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sabato 2 settembre 2017

Vero o falso – 17

Gli ebrei “nella Russia meridionale e nelle silenziose steppe solitarie che si chiamano l’Ucraina”, sotto i “duri padroni” polacchi, detenevano "anche le chiavi delle chiese e non le cedevano  che a prezzo d’oro ai cristiani” (R.-M.- Rilke, “Storie del buon Dio”,”La canzone della giustizia”)? Falso.

Gli Usa sono il paese di internet? Falso: solo una casa su due (il 52 per cento per la precisione) è connessa.
Il record è di Islanda e Norvegia, paese dei grandi freddi e profondi silenzi: 95 per cento di connessi.

Negli Usa ci sono mezzo milione di posti di lavoro nell’informatica, ma solo 40 mila specialisti si formano ogni anno? Vero (gli informatici sono per lo più immigrati, dall’Asia, l’America Latina e l’Europa).

L’Italia è il paese meno connesso in Europa? Falso, due italiani su tre sono connessi. L’Italia ha il record della durata delle conessioni – riscontrato negli utili delle compagnie telefoniche..

Triton, l’organizzazione europea per l’accoglienza agli immigrati, spende 2,9 milioni al mese, Mare Nostrum, l’organizzaione italiana, ne spendeva  9? Vero

A Triton, l’accoglienza europea, partecipano solo 13 dei 28 paesi della Ue, compresa l’Italia? Vero

A Triton partecipano i paesi europei non Ue, Svizzera, Norvegia, Islanda? Vero

La par condicio è massima e norma latina? Falso, è bizantinismo medievale

Ma Garibaldi liberò il Sud

È passato per un libro di coloritura, e invece è il resoconto più fedele dei Mille in Sicilia, a tratti perfino pedante. Con Dumas naturalmente deuteragonista, il tipo ”ho detto” e “ho fatto”, futuro autore di un’autobiografia in 22 volumi. Con “Emma” sulle tracce di Garibaldi, da Genova a Marsala, a Palermo e oltre, fino a Napoli – “Emma” è la sua goletta. Quello per il quale solo Garibaldi ha occhi e voce. Il “poeta” della rivoluzione, per il quale un trionfo popolare viene decretato. Cittadino onorario di ogni città liberata – lontano dalla Francia “lontano dalla calunnia e dall’inganno”. Trafficante d’armi per conto di Garibaldi a Marsiglia e in Belgio: “Nulla è più strano di ciò che accade sotto i nostri occhi”. È lui che libera la Basilicata, da Salerno, stando alla fonda. E si introna da sé alla fine, una sorta di “re di Napoli” prima d Maradona: “Mai un re ebbe nella sua anticamera e nei suoi saloni una folla simile a quella che fa la coda in barca per venire a stringermi la mano e ad abbracciarmi”. Ma documentato, e veritiero – solo scambia Carlo Filangieri con Gaetano, a p. 178, ma è un errore della traduzione. La pubblicazione a puntate come diario di guerra non permetteva altrimenti. Ma Dumas si segnala per un giudizio storico e politico che è il più convincente.
Si dimentica che Garibaldi conquistò la Sicilia, tutti i siciliani, non vinse nel vuoto, con la libertà – si preferisce dire i sicìliani, piace ai siciliani dirlo, opportunisti e gattopardi, ma quello è un fatto: Garibaldi fu un liberatore, per questo bene accolto. Un leitmotiv costante, ma asciutto, quasi antiretorico. Diverso, anzi antitetico, il discorso per Napoli. Che il giorno dopo l’arrivo del Dittatore Liberatore solo si occupa di Dumas e di come calunniarlo - di nient’altro la stampa e i patrioti napoletani si occupano che della nomina dello scrittore, motu proprio d’iniziativa di Garibaldi, a direttore degli scavi e dei musei, carica ambita. Dopo che cinque giornali hanno pubblicato le sue corrispondenze sul “Siècle” spacciandole per loro riservata proprietà, senza nulla dovere a Dumas, romanziere molto celebre – il libro è la raccolta delle corrispondenze.
Non tace peraltro, e anzi sottolinea, la cura speciale che Garibaldi annetteva all’infromazione e alla sua personale imagine. È anche per questo che fa di Dumas, fatuo quanto si vuole, con la sua goletta ovunque e le sue amanti in fiore e insapore, ma scrittore celebrato, il testimone oculare dei maggiori fatti d’arme. È Garibaldi che inventa per Napoli liberata un giornale, da confidare a Dumas, e ne decreta anche il nome, “Indipendente”, provvedendolo di fondi dalle casse pubbliche. Dumas lo ripaga con una lode a ogni corrispondenza, ma da ottimo script writer – da ultimo, Garibaldi conquista Napoli con la sensibilità: gli basta mandare in porto “un bastimento parlamentare, con cento soldati e trenta ufficiali prigionieri” ed è fatta, “con la sua stupenda sensibiltà Garibaldi capiva bene quale effetto avevano sui napoletani quelle prove visibili della disfatta dei regi”.
L’equanimità si spinge al racconto rispettoso della partenza dell’avversatissimo giovane re Francesco II da Napoli per Gaeta. E alla sorprendente – ma non più per la storia come si viene riscrivendo -  rivalutazione del governo di transizione di Liborio Romano, come quello nominato da Francesco II ma per regolare il regno nei giorni della vacanza di potere. Il compito fu svolto  egregiamente: non ci furono vendette, né personali né politiche, e la guerra civile cui molti ancien régime propendevano non venne mai all’ordine del giorno.
Con molte “notizie di guerra”, di malvagità commesse dal nemico, in genere stupri  di donne e violenze sui bambini – il nemico in guerra, soprattutto se in rotta, non pensa che a quello. Ma con molte testimonianze di verità, da grande reporter. “Una cosa esaspera Garibaldi: che i siciliani lo chiamino Eccellenza e vogliano a ogni costo baciargli la mano”. Si moltiplicano a Palermo le vendette private. I volontari accorrono in folle. Mentre “quando attraversai la Sicilia nel 1835 ero in compagnia di un capo bandito, al quale avevo dato 10 piastre perché mi proteggesse”. C’è costante la presenza di navi da guerra inglesi, americane, francesi: a Palermo “la tregua è concordata alla presenza degli ammiragli inglese, americano e francese”. La liberazione di Palermo “durò tre giorni”, facendo “mille-millecinquecento morti”: “In sole 24 ore piovvero sulla città duemila e seicento bombe”, concentrate “sui monumenti piubblici, sugli istituti di beneficenza e sui conventi”.
Il Dumas invasivo riserva peraltro due storie interessanti. Odia i Napoletani - i Borbone di Napoli – perché suo padre, di ritorno dall’Egitto, fu rinchiuso proditoriamente in carcerere dal prozio di Francesco II e avvelenato. Con Dolomieu, che ne morì, e il generale Manscourt, che ne uscì pazzo: “Mio padre resisté, ma morì sei anni dopo di cancro allo stomaco, aveva quarant’anni”.
L’altra storia è di un primo tentative, questo personale ma non “dumasiano”, di facilitare l’insurrezione della Sicilia, nei moti del 1834. Sbarcò nell’isola – su suggerimento, pare, di Bellini – e finì col farsi latore di una lettera dei patrioti siciliani al conte di Siracusa - fratello di Fedinando II, il futuro Re Bomba dei moti del ’48 repressi con le armi - che la Sicilia aveva governato bene. Il conte si disse d’accordo con le richieste dei siciliani, ma disse anche a Dumas che mai avrebbe avviato una iniziativa contro il fratello – il conte morirà, esule a Pisa, poche settimane dopo Teano.

Alexandre Dumas, I Garibaldini, Editori Riuniti Univ. Press pp. 285 € 18

venerdì 1 settembre 2017

Letture - 314

letterautore

Baudelaire – Fu un personaggio della Parigi che conta, per famiglia e in quanto dandy,  e un letterato molto professionale, l’insight critico per le arti figurative, Wagner, Poe, Flaubert, Sainte-Beuve, lo testimoniano, la capacità di riconoscere i contemporanei. Ma veniva considerato un dilettante un po’ bizzarro, tra droghe e sprovvedutezze varie – con i soldi, con la madre, col patrigno, con le donne, con le droghe. Il cento cinquantenario della morte, oggi nel 1867, si celebra su questo paradosso. Nadar, l’amico di cui si ripubblicano i ricordi, non lo rispettava. Né Gautier o Poulet-Malassis, Asselinau, Ancelle, altri amiconi e contemporanei. Sainte-Beuve, lusingato dell’ammirazione che Baudelaire gli tributava, lo considerava un ragazzone, “garbato, rispettoso, esemplare, gentile” – sarà questo uno dei motivi più forti di sdegno di Proust contro il supercritico.

Best-seller- Si vanta molto la prolificità degli autori di beststelelr – solo: è il solo piedistallo di monumento. Per esempio di Patterson, il suo maggior titolo di credito è che “ha scritto il maggior  numero di bestseller di tutti i tempi” - ne ha scritti “180, al ritmo di 120”. Camilleri per la verità non sarebbe da meno, pur avendo cominciato tardi, andando verso i settanta, da pensionato Rai – Patterson ha ora superato i settanta. Ma Dumas non ne ha scritti un 300, anche se non soltanto di narrativa, essendo stato scrittore di teatro, di viaggi, di varia, e sicuramente anche poeta? In soli 68 anni di vita. A Salgari ne sono attribuiti con (quasi) certezza solo ottanta, ma in mezzo a cinque-seicento apocrifi non indegni, che vendevano cioè altrettanto come i libri dell’autore – che si uccise a 49 anni.

Camicie - Quella rossa di Garibaldi inizialmente era nera: era il giubbotto della Legione Italiana in difesa di Montevideo. Una tela nera con sopra dipinto il Vesuvio – così la dice lo stesso Garibaldi nel memoir firmato Dumas.. Che successivamente, per evocare il tricolore proibito (la Legione era formata im gran parte da fuoriusciti e proscritti), diventerà rossa con mostrine verdi.

Gadda – Aveva perso con Enrico, il fratello sbarazzino, la metà di vita di cui sentiva la mancanza? Forzosamente arruolato tra i queer dai queer  volenterosi delle lettere, da Arbasino in giù, è a leggerlo invece solo uno che non ha trovato la forza di vivere. E la personalità di Enrico come comincia a trasparire dagli studi gaddiani non sempre attenti – come fa una personalità così ingombrante a essere tenuta fuori dal diorama gaddiano? – rafforza la sensazione
Enrico è il fratello più giovane, benché di soli tre anni, e discolo, morto in guerra, di cui Carlo Emilio dirà in breve nel “Giornale”: “Enrico, tu non eri mio fratello ma la parte migliore di me stesso”. E non ne scriverà altro, ma farà sempre intendere di viverci accanto. Non col rimpianto ma con un senso di colpa – di autocolpevolizzazione.
Dario Borso evoca domenica, sul “Sole 24 Ore”, dalla corrispondenza di Enrico col suo compagno e commilitone Giancarlo Dosi, un Enrico spendaccione, puttaniere, compagnone, di trekking e di bevute, primo della classe senza studiare, eroe di guerra medagliato senza strafare, scroccone, dello zio, del fratello Carlo, e sempre indebitato. Una delle ultime notazioni di Borso: “12 aprile 1918. «Volo parecchio – mi acciuffo di rado coi polli austriaci – ho concorso ad abbatterne uno – sto bene – ho pochissimi soldi sebbene vinca ancora a poker». Pochi giorni dopo sarebbe precipitato, per un’acrobazia del tutto gratuita, al ritorno da una perlustrazione”.

Garibaldi – È stato anche lui tedesco, di origini tedesche. Come Dante e altri spiriti forti italiani -  ma meno a lungo di Dante. Per due motivi. Per il nome, che è di origine longobarda: composto da garo, pronto alla battaglia, e bald, audace. E per essere discendente del barone Theodor von Neuhoff. Ma sulla  base di un matrimonio presunto, di cui non si trova nessuna documentazione, tra il bisnonno, o prozio, Giovanni Battista Maria Garibaldi, con Katharina Amalie con Neuhoff.
L’aveva avvalorata, con immaginabile scarsa fortuna nel ventennio, nel 1933, Gustavo Sacerdote, socialista e germanista, “La vita di Giuseppe Garibaldi secondo i risultati delle più recenti indagini storiche”.
Questo barone von Neuhoff è quello che, tedesco di nascita, militare del re di Francia, ministro di Carlo XII di Svezia, colonnello in Spagna, nonché sposo di una dama di compagnia della regina, creò per i sei mesi estivi del 1736, con alcuni fuoriusciti incontrati a Genova, e col sostegno del bey di Tunisi, un regno di Corsica, di cui si nominò re, Teodoro I. Sloggiato da Genova, ci riprovò altre tre volte, a distanza di anni, ma senza successo.

Germania – Girando in agosto per la Ruhr rinverdita – rigenerata dal ferro e dal carbone disusati – Claudio Giunta si chiede sul “Sole 24 Ore” domenica: ma che ci fanno i tedeschi in Italia? “Perché non se ne stano tranquilli nelle loro Hütte a godersi il fresco anziché intasare la COOP di Tavarnelle Val di pesa tutti i sabati mattina”, dice lo studioso. E si capisce che è sfuggito da Tavarnelle, affollata di tedeschi il mese di agosto. Solo che l’afa e gli italiani – “non si capisce perché mai, tra l’inizio di giugno e la fine di agosto, i tedeschi migrino in massa verso sud, mescolandosi all’afa e agli italiani” Giunta in Germania non li ha sentiti? Afa e italiani si trovano anche nella Ruhr. Forse in Italia sono più respirabili, chissà, per le correnti d’aria, tra mar e monti, se il tedesco sparagnino affolla la Coop– questo sarebbe il ragionamento giusto: spende per goderseli, l’afa e gli italiani in Italia.
La letteratura di viaggio è piena di stizze?

Napoleone – Era alto come Garibaldi, 39 once e 3\4, circa 170 cm. Considerato alto rispetto all’altezza media dell’epoca. 

Rio de Janeiro – Un mito vecchio di due secoli, sopravvissuto – di almeno un secolo? Era Rio al tempo di Garibaldi alla difesa della repubblica del Rio Grande do Sul, staccatasi dal Brasile, circa il 1838 (l’Eroe dei due mondi ne parla nel “Garibaldi”, il suo memoir firmato Dumas): “Dopo aver attraversato lo stretto che conduce nella baia, tranquilla come un lago, vidi stendersi davanti ai miei occhi la città, dominata dal Pao do Azucar, immensa roccia conica che serve di livello al navigante: quindi vidi quel lussureggiante apparato della natura, di cui l’Africa e l’Asia non avevano potuto darmi che una sterile idea…”. Da quanti decenni si vede solo cenento?

Sherlock Holmes – Ma è comico. Più e più spesso che drammatico – quando però dieìventa quasi sentimentale. Nel ritmo, nella trovata, nella stessa inverosimile condizione umana.

Tondelli – “L’Espresso” evoca “Rimini, Rimini”, dal Tempio Malatestiano ai Vitelloni e ai turisti tedeschi, fino alla Sagra Musicale Malatestiana, dimenticando Tondelli, che pure è stato una delle colonne dels settimanale. Nessuno è profeta in patria è saggezza antica. Ma Tondelli è proprio dimenticato, che pure è una delle poche rimanenze del secondo Novecento.

letterautore@antiit.eu

Un altro antifascismo, realista

“Se vi è qualcuno che sia capace di non avere pietà per il povero è il povero arricchito. In questo senso la borghesia, con i suoi umanitarismi democratici, è più trista e crudele dell’antica aristiocrazia”. Non è vero, ma è l’impianto convinto di un racconto verità convincente. Anche se di di autore trascurato, in un’opera cancellata. Benché sia stata una delle pietre miliari dell’antifascismo - non si di quello rituale, è vero: fin dall’inizio ha un approccio critico,
Un romanzo critico cioè dello stesso antifascismo. A sinistra più che a destra. Che impersona nel protagonist: uno che si è arricchito, ma faticando senza soste, e di vedute ragionate, il self-made man dei romanzi sociali americani del decennio successivo. La sinistra entra in scena equivoca, alla stessa pagina del povero arricchito, 47. L’onorevole socialista, infiammatore di folle, ha “quella espressione un po’ tronfia e fatticcia che assumono quasi inconsapevolmente coloro che fanno di professione gli agitatori di folle”. I suoi famigli lo guardano “con un ebete sorriso di beatitudine e di trionfo”. Il Moro è “una specie di gesuita”, etc.. Ci sono anche “sinceri ed equilibratie socalisti della maniera antica”, ma sono “pochi” e non contano.
Non è la sola “scorrettezza”. C’è l’ebreaccio, “un figuro tra l’agente di borsa, il baro e il tenitore di postriboli”. La rivoluzione è urlata dal “solito gruppo di donne” – che per prime si disorientano e si dileguano. L’onorevole demagogo è uno “che parla della folla come di un animale da aizzare”. Al quale il protagonista agrario può dire vergogna: “Voi vi servite della folla come un vecchio satiro potrebbe servirsi di una minorenne”.
Un racconto sempre solido. Dell’applicazione contro la dissipazione. Della realtà contro la demagogia. Del lavoro contro l’azzardo. Della campagna contro la città. Della fatica e il sudore contro la politica politicante – gli “avvocati”, che sono di Milano, parlano come oggi i paglietti fighetti in tv.
Un romanzo politico, ma non ideologico – non come tanto povero neo realismo declamatorio di questo dopoguerra. Stupefacente. Cioè modulato, riuscito. Vibratile: della terra e del lavoro, e della stessa politica, raccontati con piglio semplice, cioè sicuro. Che si legge, praticamente inedito dopo novant’anni, come un saggio di prim’ordine sulle origini del fascismo – trascurato dagli storici, ma per colpa loro.
L’impianto della narrazione si sarebbe detto, nel linguaggio del second dopogiuerra che sembra non finire, reazioario. Ma sa di verità, e non perché Mussolini lo ha bandito all’uscita nel 1926, insieme con l’autore. Un “libro di battaglia” lo definirà l’autore riproponendolo dopo la caduta del fascismo (ma già nell’agosto del 1943,  da Caspoggio di Valmalenco, dove operava con le prime formazioni partigiane). “Un libro torbido ma molto ricco” lo aveva ditto Borgese alla prima temeraria uscita.  Sulla vita quotidiana in Lomellina al tempo delle lotte contro gli agrari, e quindi dei fasci di combattmento. E una rappresentazione già smagata del giochetto al rincaro delle Leghe contadine e le Federazioni proletarie, agevolate da “avvocati” furbetti, per cui un accrodo firmato è solo pretesto a nuove richiest. Nel nome di non si sa quale rivoluzione.
“I Conquistatori” era uscito in appendice a “La Voce Repubblicana” – di cui Perri sarà direttore nel 1945 – nell’estate del 1924, “mentre imperversava la polemica sul delitto Matteotti”. Così Perri ne ricostruisce l’idea e le peripezie ripresentandolo a fine guerra. Ufficiale postale di un paese della Lomellina dal 1920, “ero stato spettatore oculare, prima delle sciagurate imtemperanze del proletariato, e poi della rapida conquista che di quella regione attuò il fascismo tra il 21 e il 22; conquista sanguinosa e brutale”. Rielaborato e rimpolpato, venne pubblicato in volume nel giugno 1925, sotto lo pseudonimo di Paolo Albatrelli. Fu recensito poco ma letto molto.
Inizialmengte, la questura si adoperò presso i librai, per scoraggiarne la circolazione, ma non più di tanto. “Dopo l’attentato di Bologna” il libro fu invece “anch’esso travolto coi residui giornali d’opposizione e con tutte le superstiti forze antifasciste”, Le copie in deposito furono “bruciate in piazza a Roma”. Contattato per una traduzione in Francia, e forse anche in Russia, Perri deve sottoscrivere una dichiarazione che non permetterà la pubblicazione in nessun luogo. Lo pseudonimo non lo salverà dall’espulsione dalle Poste, nel 1926.
Francesco Perri, I Conquistatori, Laruffa, pp. 339, ill, € 15

giovedì 31 agosto 2017

Il Ministro nella sua Calabria

Gioia Tauro chiusa, senza preavviso, alle 14, a Nord, a Sud, a Est, a Ovest. Traffico deviato, venendo dall’entroterra, di cui Gioia Tauro è il centro, commerciale, bancario e ferroviario, su una strada sterrata, con buche di almeno quattro o cinque inverni, che le cartacce non riescono a colmare per autoarticolati e motorini ugualmente, senza indicazione di direzione. Si procede incolonnati, un metro al minuto, sperando che il viottolo a un certo punto conduca alla stazione - i biglietti ad agosto in ferrovia sono scarsi e cari.
Raggiunto in qualche modo la stazione, c’è poi sa espletare il resto delle attività che uno si è riservato una volta a Gioia Tauro, in banca, all’assicurazione, dai fornitori. Ma non ce n’è la possibilità. A  meno di non fare tutto a piedi, che non è possibile: la chiusura andrà avanti fino a sera.
Si vaga con un peso nel cuore, perché non si sa cosa sarà successo: un attentato? della mafia, dell’Is? una tragedia della strada? sarà saltata una cisterna, una polveriera. E non c’è verso di sapere. I vigili urbani sono in divisa da cerimonia, si tengono lontani dalla polvere, ingannano il tempo sul cellulare. Gli ausiliari del traffico, ai qual è demandata la cura della deviazione, sono due, in età, visibilmente esausti, un’ora dopo la chiusura. Fa infatti 34° gradi, 38 percepiti.
Si lascia infine la macchina e si decide di fare il fattibile a piedi. Ma sempre senza sapere niente. Agenti e negozianti sono furiosi per la mezza giornata persa, e rispondono con parolacce. I più per la verità non sanno nemmeno che la cittadina è chiusa. Non resta che digitare Gioia Tauro. E google dà la risposta: oggi il ministro dell’Interno Minniti, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, e le massime Autorità Civili, Religiose e Militari della Provincia di Reggio Calabria presenzieranno alla “cerimonia di elevazione e inaugurazione del Gruppo Carabinieri”. Gruppo come doppio o triplo di Compagnia. La cerimonia doveva essere alle 15, ma si sa come vanno queste cose. C’era la fanfara. C’erano le medaglie al valore civile. C’erano le vedove dei Carabinieri morti in servizio. E quindi la città si chiude: questo è lo Stato.
Gioia Tauro è infatti ben presidiata. Ogni diciotto-ventiquattro mesi il Comune viene commissariato per mafia, dopodiché per altrettanti mesi, fino alla prossima ineludibile elezione popolare, per altrettanti mesi viene dìretto da commissari prefettizi. Quella di commissario al Comune di Gioia Tauro è un carriera, alla prefettura di Reggio Calabria. Un posto di potere anche assoluto. Di non passare l’asfalto nemmeno dopo dieci anni, nemmeno dopo venti. Di non far pulire le strade nemmeno una volta l’anno. 
Minniti, che è un buon ministro, presenzia alla elevazione in quanto ministro dell’Interno e calabrese eminente. Forse non si ricandida?

La favola del giornalismo inglese

Il prosecco lega i denti, anzi li perfora, lacerando lo smalto, e li fa uscire dalle gengive. Una bambina di cinque anni, cristiana e amante della carbonara, è stata affidata a donne col burqa, che le impongono il couscous. Sono le ultime bufale del famoso giornalismo inglese, del “Guardian” e del “Times”. Non pesci d’aprile, semmai storie estive. Ma indorate dalla patina di grande giornalismo. Del tutto inverosimili. Anche come beffa: la sfida del “Times” conservatore all’interculturalismo con una bambina che a cinque anni mangia solo la carbonara – in Inghilterra?
La storia della bambina cristiana data in pasto ai mussulmani fa il paio con la Bbc che a Reggio fotografò alcunii ragazzi che passavano per il corso per la ‘ndrangheta in azione. Storie non delittuose - semmai un po’ sadiche, come è  del “visio inglese”. Ma accolte con venerazione: si scrivono articoli e saggi sugli articoli del “Giardian” e del “Times”, con pareri dotti e citazioni.
La maniera inglese non necessariamente è spregiativa – la Bbc certamente non ce l’ha con la Calabria, e forse nemmo il “Guardian” col prosecco. Fa parte della aloofness, l’albagia inglese – ci se ne fotte del resto del mondo. E si fa un’arte di creare la notizia. Quello che va al momento, Per servire il lettore, cioè per vendere una copia in più.Chiunque abbia lavorato con un giornalista inglese sa che il suo unico cruccio non è cercare la verità ma creare la notizia, ogni giorno una, una storia – la notizia è una storia.
Niente di delittuoso non fosse per il riverbero. Nel giornalismo italiano. Che ne fa un monumento. Questo è curioso e meriterebbe una bella “notizia” all’inglese: perché i grandi giornalisti italiani, da Piero Ottone a Ronchey, ce lo abbiano propagandato, e i loro epigoni perseverino. La favola dei fatti e delle opinini, e altre scemate del genere.  
C’è il mito del giornalismo inglese. Creato dagli inglesi Ma attivo, duro anche, in Italia. Solo in Italia – nn si conoscono saggi sul gioanlismo anglosassone in Francia o in Germania. Perché non sappiamo l’inglese?


Come eravamo, negli anni del boom

“Milano vive con il resto della penisola in un’eterna controversia”. Siamo nel 1953, ben prima del leghismo, ma Piovene sapeva e capiva. Tre anni di viaggi su e giù per l’Italia, di incontri, colloqui, letture, dal 1953 al 1956, per una serie di conversazioni alla radio. Poi raccolte in volume, nel 1957. Per il valore documentarrio, di reportage sugli anni 1950, forse i più fertili e innovativi, anche produttivi, era l’Italia del boom. E un insieme di impressioni e giudizi sempre interessanti, anche a distanza di tanti anni.

Un viaggio organizzato: metodico, dalle Alpi al Lilibeo, da Adriano Olivetti ai pescatori di San Benedettp del Tronto che “si spingono ovunque, dall’Atlantico all’Artico, in Islanda, in Giappone”. Informato e sapiente, come se non se ne erano mai effettuati – e non si effettueranno più. Un unicum, il libro di viaggi non ha fortuna in Italia, E un altro giornalismo: Piovene viaggiava in doppiopetto e grisaglie, ma era curioso e capiva le risposte – sapeva tessere un colloquio.
Guido Piovene, Viaggio in Italia, Bompiani, pp. 896 € 20

mercoledì 30 agosto 2017

Secondi pensieri - 317

zeulig

Amicizia amorosa – Ricorre nella letteratura di svago francese di Fine Secolo (Ottocento) come amore non dichiarato, o ammirativo, comunque non “consumato”, cioè slegato dal sesso. Ma è l’amicizia profonda. Monosessuale prevalentemente, ma anche eterosessuale. Di cui già in Omero, e poi nella lirica classica, greca e romana. E spiega la grande quantità di persone, di entrambi i sessi, che vivono una vita affettivamene compiuta senza mai una relazione individuale, esclusiva e con risvolti sessuali. Che non hanno voce né rappresentazione, teatrale, narrativa, filmica, da almeno un secolo e mezzo, da quando ogni rapporto amoroso dev’essere anzitutto di carattere sessuale - e addirittura, specie nella letteratura omosessuale, poetica e narrativa, si esaurisce nel sesso. Ma potrebbero essere maggioranza (calcolabile, con le statistiche dei celibi e le nubili). Amicizie di cui il cuore ha bisogno come nutrimento, pena la solitudine e lo scoraggiamento – la depressione. Di un’anima, più che di un corpo, in sintonia.
Questo non esclude l’amore romantico, e anche esaustivo. Che però non esaurisce il bisogno primario – di amicizia anche nel rapporto esclusivo.  

Amore – C’è anche, c’era, quello “consumato” – o “non consumato” – che è un controsenso. Ma deriva dal legame dell’amore col rapporto sessuale, dal suo esaurimento nel sesso. Nel permissivismo la “consumazione” non ha più senso, ma sì nel profondo, il rapporto amoroso essendo di natura prettamente sessuale – cessata la foja cessato l’ amore. Come tale vissuto, poetato, legiferato, per prima dalla chiesa, e curato dalla psicoanalisi. Benché riconosciuto come pestifero. Bataille lo dice crudo, partendo dall’ovvio: “Nessun dubbio che l’atto sessuale è brutto, l’essenza dell’erotismo è la sozzura”. E dall’ineluttabile amore morte deriva il coito assassino”: dell’altro nella pornografia, di sé e dell’altro nell’erotismo, che sarebbe l’amore. È l’amore, questo amore, un business, come la pornografia?

Quello sessuale è vissuto in copia, immagine d’immagini: il desiderio è visivo. È il pensare di Bruno, “speculare con le immagini”. Kafka ama Felice in fotografia. Joyce lo eccitava l’idea che sua moglie se la facesse qualcun altro, seppure in foto, ci ha scritto su il romanzo. Bataille veniva all’idea che al suo posto ci fosse un altro – finché la moglie, la briosa Sylvia Maklès, attrice, sedicenne, non lo prese sul serio, e a nome suo s’è messa con Lacan.

Avidità – È il motore, così sembra, dell’economia libera di mercato. Ma ha limiti: presto si trasforma in semplice enumerazione, alla Paperone. O allora in sfida, con un robusto registro di disprezzo, verso il mercato stesso, verso l’umanità, da cortocircuito..

Dio – “A volte penso che siamo soli nell’universo, e a volte penso di no. In entrambi i casi, l’idea è assolutamente sbalorditiva”, Arthur C. Clark

Morte – Sembra, ma non ha nulla di ragionevole. Come la vita, del resto.
Le religioni ne esorcizzano il mistero, la ragione non sa che farne.

Mondo – È misterioso perché è incerto esso stesso. Se avesse un lieto fine – una logica – l’avremmo già scoperto. O comunque non dispereremmo: faremmo ipotesi. Oggi le facciamo, ma senza crederci.

Santo – Ha la ricetta della felicità? Sì, se è la rinuncia alla felicità stessa – magari in nome di una futura. È un felicione per saper dall’inizio che non può esserlo.

È un realista – non nel senso filosofico, realista della Realpolitik: uno cosciente dei suoi e nostri limiti. Che sconta di non poter venire a capo del mondo.

Stizza – Vocabolo e passione desueti. Mentre è di pratica costante. Il marchio della contemporaneità. Tutto si comprenderebbe, la politica, i social, la letteratura, finanche l’economia, non molta, ma una buona parte sì, con la stizza. Redattori e autori stizziti, per il mancato riconoscimento delle loro qualità, che sommergono il mercato della lettura di nefandezze. E quanto non incide sulle nefandezze dei mercati finanziari un moto di ribellione più che l’avidità? Per esempio tra i venditori porta a porta di mutui e altri titoli sub-prime, spazzatura – tutta gente scoglionata di suo, poiché la banca li tratta da sub-impiegati di subordine?
La stessa politica si rigenererebbe dall’attuale cattiva fama se insinuasse la stizza. Si prospettasse come lezione data agli elettori, frivoli, pretenziosi. Ciò salverebbe, tra parentesi, la politica stessa e la democrazia, che in fin dei conti si sostanzia del voto.

Storia – L’angelo della storia di Klee e Benjamin è rivolto al paradiso terrestre da cui è cacciato, cioè al passato – anche se sospinto, come portato dal vento, verso il futuro cui volta le spalle. Potrebbe essere lo storico di Schiller, che fu anche professore di storia: “Lo storico è un profeta che guarda all’indietro”. Ma più evoca i dannati di Dante, al canto XX dell’“Inferno”, degli indovini e i maghi, condannati a procedere con la testa rivolta sulla schiena. Del profeta, cioè, anche semplicemente dell’interprete, non di cose future ma fossilizzato a rimestare il passato, come di prefica.

Suicidio - Mishima s’è ucciso nel quartier generale della Seconda Armata a Tokio. Avendo disposto il suo evisceramento rituale nei dettagli, con le foto ricordo. Una lo mostra, lui esile e senza mento, da sotto in su con pettorali e mascella ritoccati. Invidiabile questo volere se stessi, anche nella morte: è un perché da non ignorare dei suicidi.

zeulig@antiit.eu

L’eterno giovane Garibaldi

190 anni il mese scorso della nascita, fra poco due secoli, e un mito sempre verde. Di patriota e repubblicano, e di eroe dei due mondi, ma sarebbe mglio dire dell’umanità. Costruttore anche, a tempo perso, fermo, realizzativo. Dumas ne ha trascritto le memorie autografe, che Garibaldi gli ha fatto consegnare a Genova, da dove era appena partito per la Sicilia la notte tra il 5 il 6 maggio 1860, dall’“ilustre storico Vecchi”, per la parte fino al 1848, all’impegno per la repubblica e l’unità dell’Italia, dapprima con Pio IX, poi con Carlo Alberto, poi contro. La parte successiva, sulle vicende della Repubblica Romana, Dumas ha rielaborato, dice, “con l’aiuto del bravo colonnello Medici”, ma anche di Vecchi, lo storico della Repubblica Romana, di Emilio Dandole,  e altri.
Le vicende del Rio Grande e La Plata prendono di più l’interessi di Garibaldi e di Dumas – dieci anni prima giù autore di un romanzo sulle vicende dell’Uruguay, “Montévideo ou la nouvelle Troie”. Dettagliate minutamente, ma illeggibili senza una cognizione minuta dei luoghi. La Repubblica Romana ha più senso politico, O forse è soltanto una tela di fondo più nota, che ne favorisce la lettura.
Per dieci anni, da quando ne aveva sedici, Garibaldi naviga il Mediteraneo propriamengte detto,  travalicando spesso nell’Egeo, il Bosforo e il Mar Nero, principalmente a Odessa. Anche su navi russe – la sua prima, a sedici anni. Luoghi dove trovava repubblicani come lui: prima e dopo il 1830: molti si eran rifugiati nell’impero ottomano, dove le carbonerie erano ugualmemte attive.. In no dei viaggi fu indottrinato nel saintsimonismo da un Émile Barrault, il cu insegnamento Garibaldi più volte evocherà: dell “uomo che, facendosi cosmpolita, adotta l’umanità come patria”. Un socialismo non scentifico ma robusto. Nei successivi quindici anni, di guerra di corsa e di guerriglia, oltre che campale, in un Sud America dove era regola ilsaccheggio, Garibaldi perderà molte battaglie, e tutte quelle politiche per dabbenaggibe, e di più ne vincerà, ma non gli si imputa un solo atto di vilenza.
Nel 1835, a 28 anni, ricercato dal regno di Sardegna per i moti dilettanteschi del 1833, s’imbarca per le Americhe. Dove farà periodicamente piccoli mesrieri, come tutti gli emkigrati, per viver e: sensale, istitutore (di matenatica), negoziante al dettaglio, eccetera. Ma sempre in veste di combattente.  Dal 1837 si battterà per la repubblica Riogradense, poi Rio Grande do Sul, secessionista dall’impero del Brasile, la repubblica di Rio de Janeiro. Per conto della quale fa la guerra di corsa, con piccoli legni. Sempre destreggiandosi, tra vittorie e sconfitte, una volta ferito quasi mortalmente, di uscirne indenne, più spesso coi suoi compagni di ventura italiani - migliori patrioti di lui, ha cura di sottolineare ogni volta. Fino al 1840, con alterne fortune, ma lui personalmete sempre da “vincitore”, di fatto o di fama, specie agli occhi del nemico, sottolinea anche in questgo caso ogni volta.
Nel 1840, sconfitta la Repubblica riogradense, passò a Montevideo. Di cui sosterrà, con la Legione Italiana, a tratti in funzione di leader, sia della marina che della fanteria, la difesa contro le mire annessioste del dittatore argentino Rosas – meritandsi la targa e il faro del Gianicolo a Roma, di cui nessuno che si avventuri per quella passeggiata sa ora più nulla. Ottimamente servito da “cinquemila negri affrancati, eccellenti soldati”. Ha conosciuto Anita e l’ha sposata con rito religioso (onora l’Altissimo, odia i preti – sarà venefrabile di un rito amssone), ne ha avuto figli, Menotti in memoria di  Ciro Menotti, se la ritrova accanto in battaglia. A gennaio 1848, quasi persagisse gli imminenti sviluppi, partì con la famiglia e alcuni patrioti italiani verso Nizza e l’Italia.
Il racconto di un mito già in vita. Giovanilistico, come si scriverebbe oggi. Con poche sorprese, però. Se non la quasi assenza di Mazzini. E dell’anticlericalismo. E il vanto ribadito, meritato, di essere “miglior nuotatore”, sin da ragazzo.

Alexandre Dumas, Garibaldi, Newton Compton, pp. 185 € 4,90

martedì 29 agosto 2017

Ombre - 380

Sabino Cassese sente il bisogno di scendere in campo con un’intervista pubblica in difesa della scalata di Vivendi su Tim-Telecom. Del monopolista francese difende tutto, piega per piega, come un qualsiasi avvocato d’affari, di parte.
Cassese è un ex presidente della Corte Costituzionale e in tale veste era stato investito dal governo di un parere sulla possibilità di una difesa nazionale della rete telefonica.

Pezzo forte dell’apologetica di Cassese, su cui ritorna spesso, da statista, è il vincolo mondiale (World Trade Organization), europeo, liberale, al libero corso degli affari. “Forse che lo stato del Wisconsin”, è l’argomento forte, può opporsi all’acquisto di una sua azienda da parte di un’azienda  del Wyoming?”, o è viceversa?, “Non ci pensa nemmeno”. Perché, Tim è nel Wisconsin -  o nel Wyoming?

Possibile che un giudice di tale importanza non legga i giornali? Non sappia che il governo francese ha appena disdetto l’acquisto da parte di Fincantieri di una società francese? Senza nessun motivo, Una società che lo stesso governo francese aveva già ceduto ai coreani. I quali si sono affrettati a disfarsene. Perché tanta autorevolezza accordata a giudici come questi?
Si  vara in tromba le legge liberalizzazione. Fatta, di fatto, per liberalizzare le utenze luce e gas finora tutelate. A un costo che aumenta da due a quattro volte. Il mercato non doveva servir e a tutelare i soggetti deboli, con tariffe eque – il mercato si vuole equo?

Come non pensare che la Var, o il Var, non avrebbe liberato la competituvità tra gli arbitri? Dopo i tre o quattro anni inutili degli arbitri dì area e di porta, che mai hanno dato un contributo all’arbitro in campo. Così sabato Orsato, al Var o alla Var, si è ben guardato di dire a Irrati, che gli chiedeva “cosa faccio?”, che c’era un rigore per la Roma. Gli arbitri non fanno squadra, ognuno lavora per sé, contro gli altri.

“Tedeschi a parole italiani nei fatti”, trova Malagutti con “L’Espresso”. Tra “il salvataggio pubblico delle banche” e “il cartello tra i big dell’auto”. La scoperta della Germania è affascinante. E dire che sta dietro le Alpi, e anzi spesso nella stesa Italia. E Malagutti non ha scoperto le magagne della chimica, dell’immobiliare, delle (piccole) mafie.

A Palermo il rettore dell’università, Micari, si candida con Orlando e il Pd per la presidenza della Regione Sicilia. Ma lascerà il rettorato solo se vince l’elezione. Ma il Pd non lo candida per vincerla, questa elezione? 

Curiosa la beatificazione di Angela Merkel sullo stesso settimanale, che in diciotto pagine e con otto autori, tra essi Denise Pardo, solitamente fine analista politica, non trova una riga per ricordare che ha creato e voluto la crisi greca. E con essa , non stava scritto negli astri, quella italiana. Da cui l’Italia esce probabilmente rotta per sempre.

Angela Merkel non si è esposta personalmente contro l’Italia. Contro la Grecia lo ha fatto, contro l’Italia si limitava a sorridere. Ma parlavano contro ogni pochi giorni il suo presidente della Bundesbank, un giovanottone senza altro tiolo che l’esser stato al suo servizio, nella sua segreteria, e il suo ministro delle Finanze Schaüble. Un tiro al piccione senza precedenti delle massime autorità monetarie di un paese contro un altro. Roba da guerra.

Ora la Germania è tutta sorrisi, poiché teme Macron. Ma il danno è fatto, l’Italia non sarà più quella di prima – per ricostituire investimenti e produttività, e riassorbire la disoccupazione ci vorranno decenni, nella miglior delle ipotesi.
Merkel sembra una Mercedes che non soffre Ferrari alle costole. Col sorriso, certo, non c’è bisogno di digrignare i denti: l’artiglio è forte. Come pensare e dire che una cancelliera per quattro mandati è un angelo?   

I “clandestini” di piazza Indipendenza a Roma pagavano fino a 10 euro a notte per dormire nello stabile occupato. A chi? Possibile che i parroci del quartiere, o i Carabinieri, non sappiano e non vedano nulla? Si parla sempre di mafie, ma nel senso di “me ne lavo le mani”?

Due anni fa il “Corriere della sera” aveva accreditato un video dei Carabinieri su un “inchino” mafioso alla processione di San Procopio, un borgo in provincia di Reggio Calabria. Edoardo Lamberti Sorrentino, medico e esponente di spicco del Pd reggino, assessore ala Legalità, aveva sfidato il corrispondente del giornale a provare che l’inchino mafioso c’era stato. Per questo è andato a processo per calunni a e concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto ora perché il fato non sussiste. Il “Corriere della sera” non ne ha dato notizia, neanche una breve.


Quando Grillo inseguiva la destra sociale

Ex Msi – direttore del “Secolo d’Itaòoia”, deputato finiano nel Fdl di Berlsiuconi – De Angelis fa un ritratto, in sostanza, di Grillo e del grillismo. Non ci sarebbe bisogno di analisi: molti adepti di Grillo, quasi tutti queli con un ruolo, vantano un passato prossimo nella destra, da Fini in là. La cosa era stata anzi censita con cura sei mesi fa da “The Nation”, la rivista americana. Qui il I limk). De Angelis introduce però una novità.
La destra postfascista, argomenta semplice, è quella che altri definirebbero destra sociale. Sì, Evola, Pound, Accame, o lo stesso Mussolini. Ma niente più slancio fascista antiborghese, anticostituzionale. Semmai un tocco di Giannini, il profeta postbellico dell’Uomo Qualunque. E Grillo? Si è formato correndo dietro alla destra sociale, vent’anni fa, all’avvio della carrier politica. È questo il contributo di De Angelis, che documenta il passaggio.  
Un curioso rovesciamento. Ora non è più Grillo che corre dietro alla “destra sociale”, ora è la destra che rincore Grillo.
Marcello De Angelis, Cosa sinìgnifica oggi essere di destra?, Pellegrini, pp. 228 € 15 

lunedì 28 agosto 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (336)

Giuseppe Leuzzi


C’è molto da lavorare sulla simbologia del toro nella Magna Grecia, e in particolare in Calabria. Su una prima colonizzazione micenea, forse solo commerciale. Su Leiris. Su Altamira e la tauropatia ispanica. Un veicolo di diffusione sicuro – per esempio per Metauros, tra Gioia Tauro e Palmi di oggi - era la pratica del ver sacrum. Era l’uso nelle tribù italiche che le nuove generazioni si costituissero altrove una loro terra. E l’emigrazione si faceva all’insegna di un animale sacro. Per i Sanniti, da cui le giovani generazioni poi costituite in Lucani e Bretti si sono staccate, era il toro.

Una piantagione di marijuana di un paio di ettari viene trovata in Sardegna dai Cacciatori di Sardegna, reparto speciale dei Carabinieri. Non remota, sopra Olbia. Su un pianoro bene in vista. Irrigata con tubazioni lunghe otto chilometri. Non si vedeva? Ci vuole molta disattenzione per far arrivare i reparti speciali.

La depressione batte l’economia
Crotone, solitamente adibita a fare l’ultima in classifica nelle graduatorie del “Sole 24 Ore”, che si tratti di reddito, dei servizi, o di qualità della vita, ha la più alta concentrazione di potenza elettrica verde. 480 Mw di potenza idroelettrica. Tre centrali a biomasse, per complessivi 76,5 Mw.  Cento pale eoliche, per 300 Mw. Una centrale a turbogas per 800 Mw. Nessun’altra provincia o regione ha una potenza verde superiore a quella del crotonese, 1.666,5 Mw.
Il crotonese produce inoltre, senza inquinamento, in terra e in mare, 2,5 miliardi di mc l’anno di gas naturale, il 16 per cent del consumo italiano.
La disponibilità di energia è sempre stata considerata la fonte primaria dell’accumulazione e della produzione: della ricchezza. Un tempo nelle zone carbonifere, che furono all’origine della prima rivoluzione industriale, in Inghilterra – e un secolo dopo in Germania. Poi il petrolio, all’origine del miracolo americano. Poi il nucleare – ancora Usa, con Giappone e Francia.
La depressione del Sud è tale che nemmeno la disponibilità di energia può scuoterla? Una rivoluzione al rovescio, che sovverte ogni principio di economia, e la stessa storia economica.

La mafia nana negli affari
Si attraversa Gioia Tauro, che da tempo immemorabile non ha sindaco, ogni giunta comunale essendo regolarmente sciolta per infiltrazione mafiose, un sindaco arrestato, sempre per mafia, i due enormi centri commerciali sequestrati per mafia, come se si levitasse  sul denaro. Città commerciale per eccellenza, ventimila abitanti che pagano cinquantamila stipendi, tutti privati. Con lunghe code alle ore di punta come per un qualsiasi centro d’affari.
Un nome e un luogo che certamente illustrano Mandeville, il suo paradosso che i vizi privati diventano pubbliche virtù ovvero dei “furfanti onesti”. Il privato è perfino fastoso, esibito, anche bello. Il pubblico non c’è: non c’è l’ospedale, non ci sono marciapiedi, il piano regolatore se lo fanno i costruttori – con abbastanza senno bisogna dire – e lo sporchetto è ovunque, la noncuranza, la trasandatezza,  Ma non è possibile che questa enorme ricchezza, ancorché non dichiarata al fisco e non censita, sia di mafia. Non di una mafia centralizzata, come vogliono le Procure antimafia, né di una mafia diffusa: la mafia distrugge e non costruisce, accumula ma per nascondere e non per esibire. Non bisogna sopravvalutare le mafie.
O anche: moltiplicando gli affari si nanizza la mafia – gli invidiosi e i delinquenti sono ovunque.
Il sindaco carcerato è stato assolto, e ha chiesto i danni.

Milano
Berlusconi che fa di tutto per far perdere al suo schieramento senza di lui – inabilitato – l’elezione in Sicilia data per vinta non è solo un caso di perfidia. È una strategia molto milanese, abbattere la concorrenza. In Sicilia Berlsuconi manovra contro i suoi dopo il caso macroscopico di Roma - ma anche di Torino.

Guido Rossi, ex consigliere dell’Inter e avvocate d’affari dei Moratti, assegna lo scudetto 2006 all’Inter, da presidente pro tempore della Figc, dopo aver retrocesso la Juventus e stroncato il Milan. Conflitto d’interesse? No, Rossi ha agito quale giudice intemerato.
Altrove i giudici nelle sue condizioni si astengono, l’avvocato professore onorevole Rossi no, Milano è sempre nel suo buon diritto.

Il Moratti dell’Inter, uno dei fratelli della Saras, della quale Guido Rossi era avvocato d’affari, dello scudetto regalato naturalmente non sapeva nulla: “Lo sa che non ci siamo ma sentiti in quel periodo?” domanda ridendo. È ben l’onestà milanese, ipocrita ma scoperta: una sfida.

“A Milano lavori da Dio”, racconta uno spacciatore a Andrea Galli sul “Corriere della sera”, trafficante di cocaina (“io importo grandi quantitativi, per lo più di cocaina. Tratto anche l’erba ma i soldi li fai con la coca”): “È la città perfetta, perché tutto tace e corre sotterraneo”.

Eugenio Balzan, al cui nome gli eredi hanno intitolato la benemerita fondazione, fu per una vita il direttore amministrativo del “Corriere della sera”. Che così lo celebra: “Era puntiglioso, attento, potente. Sollevò Buzzati dall’incarico di cronista scaligero per avere sbagliato il nome di una ballerina di fila”. Applausi?

Montanelli aveva già celebrato Balzan “in casa” al giornale: “Lì si faceva cucinare da una tuttofare i suoi piatti preferiti, e lì dormiva in una stanza al piano interrato, contigua alla sala macchine il cui notturno ronzio gli faceva da sonnifero”. Magari non è vero, ma piace che sia così. Ma la sala macchine, che quando esisteva faceva un frastuono intollerabile, anche questa i milanesi idealizzano?
Strano che Balzan avesse una famiglia, o degli eredi.

La Lomellina, ora apprezzata seconda casa dei milanesi, un secolo fa, poco meno, trovava il suo unico elogio, un secolo dopo il francese Stendhal, nel romanzo di un calabrese, Francesco Perri, “I conquistatori”. Alle prime dieci pagine di questo romanzo dichiaratamente antifascista nel 1926, sulle lotte agrarie in Lomellina, le più violente con quelle di Ferrara e Rovigo, e sulla reazione squadrista.

Errori madornali di gestione e molto malaffare (strane spese, vendite e abbonamenti gonfiati), c’è ampia materia di scandalo al “Sole 24 Ore”. Ma tutto si riduce al direttore del giornale, come se fosse lui l’artefice del malaffare e non, probabilmente, la vittima. La Confindustria è coinvolta, il consiglio d’amministrazione, l’amministratore delegato eil direttore generale, ma solo il direttore del giornale si condanna. Perché si chiama – ed è – Napoletano. Milano si assolve.

Terremoti, “storia di 70 anni di sprechi”, titola il “Corriere della sera”, a partire da Caulonia nel 1947: “Dal dopoguerra a oggi sono stati spesi 245 miliardi di euro”. Con effetti tardivi e inadeguati, per la bassa qualità degli alloggi sostitutivi, i costi altissimi rispetto a quelli di mercato, i ritardi, le truffe. “Colpa di ritardi, sprechi di ogni tipo”, giudica il giornale, “infiltrazioni della criminalità”. Cioè del Sud. Bisognerà difendere la criminalità organizzata?

Che c’entra il Sud con le ricostruzioni, uno direbbe. Ma è così: mafie vuole dire Sud, e cosi si vorrebbe, nemmeno surrettiziamente, che i ritardi di Amatrice, dell’Emilia, dell’Aquila siano colpa del Sud. A chi giova? Probabilmente a nessuno, ma Milano  ragiona così.
Ragiona così anche il Sud: è il Sud milanesizzato?


Calabrian Free Corps – 2
(segue)
“I regolamenti del corpo specificarono nel 1809 che ogni soldato doveva ricevere ogni anno una giacca di panno blu ricamato, un giustacorpo blu, un paio di pantaloni di buona forte stoffa, un paio di ghette nere tre quarti, uno sciaccò di feltro e una bustina di panno blu con decorazioni in cuoio. L’uniforme doveva essere nello stile della fanteria leggera e dei fucilieri.
“Una stampa francese del 1813-1814 mostra quale può essere stata l’ultima uniforme del corpo, allora in servizio nel Sud-Est della Spagna: blu, inclusi i pantaloni, con guarnizioni gialle al collo e ai polsi.
“La prima uniforme del corpo fu probabilmente fatta in Sicilia, e viene riprodotta in una stampa italiana del 1809-1811. Aveva una giubba blu aperta, coi bordi gialli, con molti bottoni e  trecce sottili, un giustacorpo blu; un paio di pantaloni blu, e un berretto conico rotondo a visiera alta. Con una larga falda  rivolta all’insù sul lato sinistro. Questa era l’uniforme del reggimento quando partecipoò alla cattura di Santa Maura nelle Isole Ioniche, aprile 1810.
“Il 19 ottobre 1811 uniformi di tela e cappotti per 1.240 soldati di truppa e 100 sottufficiali furono spediti dall’Inghilterra alla Sicilia. L’uniforme consisteva di giubba, pantaloni, mezze ghette,  sciaccò con bande e piume, l’abbigliamento del 1812. C’erano anche 20 spalline dorate per i sergenti e 10 yarde di filo d’oro per i galloni.
“Una stampa Goddard pubblicata nel 1812 mostra un soldato semplice in quella che è stata a volte interpretata come una giacca blu-verde, ma che deve essere intesa blu, collo e polsi gialli, tre file di bottoni di peltro sul petto intrecciati in un’unica fila in fondo e rifinite con filo bianco, pantaloni bianchi, mezze ghette nere, sciaccò cilindrico nero, con banda di corno da caccia di ottone e piuma verde, moschetto con bandoliera nera e cinturone di ottone.
“Lo stile dell’uniforme può essere cambiato nel 1813. In un nota manoscritta alle sue schematiche  carte di uniformi a stampa, stampate nel 1814, Charles Hamilton Smith aggiunse il “Corpo Calabrese (così nell’originale, n.d.r.)”, “in giacca blu con  collo e polsi gialli, bottoni bianchi in due file sul petto, legati con nastro bianco, e pantaloni blu”.  Un’ispezione del maggio 1813 riporta che gli uomini indossavano vecchi pantaloni di “colori differenti, vale a dire blu, verde, etc., perché le nuove non erano state mandate”.
“Per i trombettieri, la spedizione del 1811 includeva  60 giubbe, consistenti in 80 yarde di tessuto verde (1,38 yarde per giubba), 66 yarde di tessuto verde (1,1 yarde per giubba, probabilmente per le finizioni), 276 dozzine di bottoni  (55 bottoni per giubba), sei gomitoli di lacci (presumibilmente 144 yarde di filo o cordone per gomitolo, dando 14.4 yarde di cordone per giubba), e un gomitolo (2,4 yarde per giubba) di cordoncino verde.
Stando alla stampa Goddard del 1812, gli ufficili indossavano giacche scarlatte con collo, polsini e risvolti gialli, tre file di bottoni dorati sul petto, legati da cordone dorato piatto, fascia cremisi, pantaloni bianchi, stivali neri, sciaccò cilindrico nero, con piccole bande dorate e piuma verde. La giacca scarlatta è molto inconsueta, e fu probabilmente infine cambiata per lo stesso colore degli uomini di truppa”.
(fine)

leuzzi@antiit.eu

Il male non viene dalle stelle

“Quando un’eclisse, di sole lo di luna, si verifica nel luogo dove abiti, se dominano le malefiche negli angoli e nei luoghi dei luminari, e inacciano mali alla regione ma non a te, cambierai regione”. Migrazioni di massa consigliava dunque Campanella per evitare l’eclisse? Il fenomeno non era ritenuto benefico, se Alessandro Magno, quando ne sperimentò una, pronto sacrificò un simulacro di re, perché il dio delle eclissi non se la prendesse con lui. Ma Campanella dice per dire, lui non ci crede, né alle malefiche né alle benefiche, inteso di stelle. Era un causeur, un discettatore. Sarebbe stao un ottimo ospite agl show Usa elettrizzati l’altra settimana da una parzialissima ma totale eclisse di sole.
Si parte da qui,“Come evitare il fato astrale”, delle comete oltre che delle eclissi, e delle congiunzioni astrali, per la questione astrologica. Una delle tante di cui l’irrequieto frate calabrese riuscì a essere protagonista. Anche se, in questo caso, a piede libero. I tre libelli della raccolta segnano l’intervento di Campanella nel revival romano dell’astrologia, attorno al papa Urbano VIII Barberini, negli anni 1620 – contemporanei di Galileo. Una vicenda complessa, purtroppo trascurata dalla grande storia, che Germana Ernst, specalista di filosofia del Rinascimento, esuma qui in dettaglio in un’ampia introduzione.
Campanella vi dispiega la sua cultura, molto vasta. Da umanista, per libros: con un’interminabile serie di riefrimenti, da Tolomeo a Pico, passando per le Scritture, i filosofi classici e i Padri della chiesa. Non è un credulone. Ma non si pone il problema della credulità, espone i pro e i contro, a base di chi ha ditto che. Interviene nel dibattito, per così dire, astrologico-politico sulla morte imminente del pontefice Urbano VIII Barberini, data per certa a causa di nefaste congiunzioni delle stelle. Una divinazione a cui il papa Barberini non era alieno – la cosa lo turbava. Campanella s’intromise nel dibattito col primo dei tre “opuscoli” della raccolta, “De siderali Fato vitando”, come evitare la morte per via stellare. Il papa si adontò, la curia peggio, e Campanella dovette difendersi, Da qui gli altri due opuscoli, un “Apologeticum”, chiedo scusa, e una “Disputa sulle bolle” dei pontefici Sisto V e Urbano VIII, contro gli astrologi.
Campanelal non prende posizione, né per gli uni né per gli altri. Solo esibisce la conoscenza delle fonti in materia, come per consigliare prudenza. Ma di passaggio non omette gli strali sulle materie di suo interesse. Che sono una: la redenzione degli infelici. Perché “il fato realizza i propri eventi mentre trapassa per tante cause e concause della sua serie, in modo che quanto Dio vuole o permette avviene”? Perché “i principi e coloro che sono vicini a Dio”, i soli che potrebbero sovvenire ai bisognosi e infelici, non lo fanno – “non lo sanno fare”: il frate si cvautela.  Mentre i sapienti, che lo saprebbero fare, non ne hanno  i mezzi.  E altri “lo possono e lo sanno ma non vogliono”. Con i rimedi per evitare il carcere, “l’ira del principe”, il veleno, e comunque la morte violenta, i ladri, e anche “per non cadere o perché non t cada addosso qualcosa”. Faceto, senza negarsi.  
Tommaso Campanella, Opuscoli astrologici, Bur, con testo latino a fronte, pp. 277 € 10

domenica 27 agosto 2017

Problemi di base storici - 353

spock

Santa Caterina da Siena, che tanto scrisse, non sapeva scrivere?

Alessandro Magno sacrificò un suo alter ego dopo un’eclisse di sole per scongiurarne l’ira? 

L’innamorata di Orlando si chiamava Alda?

Trump ci è o ci fa?

Renzi allora è di sinistra, della Dc?


E Berlusconi, sopravviverà a se stesso?

spock@antiit.eu

Il mal d’Africa degli italiani inutili

Addis Abeba cinquanta e poi quarant’anni fa, visti al loro club, club Juventus beneaugurale per una comunità ormai di sessanteni e più, gli italiani d’Etiopia, gli ex coloni dell’impero brevissimo, non vantavano niente, se non il mal d’Africa. Il più giovane tra loro, “Pino il sarto”, con atelier in pieno centro della città, a un primo piano, aveva provato e rientrare. Era andato dalla sorella a Roma, in un condominio al Tiburtino Terzo, e ne era scappato. Ad Addis Abeba aveva una casa propria col giardino, seppure in periferia, i suoi figli andavano alla scuola americana e al maneggio, col cavallo di proprietà. Solo tra i vecchi in attesa al club scrostato sorrideva il Tabbutaro, siciliano, un militante, era stato volontario nella guerre per l’impero, e non era cambiato. Un siciliano gigante: ex garzone di ebanista, non aveva fatto  in tempo a imparare il mestiere, la guerra lo chiamava. Fabbricava casse da morto, in siciliano tabbutu o tambutu, da cui il nome. “Non è un buon momento”, lamentava, “ si affittano le bare per i funerali”.  Il Tabbutaro aveva gli occhi neri cerchiati di nero, l’abito nero, i denti cariati, i pochi sopravvissuti. Il problema a Addis Abeba era economico e non morale, perché i russi e i colonnelli, che si erano presi il potere, non avevano chiuso i bordelli aperti dagli ameircani ma non spendevano più.
Hailé Selassié aveva protetto gli italiani d’Etiopia e la cooperazione con l’Italia. La centrale elettrica con le turbine italiane funzionava a pieno regime, silenziosa, abbastanza, e pulita. Mentre  lo zuccherificio regalato da Castro, enorme, gemeva come se stesse per abbattersi sfiancato, e forse si dava in vita solo per non deludere il visitatore. Si mangiava in terrazza la cucina del Sud che in Italia non c’era più, nel quartiere Piazza, che era il centro popolare, con aceto forte e ragù ristrettissimo.
C’erano ancora italiani a Addis Abeba, che erano stati coloni i pochi anni dell’impero, alcuni non se ne erano voluti andare, protetti dall’imperatroe. Ma senza più una funzione. Decine di migliaia, forse più di centomila, derano stati o si erano trasferiti in Africa Orientale nei tre brevi anni successivi alla proclamazione dell’impero. Illusi da Mussolini, che li invitava al “posto al sole” di nuovo conio. E dalla “missione di civiltà” - dopo la fatale “riapparizione dellimpero sui colli fatali di Roma” a oiazza Venezia. Italiani brava gente, al solito, ma sempre coloni.
Gli italiani residui ancora nel tardo dopoguerra si vedevano al Club Juventus, un edificio dalle alti pareti che li faceva piccoli. Ognuno conservava l’accento originario, romagnolo, siculo, veneto. Tifoso della Juventus era il romagnolo, che alla menzione dell’Ente Romagna d’Etiopia sorrideva vago – doveva aver rimosso il tentativo di trapiantare la Romagna tra gli ahmarà a tremila metri senza il mare, come altri Enti il Veneto tra i galla o la Puglia nell’Harrar. Nel dopoguerra protetti dal Negus che avevano volute morto, ma senza più una funzione: meccanici, falegnami, barbieri, sarti, esercitavano mestieri che gli africani potevano esercitare altrettanto bene – non propio bene, ma non male, come gli ex coloni: non c’erano poi mestieri effettivi tra i coloni rimasti.
È una storia che aspetta di essere ricostruita. Ertola, ricercatore della Sissco, la società degli storici contemporaneisti, già autore di un paio di saggi sui coloni del fascismo, in Eritrea e in Etiopia, mette una prima pietra. “Gli italiani che colonizzaronmo l’impero” è il sottotitolo.
L’imperialismo segue all’impero, lo disse Mussolini  ma è vero. E non gli sopravvive. L’impero di Mussolini è stato in Etiopia cattivissimo, ha usato le bombe incendiarie, i defolianti, il quadrillage poi fallito a Algeri, il concentramento dei maschi giovani in campi isolati. Anche se, come tutti gli imperi, si pretese di liberazione, dall’ignoranza, la fame, i soprusi dei ras, e l’illusione ha perdurato. Ma sempre più residuale: la miseria del colonialismo si vede dalla coda..

Emanuele Ertola, In terra d’Africa, Laterza, pp. 246 € 20