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venerdì 9 maggio 2008

I dieci vizi che distruggono la sinistra

Non si perde per otto o nove punti di distacco, significa che non si esiste, si sa: la sinistra non è uscita battuta dal voto, è uscita disintegrata. Non senza motivo. Si sa che il partito Democratico unico soggetto della sinistra ha rotto ogni assetto elettorale e politico, di futuro. Ma non si sa, non si dice, che la sinistra non aveva e non ha alcuna soluzione ai problemi del momento (reddito insufficiente, carovita, sicurezza, ambiente), mentre la destra ce l'ha. Per una serie di vizi vecchi e nuovi, che la sinistra non sembra voler rimuovere. E' bene considerarli.
Trionfalismo
C’è trionfalismo anche nella sconfitta per nove punti. Si discute – si” per modo di dire, ne discute solo “Il Riformista” - di assetti di partito e di correnti, per concludere che meglio di Veltroni non c’è nessuno, e di nient’altro. E di raddoppiare le medagliette di partito con i ministeri ombra. Mentre i Grandi Giornali Sostenitori già danno la colpa a Berlusconi, del malgoverno oltre che di tutti i suoi peccati (la lettura di oggi è un delirio).
Superficialità
Poteva andare peggio, poteva andare meglio. Se Bertinotti, se Veltroni, se i vescovi… Il solito cicaleccio, senza mai andare a fondo – al fondo.
La sinistra ha ancora la tassa sui conti correnti dell’infausto 1992, opera di una speculazione che la sinistra onora. Non è niente, uno-due euro al mese, un’elemosina al lavavetri, ma è un reminder costante della vergogna della sinistra. E la casa aperta alla voracità dei locali amministratori nel quadro del federalismo fiscale, gli eletti del popolo, i sindaci e i governatori, gli addicts dell’immagine. Esentandone le banche.
Ha il fisco perverso di Visco, che tassa i singoli, su ogni loro gesto, di cinque, dieci, cento euro, una tantum o al mese, e non tassa le banche, le speculazioni, gli immobiliaristi, e anzi facilita e elogia gli arricchimenti facili, di Soru, Colaninno e le altre razze.
E ha fatto campagna elettorale con milioni di cartelle pazze che giravano per Roma, nel linguaggio minaccioso degli esattori, e l’obbligo per mezza città, sempre del buon sindaco Veltroni, ma anche degli altri buoni sindaci di Toscana e d’Emilia, di rifarsi il catasto, pagando studi accreditati, con valore retroattivo di cinque anni per l’Ici, l’Irpef e ogni altra tassa! Con candidati imprenditori non imprenditori e il patrocinio degli speculatori. Con belle ragazze che, nel caso di quella di Roma, la Madia, sono già a 27 anni esemplari di sottogoverno. A differenza della Nierenstein, della Roccella, della Ermini, di Barbara Contini, gente che ha lavorato e non occupato posti. Con una campagna da piccolo partito d’opinione, sollecito della buona contabilità. Per cui si tassano i pensionati, il 40 per cento del reddito fisso, e non si consente ai lavoratori, il 60 per cento del reddito fisso, di arrivare comodi a fine mese.
Ideologismo
Al centralismo democratico a ai sistemi (ideologie) è subentrato il sistema del non sistema, non di parte, non pregiudizievole. Questo è il perno del pensiero veltroniano, e non si può dargli torto, è quanto di più moderno. Ma è troppo: è vacuo, e centralista. Ed è un’altra parola d’ordine, altrettanto massimalista e unica che quella precedente.
Nel giornalismo, nel settore pubblico (specie nell’insegnamento e nella sanità), e perfino nel settore privato, a lungo la parola d’ordine è stata il bisogno e non il merito. Con effetti devastanti: l’appiattimento delle retribuzioni e della qualità delle prestazioni, e il sindacalismo del non fare, fino all’assenteismo e al boicottaggio. Ora vale il merito, ma sempre senza saggezza. Bisogna incontrare i ras della destra per sentire parlare di salari insufficienti, di redditi insostenibili, di mutui da cofinanziare. Non si può andare per parole d’ordine, ma questo è sempre vero, e da avverare.
Centralismo
Per “partito del Capo” s’intende spregiativamente quello di Berlusconi. Mentre Berlusconi ha una struttura articolata e democratica. Politica: con la Lega, An e la Lega del Sud o Mpa. Territoriale: fa emergere esigenze e personaggi locali. Generazionale: basta confrontare le sue giovani ministre, ottime conoscitrici delle procedure, dei tempi, degli equilibri parlamentari con le capoliste inventate dal Pd, pallide figlie di famiglia, nient’affatto convinte del ruolo, e del tutto inesperte, anche di saggezza umana.
È il Pd che ha calato strutture di partito e candidature secondo gli equilibri del Capo o nazionali. L’esperienza diretta in Calabria, in Sicilia, e tra Versilia e Apuane ne ha mostrata chiara la natura e l’inavvertenza, già subito dopo le primarie del Capo. A Viareggio le liti suscitate da Roma hanno dato il comune alla destra, a Massa un candidato del Pd ribelle è andato al ballottaggio, e l’ha vinto contro il sindaco uscente candidato ufficiale del Partito.
Paternalismo
C’è un’ondata di revanscismo a favore dei cattolici nel Partito. Berlusconi, si dice, li ha maltrattati, ha fatto un governo di massoni e mangiapreti. Ha una politica antifamiliare. Ha un’antropologia distruttiva (antropofaga? eugenetista?). I leghisti Padre Pio dicono santo terrone....
Ma i cattolici non sono scemi. Basterebbe la sola riforma liberale dell’insegnamento che si prepara a soddisfarli per tutta la legislatura. Per non dire delle femministe di obbedienza cattolica che Berlusconi s’è portato in Parlamento. E comunque il cardinale Bagnasco si premunisce, invitando alla vigilanza e alla contro-informazione. I preti da tempo non fanno più affidamento sui vecchi Dc per tutelare i loro interessi. Perché di questo si tratta: i cattolici di cui il Pd si preoccupa sono i vecchi Dc. Che non stanno più a cuore a nessuno. Anche come signori delle tessere, i voti hanno residuali.
Narcisismo
C’è insofferenza a sinistra per i media (D’Alema, Prodi), e c’è connivenza. Da fuori l’abbraccio dei media è talmente palese da sembrare irreale. Può darsi che l’abbraccio dei signori del denaro al Pd sia disinteressato e convinto, che essi schierino i loro giornali per l’ideale. Ma il sostegno dell’opinione cosiddetta qualificata, dei grandi giornali, dei notiziari Rai, e dell’intrattenimento Rai che sempre più fa perno sulla informazione, è parte del problema. Per il compiacimento, che è un male e un rischio, l’autocelebrazione.
Sui primi sei mesi del Pd il trionfalismo è stato devastante, quando chiunque ne vivesse la realtà territoriale e sociale sapeva benissimo che il messaggio era diverso. Sui patrocini disinteressati bisogna comunque intendersi. I padroni dei giornali sono comunque affaristi. All’estremo opposto può persino darsi che i Grandi Giornali Fiancheggiatori facciano una politica di ricatto su Berlusconi per motivi che alla sinistra non interessano. Certo, non fanno un servizio al Pd, a parte l’adulazione. Quanto al "raiume", quando se ne farà la storia, della propaganda battente, ripetitiva, ossessionante dell'emittente pubblica, non se ne potrà non rilevarne il danno continuo: l'elettore di sinistra è costituzionalmente critico.
Virtuismo
Piace ai democratici ritenersi superiori, anzi i belli-e-buoni della società. Perpetuando l’equivoco della società civile inventata negli anni 1970 da Scalfari col partito Visentini, per delegittimare la politica a favore degli esperti. Ma pochi lo sono, esperti e civili, con idee comunque non buone – non c’è superiorità in politica. Spesso sono anzi i peggiori, chiunque frequenti i comizi di Grillo e Di Pietro ne torna costernato, quelli della Lega sono un areopago al confronto. O chi abbia anche fugace un contatto coi templi della lottizzazione, quale la Rai. Dove di trova normale e anzi giusto che il servizio politico del tg sia di diciassette veltroniani e otto casiniani.
L’antipolitica è una politica politicante, una politichicchia, dei furbi. E la politica delle buone intenzioni purtroppo è sterile. Se non sa cosa succede in Italia e nel mondo. Sono sterili le vestali dei girotondi. Quelle delle notti bianche. E quelle che non sanno cos’è il governo ombra ma gli piace lo stesso. Hanno sempre votato e comunque sempre voteranno democratico, ma non fanno opinione.
Aggressività
Chi è di sinistra è sempre, malgrado il buonismo di Veltroni, all’attacco. I giudici, i giornali,la società civile. In nome di che? Per fare la rivoluzione (cambiare l’Italia, prendere il potere, abbattere i corrotti e i prepotenti)? La prepotenza non paga in politica, non c’è bisogno di aver studi classici per saperlo.
Il caso del fisco online è esemplare di questa aggressività mal posta. La pubblicità dei dati del fisco non fa male a nessuno, e comunque è lecita, e anche doverosa. Reviglio li pubblicò venticinque anni fa per tre anni di seguito, anche se in forma cartacea. Ma Visco, e per lui Romano, li hanno buttati in rete all’ultimo giorno del governo, senza preavviso, a dispetto, brandendoli come un’arma.
Noismo
Il paese governato dai magistrati di prima pagina, dalle intercettazioni pubbliche e dagli avvisi di garanzia è immobilizzato. Senza che un passo avanti sia stato fatto nella legalità: le mafie, il malaffare e la corruzione imperversano anzi, secondo tutti gli indicatori, più di prima. Quando l’Italia era la sesta, o quinta, potenza economica mondiale. Ora l'Italia arranca, il peggio messo di tutti i paesi industriali, che sono una trentina. L'ultima Trimestrale di Padoa Schioppa non può fare a meno di registrarlo: "I salari reali sono fermi da alcuni anni a causa dello stallo della produttività". Cioè dell'innovazione, che vuole dire investimenti, e nel lungo periodo della formazione professionale e dell'istruzione. "I livelli dei salari reali sono inferiori a quelli degli altri paesi industrializzati", non può fare a meno di notare il ministro uscente dell'Economia: nel 2007 il salario netto risulta "inferiore del 15,9 per cento rispetto alla media" dei paesi industriali, del 34 per cento rispetto alla Germania. Ciò a causa del crollo della produttività, da una crescita media del 2,4 per cento negli ani 1885-1990 all'1,1 degli anni 1995-2000, a zero nel periodo 2001-2006. Nessuno più investe, non in Italia.
In vent’anni l’Italia è diventata il fanalino di coda dell’Europa. Per la cultura del no, della sinistra di sistema, dei magistrati, delle anime candide. Tutti hanno pro capite più autostrade, più ferrovie, più potenza elettrica in Europa dell’Italia. La Spagna, che trent’anni fa partiva da zero, alla morte di Franco, e ha una popolazione inferiore, ha più autostrade dell’Italia, più ferrovie moderne, e più metropolitane – tutte quelle italiane sono due terzi della sola Madrid, 230 km. contro 310 - e ha quest'anno un reddito pro capite superiore a quello italiano. La durata degli appalti è in Italia due volte e mezza la media europea, per i grandi e i piccoli lavori. Si fa scempio liberamente della grandi città, costruendo massicciamente e senza criterio, delle città medie e piccole, e dei patrimoni dell’umanità.
Conformismo
La buona coscienza copre, con la corruzione, l’inettitudine. L’appartenenza basta e avanza, per una militanza che per il resto è ignavia e conformismo. Si ride a imitazioni di Berlusconi che farebbero solo piangere. Si combattono battaglie contro remote condanne a morte, e per l’espulsione in massa dei “rumeni”. Si pratica ferocissima la difesa dei diritti, compresa la lottizzazione esclusiva. Sdraiati sulla soglia di Bruxelles, senza nemmeno il coraggio di dirsi socialisti. In un’Europa senza identità, suicida nelle politiche agricole, all’estero succube degli Usa, monopolista e discriminatrice nelle politiche industriali, maltusiana nella politica monetaria, cieca all’immigrazione. L’europeismo, quando è vuoto, è come sgravarsi al casino.

L'amico Google è un avvocaticchio

Geniale e gratuito: se c’è un Nobel dei motori di ricerca, Google è il primissimo della lista, non si saprebbe individuare azienda più generosa. E amichevole: tutto in dettaglio, il navigatore conduce per mano, dove e come alzare il piede, come articolare la caviglia, la pianta, l'alluce, come poggiarlo, e se sulla punta dove, sul tallone dove, o sulla pianta. Ma per andare dove?
Il motore di ricerca e il provider più amato, infinitamente utile e tutto gratuito, corrisponde alla sua immagine sorridente. Un amico, come si vuole, solidale: ogni dubbio o accidente, ancorché triviali, cataloga e si preoccupa di risolvere. E sempre ti fa un pensierino, un nonnulla, con molta grazia. Ma poi troppo amichevole, a volte asfissiante, con le sue novità e le sue prevenienze. Una volta dentro la sua graziosità è un gioco dell’oca che può sfiancare - la sola cosa che si può dire è che se Windows è arcigno, gioca scoperto, Google ti vuole anche amico.
Google non risolve il problema, indica tutti i modi in cui lo si può risolvere. Una serie minuziosa di passi, che conducono alla soluzione una volta su dieci, o su cento: se l’avete seguita nel dettaglio e senza distrazioni, se non avete sbagliato una virgola, se avete memorizzato, o stampato, o comunque ricordate, le seriali avvertenze. Soave, a ogni passo Google domanda se ha funzionato e come può migliorarsi, ma inevitabilmente porta in nessun posto, in nove casi su dieci, o novantanove su cento. Creando una sindrome del labirinto, che si ripercuote traumaticamente su tutto il resto della navigazione, anche per più giorni.
Bisogna in qualche modo memorizzare un’infinità di procedure, per recuperare o mutare la password, recuperare il nickname se ve l’hanno sottratto (impossibile), ottenere la pubblicità, incassarne i proventi. Al termine dell’itinerario, consiglio supremo, c’è la chat. Un gruppo di lavoro che, per quanto Google si sforzi di snellire e flessibilizzare, è sempre un’assemblea delle incompetenze. Ognuno ha la soluzione definitiva, naturalmente, che è un po’ come l’arma di Hitler, e mai risolve un problema concreto, il vostro. Mentre invece una risposta diretta di Google lo fa, è sempre precisa e adeguata.
E' il problema della rete, la democrazia. L'arte meccanica più complessa, e arte anche estetica, arte cinetica, informale, comportamentale, concettuale, e pure concreta, l'informatica, si vuole autogestita e quindi autodidatta. Col rischio concreto cioè d'imbarbarirsi, l'autodidatta non fa progredire la scienza, e neppure la democrazia, è reperto alluvionale. E' così che il fai da te impera, il circuito delle faq sterminato, le frequently asked questions, dei forum, delle chat. Per un mondo che inevitabilmente resta destinato al dilettantismo e all'inconcludenza, buono per i perditempo, chi sa ha altro con cui occupare il tempo.
È un mondo nascente, questo dell’informatica, in evoluzione rapida, nel quale Google sarà ricordato quale azienda molto grande, e pure molto innovatrice, redditizia, e insieme generosa. Ma anche confusionaria, nel nome della democrazia. Uno di quegli esempi di democrazia falsata dalla generosità, dalla offerta eccedentaria, mentre si vorrebbe regolata. Google ha molti meriti in questo senso, di regolazione della democrazia nelle rete, dosando il gratuito e l'oneroso, dosando l'onerosità, regolando e controllando gli accessi, per contenuti, responsabilità, finalità, è abile a scoprire anche quelle malevoli surrettizie. I controlli sono sempre necessari, una democrazia non regge all'anarchia. E a volte pagare è anch’esso uno strumento di saggia democrazia, di risparmio e miglior uso delle risorse invece che del loro spreco, di tempo e di energie nervose. Ma un'arte strumentale che diventa finale, fine a se stessa, non è di nessun uso, e quindi per niente democratica.
Irenica ferocia
È anche la procedura americana, che i servizi sovraccarica di preclusioni legali. Da avvocaticchi, un tempo si diceva azzeccagarbugli: per risolvere eventuali contenziosi e insomma darvi sempre torto, non per far funzionare le cose. Se siete correntisti di Google sottostate a centinaia, se non sono migliaia, di lunghi, ripetitivi, incomprensibili regolamenti diversi - come se la "Gazzetta Ufficiale" che fonda lo Stato italiano, così illeggibile, avesse fatto proseliti. E riceverete spesso lettere o istruzioni di pagine cui non potrete obbiettare, o altrimenti con una riga e mezza, ma giusto per vostra consolazione.
Bello fuori, oscuro dentro direbbe la pubblicità di Del Piero. Lo stesso che con Google avviene con e-Bay o Amazon, dove capita che al termine di dieci steps e venti cartelle di lettura attenta ricorra in breve l’avvertenza che il servizio è limitato ai residenti americani. La procedura è il sacre della democrazia americana, contro anche la common rule e il common sense. Non è inglese, è proprio americana. Ed è leguleia, più che pratica e commerciale. Non è mirata a semplificare l’uso dell’oggetto o del sotfware. Non è mirata a ridurre il costo complessivo del bene, comprensivo della consegna, dell’installazione, dell’uso. È mirata unicamente a costruire una trincea di parole attorno al venditore, una barricata contro il temuto avvocato a percentuale, il contingency lawyer che promuove azioni a tutto spiano, senza spese per il cliente, fidando nei danni e nelle assicurazioni – è chiaro che la democrazia americana è al di sopra della società
In macchina uno si siede, fa le cinque o dieci cose che deve fare, sempre le stesse, e va. Su Internet è diverso: la macchina qui sembra capricciosa, e a ogni istante vi pone un problema. Il che non è vero, una macchina è una macchina, fatta per essere duttile e servizievole. Ma Internet è un processo e un mondo. Magari simpatico, ma remoto, di qualche posto della West Coast che si vuole a parte: chiuso e segreto. Ed è un mondo americano. Sono americani i server, il linguaggio, e le procedure informative, dove il fattore cautela prevale sulla comunicazione semplice. Non si dice: fai questo o quello. Sarebbe un caso perdente in tribunale in caso di malfunzionamento. La realtà è fatta in America dai tribunali, che ovviamente l’accertano in base alle procedure, e dunque l’informazione è anch’essa materia non di comunicazione ma di procedure. Google è in questo caso esemplare dell’imbambolamento dell’opinione americana, corretta, irenica, democratica, e feroce.
La ferocia irenica sarà un connotato della nuova civiltà, elettronica. Così aperta, così buona, e così privata, privatissima - non a caso Google è il soggetto di Borsa meglio performante, in due anni ha prodotto più plusvalenza che la General Motors in cento. Monopolistica con Windows, e ora pure con Google. E con le loro guerricciole reciproche.
Google, infinitamente buono, fa anche campagna contro la disonestà. Offre ai suoi publisher, agli infiniti blogger che fanno uso dei suoi spazi e modelli gratuiti, dopo averli inodati di annunci pubblicitari (ogni messaggio ricevuto alla posta è corrdato degli annunci di mezzo giornale), un programma di redditizie inserzioni pubblicitarie. Con questa riserva: "I clic sugli annunci Google devono essere originati da un effettivo interesse degli utenti e qualsiasi metodo che li generi artificialmente è severamente proibito". Argomento inoppugnabile, che bisognerebbe estendere ai magazine che compriamo dal giornalaio gonfi di pubblicità: siccome li sfogliamo senza interesse, gli inserzionisti non paghino i settimanali che se ne adornano. Con questo argomento, Google dichiara non validi tre quarti dei clic. Il quarto quarto non lo paga, a vario titolo ma sempre per colpa vostra, gli infiniti regolamenti sono chiari, e così ci ha costruito sopra dal primo momento un business ricchissimo, miracolo della rete - duecento dollari (il primo pagamento, che vi verrà rifiutato, è di $ 100 + 99) per un milione di blogger-publisher fa duecento milioni di dollari, per dieci milioni di blogger fa due miliardi.
I pescecani si dividono in due tipi: queli che azzannano, e quelli dell'acquario, che ai bambini sembra che sorridano. Il primo tipo vi strappa subito di mano duecento dollari per consentirvi di scrivere. Il secondo vi attira col sorriso della pubblicità. Google ha realizzato il miraggio delle agenzie di media, occupare tutti gli spazi possibili senza sborsare un euro, incamerandosi tutto l'investimento. Sempre con infinita cortesia e bontà. Duecento dollari (il primo pagamento che vi verrà rifiutato è $ 100 + 99) per un milione di blogger-publisher fanno duecento milioni di dollari, per dieci milioni di blogger fanno due miliardi, non tutti in un colpo naturalmente. Senza contare che, per quanto poco vi consideriate, il pesce amicevole resta in possesso del vostro profilo finanziario, codice fiscale, iban, carte di credito, conto corrente, transazioni commmerciali in rete.
Il tutto converge alla sensazione, ormai confermata ufficialmente, di essere osservato, nei clic sulla pubblicità come sul sito, allo stesso modo che nella posta e nelle ricerche. La bontà si estende alla vigilanza, sempre di Google, che non se ne vanta ma ha un occhio onnipresente. In grado di recepire ogni palpito, una volta che uno è entrato nella sua macchina, con chi parlate, che siti consultate, di cosa prevalentemete vi dilettate. Il miracolo di Google è questo. La drittata è ormai stata ben spiegata, di fornire graziosamente caselle di posta versatili e capacissime, costituendosi un indirizzario mondiale delle classi affluenti. Di cui Google seleziona al contempo con precisione i gusti e le abitudini con indagini di mercato aggiornate al minuto, sempre a costo zero. Una manna per gli investitori pubblicitari, e per Google, che gli investimenti incassa a costo zero. Sempre spiegata da regolamentoni della privacy, firmati, cotrofirmati, inappuntabili, inattaccabili.
Google non vi mette sotto giudizio ma sa tutto di voi. E anche quando ne siete fuori, la sensibilità di Google è tale che ogni respiro della vostra macchina, del computer, non gli sfugge. Proprio un amico stretto, quello che in certi momenti è asfissiante. E potrebbe un giorno rivoltarsi contro? Con gli amici succede, con Google certo è materia di fantascienza, che è un cervello algoritmico.

giovedì 8 maggio 2008

Non si perde per nove punti, non si vince con Casini

Perdere Roma ci sta, Roma è una città di destra che solo per l’intelligenza di Goffredo Bettini ha votato a sinistra: la prima volta col “modello Roma” o della Banca di Roma, la seconda con la lista di Alessandra Borghese, la terza col ciclone Veltroni. Ma perdere anche Roma per otto o nove punti di differenza, questa è una catastrofe. Non c’è altra democrazia dove un’elezione abbia mai avuto uno scarto di nove punti tra vincitori e vinti. Forse solo in America dopo la guerra civile, quando i Whigs si squagliarono lasciando il campo ai Democratici. Le leggi elettorali possono ampliare i risultati del voto, in Inghilterra con l’uninominale, in Francia col maggioritario, ma in regime proporzionale no.
Ci s’interroga perché Roma ha votato Alemanno. E perché avrebbe dovuto votare Rutelli? Si vota anche alla cieca, per la discontinuità, per la disperazione. Dice: ma Rutelli era stato un buon sindaco. Forse. Ma oggi è frusto. Era Bettini il candidato giusto, non più l’eterno ragazzo - ex - bello e magro. O un borgataro intelligente, magari, Roma centro ha pochi abitanti.
Ci sono però alcuni fatti, tecnici, alla base della sconfitta. Uno è che si perde,è matematico, senza la “nuova” sinistra, i vari comunisti, i verdi, i socialisti, i radicali. Si vince solo dove dei due candidati della sinistra, il democratico e l’alternativo, va al ballottaggio l’alternativo: i democratici lo voteranno (il caso tipico è Nichi Vendola, che così ha strappato una regione di destra alla destra, ma succede anche nelle zone compagne, ad Arezzo, a Massa, a Carrara, al Forte dei Mammi), mentre gi alternativi non voteranno il democratico (Roma. Non si vince con Casini, perché non conta nulla: per tutti i partiti il decentramento porta alla ribalta i capi voto locali, per l'Udc però in modo speciale. Quando i suoi elettori non si fanno ognuno il suo partito: si rafforza con Raffaele Lombardo il bouquet degli anti-Casini fuori dall’Udc, suoi coetanei che gareggiano con lui con i propri fedelissimi, da Mastella a Formigoni.
Si perde peraltro con la(sola) politica dell’immagine – Berlusconi non vince per l’immagine, che ha pessima. Queste sono in realtà le elezioni perdute di Veltroni. Che non si poteva legalmente candidare, ma è come se: la sconfitta della politica della sua immagine, di una politica unicamente intesa al suo personale build-up. Della carica usata per costruire l’immagine del politico, nel disinteresse totale per l’amministrazione. Nell’assentesismo degli impiegati, record in Italia, quasi il 40 per cento, nelle buche per la strada, nelle cartelle pazze, un milione, due milioni, Mentre il sindaco solo si occupava ogni giorno di uscire sul giornale – un giorno è arrivato a dotare un’orfanella… Come un qualsiasi cacicco del Terzo mondo.

L'irrilevanza dei giornali

Più che di Rutelli, e di chi lo ha candidato, il successo di Alemanno è la sconfitta dei media, l’irrilevanza dei media. Si dice, si diceva, che Berlusconi vince perché ha le televisioni. In realtà è un comunicatore mediocre. E le sue televisioni non gli danno più spazio che a Prodi o Veltroni. Soprattutto, le sue televisioni non insidiano i suoi avversari come la Rai e la 7 fanno, anche in par condicio, checché ne dica l’Osservatorio di Pavia, con gli spettacoli, il cabaret, i momenti comici ai talk show, i vignettisti, eccetera, i quali un solo soggetto hanno, Berlusconi. E con la Rai i cinque maggiori quotidiani. Esemplare è il build-up che i grandi giornali stanno facendo di Alemanno, che al meglio sembra essere un giovanotto cresciuto, nel frenetico tentativo di smantellarlo prima del tempo: il nuovo sindaco ne esce come uno statista – se non è Dio, dato che lo danno in ogni luogo.
In meno di dieci giorni il neo sindaco ha spostato l’Ara Pacis, e l’ha rimessa al suo posto, ha spostato i campi rom, avviato la costruzione di due stadi, uno per la Roma e uno per la Lazio, bloccato l’accesso a Roma di George Clooney, e forse pure di Di Caprio, ha nominato assessori dei parlamentari, e li ha disnominati, ha invitato a Roma il nuovo sindaco di Londra, mussoliniano, ha chiuso il Festival del cinema, l’ha riaperto, e l’ha affidato a Pasquale Squitieri, che ha invitato molti registi italiani, i quali si sono rifiutati, è andato dal papa e dal rabbino, e dall’imam (o ci andrà dopo?), ha celebrato i templari a Ocre, che solo tra andata e ritorno gli prende quattro ore, ha celebrato la Liberazione e i martiri delle Fosse Ardeatine, e ha inalberato la bandiera d’Israele. Ma stamattina sta ancora, prudentemente, cercando gli assessori.
In altra epoca si sarebbero detti dei provocatori, più che dei giornali.

domenica 4 maggio 2008

Irène e la tribù ebraica

Parigi ha tenuto a marzo la sua fiera del libro dedicata agli scrittori israeliani senza ricatti e senza invasioni, né di centri sociali né di palestinesi e islamici, e neppure di antisemiti, che pure in Francia sono tutti più consistenti che in Italia. Mentre in Italia il mite Vattimo può dire fascista Fiamma Nierenstein, figlia di Alberto, in absentia, nel salotto di Gad Lerner, in polemica con la fiera del libro di Torino che sarà dedicata anch’essa agli scrittori israeliani. E il presidente Napolitano dovrà inaugurare la fiera in privato, per motivi di ordine pubblico.
Ma il tema dell’antisemitismo riemerge all’interno della stessa cultura ebraica, in termini ancora interessanti. La coincidenza delle fiere del libro di Parigi e Torino con la polemica aperta dai primi biografi, dal “Guardian” e da “New Republic” sull’antisemitismo di Irène Némirovsky, la scrittrice recuperata come un classico dopo il successo di “Suite francese”, sessant’anni dopo la sua morte ad Auschwitz, propone considerazioni non scontate sul ruolo degli scrittori ebrei di fronte all’ebraismo.
La tribù
Su “Le Magazine Littéraire” Alain Finkielkraut esclude che si possa parlare di letteratura ebraica fuori di Israele, in una lingua che non sia l’ebraico. Finkielkraut nega “una scuola ebraica in letteratura”. Ma, facendo una panoramica degli scrittori ebrei d’America e di Francia, rileva delle continuità caratteristiche, pur nella diversità di origini e interessi. Gli scrittori ebrei nelle letterature francese, mitteleuropee, americane e inglese sono fortemente identitari. Nei personaggi, le tematiche, le filosofie di vita, e nel linguaggio. Prevalentemente negli storioni familiari. “Esiste tutta una scuola di scrittori ebrei americani che passano il tempo a maledire il padre, odiare la madre, torcersi le mani e chiedersi perché sono nati”, dice Leon Uris, lui stesso scrittore americano ebreo. Anche a riverire il padre, bisogna dire, e amare la madre.
Il problema dell’identità è che esso si complica con la ricerca dell’identità, della sua definizione e del reperimento di essa. Come di ogni altro concetto e, Heisenberg avrebbe detto, ogni entità, aggravato però da una speciale sensibilità: dall’esclusione che la ricerca dell’identità presuppone e rafforza, sia pure sotto la forma dell'autoesclusione. Ma un parallelo tra Styron e Bellow, tra Kerouac e Philip Roth prospetta una distinta comunità d’interessi e linguaggio all’interno della nazione. L’assimilazione – la lingua comune - non copre il vissuto, anche in assenza del fattore religioso. C’è anzi in quelle letterature una proclamata volontà di identificazione comunitaria, dopo la Shoah e la nascita di Israele. Per il bulk di questa produzione letteraria, quella originata dall’Europa centro-orientale, la lingua d’adozione, che non è l’ebraico e non è più l’yiddish, è veicolo prominente di assimilazione, ancorché essa sia in principio rifiutata. E tuttavia la diversità viene ugualmente affermata.
L’ebreo scrive dell’ebreo, come ognuno scrive di sé. Anche se c’è qualcosa di angusto ultimamente nello storione familiare ebraico, di obbligato, sotto la cappa dell’Olocausto e della Colpa, ferite sempre aperte. Almeno nell’ebraismo europeo: l’Olocausto ha appiattito la narrazione degli ebrei, il loro vissuto dunque, in modo anche drammatico, il revisionismo che in nome dell’Olocausto impongono Israele, da qualche anno, e la mancata liberazione (storicizzazione) della Colpa. Obbligo che non c'è nella narrativa ebraica in Israele, che resiste. E non c’è stato, per dire, in Italia: l’esibita diversità confessionale o tribale – oggi si dice nazionale o comunitaria - non c’è nella letteratura italiana, per fare una comparazione utile, anche nei casi in cui la forza delle cose l’avrebbe imposta, Primo Levi, Bassani, Natalia Ginzburg, Lia Levi, Saba. In cui Alessandro Piperno si segnala come eccezione (anche come ironia e parodia). C’è insomma una diversa condizione per la stessa tribù, in rapporto alla situazione esteriore nella quale si trova, e ai suoi segreti umori interni, la tribù sarà pure una condizione esistenziale ma è si determina nella storia.
Oggi queste realtà nazionali sono rovesciate. Una presenza pacifica altrove, seppure orgogliosamente diversa, viene negata in Italia. E' inevitabile, a tratti. Per il proselitismo che include, il cristianesimo in tutte le sue articolazioni, mentre la monogeneticità religiosa esclude, è il caso dell'ebraismo ritrovato. Ma l’ebraismo è tradizione più che religione. Oggi è senz’altro il sionismo israeliano. Che può essere riduttivo. A patto che non sia contrastato dal vizio passionale (ideologico, di schieramento) che ancora agita l’Italia, spacciandosi per politica.
L’odio di sé
Le accuse di antisemitismo contro Irène Némirovsky, prevenute magistralmente da Myriam Anissimov, la biografa di Primo Levi, nella nota a “Suite francese”, e tuttavia endemiche, si sono riattizzate con la riedizione di “David Golder” in inglese , e la preparazione di una mostra sulla scrittrice a settembre al Museum of Jewish Heritage di New York. Progetto che il Museo porta comunque avanti, con l'intento di celebrare “l’importante storia della vita di Irène Némirovsky, la sua lotta in quanto ebrea russa emigrata in Francia durante l’occupazione nazista, la sua esperienza come scrittrice e come madre, e la sua riconosciuta eredità letteraria”. L’accusa è insostenibile – non c'è accusa possibile di antisemitismo a carico di un ebreo. Ma presenta altri motivi d’interesse, l’antisemitismo è insidioso.
Il “Guardian” ha aperto la polemica a febbraio del 2007, con la presentazione del “Golder”. Alla recensione positiva di Carmen Callil sono seguite un paio di lettere di protesta e un lungo articolo di Stuart Jeffries, “Verità, bugie e antisemitismo”. Centrato sull’omissione, nella traduzione inglese di “Suite francese” di un paragrafo della nota di Myriam Anissimov, quello che comincia (p.404 dell’edizione italiana): “Quanto disprezzo di sé si può scoprire sotto la sua penna!”.
Un anno dopo, tra fine gennaio e fine marzo, “The New Republic” ha rilanciato con asprezza la polemica. Quando uscì “David Golder”, nel 1929, scrive Ruth Franklin, editorialista del settimanale, “il fascismo europeo era ben odioso e abbastanza minaccioso”. La giornalista accusa l’autrice di “trafficare nei più sordidi stereotipi antisemiti”, e la dice “la vera definizione dell’ebreo che si odia”, che parlava male degli ebrei per accattivarsi i direttori dei giornali di destra per i quali scriveva, e che scrisse addirittura al maresciallo Pétain per evitare la deportazione. Una che collaborava col settimanale di destra “Gringoire”, xenofobo, e a Parigi era amica di Jacques Chardonne, scrittore cattolico, autore di “L’amour du prochain”, sulla pace tra la Francia e la Germania (che Mitterrand però amerà), e Paul Morand, “la cui moglie fu in amicizia con la moglie dell’ambasciatore tedesco durante l’occupazione”. E ancora: “Gringoire” nel 1938 pagò a Irène Némirovsky 64 mila franchi, pari a 23 mila dollari. Una lunga filippica, in testa alla quale il settimanale fotografa la scrittrice non col naso adunco, poiché non ce l’aveva, ma lo stesso sgradevole. E a conclusione della quale, commentando la deportazione e la morte di Irène a Auschwitz, l’accusatrice scrive: “In un’ironia che potrebbe essere venuta direttamente dalla sua narrativa, Némirovsky sarebbe morta sola in un paese dell’Est, lontana dalla famiglia, lasciandosi dietro una fortuna in manoscritti – così adempiendo fino alla fine all’incomprensibile destino di ogni buon ebreo su questa terra”. Non è tutto, Franklin ha perso una battuta: “David Golder” diventò un film, fu il primo film parlato francese, per ciò stesso di grande successo, e per ciò steso fomentò l’antisemitismo – la colpa fu tripla.
Due mesi dopo il giornale dà la parola alla traduttrice inglese, Sandra Smith, alla sua editrice in America, Lexy Bloom, di Vintage Books, e agli autori della secondo biografia della scrittrice, pubblicata otto mesi fa in Francia, Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt. Sandra Smith, che si dice essa stessa ebrea, difende la scrittrice spiegando che la conversione fu solo opportunismo, e che la famiglia di Irène “si sentiva ebrea ed era orgogliosa della sua tradizione”. I biografi spiegano l’ovvio: Irène non ebbe un’educazione ebraica, non parlava nemmeno l’yiddisch, e non andava in sinagoga (ci andò per il matrimonio per compiacere il marito e i di lui parenti), ma era e si sentiva ebrea, nel senso di Sartre: “Qualcuno che gli altri considerano un ebreo”. Le accuse di Franklin gliele aveva già mosse Nina Gourfinkel, della “Nouvelle Revue Juive”, nel 1930, alla quale la scrittrice così rispose: “Dicono che sono antisemita? È assurdo. Sono io stessa un’ebrea e lo dico a chiunque voglia ascoltarmi!”. Le caricature di ebrei ci sono anche in Singer, Aleichem, Shalom Asch, perfino nell’ “Ultimo dei giusti” dell’uomo giusto Schwarz-Bart (e in Heine, perché no, e nei tanti ebrei austriaci, o in Albert Cohen, atrocissima).
Franklin si basa, oltre che sulla lettura del “Golder”, sulla biografia della scrittrice pubblicata nel 2006 da Jonathan Weiss, “immensamente chiarificatrice”, “importante e prodigiosamente indagata”. Che invece secondo i successivi biografi francesi ha parecchi buchi. Il professdor Weiss si è tenuto fuori dalla polemica su "New Republic". Nel 2007, sollecitato dal “Guardian”, non si era sbilanciato: “Credo sia giusto dire che si era alienata dalle sue radici ebraiche, ma dirla una che si odia è troppo”. Ruth Franklin si spiega il rinnovato interesse per Némirovsky col fatto che “Suite francese” non si occupa di personaggi ebraici. Aggiungendo un altro svarione: solo dal 1939 in poi la scrittrice evitò di dare materia all’antisemtisimo. No, “I cani e i lupi” è del 1940 ed è una storia ebraica. Piena di ebrei dal naso adunco, ossessionati dal denaro, fraudolenti. Con due eroi ebrei belli, pieni dell'idea di bello, ma incapaci di felicità.
Un Dio del futuro
Lo scandalo non è nuovo. La biografia di Philipponnat e Lienhardt è noiosa ma in proposito chiara. La questione posta da Ruth Franklin non è pretestuosa, seppure non nel senso da lei sollevato. Némirovsky divenne scrittrice riconosciuta e affermata in Francia col suo secondo romanzo, che è appunto "David Golder". In grazia esattamente dell'antisemitismo, che fece scandalo, pur nell’antibolscevismo antisemita dell’epoca. Tuttavia, ricordano i biografi, la scrittrice ancora ignota si meritò le recensioni di due critici molto autorevoli, Benjamin Crémiux e André Maurois, per “la profondità morale”. I quali, aggiungono, anch’essi erano ebrei. Lo stesso “The Nation” nel 1931 aveva dato conto del successo in Francia del “Golder” in termini lusinghieri. Con la figlia Denise, che cura la memoria della madre, Philipponnat e Lienhardt dicono la novella “una variante dell’Ecclesiaste nel campo della grande finanza”. E spesso ripetono che “la derisione era più forte di lei”, anche l’autoderisione. Avrebbero potuto concludere che l’autrice Némirovsky è “vittima” della sua resurrezione, con la dolente “Suite francese”, lei era stata tutt’altro. Era una giovane molto russa, anche se ignorante della lingua e della cultura russa, viziata in famiglia, nelle amicizie, nella vita sociale, fino al matrimonio e anche dopo, autodidatta vorace, che l’ebraismo vedeva nella forma della miseria – del ghetto, della shtètl – e se ne spaventava. Non diversamente l’atterriva la madre vogliosa di vita e di amanti, di un egoismo e un’avarizia inimmaginabili.
Il “Golder”, di cui, ricordano i biografi, “critici infastiditi accolsero freddamente le caricature”, è anzi il problema attorno al quale girano Philipponat e Lienhardt, che hanno lavorato in stretto contatto con Denise Epstein, la figlia d’Irène ancora vivente, e sulla documentazione in suo possesso. Per un paio di fatti storici che bisognerebbe riscoprire. Il primo concerne gli anni 1920 e, ora che il sovietismo è svanito, si può dire: l’acuta sindrome antibolscevica in Francia dopo la rivoluzione (ma anche in Germania, in Inghilterra, in Germania), diffusissima, persistente. Che ai bolscevichi accomunava gli ebrei, ritenuti gi artefici e gli animatori della rivoluzione: di ogni personaggio del bolscevismo, Lenin incluso, si trovavano nomi e passati ebraici. Di questa sindrome era tanto più infetti i russi emigrati. E tra essi anche gli ebrei. Una sindrome persistente anche negli anni 1930, sebbene contrastata dalla grande inventiva del Comintern, dell’apparato propagandistico di Willi Münzeberg.
“Fantasio”, il periodico satirico cui Irène si rivolse per pubblicare i racconti, i suoi primi abbozzi, di “Nonoche”, la ragazza sventata a metà tra Chéri e Zazie, era specializzato nell’antibolscevismo, con corteo di maschere antisemite. Le quali in Némirovsky sono anche calchi dei fratelli Tharaud, scrittori ora dimenticati che lei privilegiava quali esponenti dello “spirito francese”, o delle “buffonerie” allora in voga di Paul Morand, “Lewis e Irene”, e “Je brûle Moscou”. Sul tema, come lo sintetizzò Albert Londres, lo scrittore di viaggi, che pure era progressista, dell’invasione degli ebrei, o meglio degli Orientali, il Siberiano, il Mongolo, l’Armeno, l’Asiatico, e l’Ebreo, cacciati dalla rivoluzione, un po’ puzzolenti, e inassimilabili.
In subordine, un’argomentazione dei biografi più sottile, meno evidente di questa, ma non meno vera: i russi ebrei emigrati, specie quelli ricchi (ma non solo: Bove, Legrand, Ela Triolet…), come del resto molti russi poveri non ebrei, Berberova e molti altri, s’identificavano immediatamente con la Francia, e la Francia non discriminava l’“ebreo francese”. Per scrivere il “Golder”, Irène Némirovsky si è molto documentata, i biografi sono anche troppo precisi su questo, sui contratti di Borsa, il mercato del petrolio, i traffici finanziari col regime bolscevico. Ma anche, volendo delineare dei personaggi ebrei, sulle abitudini religiose e alimentari ebraiche, e sul quartiere allora ebraico del Marais a Parigi. Come una qualsiasi anatomista, cresciuta per caso in una famiglia di ebrei, sposi ed ebrei peraltro per caso.
Frequenti erano peraltro allora nelle cronache le vicende spesso molto avventuristiche di uomini d’affari ebrei. Il padrone della Shell Henry Deterding, su cui David Golder è modellato, ben più che sul proprio padre di Irène. Il banchiere belga Alfred Loewenstein, stella di Biarritz negli anni in cui la giovane Irène vi folleggiava con la non amata mamma: partito da Londra sul suo Fokker, Loewenstein non vi si trovò più all’atterraggio a Bruxelles – Golder scomparirà anche lui, ma durante un traversata in mare, come poi scomparirà, negli anni 1980, il magnate britannico Maxwell.
Il secondo fatto storico che si trascura, e i biografi invece tratteggiano, è l’antiparlamentarismo – forme variegate di fascismo – diffuso nella Francia degli anni 1930. Che anch’esso rinfocola l’antisemitismo. La Crisi americana fu seguita a Parigi dal collasso di alcune banche di uomini d’affari ebrei – il caso più famoso è Stavisky ma molti patrimoni sparirono in altre disavventure. I due pregiudizi, antibolscevico e antiparlamentare, si risolsero in antisemitismo acuto nel 1936 del Fronte Popolare socialcomunista, guidato da Léon Blum, ebreo eminente.
Dalla lettura dell’insieme dei romanzi e dei racconti, che ormai sono quasi tutti ripubblicati, non emerge in Irène Némirovsky una dominanza del tema semitismo. Esso rientra in tanti romanzi e racconti, oltre il “Golder”: questo “I cani e i lupi”, “La proie”, “Un bambino prodigio”, “Il ballo”. Ma vi è anche chiaro che la sua ossessione è al contrario l’esclusione, quando non l’odio, basato sulla razza. Che nelle sue lettere e dichiarazioni, oltre che nelle opere, lei mostra di avere personalmente sofferto a Parigi, città pure accogliente e benefica. A suo modo, in negativo, essa non nega ma riafferma l’orgoglio tribale, l’essere uguale e distinto.
Iréne pubblicava i suoi racconti e romanzi su “Candide” e “Gringoire”, riviste di destra, come Colette, ma anche su “Le Matin” socialista, su “Le Peuple”, quotidiano della Cgt, il sindacato comunista, e su "Marianne", periodico di sinistra. E teneva agli apprezzamenti di Brasillach come di Kessel. “Le Peuple” pubblicò “David Golder” a puntate. Dello stesso romanzo Duvivier fece un film di successo, con Harry Baur, senza scandalo, così come senza scandalo si fece un film da “Il ballo”. L’accusa di antisemitismo mossa da Ruth Franklin a Irène Némirovsky muove in realtà, più che dai suoi racconti e romanzi, dal fatto che ha cercato in tutti i modi l’integrazione nella società francese. Di cui era un’autrice affermata. Ma che viveva una stagione sciovinista e infine l’ha respinta, lei come tutti i suoi ebrei. Anche questo è per lei materia di narrazione: il rifiuto francese negli anni 1930 dei diversi, italiani compresi, e soprattutto degli slavi, i levantini, gli ebrei. Pesa nel capo d’accusa anche l’abiura, il battesimo - ma non dichiaratamente, per “correttezza politica”. Insomma, la colpa d’Iréne Némirovsky è stata di voler uscire dalla tribù.
C’è una speciale sensibilità negli Usa all’antisemitismo, con vittime illustri fra gi stessi ebrei, da Arendt a Mailer e Philip Roth - e Simone Weil, per questa colpa ignota negli Usa. Da parte di ebrei che magnificano la loro assimilazione con l’identità comunitaria, orgogliosa e gelosa qual è delle tribù primitive, esclusiva, feroce. Ma quello dell’odio di sé ebraico è ora il problema più generale dell’ebraismo, cioè delle vittime della storia, nella quale non hanno colpa se non di esistere. Questo odio è assurdo dopo l’Olocausto, ma non prima. Quando l’ebreo, anche prima dell’assimilazione, anche in regime di interdizioni, si poneva alla pari della maggioranze – questa è una storia che aspetta ancora di essere esaminata, come testimonia lo scandalo per uno dei suoi primi ricercatori, Ariel Toaff. C’erano ebrei insofferenti della propria condizione, per motivi religiosi, ideali, sociali, familiari, come c’erano e ci sono cristiani anticlericali, meridionali antimeridionali, neri antiafricani, oltre che faziosi di ogni genere, specie in politica.
Quanto al battesimo, lo stesso Weiss conviene che fu una scelta non opportunista, non dettata dall’invasione tedesca. La conversione di Iréne Némirovsky è tutta nella speranza della vita eterna che il Dio cristiano dà e quello ebraico no, un’umanità che si vuole vincente, oltre la morte. Gli ebrei sono rappresentati ne “I cani e i lupi”, il romanzo ora ripubblicato, “senza speranza nella vita eterna”. L’ebreo, dice, anche laico, si sente sempre minacciato “da un dio terribile”.
Scultura
Tutto tardi per Irène, anche le accuse. Vittima di Lenin, poi di Hitler, quindi della guerra fredda, il destino incredibile d’Irène Némirovsky in nemmeno quarant’anni di vita resta il paradigma più calzante, nella sua assurdità, del Novecento. Feltrinelli ne aveva tentato il recupero subito alla caduta dei muri, nel 1989, con “Come le mosche d’autunno”, ma il disgelo è stato lento – un racconto che non racconta nulla se non se ne compartisce l’incomunicabile nostalgia, e anche questo, il “dovere della memoria”, è forse un ultimo guizzo di Novecento. La sua è la disperazione comune a chi non ha più radici.
"I cani e i lupi” è un racconto denso alla lettura, specie oggi che si scrive come si girano i film in inglese d’accatto, nell’età dell’acquario e della globalizzazione, di mondi vaghi e personaggi senza spessore, giusto per il plot, che sia mirabolante. Némirovsky scrittrice di oggi è singolarmente controcorrente. Presa dai suoi personaggi, che digeriva con una tecnica speciale di lenta ruminazione, per presentarli al lettore quasi in carne. Oggi si direbbero estremizzati o eccessivi: nettamente disegnati, sottolineati, insistiti, a tutto tondo, scolpiti. Ma tutti a loro modo complessi, sotto l’apparente univocità, per una chiave di lettura plurima che ne spiega la rilettura, ne fa la durata. La protagonista di “Jezabel” è una donna innamorata dell’amore, del “piacere di essere amata”. La protagonista di “I cani e i lupi” vive un’esperienza meno tipica, più incerta, ma è forte della certezza dell’arte nel troiaio della storia. E sempre con la capacità inconsueta e caratteristica della scrittrice di drammatizzare la fredda moneta, tanto ne conosce bene i meccanismi: la banca, la speculazione, l’insolvenza - “David Golder” fu pubblicato lo stesso anno del Grande Crack, nel 1929. Di un realismo non di programma (ideologico) né ottimistico. Con la consueta capacità fabulatoria, che sul quotidiano, e il linguaggio piano, costruisce memorabilia.
Irène debuttò diciottenne, quando era ancora gestita dalla madre in ogni occorrenza, secondo i biografi, drammatizzando le cose viste. Compresa la madre. La quale viaggiava a Biarritz e a Nizza in alberghi di lusso, e la figlia confinava in una pensione con la governante. Compresi molti ebrei dal naso adunco, o comunque affilato, ossessionati dal denaro. E molti buoni borghesi cristiani meschini e razzisti, anche se ricchi. Alla madre, oggetto di derisione ne “Il ballo”, fatua e vuota, che nella figlia vede un richiamo di ciò che non sopporta, l’età, l’intelligenza, l’affettività, e perfino il sesso, sono dedicati in “Jezabel” una serie di epiteti: “Una madre fredda, severa, una vecchia bambina imbellettata e mezza matta, ora frivola, ora terrificante”, “una donnetta gelida e scarna, dagli occhi verdi”.
Il lungo racconto è un giallo, con sorpresa conclusiva, ma i capitoli centrali sono il duro conflitto tra Irène e la madre al momento della maturità della figlia. Le due donne poi si odieranno, al punto che la nonna si rifiuterà non di accudire ma anche solo d’incontrare le due figlie d’Irène orfane di Auschwitz. Il nome della protagonista è Gladys, Jezabel ricorre, non specificato, nel titolo e in un paio di passi, eco della Gezabele biblica crudele. E sarebbbe un romanzo antifemminista, altro nonconformismo di Irène, se non fosse antimmamma. Contro “le donne del crudele Fragonard”, dall’occhio fatale. Contro la donna cioè nella sua immagine, e il non invecchiare come il tema della sua vita, della vita di una donna.
Autobiografismo“I cani e i lupi” è raccontato un po’ di fretta nella seconda parte. Ma è anch’esso una storia speciale. Oltre che importante per la questione dell’odio di sé ebraico, dell’antisemitismo ebraico. “Come tutti gli ebrei, Harry”, il protagonista, “nutriva per i difetti tipici della sua razza un’avversione più profonda, più sentita, di quello che potevano suscitare in un cristiano”: Irène stessa pone il problema. In termini oggi non più veritieri, dopo il sacrificio degli ebrei, e la loro integrazione piena nelle società nazionali e nella società delle nazioni. Ma all’epoca non senza rischi. La stessa autrice si difende in anticipo, in nota alla prima edizione del 1940, affermando il suo diritto a scrivere “una storia di ebrei”, con i loro pregi e i loro difetti, perché “in letteratura non ci sono argomenti tabù”.
"I cani e i lupi" esce sei mesi prima delle leggi razziali francesi. Ma già nel romanzo ci sono le persecuzioni: un personaggio minore ne è vittima, col lavoro forzato e i campi di concentramento. L’albergo in Francia è pieno di spie. E gli ebrei non graditi sono espulsi. Non c’è odio di sé, e non c’è illusione, non c’è di che. Insomma, è una storia di ebrei. Che è la sua, dell’autrice, rappresentata nel lui e la lei del romanzo. Irène è un poco Ada, la protagonista, pittrice non bella ma di forte personalità, che solo riusciva a “scavare con ostinazione e ferocia dietro volti tristi, cieli cupi, per coglierne i segreti nascosti”. Ed è Harry, il giovane ricco e fortunato che non si vuole ebreo. Cosciente di dire cose sgradevoli in un momento delicato, anche se la Francia non aveva ancora leggi razziste
È la storia di un amore tra ebrei ricchi e ebrei poveri, tra Kiev e Parigi, tra l’abiezione e la dignità, seppure negata. Tra la felicità e la disperazione in muto concorso: l’infanzia a Kiev, la naturalizzazione rifiutata a Parigi, entrambe vissute nell’incertezza e nell’inquietudine. La materia ebraica è talvolta attenuata dall’ambiente parigino, europeo, cristiano, più spesso accentuata. Ma Dio è diverso per gli ebrei poveri e per i ricchi, e per la borghesia piccola e media, Irène ne fa un trattato in mezza pagina. E quello dei cristiani può essere bestiale, dei cristiani poveri: il capitolo VII fa rivivere il pogrom, una parola vuota di significato in italiano, ma che per quasi un secolo ha rappresentato l’abiezione europea, il non detto della democrazia, lo sciacallaggio dei poveri, soldati inclusi.
Singolare fortuna ebbe “I cani e i lupi”, pubblicato nello stesso anno 1940 in estratto dal "Journal de l'Université des Annales", influente nella prima metà del Novecento, con tirature anche di duecentomila copie, una rivista di diffusione colta. Appena pochi mesi prima delle leggi antisemite del governo francese, nell’ottobre 1940. E resta come un fermo immagine, un attimo prima della catastrofe, un monumento al mondo com’era un attimo prima. Il ritorno di Irène Némirovsky è anche un recupero ideale - freudiano - di quel minuto prima.
Iréne Némirovsky, I cani e i lupi, Adelphi, pp.234, €18,50
Jezabel, Adelphi, pp.194, €16,50
“Le Magazine Littéraire”, aprile 2008, Les juifs et la littérature, €6,40
“The New Republic”, 30 gennaio 2008, Scandale française, di Ruth Franklin

Il Pd porta male anche ai giornali

Tra le autorevoli fonti di saggezza straniera “Repubblica” cita un distico di Christiane Amanpour, una della Cnn: “Se i giornalisti non fanno il loro dovere\i cattivi vincono”. Berlusconi dunque ha vinto perché i giornalisti non hanno fatto il loro dovere. È possibile. Certo è che i giornali che hanno sostenuto il Pd perdono anche loro. Non da ora, da due anni perdono copie, mentre i giornali di destra ne guadagnano, “Giornale”, “Libero”, il gruppo “Nazione”, “Tempo”. Arrestata con la campagna elettorale, l’emorragia è ripresa presto dopo il voto. La diffusione è rimasta alta, confrontando giorno dopo giorno le tirature odierne con quelle di un anno e di due anni fa. Ma, stando ai cdr di “Repubblica” e del “Corriere”, le rese sono ancora più alte.
Nel 2006, col patrocinio dichiarato di Prodi, il “Corriere” aveva perduto 40 mila copie. Vittorio Colao, l’ad del gruppo che denunciò il fatto, ex enfant prodige di Vodafone illuso dal prestigio del “Corriere”, fu per questo licenziato: l’azienda sceglieva l’impegno politico. Due anni dopo, convocate le elezioni, il direttore Paolo Mieli si è garantito con un’intervista a “Libero”: giornale a sinistra, testa a destra. Un colpo al cerchio e uno alla botte - sempre libero di megafonare i Grandi Giornali Inglesi sul ritorno del Duce. Ma non è bastato. Dopo la pausa del 2007, e dopo il traino delle elezioni, il calo delle vendite ha ripreso. Nel 2006 era stato di circa centomila copie per “Corriere”, “Repubblica”, “Sole”, “Stampa” e “Messaggero” insieme, il 7 per cento del totale.

Se il Pd è solo il Pci

Ilvo Diamanti censisce su “Repubblica” quello che si sapeva, e non si dice. Il Pd è rimasto a un terzo dell’elettorato, pur prendendosi buona parte della Sinistra. Quel terzo che era il Pci. Le primarie del Pd sono state modeste, considerando che mobilitavano ottantamila operatori. Il “nuovismo” è stato banale, Calearo, Colaninno jr., le ragazze svampite – volutamente. Il centralismo democratico invece ferreo nelle liste. Si può aggiungere per scienza diretta che in Calabria, in Sicilia, e da Viareggio a Massa, la sconfitta è stata il rifiuto del centralismo.
Resta da ricordare che il potere, di cui il Pd si compiace, è cavo, non semina voti (“sarebbe stato meglio avere ai gazebo più bancari che banchieri”): le banche, gli imprenditori (i Caltagirone, i montezemoli), i giornali, i giudici, i baroni, dell'univrsità e degli appalti. Ed è anzi “l’Italia che non c’è”, i settori protetti, che non funzionano, giusto per dire la barzellette sulla loro superiorità. Silvio Berlusconi rimane la cartina di tornasole della vergogna: perdere contro Sarkozy ci sta, anche contro Bush, ma perdere contro Berlusconi, per nove punti, è da seppellirsi.
Ma sopratutto va detto che la "tendenza" è lunga e forte: la sinistra, in quindici anni di berlusconismo, non ha mai vinto ai voti. Anzi, togliendo di mezzo la destra che non osa dirsi tale, casiniana, dipietrista, mastelliana, è sempre stata sotto il 40 per cento. Di pensionati o prossimi. Senza un'idea, né forte né debole. A parte fantasticarsi sull'Aventino, o già in esilio a Parigi. Per tutta innovazione si è americanizzata, nel senso dell'immagine e della mobilitazione delle folle, ma a spese del pubblico denaro, con tasse improprie e l'uso improprio delle tasse. Solo l'immagine dell'ex sindaco a Roma, tra premi Nobel, feste del cinema, notti bianche, star al Colosseo, costava un decimo di manovra finanziaria. Lo dicono i suoi avversari e magari non è vero, ma è possibile.

La serpe in seno

Berlusconi dev’essere, al suo modo sbracato, anche lui uno snob. Nel passato governo si fece consigliare dall’Avvocato Agnelli, suo strenuo denigratore, l’ambasciatore Ruggiero, quello della famosa concertazione coi centri sociali, che portò alla catastrofe del G 8 a Genova. Ora esibibisce come suo ambasciatore straordinario Luca di Montezemolo. Che prima di diventare presidente della Confindustria quattro anni fa s’illustrava a Roma quale pretendente altezzoso al posto di Berlusconi, da lui rappresentato nei salotti poco più di un pirla.
Il posto di Montezemolo sarà rappresentativo. Ma tale da consentirgli di poter dire la sua ogni giorno. E questo significa che Berlusconi non cambia metodo di governo. Lo farà magari ristretto, ma non coeso. Non capace di fare di corsa le infinite riforme. Ma come il precedente ingolfato nelle riserve e i rinvii di Fini, Casini e Follini (chi è Follini? fu vice-presidente del consiglio col precedente Berlusconi), di chi ci sta ma pensa al dopo, dei rinvii, della tessitura, di Gianni Letta.