Cerca nel blog

sabato 1 ottobre 2011

Anche nel fascismo, c’è solo la Germania

Grande spazio al “fenomeno Hitler” – che per questo solo fatto è Grand’Uomo. Notevole la dabbenaggine dei conservatori – erano così tanti e contavano tanto? E la rapidità e l’approssimazione delle grandi decisioni. Notevole anche l’irrilevanza in bibliografia degli studi italiani sul fascismo, con citazioni (errate) del solo De Felice - studi notevolmente anticipatori, e anche superiori per qualità.
Klaus Hildebrand, Il Terzo Reich

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (103)

Giuseppe Leuzzi

Giovanni Simonetta, fratello di Cicco, fu autore di una “Sforziade”, un incunabolo in quattro copie in celebrazione di Francesco Sforza. Alla quale sarà legato, forse nel 1490, un profilo di Bianca Sforza che si scopre ora di mano di Leonardo. Bianca era figlia adulterina legittimata di Ludovico il Moro, il figlio di Francesco Sforza: fu sposata nel 1496 a tredici anni a Galeazzo Sanseverino, il comandante delle truppe, e dopo pochi mesi morì. Giovanni Simonetta era nato come il fratello a Caccuri, nella pre-Sila crotonese, dove aveva fatto gli studi, prima di trasferirsi col fratello, e con lo zio Angelo, a Milano alla corte degli Sforza – dei quali poi Cicco sarà cancelliere. Alla morte di Cicco, Ludovico il Moro lo cacciò da Milano. Morirà a Vercelli, forse proprio nel 1490.

La ‘ndrangheta che controlla Milano, anzi tutta la Lombardia, è impossibile e anche impensabile. Ma Gianni Barbacetto, che pure conosce la città, lo dice in un libro che ha scritto con Davide Milosa, “Le mani sula città”. Con qualche riserva. Corrado Stajano sul “Corriere della sera” oggi, per elogiare Barbacetto, trascura le riserve e crea l’invasione della Lombardia a opera degli ‘ndranghetisti.
Quando la ‘ndrangheta dominava Milano, sembra una favola. Ma è così che nascono i “fatti”. La Procura di Milano ha arrestato un anno e mezzo fa un centinaio di balordi. Barbacetto e Milosa ci hanno imbastito l’ennesima gomorra di mafie dominanti, uno dei generi che più tira le vendite di libri dopo Saviano, Stajano e il “Corriere” ne fanno un caso storico negli annali.

La manomorta
La borghesia della manomorta. Potrebbe essere questa la spiegazione della straordinaria incapacità della Calabria di governarsi – più dell’introvabile feudalesimo: l’impossibile formazione di una classe dirigente, figlia della manomorta. Della cui rapacità sterile perfino Répaci, un letterato, ha afferrato l’origine (in “Calabria grande e amara”). C’è una rapacità produttiva, quella del capitale, che in Calabria invece è sterile: di ufficiali, periti, giurisperiti, medici, farmacisti, fattori, che s’appropriarono la manomorta a costi esigui, o senza alcun corrispettivo, compresa la quota assegnata ai Comuni per usi civici, demanio formalmente inalienabile.
In un vecchio studio che più non si ripubblica, “Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria” (Società Editrice Meridionale, Sa-Cz, 1979) Augusto Placanica risaliva all’eversione dei beni ecclesiastici già in epoca borbonica, sull’altare della “ragione” o del giuseppinismo, con la cessione della Cassa Sacra, che aveva nazionalizzato i beni ecclesiastici per la ricostruzione dopo il terremoto del 1783.

Napoli
Punta da qualche tempo il Nord, dopo avere distrutto il Sud. Ancora ultimamente: il suo sindaco ha disintegrato la Procura di Catanzaro, il suo Procuratore di punta ha disintegrato quella di Potenza, e ora punta Bari. Da tempo domina il calcio, la politica, e Milano. E più che mai infetta la giustizia controllandone ogni istituzione, dal sindacato al Csm e alla Consulta.
È la prova vivente della Lega. Che infatti non l’attacca, non la critica nemmeno – una, cento, mille Napoli, per far fuori l’Italia?

Una guardia che alle porte di Napoli ferma Arthur John. Strutt, “A Pedestrian Tour in Calabria and Sicily”, 1842, e il suo compagno William Jackson, un ciabattino ansioso di tornare al deschetto dopo dieci anni di ferma, è scettico sul futuro di Jackson, un poeta: “A Napoli”, dice a Jackson, e Strutt assente (“è così”), “nelle strade dell’intelligenza tutto è sovraffollato”.

Il “Nord” della Calabria è Napoli: “È a Napoli infatti che considerano quel proprio vicino poco più che alla stregua di un selvaggio intento solo a devastare, rubare e uccidere, meritevole più del nostro odio che della nostra compassione” (J.H.Bartels, “Lettere sulla Calabria”, p. 33).
La squalifica viene da lontano, da Aulo Gellio e Giustino, che i Bruzi, o Brezi, dicono briganti, rozzi, malvagi, fustigatori di Cristo nella passione. Gli ‘ndranghetisti di oggi, insomma, ma allora per un motivo: i Brezi avevano combattuto con Annibale contro Roma. Ma i napoletani non danno tregua ai viaggiatori che si avventurano in Calabria, Bartels e Pilati, altro viaggiatore del Settecento, ripetendo loro che gli abitanti “sono tutti ladroni”, e assassini. “Non si può immaginare una fonte più sicura e un modo di diffusione del pregiudizio più veloce della diffusione intenzionale della menzogna”, riflette il futuro eminente politico di Amburgo. E conclude: “È in atto una menzogna diffusa intenzionalmente”.
Ma c’è una regione del Sud che Napoli abbia valorizzato?

Tre anni dopo il terremoto del 1783 che devastò la parte tirrenica della Calabria da Nicastro a Reggio, a Napoli non si sapeva cosa era realmente successo. Il Re aveva destinato delle somme per la ricostruzione ma senza sapere se bastavano (non bastavano) né come venivano utilizzati

leuzzi@antiit.eu

venerdì 30 settembre 2011

La scoperta? È razzista

L’inizio della modernità – dell’Europa, dell’Occidente – si suggella nel 1492 con una triplice esclusione: degli eretici, degli ebrei, dei selvaggi (del Nuovo Mondo). Sembra un già detto, una trovata festivaliera (il volumetto è della seria I Libri del Festival della Mente) per attizzare una storia nota, e invece no: rovescia la “scoperta”, la dote finora non contestabile dell’Occidente (la ricerca, l’applicazione, l’immaginazione attraverso lo studio) nel calderone dell’avidità. La premessa ne fa un caso di studio delle interconnessioni “della storia politica nel flusso della storia sociale”, ma per mettere la scoperta, come la religione, al servizio del potere.
Il seme dell’intolleranza purtroppo è più antico. I selvaggi da tempo si commerciavano, i nuovi schiavi “trattati” dai portoghesi. “L’intolleranza religiosa fra cristiani” era vecchia nel 1492 di un buon millennio. E così l’antisemitismo. Ma lo storico si vuole (piccolo) ideologo, e siamo di nuovo alla Leggenda Nera.
Adriano Prosperi, Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici selvaggi: Granada 1492, Laterza, pp. 180 € 12

All’armi, all’unisono – Italia sovietica 4

La foto trepida sul “Corriere della sera” di Mussari e Marcegalia, (ex) Pci e (neo) Dc, uniti nella lotta, che redigono, sul proscenio, belli, giovanili, alti nello squarcio dal sottinsù, il “manifesto delle imprese”, è un ottimo esempio di realismo socialista. Non isolato: il giornale della borghesia lombarda si può dire specializzato nel genere, con taglio o colore violento per i Nemici, e immagine sempre lusinghiera dei compagnucci della parrocchietta, senza ombre, senza smorfie, senza cattiveria, iconica su sfondo rosso o azzurro, da Veltroni a Rosy Bindi. Come si vede alla mostra che si apre al palazzo delle Esposizioni a Roma sul “realismo socialista” propriamente detto - di nessun interesse, né estetico né storico, se non per i nostalgici. Delle diversità tra i compagnucci trattando come la “Pravda”, come diatribe tra primi attori.
Ma tutta l’informazione, bisogna dire, lo è, all’ombra del Grande Conformismo della Rai, la cui natura è indefettibile di pilastro del regime – Rai Tre, così ben mummificata, sarà un eccellente riserva di fonti per la storia. Sono giornali fotocopia, il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “La Stampa”, “il Messaggero”, con i loro tanti giornali locali, e ora pure “Il Sole 24 Ore”. Dove non c’è nulla da leggere, ogni giorno è sempre più difficile trovarci qualcosa: saranno in crisi, come dicono, ma non si vede perché non dovrebbero esserlo. Il “Corriere della sera” fa ogni giorno otto-dieci pagine, ne ha fatte anche venti, contro Berlusconi. E non gli viene da ridere – forse perché a Milano è peggio, dove il Compromesso è governato dalla Curia, col promotore d’affari Bazoli e il fido Passera: in materia i vescovi ne sanno molto di più.
L’anomalia italiana è presto detta: è l’imbalsamazione. Fuori da ogni nuova prospettiva che la storia apre, e contro ogni retaggio di prima del Compromesso, da Cavour a De Gasperi. L’Italia in crisi è l’Italia del Compromesso, compresa quella berlusconiana, che sempre decide di non decidere. È cioè sovietica, in ritardo, e non lo sa. Le manifestazioni sono tante, questo sito le ha più volte segnalate: il sovietismo sindacale (un letto in un ospedale pubblico costa sempre il doppio di un letto negli eccellenti ospedali romani della chiesa, a vent’anni dalla caduta del Muro), l’eterna concussione dei pubblici poteri, a partire dal vigile urbano, i lavori pubblici interminabili, la nomenclatura intramontabile, in politica e nelle professioni, giornalismo compreso, il monopolismo, malgrado le tante costosissime Autorità, imperscrutabili, le intercettazioni, come già nei migliori alberghi di Praga, Mosca e Varsavia, la libertà di rubare allo Stato, il gas, l’elettricità, l’acqua, le tasse, le medicine buttate nella spazzatura ancora sigillate. È compromessa la giustizia, il fondamento della democrazia, e se qualcuno non riga dritto altri giudici del Partito, al Csm, alla Consulta, lo rimettono in riga: non lo mandano più al manicomio ma è come se, la berlina può essere più degradante.
Ma più di tutto sono cloroformizzati i giornali, il nano gigante Willi non avrebbe mai immaginato tanto conformismo. Dopo l’occupazione scientifica delle dirigenze e dei cdr. I giornali sono fatti ancora con le ricette di Willi Münzenberg, il genio del Comintern. È, volendolo nobilitare, il progetto di Togliatti. Il progetto di Togliatti era semplice e non celato: monopolizzare la storia contemporanea. Partendo dalla cronaca. Che sembra eccessivo e anche ridicolo, ma così è stato, e anzi è: il controllo è se si può oggi più ferreo (gerarchico, totale) sull’“opinione pubblica”. Era il progetto di Münzenberg, cioè di Stalin, che ha avuto molto successo in Europa e in Italia di più, italianizzato da Togliatti col furbo nazionalpopolare. Ma sempre quello è: “fare” la storia, degli avvenimenti, dei personaggi, riabilitando talvolta e glorificando i vecchi nemici, Tobagi, Montanelli, secondo opportunità, domani magari Berlusconi, è specialità sovietica. Tanto peggiore se – poiché - non c’è più il comunismo.
E si è arrivati al giornale che, se non ha le intercettazioni, non ha nulla. Non si chiede da chi vengono e a chi servono le intercettazioni. E lo stesso articolo fa scrivere ogni giorno a dieci, venti, professori e giornalisti. Causa prima e non effetto, e immagine convenientemente squallida, dell’Italietta. Il sovietismo è caduto per questo, per voler abbassare e non innalzare. Non creare il nuovo mondo migliore del progetto comunista, ma ridurre l’esistente alla servitù “volontaria”. In Italia evidentemente ha ancora da rosicchiare, poiché è virulento, ma quello è.

giovedì 29 settembre 2011

Il viaggio di Céline umorista comunista

Si legge come se fosse nuovo, anche quello che è stato detto e ridetto, e questo dice tutto. Nei ritagli di tempo, di getto, sulle questioni non proprio appassionanti degli anticipi e delle recensioni, Céline sa imbastire una corrispondenza d’autore, di lettura sempre in qualche modo interessante. La resa emotiva. La musica in prosa. La persecuzione e il complotto. L’antisemitismo. Il collaborazionismo. E gli ebrei. Compreso Ben Gurion. Con una facilità sorprendente. Che aderisce, si capisce infine, al carattere. Scherzoso, Sollers non manca di rilevarlo nella presentazione simpatetica, che risale a vent’anni fa, alla prima edizione della raccolta. E con una aisance da establishment, all’opposto dell’immagine dominante.
Céline è sempre quello torvo, incattivito, vendicativo della tradizione a lui ostile – e della figurazione che lui stesso ha di sé nella seconda parte della sua vita. Mentre era ben presente, e attivo: dopo il “Viaggio” il più e il meglio lo ha scritto nei dieci anni tra la (parziale) riabilitazione e la morte. E lucido, sotto le ironie. La spiegazione dell’antisemitismo che dà a Paulhan sarà di comodo, ma è anche una parte della verità – così come lo è l’antigermanesimo di fondo di un volontario della prima guerra, invalido al 75 per cento: i libelli anticomunisti e antisemiti intesi a scongiurare la guerra.
La raccolta è la stessa del 1991, con qualche lettera poco interessante in meno, e qualcuna più interessante in più, riedita da Pascal Fouché, il bibliografo dello scrittore. Si apre con la scheda del “Viaggio al termine della notte”, che Gallimard ha richiesto e di cui Céline si dice incapace: “Si tratta di una maniera di sinfonia letteraria, emotiva, piuttosto che di un vero romanzo… La storia è insieme complessa e semplice. Appartiene anche al genere opera. Una specie di affresco del populismo lirico, del comunismo con un’anima, ribaldo dunque, vivo” (cui il curatore fa seguire in nota la scheda del comitato di lettura di Gallimard: “Romanzo comunista contenente episodi di guerra molto ben raccontati”). Oggi la raccolta è anche un colpo al cuore, per l’estrema libertà che indirettamente testimonia, di Gallimard, Paulhan e poi Nimier dopo la guerra in Francia, nella “formidabile partita tra un uomo solo e praticamente tutto il mondo” (Sollers), mentre il conformismo dilaga imperturbato in Italia dopo quasi settant’anni.
Céline, Lettres à la N.R.F., Folio, pp. 251€ 6

Secondi pensieri - (77)

zeulig

Anima – Si declina preferibilmente al maschile, a dispetto del femminismo e del politicamente corretto. Al maschile va bene per tutti, animo come forza di vivere. Al femminile ha qualcosa del perturbante di Freud, che, come tutto quello che Freud tocca, sa di morboso.
Adoperata peraltro sempre più in senso veterotestamentario, come essere animato, estesa agli animali, domestici e non, ai fiori, agli alberi. Come necessaria unione di spirito e corpo – non dicotomica, di differenza cioè nell’unione, ma proprio d’identificazione, per cui viene meglio al maschile.

Cinismo - I filosofi cinici secondo Goethe possono essere solo mediterranei, al Nord morirebbero al primo inverno. Errore: si è più cinici intabarrati, nudi si è invece inermi.

Coscienza – È frazione minima e incerta della vita psichica – qualcosa Freud ha inventato - di cui non rivela l’essenza, tendendo anzi a nasconderla.
Psicologia influente e allettante è quella fisiologica di Ribot e William James, per la quale i sentimenti non sono emozioni. O meglio: le emozioni non sono idee. Darwin aveva già sistemato l’espressione delle emozioni: le emozioni sono fatti, modificazioni della memoria dei viventi, uomini o animali. Esse affondano le radici piuttosto nella carne dell’individuo, non esiste una sostanza mentale. Il principio dell’amore si situa quindi nella corteccia cerebrale?

Esistenzialismo - La filosofia dell’essere sarà stata il più solido fondamento dell’aborrita techne, la razionalità ridotta dei diritti dell’uomo, della donna, dei bambini, degli anziani e di ogni gruppo, anche nocivo, dell’uguaglianza Onu, o del marchese di Sade, un neo illuminismo che, più che negare il sacro, lo ha sradicato. Del progresso che corrode i preambula fidei, i preliminari razionali che consentono alla grazia di dispiegarsi, e a una fede di accostarsi, per cui un delitto è delitti infiniti – l’uguaglianza nell’ordine, la tecnica è questo, se ne potrebbe fare una bella democrazia.

La verità dell’Essere, anche sotto forma d’indicibile, era già nella Monarchia di Dante: “In ogni azione, ciò che è anzitutto vero per chi agisce è la rivelazione della sua propria immagine”. E: “Niente agisce se agendo non rende manifesto il suo io nascosto”. Il Chi e il Dasein sono da tempo rivelati, si dicevano haecceitas, l’eccolo qui. Se non sono l’intuitus entisdi san Buonaventura.

Filosofo - Non è più il physikus d’un tempo, il medico, quando comune era il corso degli studi a Padova, Bologna e Pavia. Non guarisce e non risolve, anzi crea virus ed è contento se il contagio dilaga. È un untore, se non un terrorista.

Neutrini – Inafferrabili li dicono i fisici, molteplici, sfuggenti. Ma somiglianti stranamente alle omeomerie di Anassagora, le parti infinitesime della materia divisibili all’infinito e qualitativamente differenziate. Sono una proprietà (fatto) fisica o filosofica?

Nulla – È il punto di partenza della filosofia, non può essere quello di arrivo. Lo diventa quando la filosofia si guarda l’ombelico. La cosa è nota dall’aritmetica di Boezio: “Se aggiungi punto a punto non fai nulla di più che aggiungere nulla a nulla”.
Per l’idiota di Cusano “delle cose impossibili o ignote non c’è volontà o desiderio”. Chi vuole o desidera, dunque, fosse pure il nulla, è al di qua del non essere, ignorato o impossibile.

Nominarsi Dio professando il nulla non è solo roba che viene col nazismo (in contemporanea col nazismo), è il cuore del nazismo. “Tutto è nulla, e anche la coscienza del nulla”, Cioran professa, voluttuoso nella deiezione, ma chi si uccide è il povero Celan. “La saggezza del filosofo”, obietterebbe Spinoza, “consiste nel conoscere i limiti del suo sapere e non prendersi per Dio credendosi investito della sua onniscienza”. Superbia non rara in chi decide che conta solo il (suo) pensiero.

Stupidità - “La stupidità è frutto di un cuore maligno”, ha detto Kant. “Ciò non è vero”, obietta Hannah Arendt, “la malvagità nasce dalla mancanza di pensiero”. Che non è stupidità, “può riscontrarsi in persone di grande intelligenza”.

Tecnica - La squalifica della tecnica, ormai è quasi un secolo, non emerge con la guerra perduta, ma ne viene sancita: la Germania, sconfitta dalla Francia, finge di rintanarsi nella metafisica, con Spengler e, di più, con Jünger. Heidegger ne è epigono. Uno come uno Rivarol già ne sapeva di più: l’uomo è l’animale che sa accendere il fuoco.

Verità - È della filosofia, la vita non ha nessuna disciplina da imporre, tranne quella di accettare l’esistenza - la vita avanza uguale, senza curarsi dei vili, o degli eroi. Ma la filosofia è altro dall’esistere, si faccia pure a letto invece che in cattedra, si nutre di quello che produce.

zeulig@antiit.eu

mercoledì 28 settembre 2011

Il Gattopardo è un chiacchierone di paese

Vuole dimostrare che Vittorini non rifiutò “Il Gattopardo”, anzi lo considerò un buon prodotto commerciale, solo consigliando che l’autore lo rivedesse. Senza scandalo, lo studioso non si scandalizza, “Il gattopardo” non rientrava – e non rientra? - nell’asfittica letteratura che ha normato il dopoguerra, con l’intervento influente di Vittorini. Ma Vittorini sarebbe sempre e comunque da giustificare se non fosse stato, come Ferretti ancora all’epoca (il saggio è del 1989), una colonna del Partito – benché ne fosse uscito? Perché ridurre il comunismo a omertà?
È un concentrato – involontario? – di banalità industrial-culturali. Cos’altro pubblicavano nel 1956-57 Vittorini, Romanò, Antonielli etc. di “più abile” e “più determinato moralmente” (?) del “Gattopardo”? Col pregiudizio antimeridionale e il complesso (odio-di-sé) meridionale: Flaccovio deve presentare Tomasi di Lampedusa come il provinciale chiacchierone, “una simpatica e coltissima persona della buona società palermitana”. Col pregiudizio antimeridionale e professionale: Andrea Vitello è “il medico”, che “insidia” con “strategia epistolari” le operose, si suppone, redazioni editoriali, e dev’essere anche furbo perché “riesce” ad “arrivare prima” con la sua biografia di Lampedusa, prima di David Gilmour (chi è?), e di Camerana, Crovi e Grasso, che ancora ci devono pensare.
Gian Carlo Ferretti, Il Gattopardo rifiutato

Il mondo com'è - 70

astolfo

Australia-Italia – Gli italiani costituiscono in Australia la maggiore comunità nazionale di lingua originariamente non inglese. Anche se grande distanza dai britannici (inglesi, scozzesi, irlandesi), che al censimento del 2006 rappresentavano quasi la metà della popolazione. Gli italiani erano il 4,7 per cento. Sono cioè circa un milione, su una popolazione totale di poco più di venti milioni. Circa un quarto risultavano nati in Italia, e una cifra pari aveva almeno uno dei genitori nato in Italia. Di tutta la popolazione australiana nata all'estero il 6 per cento.
Gli italiani erano il 10 per cento della popolazione australiana nata all’estero al censimento di vent’anni prima, nel 1986. La proporzione si era ridotta in conseguenza dell’abolizione, dieci anni prima, della White Australia Policy, la politica dell’“Australia bianca”, che escludeva l’immigrazione di “non-europei”. Ora la popolazione australiana è al 90 per cento di origine europea e all’8 per cento asiatica. La popolazione indigena, inclusi i meticci, è stimata in mezzo milione.

Complotto – L’idea del complotto può dirsi una forma di gelosia, e la gelosia una forma di delusione, verso se stessi e quindi verso gli altri. Ingenera il sospetto una certa dose di ipocondria, in due forma. L’idea costante che gli altri tradiscono e vogliono il nostro male. E l’incapacità altrettanto costante degli altri e di noi stessi di essere all’altezza delle ambizioni, del desiderio. I fatti non hanno bisogno di interpretazioni, non se si vuole uscire dalla paranoia.

Facebook – È una piazza, ma somiglia a un cimitero. L’insostenibile esibizione dei proprio parenti, amici e conoscenti, gli uni accanto agli altri, di altre persone e gruppi, ha un precedente nei cimiteri. Anche la discrezione, il far finta di nulla, che accompagna la totale mancanza di discrezione, e anzi una sorte di esibizionismo, somiglia molto alle reciproche esibite lodi sepolcrali.
Da un cimitero virtuale è stato peraltro preceduto, il Memorial Grove online di una dozzina d’anni fa, nel quale si potevano seppellire e visitare elettronicamente i propri cari. La cui funzione è cessata in contemporanea col successo dell’album dei vivi.

Lampedusa – Tomasi di Lampedusa suona bene ma l’autore del “Gattopardo” non ebbe niente a che fare cin l’isola, né la sua famiglia. Che rimonta al Cinquecento, se ai primi del Seicento fu accettata nell’Ordine spagnolo di Santiago, su questo presupposto: la fondazione e l’edificazione del centro abitativo di Palma di Montechiaro nel 1637 “per opera e a spese, volontà e merito dei santi fratelli Don Carlo e Don Giulio Tomasi-La Restia da Ragusa, a mezzo di una colonia di seguaci e concittadini ragusani, e con il massimo esborso pecuniario detratto dalle immense ricchezze ragusane della loro madre ragusana Isabella La Restìa”. Lampedusa era già allora nome remoto, legato a Palma, della remota provincia di Ragusa.

Po e Reno – A cose fatte Engels plaudì all’unità d’Italia, in sintonia con l’Europa, che l’Italia celebrò come una festa, la sola rivoluzione riuscita e condivisa (v. “L’Italia unita consolazione dell’Europa - http://www.antiit.com/2011/03/litalia-unita-consolazione-delleuropa.html ). Con Marx condivideva l’apprezzamento per la Realpolitik di Cavour, che dal niente aveva ricavato uno Stato grande e nazionale
Ma sul momento la tattica di Engels e di Marx fu germanocentrica. Nel 1848, teorizzando l’alleanza necessaria della classe operaia con le borghesie rivoluzionarie, Marx ed Engels pensavano a una guerra contro la Russia a iniziativa della Francia e dell’Inghilterra. Dieci anni dopo l’asse antirusso e il fulcro rivoluzionario vengono da loro spostati in Germania. Nel 1859 Marx ed Engels pensano che un attacco di Napoleone III sul Reno porterà, con la guerra difensiva in Germania, a una rivolta centroeuropea contro la Russia, alleato della Francia. In “Po e Reno” Engels ipotizza che la Germania, attaccata sul Reno, si allea con l’Austria asburgica contro la Francia e il Piemonte. Marx e Engels sono al fianco dell’Austria nella Seconda guerra d’indipendenza.
Il saggio fu ideato da Engels ai primi di febbraio del 1859, quando era già certa la guerra tra Francia e Austria, e un mese dopo era già scritto. “Eccezionalmente intelligente” lo giudica Marx in una lettera il 10 marzo, e consiglia di pubblicarlo anonimo in Germania per evitare la “congiura del silenzio”. Così avvenne: fu stampato un mese dopo in Germania in mille copie, ed ebbe eco diffusa. In prevalenza favorevole, specie tra i militari. Tutte le recensioni misero in rilievo la giustezza delle considerazioni militari, sul presupposto che l’autore fosse un esperto di cose militari. Con una riserva, da parte dei grandi giornali conservatori, sulla convenienza, che Engels argomentava, da abbandonare i territori italiani. A metà maggio, un mese dopo la pubblicazione, “Das Volk” comunicava che l’autore apparteneva al partito dei proletari. Tre numeri più tardi, il 4 giugno lo sesso “Das Volk” faceva il nome di Engels.
Il saggio di Engels si basava sulla certezza che la Francia di Luigi Napoleone avrebbe attaccato sul Po e anche sul Reno. E ipotizzava una difesa comune fra gli Stati tedeschi e l’impero asburgico. Al saggio, e alla sua ricezione, sottostava una sorta d’identità comune, più che una comunanza d’interessi, tra Germania e Austria. La premessa è chiara, Engels parte dicendo: “Fin dall’inizio dell’anno è divenuto uno slogan di una grande parte della stampa tedesca che il Reno dev’essere difeso sul Po”. Uno slogan che Engels dice “giustificato” dai preparativi e le minacce di Luigi Napoleone (Napoleone III): “Si presentiva in Germania, con intuito corretto, che benché il pretesto di Luigi Napoleone fosse il Po, in ogni caso il suo ultimo obiettivo non poteva essere che il Reno”. Engels argomenterà estensivamente che non è necessario “mantenere” i territori italiani, ma sul presupposto che la Germania e l’impero austriaco fossero tutt’uno.
Un aspetto troppo trascurato del non-Risorgimento tedesco, che l’unità della Germania realizzarà contro l’Austria-Ungheria, prima che contro la Francia.

Rifiuti – Sono il segno dell’epoca: crescono esponenzialmente perché sono la connotazione principale dell’epoca. Quelli inanimati e anche quelli animati. Per primi i cosiddetti rifiuti umani, vecchi, storpi, folli, che l’eugenetica vorrebbe aboliti. Ma tutta la vita urbana è organizzata all’insegna dello smaltimento: tutto è zavorra da buttare periodicamente via. Si buttano via le origini e la famiglia, poiché prevale lo sradicamento. Si buttano via i valori, sempre aggiornati – c’è una borsa o mercato dei valori in continua altalena. È zavorra anche l’eredità culturale, o morale, o spirituale, che se sono vissuti è nell’insofferenza, la conoscenza volendosi proiettata sulla progettazione o futuro.

astolfo@antiit.eu

martedì 27 settembre 2011

I vescovi escort

Berlusconi sì, Berlusconi no, il cardinale Bagnasco si è adeguato anche lui, e ha posto ai vescovi italiani alla conferenza annuale il quesito. Optando per il no, che è comprensibile, e forse tardivo. Ma dimenticando, nella requisitoria che ha pronunciato contro la corruzione, il ruolo di primo piano e sempre risolutivo, meglio del partito Democratico alla periferia di Milano e nelle regioni “rosse”, del vicariato a Roma, dell’arcivescovado a Milano e di Propaganda Fide nell’immobiliare e negli appalti. Nonché, nel grido di dolore contro l’evasione fiscale, il peso della chiesa, il più grande evasore d’Italia.
Un confessore, se ancora ce ne fossero, scoprirebbe che le lusinghe del vedettariato, come si diceva una volta, delle fanciulle in fiore poi via via chiamate attricette, veline, e infine escort, fanno contagio. Cosa non si farebbe per un titolo o una foto in evidenza, un applauso, un passaggio in televisione? Analoga anche la morale, tutta puntata sul letto. Col ridicolo che le escort sono più etiche del cardinale - il sesso non è un delitto e non è un peccato, non tra adulti consenzienti, lo è impicciarsene. Mentre è peccato la speculazione che il cardinale trascura e di cui i vescovi sono protagonisti: quanti conventi, giardini, palazzi, anche chiese non cedono “chiavi in mano”, licenze e protezioni incluse cioè per l’edificazione intensiva, in alto e in superficie? Peccato grave, contro gli altri, la società, l’ambiente, il retto vivere.
Il problema – il fatto – di questi anni è l’imbarbarimento dell’Europa, tra buoni cattivi, tra Nord e Su, e il suo declassamento, che promettono un’impensabile povertà. Siamo a un a dine di civiltà (di applicazione, di qualità, di giustizia) ma i cardinali non lo sanno, non se ne occupano. Ma anche a voler restare alla questione morale, la corruzione viene in Italia certamente al primo posto, di molti vescovi e istituzioni della chiesa.
Bagnasco ha dimenticato anche la giustizia, lo scandalo degli scandali. Che offusca ogni capacità di giudizio e tiene coatta la libertà, di opinione, di voto. E si sa che cosa questo significa: tenersi buone le Procure e i carabinieri, che sanno troppe cose.

Giudici, a noi!

A Palermo la Procura chiede dopo lunga indagine di archiviare il concorso esterno in associazione mafiosa per il ministro Romano, il giudice invece impone alla Procura di perseguirlo. A Milano la Procura chiede di archiviare l’inchiesta a carico di Berlusconi per la divulgazione della telefonata di Fassino con Consorte, la giudice impone alla Procura di perseguirlo. A Napoli il giudice scarcera Tarantini e la Moglie, accusati di ricatto a Berlusconi, e impone alla Procura di perseguire Berlusconi per falsa testimonianza, per averla imposta a Tarantini.
Tre novità che ormai fanno uno schema: i giudici giudicanti non vogliono lasciare alle Procure l’onore di andare a caccia di Berlusconi. Anche la successione temporale è un pattern molto visto: Palermo come al solito apre la strada, Milano e Napoli seguono – è a Palermo la testa del serpente?
I giudici giudicano sulle carte delle Procure, non su altri elementi che siano a queste sfuggiti. Inoltre sono monocratici, mentre le Procure lavorano in pool, oltre che insieme con la polizia giudiziaria. Non c’è da supporre che abbiano altri elementi di prova, oppure una più corretta valutazione giuridica delle indagini. La novità è la loro mobilitazione, tutti insieme, in successione rapida e quasi in contemporanea, come obbedendo allo stesso impulso.
I giudici mobilitati unanimi rievocano brutti ricordi di una brutta epoca. Per di più ora senza vergogna, anzi con l’exequatur della democrazia, vescovi inclusi.

Problemi di base - 75

spock

Montanelli avrebbe firmato la svolta democristiana del “Corriere della sera”? (sì)

Bagnasco e Bazoli si sarebbero congratulati col mangiapreti Montanelli per la sua svolta democristiana? (sì)

Avremo una Milano democristiana, dopo quella bossiana e quella berlusconiana? (sì)

E l’Italia? (pure)

Tutti gli artisti lavorano a levare, Proust ad aggiungere, e dunque?

Il mondo si restringe: era grandissimo al tempo di Omero, e ogni giorno durava anni, ora è un minuscolo frammento in rotazione - di un “interminabile oltre” direbbe Jack London. Va il progresso all’indietro come il gambero?

Contrada, Mori, Ciancimino, Ingroia ha sempre ragione: ci sono pm che sono più pm degli altri?

La “Montagna” di Thomas Mann da “incantata” diventa “magica”, ma sempre non si spiega perché uno sano passa sette anni in un sanatorio per tisici.

spock@antiit.eu

lunedì 26 settembre 2011

Il Gran Sasso l’aveva scritto Eco, nel Seicento

I temi sono tardo-settecenteschi: il naufragio, lo stato di natura, il doppio. Ma l’entrata è bruscamente secentesca, con tre ossimori di fila. E un digesto dell’enciclopedia del Seicento è la scansione, una Scoperta delle Meraviglie: il Cannocchiale Aristotelico, la Prudenza, il Tenero, i Massimi Sistemi, il Teatro di Furio Camillo… Non come fatti di storia (erudizione) o temi critici, ma a mezza strada, come a una mostra didascalica, in cui non si esibisce che la didascalia del curatore.
Dov’è l’attrattiva dei romanzi di Eco? Nell’illustrazione dei temi sotterranei della cultura occidentale: lo scientismo, la cabala, il razionalismo imberbe? Ma non c’è trattatismo enciclopedico, mancano i riferimenti e le attribuzioni, manca del tutto la messa in quadro, sono quattrocento e rotte pagine di parafrasi. La parafrasi dunque attrae e non respinge, l’esoterismo volgare, dal “Nome della rosa” al “Codice da Vinci”.
Il romanzo è sul nulla. Il meridiano, il giorno sottratto. Ideato, chissà, sul “Giro della prigione” della Yourcenar, sulla crociera nel Pacifico. Un anticipo del posteron-hysteron del tunnel del Gran Sasso, l’inversione del tempo? Perché no, Eco si diverte.
Umberto Eco, L’isola del giorno prima

La Corsica di Sebald, un fondale

La Corsica quando era popolata di alberi altri 50 metri o più e di animali di ogni sorta, benché, “come spesso nelle isole”, nani. E di cimiteri trascurati ma viventi. Nel silenzio dei turisti e delle bombe. Quattro brevi racconti di viaggio su un fondale, di vuoti e solitudine. Vivi nella scrittura, l’essenza (anche) della letteratura di viaggio.
W.G.Sebald, Le Alpi nel mare, Adelphi, pp. 73 € 6

domenica 25 settembre 2011

Euro in amministrazione controllata

Ora che gli Stati Uniti e il Fondo Monetario l’hanno detto apertamente, si può anche ragionare sul perché l’Europa lascia trascinare la crisi monetaria. Non sulla base del complotto organizzato ma del “come se”, che è criterio filosofico di buon pedigree, anzi ben tedesco, “als ob”. Per Europa nessun dubbio più che debba intendersi l’asse tedesco, della Germania e il Benelux satellite con l’Austria – non c’è più un asse franco-tedesco, Sarkozy non decide nulla.
L’asse tedesco ha deciso di non decidere per un obiettivo non tanto segreto. Che non è far fallire l’euro: l’euro trascinerebbe fatalmente con sé il fallimento del Mercato comune, e quindi del ruolo semi-imperiale della Germania. Che ha una struttura dei costi più cara, e una struttura sociale più rigida, che in altri paesi europei, e non può rischiare di vedersi assalita da prodotti di qualità a buon mercato. Si è deciso per una sorta di amministrazione controllata, che tra un mese, un anno, potrà vantare il ritorno in bonis, giusto per aver lasciato per strada alcune vittime.
La Germania è “come se” operasse su due pedali. Ridurre il costo dei titoli di Stato tedeschi, anche se per questo rincarano quelli degli altri paesi europei, ora che dovrà emetterne in quantità. Nel mentre che oscura il fatto che il debito interno è pari al pil, occultando la perdita del Kreditanstalt, la finanziaria per l’Est. Da qui la creazione di casi, la “Grecia”, caso ormai biennale, la “Spagna” (i cetrioli non sono il solo caso), l’“Italia”, che allontanino l’attenzione dei mercati dal debito tedesco.

Tutti briganti, anche i viaggiatori

È il racconto di “un’escursione a piedi nella parte più selvaggia della Calabria” nella primavera del 1841, così l’autore la rivendica l’anno successivo rammemorandola in forma di lettere alla madre, come un’esperienza unica. Ma è soprattutto il viaggio di un figurinista: un buon terzo della narrazione è preso dai problemi pratici, guide e muli, trattative infinite, osterie e pasti difficili,un altro terzo dalla descrizione minuta di costumi e acconciature, che Strutt ritraeva. Pittore vedutista, inglese ma stabilito a Roma, con la madre scrittrice, Elizabeth Strutt, e col padre Jacob George, paesaggista, col quale condivise lo studio iniziale al Babuino, il viaggiatore non ha occhi che per l’aspetto delle persone. Il terzo restante del libro è preso dai briganti, argomento obbligato di conversazione. Strutt non ne incontra, anzi sa di trovarsi in “una storia di storie byroniane”. Ma, ed è questa la parte centrale del libro, lui e i suoi amici di trekking sono presi per briganti dagli abitanti di Caraffa di Catanzaro, picchiati, e derubati della loro presunta refurtiva – gli abitanti della vicina Cortale, invece, al comando del nobile don Domenico Cefale, faranno giustizia degli assalitori e recupereranno per i viaggiatori la “refurtiva” rubata.
Di interesse iconico, il tour a piedi di Strutt ha avuto solo una traduzione, tarda, nel 1970, parziale, per ragioni accademiche. Che Rubbettino ripropone conme "Viaggio a peidi in Calabria", pp. 151 € 7,90. La British Library lo ripropone integrale tra i libri on-demand (ma è scaricabile anche su archivi.org e books.google). Con più di un motivo d’interesse. Strutt sa la forza del già detto, anche della letteratura (Byron): da Napoli fino all’ultimo paese della Basilicata tutti lo sconsigliano, “brutta lingua e brutta gente”, “non parlano italiano come noi”, “tutti ladri”. Poi la Calabria si annuncia con due ragazze, due contadine, che cantano “a levare”. Alla vista il calabrese non è inferiore alla fama, porta appesa l’accetta e a tracolla il fucile, passione dominante – “pochi non preferirebbero perdere la moglie piuttosto che il fucile”. Non inferiore solo all’aneddoto truculento, mezzo per ridere mezzo per spaventare – il vaccaro che come tutti porta l’accetta al braccio spiega che lanciandola, “giorni addietro, gli ho spaccato la faccia dalla fronte al mento”, a uno con cui era venuto a lite “in quel campo di lupini”. Le donne, giovani, madri, nonne, vestono colorato e non nero.
Il “Pedestrian Tour” è un’anticipazione del viaggio di Edward Lear, che sarà, più colto, ben più vivace: l’occhio è lo stesso, bonario, non prevenuto. A contrasto della Calabria c’è la Sicilia, dove Strutt si trattiene in due viaggi a lungo, ma non più a piedi e a cui riserva meno pagine. Prese soprattutto dalla bellezza delle città, Catania e Palermo. E Messina allora splendida, di viali, palazzi, chiese, musei, università, oltre che del proto naturale e della posizione, che ora si confronta con la manomissione e l’abbandono, a opera di una piccola borghesia affaristica, aggressiva, corrotta, la geografia economica è mutevole, la democrazia economica può essere pessima. Siracusa che appare a Strutt polverosa e abbandonata, come sarà ancora per un secolo e mezzo, fino agli anni 1990, è ora tutta nuova e fiorente.
Arthur John. Strutt, A Pedestrian tour in Calabria and Sicily, British library, pp. 380 € 20