribuzione “perfettamente ineguale” della ricchezza. Il coefficiente Gini per la distribuzione del reddito in Germania è risultato pari a 42,8, quello della ricchezza lorda a 71,3, quello della ricchezza netta a 75,8. Un 10 per cento delle famiglie è peraltro risultato all’indagine campionaria possedere il 55,7 per cento della ricchezza lorda, e il 59,2 per cento della ricchezza netta totale.
Il risultato è sorprendente perché la distribuzione della ricchezza non è in realtà comparativamente più sperequata in Germania rispetto agli altri paesi europei. Anzi, secondo Eurostat, che compila periodicamente quadri comparativi, è relativamente più giusta – l’ultima elaborazione Eurostat è del 2008, ma non è pensabile che la situazione si sia deteriorata in due anni). L’indice Gini Eurostat 2008 vede il coefficiente tedesco a quota 29,1, il più basso fra i grandi paesi europei – la Francia era a 29,8, l’Italia a 31,5, la Spagna a 32,3, la Gran Bretagna 32,4.
Nuova politica del debito?
Sia il valore medio che quello mediano si collocano però indubbiamente, nota lo studio, al di sotto della media europea, degli altri “grandi paesi dell’area dell’euro con i quali i dati sono comparabili”. Una differenza da prendere con riserva: “La ricchezza privata delle famiglie offre una prospettiva limitata degli standard di vita o della ricchezza di una società. Specialmente nelle comparazioni internazionali. Altri settori, per esempio, lo Stato, possono influenzare la ricchezza delle famiglie, positivamente o negativamente”. E tuttavia, in fatto di patrimonio, quello delle famiglie tedesche è inferiore a quello delle altre grandi economia dell’euro, per la scarsa diffusione della proprietà immobiliare. Solo il 44,2 per cento delle famiglie tedesche possiede una casa (il 33,7 per cento nella Germania dell’est) contro il 58 per cento dei francesi, il 69 degli italiani e l’83 per cento degli spagnoli (una caratteristica “nazionale”: anche in Austria possiede la propria casa solo il 48 per cento delle famiglie, in Svizzera il 40). E solo un 18 per cento delle famiglie tedesche ha investito in immobili non di residenza.
L’indice Bundesbank non tiene in conto le pensioni – solo quelle private. E questo è un fattore esplicito di distorsione. E c’è forse nello studio il frequente paradosso della Germania che si vuole povera, mal governata, sfruttata, etc, una sorta di sport nazionale a denigrarsi-per-commiserarsi. Ma ci potrebbe anche essere l’accettazione surrettizia – un inizio di accettazione – della posizione italiana sui fondamenti della contabilità monetaria. La chiave è nella spiegazione del significato “economico” della ricerca: “Facilitare, tra l’altro, una migliore valutazione degli effetti della politica monetaria o della stabilità del sistema finanziario”.
Un patrimonio solido dà più garanzie. Il patrimonio viene in considerazione tanto quanto il reddito nel giudizio sulla sostenibilità di un debito, sia esso aziendale o nazionale. Sulla capacità di fare fronte agli oneri del debito. È la posizione che il governo italiano ha tentato di far valere in sede Ue negli anni 2010 e 2011, su input della Banca d’Italia di Mario Draghi. Allora inutilmente. Ora forse qualcosa cambia.
La conclusione dello studio è ambigua. Anche perché vi si parla di banche centrali nazionali come se ancora ce ne fossero nell’euro, mentre c’è una Banca centrale europea. Ma dà corpo alla teoria che il governo di Angela Merkel, e la Bundesbank che ne è emanazione diretta, lavorano, nella loro intransigenza fiscale, che pure tanti lutti ha provocato e sta provocando in Italia e in Europa, a tenere sotto controllo un’opinione pubblica ferocemente sciovinista e razzista, se non a domarla.
Bundesbank, Private Haushalte und Ihre Finanzen (Households and their finances), bilingue, online

venerdì 29 marzo 2013

La storia d’Italia riflessa in Pinocchio

L’italiano come Pinocchio? Sembra il solito stereotipo dell’italiano marionetta (specialmente ricorrente nella pubblicistica teutonica, e l’autrice nasce germanista). Invece a ogni pagina si rivela una lettura geniale. Da italianista alla Brown University negli Usa, Suzanne Stewart-Steinberg rilegge tutto ciò che ha “fatto” l’Italia unita, dal 1861 al 1922: la pedagogia, la letteratura, la storiografia, con la psichiatria, l’antropologia, la criminologia, la chiesa, la massoneria, insomma tutto quello che una volta si sarebbe detto l’“ideologia italiana”. Compresa la medium Eusebia Palladino, per dire. O Scipio Sighele e Matilde Serao con Maria Montessori. E alla fine del suo ponderoso excursus la conclusione sembra perfino ovvia: una fortissima dose d’irrazionalità caratterizza la vita italiana. Anche la vita pubblica, i “fatti” della pubblica opinione. E quella culturale, che pure si penderebbe più riflessiva.
Psicoanalista della cultura (l’ultimo saggio è “Anna Freud. Impious Fidelity”), la studiosa ha i mezzi per fare emergere la verità che le apparenze, le abitudini, sottendono. Di una sorta di psicologia nazionale, una perlomeno che caratterizza “l’italiano” fra le culture europee: come svelto, credulone, facilmente illuso, e socievole, attivo, inventivo. Umberto Saba la aiuta, con la più eminente delle sue “Scorciatoie e raccontini”: “Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che ha avuto, alle origini della sua nascita (o della sua leggenda), un fratricidio”. Mentre avrebbero dovuto uccidere un padre (fare una rivoluzione) per affrancarsi. Ma senza gli eccessi della confraternita: l’Italia, l’italiano, Pinocchio, Stewart-Steinberg rappresenta in perpetuo farsi. Si potrebbe dire che vive nella crisi.
Un libro non riassumibile, tante sono pagina per pagina le sorprese. Ma alla fine uno, Pinocchio o non Pinocchio, ha la chiave del dilemma della “funzione politica” irrisolta in Italia, da sempre (oggi è un momento drammatico tra i tanti), caso unico in Europa, tra ribellismo e succubismo. Che è incostanza, ma non solo, è molto di più. Attraverso Pinocchio, il burattino senza fili (di cui perciò la studiosa indaga i fili nascosti), spiega l’alternanza di creatività e burocratismo, di entusiasmo e fatalismo, di legalismo e illegalismo (l’illegalismo di tanto legalismo),
Suzanne Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio, Elliot, pp. 576 € 25

Secondi pensieri - 137

zeulig
Dio – Non ha prove, ma nemmeno controprove. Tutte le argomentazioni contro sono a suo favore.

Gelosia - È tribunale che non si perde una piega, lucida e saettante come ogni logica che non ha fondamento, e più si acumina con le argomentazioni a difesa.

Girard pone la mimesi alla base dei rapporti umani, in quanto emulazione, desiderio di ciò che l’altro ha o è. Una forma di gelosia. Così sarà nella tradizione filologica. Ma Girard la mimesi vive diminutiva, quella del mimo e dell’azione teatrale, una riduzione dell’io e la disponibilità a entrare negli altri. Senza altruismo, la voglia fastidiosa di sacrificio, per naturale modo d’essere. È qui il dandysmo, nel dono fisiologico del gaudium, o laetitia, di cui in Seneca, il piacere che nasce da noi stessi in noi stessi, in opposizione alla voluptas, il piacere che viene da altri: «Il mio milidandysmo», potrebbe dire lo stesso Girard per ribadire il bisogno di autenticità, se usasse l’ironia.

Giardino – Si riempie da qualche tempo. Di qualsiasi cosa, la più costosa e inutile: berceaux, tettoie, forni, casette, bistecchiere. Queste si segnalano, anche se in Italia non è uso utilizzarle, forse il giorno dell’inaugurazione – ma neanche quello: le famiglie ormai si riuniscono attorno al catering: sono la cucina maschile, e l’uomo in Italia non cucina volentieri.
Forse il giardino viene riempito per la fissa italiana di costruire, una derivata dell’abusivismo, che potrebbe ben essere una passione: si innalzano strutture mobili in attesa, una notte, un giorno di Ferragosto, di murarle e coprile con un tetto, anche se a nessuna utilità. Ma riempire il giardino è tendenza non soltanto italiana. All’ambizione di avere attorno una fascia aperta è subentrata l’ansia di riempirla, per un prensile horror vacui.

Scienza – Tanto più si specializza e si parcellizza tanto più si pretende interpretazione della realtà e filosofia. Generale, universale. Einstein e Galileo, e forse Talete, non lo pretendevano, qualsiasi fisico particellaro o fisiologo sì. Una forma di dotta ignoranza, presuntuosa.

Sessi – La lotta dei sessi riproduce vecchi modelli (si ripete periodicamente?). Lo nota Lafargue, “Le Matriarcat”, 1889, e si rileva nella pubblicistica di un secolo dopo. Alla donna che cancella la paternità, con la madre vergine, si contrappose in antico Giove che concepiva e figliava di suo, Minerva dalla testa, Dioniso dalla gamba. Un neo patriarcato deve ancora ricorrere all’utero n affitto, ma fino a quando?

Che senso ha la lotta dei sessi, se non come passatempo (fatte salve le salvaguardie giudiriche)?

Storia – Aristotele nella “Poetica” la dice meno filosofica della poesia: meno veritiera cioè, meno in grado di esprimere verità consistenti, durevoli. Ma in un’accezione “limitativa” della poesia rispetto alla storiografia. “Ufficio del poeta non è descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono accadere, cose cioè che siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza e della necessità. Lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scrive in prosa e l’altro in versi… La vera differenza è che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia: la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare”.
La poesia ristretta, come la filosofia, a dei fondamenti logici.

Tempo – Si può dire solo presente. Contro la saggezza prevalente, almeno in campo letterario, di dire il presente inesistente – c’è (esiste) il passato e c’è il futuro, la memoria e l’attesa (speranza). Il tempo presente grammaticale essendo giustamente l’essere, più che l’esistere. C’è il presente continuato, ma è un artificio rappresentativo-narrativo (si applica anche al presente, che meglio, più icasticamente, si rappresenta – si racconta – come un’istantanea. E tuttavia non c’è niente fuori del presente: il passato sarebbe un ammasso vuoto (illeggibile), il futuro non ci sarebbe.

Tolleranza – Il concetto è ambiguo anche culturalmente. A lungo la morale laica, che si vuole tollerante, ha condannato la tolleranza del cosiddetto spirito latino, o di un certo tipo di cristianità, come spirito di compromesso e accomodamento – in senso negativo cioè. La tolleranza è solo buona e ammissibile come segno di orgoglio-superiorità – come dato positivo in un rapporto di disuguaglianza.

zeulig@antiit.eu

giovedì 28 marzo 2013

Femminista cerca uomo

Il titolo è sovrammesso dall’editore, su un fulminante repartee della scrittrice, a due racconti contro il matrimonio, “Matrimonio indissolubile” e “Penso al matrimonio con paura e orrore” – da cui è derivata la citazione. Il secondo racconto, breve, è della madre, per rivalutarne il ricordo. Ma nel ricordo del padre, troppo bello, bravo, benvoluto, e incapace – la nostalgia è forte.
Cicely Fairfield, in arte Rebecca West (come la giovane ribelle di “La casa dei Rosmer” di Ibsen), di cui si celebra il trentennale della morte, è praticamente ignota in Italia, se non per le traduzioni recenti di Mattioli 1885, benché reputata la “migliore scrittrice” di lingua inglese. Femminista liberale, è qui di un femminismo curiosamente nostalgico, di un uomo che non c’è.
Francesca Frigerio lo mette indirettamente in rilievo in un’introduzione che è anche un racconto di suo. Ma il testo lungo che prende tre quarti della plaquette, “Matrimonio indissolubile”, lo dice a oltranza: la scena assassina si rappresenta dal punto di vista di lui, “un poveretto abituato al fallimento”, uno che disprezza il sesso,, come ogni altra cosa della vita, e nella moglie giovane, intelligente, amorevole, donna politica di grande ascendente, non sa vedere che un ammasso di carne.
Rebecca West, Non è che non mi piacciano gli uomini, Mattioli 1885, p. 87 € 10,50

Le banche e la Banca


La Bundesbank pubblica uno studio su risparmio delle famiglie impiantato come quello che alla Banca d’Italia è ormai un classico, dovuto all’ex governatore Fazio, allora dirigente dell’ufficio studi. Nulla di rivoluzionario, dunque, ma quanta autorevolezza (Auctoritas) residua nella Bundesbank, pur a fronte dell’esautoramento da parte della Bce, comune a tutte le ex banche centrali, e alle difficoltà create dalle banche tedesche, il cui attivo è per un 55 per cento intossicato dal sottogoverno.
In parallelo si può osservare che, come che vada a finire l’indagine giudiziaria, il Monte dei Paschi fu molto mal governato. Non ai tempi di Fazio, al tempo di Draghi. Il cui operato comunque resta indiscusso, e forse non ebbe più i mezzi per prevenire o sanzionare la cattiva gestione. Perché Fazio è forse colpevole, ma sicuramente è vittima dell’attacco di Bazoli & Co. alla Banca d’Italia: con Fazio si è voluto scientemente eliminare il ruolo morale e anche giuridico della Banca d’Italia nel controllo dell’attività bancaria.



La questione morale è la questione morale - tre

Chi ha ragione, Caselli o Grasso? Non frega nulla a nessuno, nessuno cioè crede all’uno o l’altro dei magistrati. Nessuno si fila il Csm, che fa finta di nulla e si erige a giurì d’onore. Puro Settecento, ancien régime. E si può liquidare così, come una commediola, di una giustizia che si vuole ridicola.
Ma si sa che travaglio e Santoro hanno armato la questione Grasso come trappola per impedire a Napolitano d’incaricarlo del nuovo governo. Travaglio e Santoro non l’hanno fatto per caso – non sono stupidi, tutt’altro. Quant’altro ci costerà la loro “questione morale”? Ogni giorno d’incertezza in più sul governo delle nuove Camere sono dieci punti di spread in più.
Ma è facile dire Santoro e Travaglio. In fondo non sono che due giornalisti. E sono solo due, per quanto abili e importanti. È evidente che non sono soli, se possono impunemente impedire che l’Italia abbia un governo solido subito. Impunemente, cioè non sanciti da nessun giornale, nessun commentatore, nemmeno un sperso nella giungla. Il partito della crisi e quello della questione morale coincidono.

Monti non è un mostro

Nel giorno in cui apre i conti correnti a curiosi e ricattatori, l’ultima cosa di cui sicuramente si pentirà, Monti va al Senato per dare addosso al “suo” ministro degli Esteri dimissionario. Una comunicazione senza precedenti, oltre che assurda. Senza spiegare al Senato, che glielo chiedeva, perché Terzi era stato suo ministro fino al giorno prima, né perché lui, Monti, si è rimangiato la decisione di non rimandare in India i due marò.
Monti non ha fatto solo questo. A scusante da addetto, benché vago, la possibilità che il Brasile, la Russia e la Cina prendessero misure contro l’Italia a sostegno dell’India. Un’imbecillità che solo il suo sottosegretario Staffan de Mistura, uno che non ci capisce niente, e nella vicenda lo ha dimostrato, poteva prospettarlo. Per colmare la misura Monti ha aggiunto qualcosa come. “Non vedo l’ora di non essere più qui”.
A vederlo così tetro, vendicativo, sibilante, dopo un anno e mezzo di vaselina, non è sembrato più lui. Si vede che il potere non è andreottiano, e logora chi ce l’ha. Specie se lo usa in modo sempre sbagliato. Ma ha sempre buona stampa i commenti sono all’unisono a questa uscita “bestiale” di Monti, nel senso che è l’uomo che ha ridato dignità internazionale all’Italia. Mentre è vero che ha soltanto piegato l’Italia ai diktat della Germania di Merkel, e al suo ufficio distaccato a Bruxelles.
Monti non è infatti un mostro – un’eccezione. E dice due cose importanti. Che il riformista italiano, di sinistra, di centro o di destra, si pensa solo contro tutti. Ha un’opinione di sé che lo isola. Per una volta l’impossibile riformismo italiano emerge come incapacità dei riformisti, di cui forse l’italiano medio è migliore: tutti (ex) notabili, per lunga tradizione. Si può anche pensare che questo capo malato del filo abbia scoraggiato la formazione di una classe media dirigente mediamente efficiente – non inerte o corrotta cioè.
L’altra cosa è la sua distinta milanesità. Monti è talmente pieno di se stesso da non vedere il ridicolo che ha seminato attorno a sé, e le distruzioni.

La Marina è zavorra

C’è un distinto profumo di Marina, di superficialità cioè sotto le uniformi candide e le mostrine, nella vicenda dei marò. L’ammiraglio Di Paola, che dice di stare eroicamente al suo posto di ministro malgrado la cattiva gestione dell’affaire, ne è l’immagine archetipica. L’ultima di una tristissima vicenda di incapacità. Di Paola è a capo di un ministero non è stato in grado di spiegare al comandante della nave italiana di non approdare al porto indiano. Né poi di far valere che nella stessa posizione del cargo italiano si trovava un cargo greco, che invece non ha riposto all’invito della guardia costiera del Kerala e ha proseguito al sua rotta.
La Marina è l’arma privilegiata della Difesa italiana, in termini di spesa. Ma non ha mai vinto una battaglia in passato, e ha prodotto solo danni nel pattugliamento delle acque territoriali contro l’immigrazione clandestina - compresi i tanti morti della “Kater Rades” nel 1997. Piace agli italiani a cui piacciono le divise, ma perché non dire che si potrebbe addestrare meglio? Magari anche i marò.

mercoledì 27 marzo 2013

Sarà un “Corriere” meno democrat

È stato detto infine in assemblea, e il comitato di redazione lo ha capito: tagliare 110 giornalisti su 355, nel prodotto più valido del gruppo, è uccidere questo prodotto, di proposito, tntarci perlomeno. Parliamo del “Corriere della sera”. L’editore Rcs vuole punirlo anche se è il cespite migliore del gruppo, e quello che non dà problemi. Ora rimane al cdr di chiedersi il perché.
Ma tutti lo sanno. Il “Corriere della sera” è “troppo” democrat. Troppo servilmente cioè, di partito più che di opinione, e nel partito centralista democratico – cioè, alla vecchia maniera, subordinato alla “linea” del segretario. Le cronache cittadine specialmente, con l’eccezione di Firenze e Napoli, sono illegibilmente succubi. Il calo diffusionale sarebbe proporzionale al grado dello schieramento, la proprietà ne avrebbe i numeri.
Sia i vecchi proprietari – Rotelli-Bazoli – che i nuovi – Della Valle – concordano su questa diagnosi del management. E su questo potrebbero anche trova una intesa per la ricapitalizzazione.
La riduzione di un terzo dell’organico è anche uno schiaffo alla direzione De Bortoli. Il cui ritorno al vertice del giornale era inteso a dargli autorevolezza nel senso dell’autonomia dalle vecchie alchimie.

Malinconico fine mandato

“Irrituali” le dimissioni di terzi? E che doveva fare? Il ministro degli Esteri, ambasciatore di carriera, ricordiamolo, e non un politico, aveva preso una decisione, con “l’assenso di tutti”, avendone reso partecipi “tutte le istanze istituzionali”, e questa gli viene poi contestata, ribaltata, e addossata. Chiunque capisce che sarebbe stato meglio se le altre “istanze istituzionali” avessero detto: Terzi ha fatto di testa sua. E l’avessero dimissionato. Oppure dicessero: Terzi ha mentito alla Camera, non è vero che ha agito con “l’assenso di tutti”. No, niente di tutto questo: Napolitano si affretta a rimproverare a un uomo, un ministro, l’onestà. Dicendosene “sconcertato e stupito”. Sconcertante, venendo da un uomo della sua esperienza.
Il sangue non mente, come usava dire? Napolitano, che si ritiene un maestro in politica estera, ne ha del resto combinato troppe in materia. Per primo on l’arrendevolezza alla politica aggressiva di Angela Merkel – prima di scoprire una sponda “obbligata” in Gauck: il pastore, non meno duro e piccolo nazionalista della Merkel, ha perlomeno il senso delle convenienze. Sottostimare la grave offensiva tedesca contro l’Italia da metà 2011 è un fatto grave.
Non c’è altra spiegazione. Napolitano finisce per soggiacere ai vizi del suo (ex) partito. Ha (ncora) consiglieri che avrebbero potuto evitarglielo, ma evidentemente il sentimento – il “sangue” - prevale. L’insulso mandato a Bersani era già stato un segno di debolezza. Che si conclude con un doppio nefasto effetto: la perdita di tempo, una settimana è tanto, e l’impressione che il governo non sia una cosa seria.

La croce Crocetta

Simpatia e improntitudine, la ricetta Crocetta sta dilagando? Sciascia diceva che ciò che succede in Sicilia poi succede in Italia, e dunque dobbiamo aspettarcelo.
Il presidente della Regione Sicilia, eletto con non più di un quarti dei voti, e senza maggioranza politica in Assemblea Regionale, ha governato questi quattro mesi con le idee. Anzi con modi dire piuttosto che idee. Appoggiando mozioni dei 5 Stelle – o redigendo come proprie mozioni dei 5 Stelle (si capisce l’aria da conquistatore che il cinquestellino Vito Crimi esibisce a Roma alle assise del suo partito). Nominando assessori dei Nomi – personaggi cioè, che più che altro badano alla propria immagine. Quelli di Crocetta sono poi del tutto improbabili. Il vecchio Zichichi che vulle dieci, o cento, centrali nucleari in Sicilia. E Battiato che dice troie le parlamentari italiane.
Di suo Crocetta si conquista i titoli con l’abolizione della province. Come a dire, e lo dice: io sono veramente rivoluzionario. Senza pensare che uno da Siracusa non può andare a Palermo a sbrigare la sua pratica – materialmente non può. A meno che Crocetta non voglia creare una capitale al centro dell’isola, d’architetto, alla brasiliana – ma con le strade o senza?

L'odio rigenera Berlusconi

Ci sono motivi più che validi per il Pd di non imbarcarsi in un governo col Pdl. Non a nome proprio (è diverso se c’è la forza maggiore, e la partecipazione è in nome collettivo, come fu fatto col governo Monti). Ma l’unico motivo che vale in quel partito è l’odio. Nei propri intellettuali – giudici, giornalisti. Nella sua vecchia e nuova base.
Erano tutti ex Pci i convenuti all’adunata viola in piazza Santi Apostoli a Roma sabato. Molti vecchi, e alcuni ex Fgci. E tutti condividevano il livore di Flores d’Arcais e Furio Colombo. L’uno col nazismo di Berlusconi, l’altro con l’ineleggibilità - vedere Furio Colombo con la bava alla bocca faceva effettivamente impressione.
Dei giudici l’ex Pci, conoscendoli, ha diffidato agli inizi di Mani Pulite. Poi ha deciso di cavalcare il dipietrismo. Ma l’avventurismo non paga per un partito di massa, che cura i fatti di tutti, lavoro, reddito, onestà (dei giudici compresi). I giudici sono inaffidabili. Anche nel caso di Berlusconi. Non c’è dubbio che Berlusconi avrà una colpa, ne abbiamo tutti: un vero giudice la accerta e la partita si chiude – basta una colpa accertata, non serve dire Berlusconi golpista, capomafia, trafficante di droga e ora magnaccia.
Non è sbagliato a questo punto dire che l’odio è la forza maggiore di Berlusconi. Di cui non si riesce a trovare il punto di resistenza – la resilience che perfino gli scienziati politici suoi nemici gli riconoscono: ha governato debolmente, ha troppe debolezze senili. Se non appunto l’odio di cui si può fare scudo.

La morte del desiderio

Un addio alla vita amorosa, a 55 anni. Di un lui che è in realtà una lei, Marie de Régnier, nata de Heredia, sposa e figlia dei due poeti dello stesso nome che le storie della letteratura annoverano, l’uno tra i simbolisti l’altro tra i parnassiani. Autore noto per i tanti romanzi leggeri, Gérard-Marie ebbe con la raccolta di cui questa silloge è parte nel 1930 l’ennesimo successo, con dodici edizioni in poche settimane. L’apertura è sul corpo ormai inanimato di chi può dire: “Nessuna donna fu più a lungo amata”. Tante furono le relazioni, maschili (D’Annunzio non poteva mancare) e femminili e quasi tutte celebri, sempre senza riserve, e golosamente impure. La sua “Stele” è la celebrazione del desiderio senza residui: “Ho vissuto senza desideri, e soprattutto senza invidia\...\ ho sognato tutto il mio sogno, il resto è inutile.\ Ho prediletto la dolcezza delle cose passeggere”.
Dopo, Gérard-Marie vivrà trenta e più anni ma nel silenzio. Frustrato anche dalla morte precoce del figlio amato. Ma già qui rinunzia, “poiché triste e divino fu il mio amore terreno”. Senza rimpianto: “… Sempre un soffio immortale\ anima le pietre sconnesse\ e i cipressi, tagliati in punta, scrivono versi in cielo”. Il desiderio residuo è “rivivere un giorno della mia giovinezza,\ un intero giorno d’innocenza e limpidezza”. Che fu quella tempestosa del matrimonio in bianco col poeta in età Henri de Régnier, e dell’amore totale col cognato Pierre Louÿs, che sarà il padre di suo figlio, sposo della sorella.
Versi gnomici, semplici, caustici. “La solitudine è la più sapiente strega\ per ricerare il sogno e alleviare il tedio”. O, nella stessa composizione, “Il ritorno”: “Il fascino misterioso della tenerezza umana\ che mi parla a bassa voce e mi prende per mano”. Tracciando “con misteriose parole, estremo arabesco,\ un epitaffio mutevole quanto me stessa”.
Gérard d’Houville, Il vestito azzurro, Via del Vento, pp. 32 € 4



martedì 26 marzo 2013

Dumas de noantri, Camilleri incassa con l'infanzia violata

Un tributo all’infanzia violata, apparso nel 2009 o 2010, contemporaneo di molte analoghe narrazioni (erano Anni Onu dell’Infanzia? o Unicef? O c’era da sfruttare il filone aperto da Ammaniti?). Fastidioso, come gli altri temi del genere umiliati e offesi – se siamo tutti buoni, com’è che succedono tante cose brutte? Camilleri, onnipresente nelle buone cause, l’autore italiano più libertino è il più politicamente corretto, non poteva mancare. Ma svolge il compito a modo suo, da sapiente colporteur – la sua semiologia del “Conte di Montecristo” Eco potrebbe rimodellare su Camilleri, il nostro Dumas anche se in piccolo, per aneddoti minuti e senza i grandi quadri storici (i suoi sono lamentevolissimi: il filologo del Tremila si meraviglierà che uno scrittore coi suoi talenti scriva dell’attualità il più scontato giornalismo). Non risparmiandoci le malizie dei bambini stessi - la corruttela per il politicamente corretto è ovunque. Le farciture sono anche succulente, fra i traumi infantili e i drammi finali, di erotismo a contatto e penetrazione onnivora, vestiti e nudi, in piedi e in ginocchio, tra maschi e femmine oppure unigenere, al mare, in macchina, in ufficio, nel cantiere abbandonato, di fronte alla vittima di un incidente stradale, e alla mamma suicida annegata nel sangue, o nel letto di casa in assenza del compagno legale. Tutto subito avviene, senza preliminari né pentimenti, come in un film porno, un goloso Krafft-Ebing de noantri. Le scene primordiali (“qual è il tuo primo ricordo?” è il giovo a cui tutti a un certo punto giocano, mentre compiono le peggiori efferatezze) sono ben più numerose della Ur-Szene che ossessionava Freud.
L’editore ne dice “teatrale” la tecnica qui di scrittura, di incastri, flashback e flashforward: “Si sente fortissima la voce del Camilleri uomo di teatro” (da leggere, tanto è eulogico, è confortante: “La si sente nelle clausole immediate, nel disegno rigoroso della trama, nella geometria delle relazioni tra i personaggi, nelle battute perfettamente calibrate per efficacia e verosimiglianza, nelle cadenze stilizzate del tipico dramma contemporaneo: morboso, implacabile, assurdo” - o c’è ironia in questo editore a cui Camilleri augura, sempre corretto, la morte? Ottimo editore se gli vende, però, un centinaio di pagine a corpo 14 a 12 euro, in edizione economica, in centinaia di migliaia di copie).
Andrea Camilleri, Un sabato, con gli amici, Oscar, pp. 132 € 12

Ombre - 170

Si sfidano in tribunale le vedettes giornalistiche di La 7, Formigli e Travaglio. Ma perché i giornali, che paghiamo, ce li impongono? Vedettes? Saranno pelosi. Giornalisti?

L’Europa trema, Standard and Poor’s vede il Parlamento bloccato, qualche banca pericola, Squinzi non ce la fa più, e Bersani va in tv, a consultarsi con Saviano, don Ciotti e Susanna Camusso. Ma non sembra divertirsi, neppure lui.
Pare si sia consultato anche col Cai, il Fai e il Touring. Non per scherzo.

E se Saviano, don Ciotti e Camusso aveddero detto di no a Bersani, come Grillo, che non vogliono fare i ministri? Non avrebbero tutti i torti, il governo in effetti non c’è.

Dell’Utri si becca l’ennesima condanna a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Magari sarà mafioso, ma perché condannarlo per concorso esterno in associazione? Perché è un processo in cui non bisogna dimostrare nulla. Pio La Torre e Piersanti Mattarella erano perplessi su questo tipo di “reato”.

La mafia è talmente evidente e impunita, c’è bisogno di un concorso esterno in associazione per punirla? I delitti di associazione sono anche l’ultimo rimasuglio dei delitti d’opinione.

Dell’Utri però non è mafioso, si sa. Perché allora a Palermo lo condannano? Per non condannare i veri mafiosi? Questo spiegherebbe perché i mafiosi non si processano più a Palermo da quando c’è l’Ersatz Dell’Utri e comodo punching-ball, e un’occupazione lunga del tempo – lo processano da vent’anni.

Monti, portato al governo da Napolitano ma dopo un carriera “politica” berlusconiana, seppure di parte (ex) confessionale, ha un solo vanto, scrive al “Corriere della sera”: ho perso le elezioni ma senza il mio partito “oggi ci sarebbe un governo Berlusconi-Lega”. Non c’è limite al peggio?.

Cronache romane all’unisono, “Repubblica”, “Messaggero”, “Corriere della sera”, a denunciare gli straordinari dei vigili urbani di Roma impegnati nella manifestazione di Berlusconi a Piazza del popolo. Poiché la manifestazione si è tenuta dalle 15 alle 17, i vigili di Roma “lavorano” solo su straordinario?
Alle 17,30 non c’erano già più per le strade – i vigili.

E Berlusconi, ha tenuto una manifestazione a Roma? C’era gente? Ce n’era molta, poca? E cosa ha detto? Le cronache romane non ce lo dicono.

Appena eletto Grasso alla presidenza del Senato, un magistrato, Procuratore nazionale antimafia, Santoro lo dice mafioso in tv. Allora, c’è un partito della crisi?

O quello dei Santori è solo il partito della audience. Ma non c’è nulla di più appetibile di Grasso, a chi interessa?

Il virtuoso pianista iraniano Bahrami, stanco di vent’anni di rinnovi dei permessi di soggiorno in Italia, dove si è formato e dove vive, ha chiesto e ottenuto, subito, la cittadinanza in Germania, Che essa pure ha un diritto di cittadinanza ancorato, come quello italiano, al “sangue e suolo”. Poi si dice che la Germania funziona meglio dell’Italia.

Il Pd ha due sorprese per le presidenze delle Camere, l’una in petto a Bersani, l’altra a Vendola. Le primarie allora per che cosa si fanno?
Poi dice che questa democrazia non è centralista.

Paginate su Berlusconi corruttore di De Gregorio. Per una settimana o due, ogni giorno Poi il giudice dice che non c’è materia, e questo fa solo poche righe. Poi dice che gli Italiani che votano Berlusconi sono cialtroni.

Cinque Procuratori a Napoli non bastano a mandare Berlusconi ar gabbio. La Boccassini a Milano da sola non gli dà tregua, ogni anno lo processa: i napoletani sono buoni da asporto?

Il teste chiave dei cinque Procuratori napoletani impegnati a dare la caccia a Berlusconi, De Gregorio, anche lui napoletano, anche lui se la prende comoda: dichiara poco.

Rcs che taglia di un terzo i giornalisti del “Corriere della sera” non sposta di una virgola l’attenzione sull’effimero – Grillo, i bersaniani, i renziani, Berlusconi, e se la Lega, o gli ex finiani… Bisogna arrivare alla ventesima pagina per trovare la crisi, un po’ – i licenziamenti, la disoccupazione, i debiti per le tasse. I complottisti si strangolano da soli – il complottiamo come autoerotismo?

Conte, l’allenatore della Juventus, lamenta alla Rai ripetutamente che c’è gente che lancia pietre contro l’autobus della sua squadra e mamme con bambini che insolentiscono, con parolacce. Anche nella civile Bologna. Ma la Rai trova scandaloso che Conte abbia incitato i suoi tifosi allo stadio a tifare – “non si fa nella civile Bologna”. Solo questo.

lunedì 25 marzo 2013

Italia sovietica - 14

Il sovietismo è morto da venticinque anni, quasi, ma non Italia - dove non c'era. Gli ultimi casi:
Bersani 2 - “Bersani difende la linea”
“Micromega” – cattiva propagandista (Willi Mùntzenberg era un genio al confronto, pluralista ogni tanto)
Furio Colombo
Berlusconi cancellato per legge
Fabio Fazio, recidivo
Le cronache romane di “Repubblica”, “Messaggero”, “Corriere della sera”: unanimi – anche la “Pravda” era pluralista al confronto
La Germania “ha sempre ragione”.
Il premio ai delatori
La volgarità del pm Sangermano al processo Ruby – altro modello al confronto, di sobrietà.

La verità di Gadamer

Una rilettura oggi affascinante, in quanto espone l’equivoco in cui l’ermeneutica è stata indotta da letture affrettate nell’ultimo quarto del Novecento. Che Gadamer stesso sembra temere poiché se ne difende anticipatamente, precisando qui i limiti (la specificità) dell’ermeneutica. Un equivoco che ha dell’incredibile. Se non, forse, per un bisogno di verità alla caduta dell’ideologia più che per una lettura affrettata di Gadamer – un bisogno di appigli per un cultura che nell’ideologia si era sciolta (e non sa uscirne). Paradossale.
Il paradosso sembra peraltro legato a questa stagione dell’ermeneutica. Ci si richiama infatti, secondo la formulazione che Hans Robert Jauss a lungo ha elaborato venticinque anni fa (“Esperienza estetica ed ermeneutica”), “a Gadamer contro Gadamer”. Per ristabilire la “verità”.
L’ermeneutica riporta alla Bibbia e al diritto, a un’immagine casuistica, cioè, o poetica (ma più spesso è teologica, quindi essa pure casuistica). Prima e dopo Gadamer, che per i molti ha impersonato una sorta di verità materiale, seppure casuale – un incontro sul marciapiedi. Lo stesso Gadamer da ultimo fu costretto a difendersi senza perifrasi: il terzo degli scritti qui collazionati, “Dalla parola al concetto”, ha come sottotitolo “I compiti di un’ermeneutica filosofica”.
Il primo saggio è la voce “Ermeneutica” dell’Enciclopedia Treccani, 1977, ritradotta da Stefano Marino, che cura l’antologia. Il secondo, “Che cos’è la verità”, eco pilatesca e heideggeriana, ritradotto anch’esso, era uscito nella “Rivista di filosofia” nel 1956. Sull’alétheia come verità verità (non velamento o svelamento, senso letterale del termine) da tempo oggetto della grecità teutonica: già Humboldt, che la traccia fin da Omero, la proponeva come non-dissimulazione - da qui l’“autentico” di Heidegger, il “non falsificato”. È qui Gadamer sembra difendersi in anticipo dall’equivoco, anche se i suoi titoli, incluso “Verità e metodo”, il più celebre, sono fuorvianti. In particolare, in questo secondo saggio, di fronte alla pretesa tecno scientifica, cinquanta-sessant’anni fa, del cammino risolutivo, poi concluso nell’irresolutezza: “Ciò che noi chiamiamo scienza, science, sono scienze sperimentali… e le scienze sperimentali non possono rappresentare in alcun modo  un sapere assoluto”.
Marino gliene dà atto nella prefazione. Ciò di cui si tratta è la capacità, che Gadamer aveva, di leggere alcune storie-autori-opere, e alcune tradizioni, alla luce della storicità delle interpretazioni, e del sostrato linguistico delle esperienze – tutto il contrario della verità-verità.
Completa la raccolta un’intervista con Jean Grondin, sul tema della verità di “Verità e metodo” - “l’essere che può venire compreso è linguaggio”.
Hans-Georg Gadamer, Che cos’è la verità, Rubbettino, pp. 258 €10

domenica 24 marzo 2013

Le confessioni del giovane Eco

Eco al meglio, profondo e leggero, preciso e brillante in un libro anche importante, che non si pubblica in italiano (uscito due anni fa a Harvard, dove Eco ha raccontato il suo libro nella serie di Conferenze Richard Ellmann Lectures in Modern Literature). Di uno degli autori che fanno la gioia dei librai. È la crisi.
L’argomento è come uno studioso di segni fa il romanziere. Eco lo spiega senza albagia: partendo da una o più immagini, sceglie il periodo storico, i luoghi (in genere uno: non si discosta molto dalle unità aristoteliche, di tempo, luogo e azione). Il tutto assortito di aneddoti. E di consigli pratici, sulle cosa da fare e da non fare – ma tutti non ne siamo esperti?
Umberto Eco, Confessions d’un jeune romancier, Grasset, pp. 240 € 17
Umberto Eco, Confessions of a young novelist, Harvard University Press pp. 240 $ 18,95

Il mondo com'è (131)

astolfo

Autocritica – C’era, afflittiva, nel sovietismo regnante, non c’è più oggi. Sembra una liberazione, e invece era una pratica tutto sommato sana: oggi che è scomparsa sarebbe necessaria.
Si prenda la riforma delle pensioni. Pietro Ichino giustificava qualche mese fa il suo malaugurato passaggio nelle file di Monti scrivendone così sul “Corriere della sera”: “Per decenni ci siamo consentiti di andare in pensione a cinquant’anni accumulando debito pubblico, poi debito per ripagare il debito e gli interessi sul debito, finché i creditori hanno incominciato a dubitare della nostra capacità di restituire il tutto”. Bene. Male: “Nel 1995 abbiamo fatto la riforma delle pensioni necessaria. Ma l’abbiamo applicata solo ai ventenni e trentenni, cioè ai nostri figli e non a noi stessi. Il governo Monti, appena costituito, ha dovuto fare in due settimane quello che avrebbero dovuto fare i governi precedenti nell’arco di due decenni, estendendo la riforma del 1995 a tutti”. Ichino tace che quello che Monti-Fornero hanno fatto nel 2012 era stato proposto nel 1994. Da un governo che il presidente Scalfaro, la Cgil, Ichino e altri mandarono a casa per questo con vergogna.  E insinua che la riforma Dini delle pensioni nel 1995 fu una vera riforma, mentre sa che non risolse nulla. Ma soprattutto evita di ricordare le manifestazioni di milioni di persone, da lui patrocinate e organizzate dalla Cgil (decine di treni speciali, migliaia di pullmann), contro lo “scalone” di Maroni dieci anni fa, nel 2004 – una delle prime cose che il governo Prodi cancellò nel 2006.
Pensare che senza questa “volontà popolare” non avremmo avuto la recessione, i debiti, i licenziamenti, fa venire le vertigini. Ma il professore ha dimenticato.

Censura cosmica – Avviene di non poter riutilizzare un file, se si sta scrivendo in costanza di connessione internet, con il seguente avviso di word: “Impossibile aprire il file a causa di problemi nel contenuto”. Come se un occhio invisibile controllasse, attraverso alcune parole chiave, quello che stiamo scrivendo. Non è così naturalmente. Ma il senso è quello: troppe parole in libertà nell’etere.
Anche una reazione “stizzita” dell’etere stesso, mai così invaso, non è implausibile.

Informazione – Il modello Cnn, reiterato da Sky tg 24 ogni mezz’ora e da Radio Rai, benemerito in quanto fornisce le informazioni praticamente in diretta, diventa ossessivo e corruttivo.  Senza un filtro critico minimo. Le torri che crollano l’11 settembre, un atto di terrorismo, per quanto spettacolare, diventano un’invasione irresistibile. Così le tante morti in (quasi) diretta, di questo o quel grande personaggio, e le tante scene drammatiche, di delitti o di guerra: l’iterazione della notizia diventa invasiva, e la stessa moltiplicazione delle “grandezze”, e per le menti meno difese, meno critiche, cioè per la massa, sempre e comunque epocali e senza difesa. Il danno psicologico diventa culturale e storico, trasformandosi in un laico destino, povero cioè. La “notizia” diventa per il semplice fatto della ripetizione entusiasmante senza fondamenta o, più spesso, depressiva.
È il motivo per cui la aree e le popolazioni più ricche, prospere e in pace del pianeta, in Europa e nel Nord America, possono pensarsi vittime e diventare aggressive – più spesso contro se stesse.

Intellettuali – Il partito Democratico vi fa ampio ricorso nelle liste elettorali. Dando anche loro, a giornalisti, storici e filosofi, un posto in lista per la sicura elezione. Ma senza “usarli” per i loro saperi specifici, se non per il nome. Giusto per poter vantare: “Abbiamo eletto tanti intellettuali”. Senza però nemmeno più il riflesso propagandistico che c’era negli Indipendenti di Sinistra - Togliatti preferiva collocare gi intellettuali , in genere ex socialisti, tra gli “indipendenti”. Per abitudine.
Molti di essi peraltro sembrano aver operato, retrospettivamente, per prepararsi la chiamata. Il proprio dell’intellettuale è dunque il conformismo. Per un fine nobile naturalmente, ma sempre allineato a una “verità” sulla quale non può – non vuole? non sa? – incidere.

Internet - Nel 1990 la rete non esiste. Nel 1992 le riviste scientifiche rifiutano ricerche di fisica applicata e di matematica che la ipotizzano e la disegnano. Nel 1994 la rete esiste, ma come gioco, e passatempo, specie notturno. Nel 1999 era la stella della speculazione: solo in Italia una quarantina di titoli si vendevano in Borsa che promettevano guadagni fantasmagorici in (Tiscali centuplicò il valore di Borsa al collocamento, e ancora per alcuni mesi dopo). Poi il fenomeno in Borsa s’è sgonfiato. Infine si è rigonfiato, a valori paperoneschi (tiscalineschi?), anche basati su provider e venditori solidi di servizi. Ma nell’insieme la rete appare nell’adolescenza, non solo per il fatto anagrafico. Ha già avuto il suo sogno di libertà (evasione, immaginazione) e sta per entrare nella routine-ananke. Dove si timbra la mattina e la sera, la libertà avendo generato il suo mercato, come tutte le novità, nel quale il ruolo di attrazione (cosmetico) è stato rappresentato dall’informazione.
Adesso si applica alla costruzione di nuovi modelli di partecipazione: le reti invece dei partiti, dei sindacati, dei gruppi di pressione. Che sembrano “naturali”, e semplici. Mentre non sono ancora usciti dai vecchi modelli di partecipazione, solo il veicolo è cambiato – e nemmeno tanto: Grillo usa il comizio alla pari col blog.

Privilegia la scrittura lettura breve, spontanea, non curata, aforistica, apodittica, insensata. E semrpe del tipo “a me mi piace”. I blog sono i corsivi del giornale. “Informati”, moralistici, ironici, quei brevi pezzi che contrappuntano i grandi argomenti. Oggi raggruppati, sul modello americano, in una pagina o in una colonna. La parte vecchia (residuale, inutile) del giornale: serve a puntualizzare, e quindi a spiegare, ma non sposta, plauso e dissenso finiscono lì – non ci sono berlusconiani, è noto, tra i corsivisti dei giornali, nemmeno tra i loro interlocutori.

Moda  - Carlo V, che si ritirerà vent’anni dopo in convento e morirà beghino, si fa ritrarre nel 1534 da Tiziano, il suo “primo pittore”, in leggings colorati, con pantaloncini aderenti da ciclista, benché ancora non elasticizzati, e organo maschile ben disegnato, una sorta di sospensorio. L’imperatore esibisce lo stesso colore per le due gambe, e un colore sobrio, grigio-giallo – allora gli uomini vestivano coloratissimi, a “pezze”: colori diversi, tutti vivaci, per le gambe e le braccia, e anche per le diverse sezioni di gambe e braccia - e questo lo fa un po’ più serio, ma non tanto. Usavano anche molte essenze profumate. E capigliature o copricapi elaborati, anch’essi molto colorati. La moda è diventata femminile tra Sei e Settecento, in una con le femmes savantes (le précieuses ridicules  di Molière) – quando le donne cioè cominciavano a voler dire e operare come gli uomini, fuori casa.

Presidenzialismo – Non si vuole nella costituzione perché già c’è, di fatto? A opera di una parte politica, e a suo vantaggio: gli ex Dc e gli ex Pci trasformisti alleati nel compromesso – per dare un’altra arma a Berlusconi. La costituzione è stata cambiata di fatto in questi vent’anni da Scalfaro in poi. Con l’occupazione permanente delle istituzioni “irresponsabili”, e di nomina di lungo periodo: presidenza della Repubblica, Csm, Consulta – la giustizia politica ne è un’appendice. Sono stati accresciuti anche in modo sostanziale i poteri del presidente della Repubblica, e quelli discrezionali delle magistrature – onuste ancora di Anni Giudiziari, ermellini, e superstipendi non contestabili (le contestatissime retribuzioni parlamentari si agganciano a quella dei presidenti di Cassazione).

astolfo@antiit.eu