Cerca nel blog

sabato 26 novembre 2016

La ripresa si fa con la povertà

La ripresa, il poco che c’è, è solo nei servizi: i quattro quinti dell’incremento del pil, e quasi tutti i nuovi posti di lavoro, sono in quest’area. L’industria, che ha alimentato il restante quinto d’incremento del pil, uno 0,2, non ha prodotto nuova occupazione, se non in casi limitati. Con una produttività (l’incremento del prodotto per unità di lavoro: il motore della ricchezza) stagnante.
I servizi sono è l’area del precariato. Delle retribuzioni basse e incerte. Del valore aggiunto minimo. Un terzo dei nuovi posti di lavoro nei servizi è a tempo parziale – un part-time non volontario. Nel settore classico dei servizi, peraltro, tagli massicci di posti di lavoro sono stati avviati nel suo comparto più “ricco”, quello bancario.
La stagnazione della produttività è di tutta l’eurozona. Dove le cifre dell’occupazione, che non ha mai avuto crolli drammatici, eccetto che in Grecia e in Spagna, sono mascherate dalle politiche della solidarietà: si mantengono i lavoratori in organico ma a ore e paga ridotte. In Europa come in Italia, le ore medie lavorate per occupato sono sempre inferiori a quelle del 2008. Negli otto anni della crisi il monte ore lavorate è diminuito del 6 per cento, più del doppio del calo dell’occupazione.
La ripresa si fa mortificando il reddito: è come se la produzione di ricchezza si fosse bloccata, e la ripresa fosse solo una condivisione un po’ più larga di risorse disponibili sempre più limitate. Quasi una condivisione della povertà, più che della ricchezza – che è ciò che connota la vera crescita.

Ombre - 343

Io a palazzo Chigi? Sto bene dove sto. Io presidente del consiglio? Basta tecnici. Io premier? Decide Mattarella. Non si sa cosa inventare per riempire le quattro, sei, otto pagine ogni giorno di politica che nessuno legge, e si inventano i  nuovi capi del governo: Padoan, Calenda, Alfano – Padoan? Calenda? Alfano?

Quello del nuovo presidente del consiglio è un gioco facile, ogni cronista parlamentare se ne serve ogni pochi mesi per un paio di giorni di vita comoda. Ma gli interpellati?

L’“Economist” boccia il referendum e anche Renzi, lo vuole subito a casa, a favore di un governo tecnico. Monti invece, il tecnico per eccellenza, vuole Renzi sconfitto al referendum ma al governo. “The Economist” vs. Monti? No, erano e sono la stessa cosa. Il settimanale non aveva ben capito, e infatti si è scusato.  

La Corte Costituzionale boccia la riforma della Pubblica Amministrazione il giorno dopo che il governo ha varato i relativi decreti attuativi – tutti meno uno. Non un giorno prima. E a otto o nove dal referendum sulla riforma della Costituzione.
La Corte Costituzionale, che si penserebbe l’istituzione più unitaria, comunitaria, è la più divisiva: non un foro di saggezze ma di carriere. A ogni sentenza.

La Corte Costituzionale boccia, tra le altre, la riforma contro i dipendenti pubblici assenteisti. Naturalmente non è voluto – i giudici personalmente sono stakhanovisti, lavorano fino a un giorno a settimana (per questo li paghiamo più del presidente della Repubblica). Ma si sono distratto o che?


No, dice, è la forma: il governo può decretare il licenziamento dei furbi del cartellino solo dopo che le Regioni hanno dato il loro assenso. Tutt’e venti?

Fare i decreti attuativi, della riforma della Pubblica Amministrazione come di ogni legge, è fatica improba, di mesi e anni. Si redigono per annullare gli effetti liberatori della legge - la certezza del diritto. I decreti sono lo strumento della burocrazia per riappropriarsi del potere di interpretazione, e quindi di decisione. Il polmone della corruzione.

Meno della metà del Parlamento europeo, 304 deputati contro 387, ha votato una mozione contro la Russia. Le guerre le fanno sempre le minoranze.

La mozione antirussa al Parlamento europeo è passata perché metà dei contrari si sono astenuti, per non mettere in difficoltà i favorevoli. La democrazia ha molte pieghe.

Tutti i Prodi, fratelli, nipoti, sono per il No. Romano Prodi esita, che è quello che dovrebbe avere le idee più chiare. Questo referendum è amletico: un dramma in forma di farsa.

Capalbio fa causa contro l’obbligo di accogliere immigrati, e naturalmente la vince, il giudice di Orbetello è inflessibile. Anche la sinistra chic e vip che popola Capalbio è contenta. Assolvendosi col dire: “Bisogna che gli immigrati abbiano un’accoglienza degna, non si può mandarli così alla rinfusa in giro per l’Italia”. Degnamente ipocrita. Poi dice che vince Grillo.

Trump spiazza i media, con la nomine delle donne. Ma la frase è ricorrente, li “spiazza” sempre, sull’Obamacare, sul Muro del Messico, sulla Nato, come già sulla sua stessa elezione a presidente presidenziale. Ora, i media non dovrebbero conoscere i meccanismi dello “spiazzamento”? Non sono più media, sono tribù.

Hillary Clinton ha avuto due milioni di voti in più di Trump – e potrebbe averne ancora di più, il conteggio non è finito. Ma ne ha avuti due in meno nei tredici “swing states”, quelli che decidono. Era più politicamente preparato – aveva fatto meglio i compiti, cioè i calcoli – l’impolitico Trump, con una macchina elettorale molto minore, della politica Clinton, con una macchina miliardaria.

“La Gazzetta dello Sport” allarga i fronti contro la Juventus: è guerra a tutto campo. Sarà dura per tutta la Rcs, “Corriere della sera” compreso e i  periodici: tutti torinisti d’ora in pi. Ma si venderà una copia in più o in meno?

È vero che Cairo è l’unico editore di giornali in attivo, insieme con De Benedetti. Ma l’aria è brutta: uno studio Mediobanca calcola che nel quinquennio 2011-2015 i nove principali gruppi editoriali  hanno perso il 32,6% del fatturato (-1,8 miliardi), cumulando perdite nette per 2 miliardi. E hanno tagliato oltre 4.500 posti di lavoro, scendendo a 13 mila dipendenti totali.

Nel quinquennio le vendite di quotidiani, già dimezzate rispetto ai sei milioni di copie dieci anni prima, si sono ridotte di un altro terzo, da 2,8 a 1,8 milioni giornalieri.

Milano sottrae a Torino, dopo le banche, la Fiera del Libro. Torino si compra il “Corriere della sera”: 1-1? Il “Corriere” val bene una fiera?

Proust non fa ridere

L’humour di Proust, della “Ricerca”, è che non c’è humour. Anche dove si legge dileggio e farsa – e più negli affari di cuore, “di culo” in francese: gli amori saffici di mlle Vinteuil davanti al ritratto del padre, l’epa di Palamède, barone di Charlus, il culattone. Si può riderne, ma è diverso.
Proust era compagnone – almeno, fino a che non ha cominciato a lamentarsi (un po’ ipocondriaco lo è stato sempre, ma a un certo punto senza freni). Ma non rideva. Nella “Ricerca” di proposito: sorrideva, malinconico. L’antologia che è tratta dalla “Ricerca” ne è fitta – le illustrazioni lo sottolineano.  
Bertrand Leclair (a cura di)-Philippe Pierrelée (ill.), L’humour de Marcel Proust, Folio, pp. 200, ill. € 7,70

venerdì 25 novembre 2016

L’Economist giaguaro

L’Italia è un paese “refrattario alle riforme”, dice l’“Economist”. E perciò l’Italia non ha bisogno della riforma del Parlamento, “dove le leggi possono ballonzolare avanti e indietro tra le due Camere per decenni”.
Si penserebbe il “non” di troppo, un errore di stampa, ma il finale è di logica anche più singolare: “Che dire, allora del rischi di disastro se il referendum fallisce? Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere assieme un governo d’affari tecnocratico, come ha fatto molte volte in passato. Se, però, un referendum perso innescasse il collasso dell’euro, allora sarebbe un segno che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione era solo questione di tempo”.
Non sono le sole sciocchezze. Si dice anche che il rischio è concreto che Grillo diventi presidente del consiglio. Ma che questo non avverrebbe se Renzi si dimettesse.
Crolli Renzi con tutto l’euro
Il giornale non si smentisce, essendo l’espressione della cerchia d’affari che da un quarto di secolo si arricchisce sulle spalle dell’Europa, e dell’Italia in particolare. Mascherato da liberalismo, di cui evidentemente  è la negazione. Il 2011, nel quale l’“Economist” ebbe un ruolo di punta, fu ricco di superprofitti. Reiterarlo nel 2017 in effetti, il giornale ha ragione, sarebbe ancora più facile.
Nel 2011 e dopo i suoi technocratic caretaker government furono avallati da Napolitano. Con Mattarella la reiterazione potrebbe non essere automatica. Ma il settimanale non ha a cuore il governo dell’Italia.
Destra o sinistra, pari sono
Il ruolo del settimanale nel 2011 dell’Italia fu giustificato con l’antiberlusconismo. Ma era un caxhe-sex: il settimanale ha sponsorizzato in passato John Major e Bush jr.
Non si può dire però “The Economist” un settimanale di destra. È per gli affari: le “riforme” che avoca sono gli affari liberi, senza paletti, senza controlli. Ha sostenuto Clinton, il presidente della banca “universale”, speculazione, risparmio e credito insieme. E poi Blair e Obama. In Italia con coerenza Prodi, Veltroni, Monti. E si penserebbe anche Renzi, ma Renzi no, perché “non ha fatto le riforme”.
Affari riservati
La proprietà dell’“Economist” è da un paio d’anni degli Elkann. Che non contano, se non  i dividendi? È possibile, l’opinione pubblica in Inghilterra è affare riservato.
Il settimanale sa di parlare un linguaggio esoterico, per iniziati, ma tiene fermo: “I risparmiatori, e molti governi europei, temono che il No faccia dell’Italia il «terzo domino» nel crollo dell’ordine internazionale, dopo Brexit e Trump. Tuttavia, questo giornale ritiene che No è come gli italiani dovrebbero votare”.

Fisco, appalti, abusi (95)

L’aumento di capitale Mps costa mezzo miliardo di sole commissioni – 447 milioni, più Iva. Le  banche sono cannibali.

La normativa europea per gli appalti è ottima. Gli appaltatori barano, ma non troppo: non si fanno revisioni prezzi, non a catena, e le opere vanno consegnate nei termini. L’Italia ha adottato la normativa europea. Ma il Parlamento – il Parlamento – l’ha modificata con 95 eccezioni – novantacinque.
È evidente che la legge sugli appalti deve essere corruttiva. Ma il parlamento è corrotto?
Le opere in Italia comunque si possono non fare, se non eccezionalmente: l’appalto serve a bloccarle, per poi spillare continui adeguamenti. D’accordo con le magistrature.

L’As Roma propone uno stadio di proprietà a Tor di Valle che in realtà è un progetto immobiliare. Uno dei più grandi, se non il più grande, d’Europa. Per il quale sfrutta il quasi obbligo per il Comune di aderire al “legittimo desiderio dei fedeli tifosi” etc.
Lo stadio si adorna di tre “torri”. D’autore, firmate Liebeskind. Di duecento metri di altezza ognuna. Ben al di sopra del paesaggio urbano della città, ma certo redditizie: un investimento da un miliardo e mezzo dovrà generare in dieci anni venti miliardi.

Il progetto As Roma-Tor di Valle è praticamente una città satellite, di cui lo stadio è la foglia di fico. Ma il progetto non si può esaminare e avallare come città-satellite: dev’essere uno stadio, per beneficiare degli abbattimenti fiscali.

La Francia ferma le centrali nucleari per controlli – periodici, ma di mesi e forse di anni – la bolletta aumenta in Italia. Di un miliardo e mezzo, calcola serafico il presidente dell’Autorità per Energia, che dovrebbe cioè controllare a calmierare i prezzi.
Dacché il mercato è libero non c’è scampo: l’aumento delle tariffe è costante, ogni anno, per ogni evento. Anche per il crollo del prezzo del petrolio.
Si potrebbe risparmiare abolendo l’Autorità per l’Energia, con la restante dozzina di Autorità create vent’anni fa da Prodi per controllare il mercato.

Tarantolato a Manhattan

Parole in libertà - un rap primitivo o un delirio da acido. Parafrasi di canzoni, o introduzioni alle stesse – all’epoca aveva  vent’anni e ne aveva già scritte settantacinque. È la prima settimana a New York del menestrello di Duluth, uno dei tanti nowhere  d’America.  Incontri di strada, voci, rumori  - “Lo schianto della notte nera” è raccontato sei volte, sette con “Lo stomp di Mae West”. Di un “Mister Incapace (che) dà l’addio alla fatica e incide un disco”. La presentazione originaria evocava “gusto del nonsense e saggezza zen”.
Bob Dylan ha avuto da subito la vocazione di scrivere parole, anche senza la musica. Ma in modo avventuroso, e quasi marinettistico – post- naturalmente, cioè in ritardo, e di poco interesse eccetto la curiosità. Riedita dopo il Nobel, con la traduzione rivista (ma è fatica di Sisifo) e l’originale a fronte, questa “Tarantula” si completa con un centinaio di pagine di guida alla lettura, tante quasi quanto quelle del testo. A cui Dylan lavorò nel 1963, due anni dopo l’approdo a Manhattan, al Greenwich Village. Nel 1966 il libro era pronto, in bozza definitiva per la stampa, che fu distribuita in anteprima ai giornali. Dylan però si eclissò, dopo aver chiesto all’editore di soprasedere, e il volume uscì nel 1971.
Per i fan un regalo. Ma non è un esercizio prosastico, e nemmeno un divertissement: è una sfida alla prosa, e alla stessa lingua, una continua sottolineatura del sensato-insensato. Che è anche l’unica chiave di lettura, niente altro, storie, antistorie, immagini, sonorità. Sensato dietro le apparenze, insensato nella sintassi – la contiguità, il significato. Il tarantismo non viene bene in area metropolitana? Le liriche con cui il menestrello chiude alcuni dei pezzulli hanno però forma curata e consistenza.
Bob Dylan, Tarantula, Feltrinelli, pp. 345 € 10

giovedì 24 novembre 2016

La classe operaia è multinazionale

La classe operaia è sempre più europea, integrata con lavoratori provenienti da altri paesi europei, e sempre più immigrata, alimentata dai lavoratori extraeuropei. Un’inchiesta di Piermaria Davoli su “Lotta Comunista” dà le cifre di questa nuova realtà. Che la Confindustria e il Medef, la confindustria francese, registrano da tempo e ingigantiscono per il futuro.
La Confindustria giudica che “dalla fine degli anni Novanta l’immigrazione ha spinto l’economia italiana in modo decisivo”. Stima intorno al 9 per cento al quota di valore aggiunto attribuibile ai lavoratori stranieri. E auspica un aumento dell’immigrazione. Il Medef, meditando sul “suicidio demografico europeo”, prevede che entro il 2050 esso si tradurrà nella mancanza di 50 milioni di lavoratori , se l’economia vorrà mantenere i ritmi attuali di crescita, benché deboli. A meno che le mancate nascite non siano compensate dall’immigrazione.
La Confindustria dice “necessario che i flussi di immigrati tornino sui livelli pre-crisi”. Ma di fatto li avevano superati già a fine 2015 - malgrado la “collisione storica” del terrorismo. Nel 2015 l’occupazione in Europa si è riavvicinata ai livelli del 2008, ma gli immigranti occupati sono cresciuti di più: da 15 a 17,5 milioni. E da 1 occupato su 14 a 1 uno 13.
Di più gli immigrati sono aumentati nel Cuore Europa (Italia, Germania, Francia, Benelux, Svizzera) + Uk, e di più nell’industria e nelle costruzioni. Un operaio su 10 nel Cuore Europa+Uk è ora immigrato, con una crescita netta di mezzo milione l’anno (Germania 3,9 milioni, Uk 3,1, Italia 2,3, Francia 1,4, Svizzera 1,1 – un quarto degli operai della Confederazione). Il Nord Europa è passato da 1 su 17 a 1 su 14. Il Sud Europa va in controtendenza, per l’espulsione di un milione di immigrati dalla Spagna in conseguenza della crisi, passando da un operaio su 9 a 1 su 11.
Nell’industria 1 operaio su 10 è ora immigrato nel Cuore Europa+Uk, il 10,2 per cento, quattro milioni su quasi 41 (Germania 0,8, Italia 0,5, Uk 0,4, Francia 0,3). Nel Nord Europa gli operai immigrati sono 1 su 7, il 13,3 per cento.
Nell’agricoltura solo 1 addetto su 14 è immigrato. Ma il peso raddoppia nel Sud Europa, per i raccolti stagionali, e in zone a specializzazione agricola altrove, per esempio in Est Anglia. Una quota che probabilmente è maggiore, poiché molta occupazione non è in questo settore registrata in alcun modo.
Lo stesso è da supporre nell’edilizia. Dove i numeri ufficiali sono però già elevati: su 19 milioni di addetti quasi tre sono gli stranieri, europei o extraeuropei.
Il lavoro immigrato copre la metà dei servizi domestici e alle persone, un settore che registra quasi tre milioni di lavoratori. Ma anche qui molta occupazione in nero non  registrata in alcun modo.

Secondi pensieri - 286

zeulig

Animalismo – Fa la tara della “diversità” dell’uomo. L’evoluzione dall’ominide all’uomo prometeico è stata rapidissima. Le specie animali al confronto sono statiche.

Connettività – Riduce e non moltiplica, come vuole il senso comune, la creatività. L’originalità si è coltivata storicamente nella discontinuità, e quasi nella separatezza, seppure in un humus necessariamente fertile. La connettività, la comunanza piena e costante, seppure libera e solo un po’ condizionata, appiattisce e non acumina, come un terreno troppo dissodato.
Era questa del resto la conclusione dell’etnologia prima di internet e whatsapp: la separatezza moltiplica e accresce la creatività. Mentre la comunanza disarma lo spirito creativo, riducendolo al confronto, a una sorta di guerra di difesa, di trincea – senza eliminare come di proposito le tensioni e gli odi “razziali”, anzi acuendoli proprio per l’eccessiva vicinanza (l’area di indifferenza, se c’è, si elimina?).

Eterno – È una funzione. È il momentaneo eternizzato, una funzione del tempo perpetuo, immutabile, metronomo.

Fiducia – È massima, si richiede massima, nei rapporti economici (la finanza, il mercato), affettivi (la coppia), anche semplicemente digitali, di relazione a distanza, tra sconosciuti. Nel mentre che perde di valore: la fiducia tradita, in affari e in amore, è e si vuole asettica, senza colpa.
Il tradimento è anche senza conseguenze, e anzi voce eccessiva, da  derubricare – come se fosse al contrario, che il tradimento è scontato in ogni relazione.

Freud – Ha costruito una razionalità (altamente) irrazionale. Derogando – ma già nei fondamentali: Edipo e altri miti – al suo contributo principale, contributo scientifico: la possibilità (ricerca) di dare fondamento razionale a fenomeni che si presentano irrazionali.

Lévi-Strauss – Antonomastico del pensare scientifico, avendo fatto piazza pulita del naturale nella vita sociale e politica - che non è una grande scoperta, ma bisognava farla.  Si è “naturalizzata”  la società, la cultura, per non saperla-poterla spiegare facendola uscire dal pre-sociale: faceva comodo, e si è convenuto, che la società fosse essa  stessa “naturale”, un fatto su cui non bisogna porsi problemi. Ma non c’è società, cultura, se si nega l’opposizione, logica se non di fatto, tra ordine naturale e ordine culturale: “La costanza e la regolarità esistono, a dire la verità, nella natura come nella cultura. Ma, nella prima, appaiono precisamente  nel campo in cui, nella seconda, si manifestano il più debolmente, e all’inverso. In un caso il campo è dell’eredità biologica, nell’altro quello della tradizione esterna”.
Antonomastico del pensare scientifico umanistico. Il suo criterio è semplice, elaborato nella stessa opera, “Le strutture elementari della parentela”: “Dappertutto dove la regola si manifesta, sappiamo con certezza di essere nel campo della cultura”. Dove la regola è sempre relativa, particolare. All’inverso che nel campo della fisica, o della materia, dove la regola è dell’universalità: dell’obbligo, della necessità.

O del pensiero in formazione, lui è uno che lo sottolinea, in continua trasformazione. Per nuovi eventi, riesami, revisioni, letture, conversazioni, frequentazioni. Di un autore si fissano le idee, si tende a farlo. Mentre esse sono in costante trasformazione, se sono d’autore è quasi una tautologia, per adeguamenti, affinamenti, anche rovesciamenti. E tanto più quanto più sono fertili.
Invece che fissare il pensiero (la ricerca), si può con più costrutto ricostruirne l’evoluzione, anche questo è un procedimento euristico. Ma non senza approssimazioni. “Ricostruire un itinerario è una cosa, per me, estremamente difficile”, difficile per lo stesso autore, nel caso Lévi-Strauss.

Linguistica – Sarebbe – è – la scienza del cervello, poiché ne dà le regole di funzionamento. I meccanismi, se non la causalità originaria. E però si trascura in tutti i filoni di ricerca impegnati nel disboscamento dell’attività cerebrale, dei neuroni. Siamo in un nuovo positivismo – che tiene conto dei limiti del positivismo (ma non molto).

Magia – È sempre attiva, in pieno scientismo. Ne è anzi la pietra angolare, al fondo, inconscia e non: che l’uomo sia altrettanto “creativo” che la natura – scossa tellurica compresa? sì.

Male – Ha di inevitabile la possibilità. Se il tappo – del dentifricio, del dopobarba, delle pillole, può cadere dentro lo scarico del lavandino, cadrà. Si può quindi prevedere, e almeno in molte sue manifestazioni, prevenire. Si può evitare che il tappo otturi il lavandino. Che il bottegaio bari sul peso. Che il marito uccida la moglie. Non si può prevenire l’evento naturale, ma sì presentirlo e circoscriverlo: non si può evitarlo, ma se ne possono ridurre o evitare gli effetti. Con un’accorta urbanistica delle coste e delle faglie sismiche, con la canalizzazione delle acque, e il drenaggio delle stesse con la forestazione. Si possono evitare naturalmente le guerre. La filosofia non è d’accordo, ma ha torto. Si possono evitare proprio - soprattutto – per accordo (procedure di conciliazione o di giudizio, calcolo costi\benefici). La malattia si circoscrive, riduce, guarisce anche, in continuo, con l’applicazione.
La morte è un altro discorso – l’interruzione del tempo.

Nietzsche - O della tentazione fascista. Tarmo Kunnas ne è certo, avendo analizzato assiduamente Nietzsche, prima di sistematizzare il Novecento letterario, larga parte di esso, nel totalitarismo. E una traccia propone palese, seppure inavvertita: che Nietzsche è ricorso di sinistra, oltre che di destra. Illustrandola con l’aneddoto di Hamsun, che afferma: “Nietzsche mi ha aiutato a divenire fascista”. Ma, commenta Kunnas, “non poteva dire che Nietzsche è fascista”.

Storia - In “Razza e storia”, 1961, Lévi-Strauss contesta la classificazione allora in voga tra storia stazionaria – “primitiva” - e storia cumulativa – europea, occidentale. La storia è per lo più stazionaria, argomenta. Solo di tanto di tanto evolve. Ma non ordinata a un metro: “L’umanità in progresso non assomiglia certo a un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni suo movimento un nuovo gradino a quelli già conquistati; evoca semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che, ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo via via a computi diversi. Quel che si guadagna sull’uno si è sempre disposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è cumulativa”.
Ma, poi, la storia è in rapporto al punto di vista: non si riconoscerà vivacità  o brillantezza a una storia che per noi non dice nulla. Lo sviluppo è un fatto, è quantità di energia. Il progresso è storia – oggi si dice narrazione.

Tempo - È scansione ma costituzionalmente finita. Il tempo non tempo, l’eternità, è invenzione umana, per il procedimento costante di definizione-differenziazione, che meglio si pratica per antitesi.

Vita – È il tempo. Sia circoscritto, come più spesso è nel suo fluire “perpetuo”, sia eterno – eternizzato.

zeulig@antiit.eu

Il giovane Jünger è un altro

Jünger ebbe la prima esperienza al fronte a  diciannove anni, nel dicembre 1914. Da volontario subito promosso tenente di fanteria, quindi buon allievo. Un anno prima era fuggito di casa per arruolarsi nella Legione Straniera. Ma lo spirito d’avventura non estese alla trincea. O, se lo fece, subito si ricredette. Anche in questi scritti, per lo più militareschi, di quando ancora vaga nella smobilitazione, e malgrado il risentimento della sconfitta e della pace iugulatoria, l’atmosfera è quella sottilmente critica delle “Tempeste d’acciaio”. Della prima riga, della prefazione: “Su noi continua a imperversare l’ombra dello spaventoso”. Nel ricordo misurato: “L’immagine della guerra era sobria, grigio e rosso i suoi colori; il campo di battaglia un deserto di follia, in cui la vita penosamente proseguiva in sotterraneo”.
Il giovane avventuroso non aveva gli occhi chiusi, e sa anche il perché della sua delusione, la guerra “di materiali”: “La guerra è culminata nella battaglia di materiali: macchine, ferro e sostanze esplosive costituivano i suoi fattori; l’uomo stesso era considerato un materiale”.  Che non è una excusatio, come sarà dopo la seconda guerra, della Germania che soccombe all’industria bellica  americana. Ma è il primo passo verso quella summa della contemporaneità che sarà – ed è tuttora per molti aspetti – “Der Arbeiter”, il lavoratore, la sua riflessione sul mondo a venire.
Questo volume raccoglie brevi scritti di tattica militare, che però culminano in due saggi su “La battaglia di materiale”: non propriamente bellicisti. Con le prefazioni a “Nelle tempeste d’acciaio”, e i testi che saranno ampliati a seguire il successo editoriale delle “Tempeste”: “Boschetto 125”, “Fuoco e sangue”, “La battaglia come esperienza interore”. Ma soprattutto la raccolta si segnala per una serie di scritti, sulla rivoluzione, la reazione, la tradizione, il pacifismo, l’internazionalismo,  che ribaltano l’immagine dello scrittore, relegato per i suoi legami intellettuali, e per la mobilitazione nelle due guerre,  nella Germania nazionalista e paranazista.
Lo spazio interiore di Jünger è ben articolato già ai suoi venti e trenta anni, in senso liberale. Non corrivo alle idee dominanti, ma saldo in uno sguardo pacifico sul mondo. I suoi appunti di guerra sono ricordi, postbellici cioè, e dopo una sconfitta rovinosa. Ma non si possono non confrontare con quelli irosamente bellicisti di Thomas Mann, che invece è reputato un praeceptor Germaniae. Delle “Considerazioni di un impolitico” e dei saggi che non si traducono, le “Gedanken im Kriege” nel 1914, o contro le “Weltfrieden”, il pacifismo, nel 1917 (o contro il socialismo nel 1928) – Mann del resto scriveva velenoso durante la guerra, ma lontano dal fronte.
La rivoluzione ha in guerra, al fronte, nelle trincee, un richiamo di umanità che non si può e non conviene isolare. Diverso il caso del pacifismo, che si agita per dividere i soldati al fronte dalla massa: il soldato è un uomo pacifico che combatte per la massa. L’internazionalismo sfonda una porta aperta, per esempio nella circolazione delle idee della poesia: non ci sono paratie stagne e non ci devono essere. Ma è concetto politico vago. Cioè definito, ma “solo nelle gigantesche metropoli del nostro tempo ermeticamente cinte da muri”, quelli dei buoni propositi, mentre fuori “alcun suolo” è “saldo”.
Il rivoluzionario in sé, nelle retrovie, “è un uomo non storico”, s’immagina che la storia cominci con lui. In realtà,  dipendente “da ciò che combatte”, è pur sempre uno che viene dall’ancien régime. E ha tutto da fare: “Una rivoluzione riuscita, che spezza le antiche formule, si è certamente liberata dei suoi vincoli, ma ancora non ha compiuto alcuna azione produttiva”. Il reazionario, d’altra parte, neppure lui “è un uomo della storia”. Per contrare il rivoluzionario si attacca a un mondo che più non esiste. La tradizione è altra cosa, che non nega il precedente, e nemmeno il futuro, ma continuamente si rinnova: “L’uomo non può esistere senza una tradizione, e nemmeno senza un futuro: egli è un recipiente vivente che continua a raccogliere quel che di nuovo sopraggiunge”.
Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, vol. I, 1919-1925, Libreria Editrice Goriziana, pp. Pp. 189 € 16

mercoledì 23 novembre 2016

Problemi di base sportivi - 302

spock

Berlusconi, dopo gli eredi Bondi, Alfano, Toti e Parisi, ci prova coi cinesi - un Mr. Bee, che forse era una sigla, il duo Yonghong Li e Li Han, i soli cinesi che non hanno un fido: sarà un dracula, passato dalla cucina mediterranea alla cinese?

Perché Higuaìn segnava sempre col Napoli, e non segna più con la Juventus, che lo paga il doppio?

Tifare Hamilton oppure Rosberg?

E sempre Mercedes?


Marchionne dice che la colpa è dei piloti, ora li vuole del vivaio aziendale: dopo aver distrutto i migliori, Alonso e Vettel, vuole azzoppare i giovani?

Vince la Mercedes in Formula Uno su tutti i fronti da quando è arrivato un direttore cacciato da Ferrari, da Montezemolo: strategie?

Ma Ferrari si fa pagare una tangente, anche in nero?

Se vince il Si la squadra del No farà ricorso: che partita è?

E se vince il No?

spock@antiit.eu

Il tedio e l'amore per la Sicilia

Una raccolta postuma dei racconti che Sciascia aveva lasciato fuori dal “Il mare colore del vino” nel 1974, assortita di  cronachette, moralità, “storie vere” sparse. Per amatori (malgrado qualche errore: “Galleria” è la rivista di Salvatore Sciascia, l’editore, che se ne occuperà “per tutta la vita”, fino agli anni 1980, non Leonardo Sciascia, che ne fu direttore, da lontano, negli anni 1950), e non. Materiali, anche se riscritti, e da Sciascia ordinati e pubblicati qua e là, anche più volte, ma mai ripresi in volume. La lettura non ne è grata: l'aneddotica è sempre brillante, ma schizzi e ritratti si ripetono di nullafacenti, pazzi, sciocchi, furbi, e delatori.
Il passaggio nel ’43 ai vincitori. La conversazione al circolo – di cui Camilleri farà un genere, con Montalbano e con i racconti. Gli scemi intelligenti di paese, di vario genere – il “Giufà” di altri racconti. Il romanesco, nel 1957. Un medaglione di Vincenzo Giordano Orsini, il colonnello che liberò per Garibaldi la via per Palermo. Un pastiche dell’amato Paul-Louis Courier, ufficiale gentiluomo francese nella Calabria dei “massisti” antinapoleonici. I ricordi di guerra – inevitabilmente, poiché la raccontano i sopravvissuti, la guerra sulle teste dei soldati. Tutto locale, come se da Roma o da Parigi lo scrittore tele scopasse compiaciuto i (vecchi) mondi della sua (remota) Sicilia. Di maniera.
Vi si documenta l’origine rondista della scrittura di Sciascia, col “diaccio pergolato di stelle”, le “immagini su un fondo amoerro viola” e l’“ombra fredda, cangiante, della seta cruda”, “il clemente naufragio dell’ora”, la “gracidante rovina”, il “sentimento della vita ingemmato di solitudine”. E se ne conferma l’avulso “illuminismo”, che è un pessimismo del genere Pirandello in Sicilia o Brancati, non più divertente. Specie per la Sicilia, schiacciata dalla sua stessa ironia, ripetitiva, noiosa.
Sciascia sarà stato l’ultimo emigrato mentale, prima del calcio in bocca di Milano, l’odio-di-sé meridionale del dopoguerra è stantìo. Una tale raccolta di stereotipi sulla Sicilia era certo difficile da mettere assieme. C’è perfino una mafia che prende “coscienza di essere l’unica cosa viva dell’isola”.
La chiave è nell’avvio del “Paese con figure”, che il curatore, Pasquale Squillacioti, mette alla prima pagina: il tedio e il miracolo dell’“emigrato improbabile”, che vuol far diventare “un po’ amore quel che ora è insofferenza”, all’angustia, alla povertà. Sciascia si sente – avrebbe potuto – essere altro, per formazione e curiosità, ma è scrittore siciliano. Non per essere nato nell’isola ma per esservi radicato.

Leonardo Sciascia, Il fuoco nel mare, a cura e con una nota di Paolo Squillacioti, Adelphi, pp.210, € 18
Corriere della sera, pp. 287 € 6,90

martedì 22 novembre 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (308)

Giuseppe Leuzzi

La corruzione nel Veneto è dello Stato
Non se ne parla, ma sott’acqua continua a dissolvere i miliardi. È il sistema Mose della laguna di Venezia. Da tempo immemorabile in costruzione e nessuno sa a che punto. Solo si sa che sono stati spesi 8 di euro, e non si sa come andrà a finire – l’Autostrada del Sole, l’opera più imponente della Repubblica, è costata e miliardi, di euro di oggi.
Si direbbe il caso esemplare della corruzione. Ma quando se ne parla, due pagine oggi sul “Corriere della sera”, è per dire che la colpa è della burocrazia. Anzi, che è “una disgrazia divina”.
Leggere per credere:

Area grigia
Ha sostituito l’omertà, un grimaldello nuovo, di polizie e giudici, per scardinare quel poco che restava di società meridionale. È l’area della collusione, del concorso esterno, della protezione. L’ombra da cui non ci si libera. Ma è quella di Primo Levi, la formulazione “originale” è dello scrittore dell’Olocausto: “È una zona grigia dai confini mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura inerna incredibilmente complicata e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare”.
Colpevoli e insieme innocenti. E viceversa: le responsabilità sono compartite.

Il galantuomo non è morto
A Salvemini stavano antipatici, un secolo e passa fa, e a Giustino Fortunato e altri sinceri galantuomini. Soprattutto a Sciascia, che negli anni 1960 progettò con Laterza una antologia storico-satirica della figura. La figura del Notabile Meridionale, che si diceva galantuomo. Ma non è detto: male non fa. Sciascia si stancò presto del progetto. La figura si era un po’ persa, effettivamente. Ma Camilleri l’ha ripresa, promozionandola ultimamente al suo meglio, con le inimitabili golosissime conversazioni al circolo, appunto dei galantuomini – l’avvocato, il dottore, l’ingegnere, il geometra, il (piccolo) proprietario.
Domenica Camilleri è stato più specifico, intervistato da Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera” come esponente del No al referendum: anche Montalbano - ha confessato quello che sospettavamo – è modellato sul galantuomo, il proprio papà beneamato. Il papà di Camilleri era fascista antemarcia e persona retta. Il “fascistone”, sinonimo solo un po’ limitativo del galantuomo.
Dell’originale Camilleri non dice i tratti del carattere. Ma attraverso Montalbano quelli del Galantuomo sono presto detti: femminiere, single irrimediabile, autoritario, individualista all’estremo, allergico alla politica, ai Dc ma anche agli americani – e anche al comunismo che Camilleri vorrebbe fargli professare. Ma allora con qualche speranza: a Montalbano va sempre bene, speriamo anche al galantuomo, finora specie sterile come i muli.

Rino del nostro quotidiano
“Con «Gianna» il mondo si fa più leggero”, ricords+a Umberto Broccoli, su “Sette”, nel 1978, pereannuncio degli anni 1980. “Gianna” di Rino Gaetano. Che la difende colto, alla radio di Boconpagni, “Discoring”, “citando Majakosvskij e soprattutto Ioneso”, ricorda Broccoli, il teatro del assurdo. “Ma Boconpagni lo ferma, invitandolo a non fare citazioni”, a stare al suo posto. Nemmeno a cantare, alla Rai non usa: “Rino dovrà solamente cantare «Gianna» in playback, accompagnato da una chitarrina finta”.
Rino Gaertano. Broccoli ha qualche ripensamento: “Siamo proprio sicuri di trovarci di fronte a un nonsenso? Rino a me sembra prevedere quel mondo diverso, edonistico, leggero leggero, il mondo degli Ottanta,  da alora sempre più presente nel nostro quotidiano”.
“Gianna”  affiancava rimette facili, da rimario, “la festa è finita, evviva la vita”, “un mondo diverso, ma fatto di sesso”, “e chi vivrà vedrà”… Ma la chiave è sureale e umoristica. Che poi farà strada, naturalmente a Milano, con Jannacci, Gaber, lo stesso “predicatore” Celentano.

L’obesità è meridionale
Il rapporto dell’Osservatorio nazionale sulla salute delel Regioni, “Osservasalute”, stima i picchi di obesità in Italia nelle regioni meridionali, e tra le fasce di età più giovani: del 14 per cento in Molise, del 13 in Abruzzo, del 12 in Puglia. E per esperienza si possono aggiungere i giovani in Calabria, normalmente sovappeso. È l’esito, secondo i dietologi, di un mix di culture e condizioni socioeconomiche. Di culture che danno grande peso al cibo, e tendono a privilegiarne la quantità. Forse, aggiungeremmo, per quanto atiene i più giovani, del mammismo. Ma, pure, del sottosviluppo.
Anche negl Usa l’obesità, devastante, è soprattutto meridionale. Una sovraalimentazione che è come una reazione alla povertà recente. Nel Sud, però, la questione non è così semplice, combinandosi con una storia e quindi con una cultura che – indenne alle crisi e alla povertà ritornante – è consolidata, ancora fondamento di certezze: l’obesità è lo specchio della modernità, non della povertà, dele bevande gassate e dei dolcetti grassi.
La modernità che al Sud agisce come uno specchietto per le allodole, una trappola. La modernità induce ai sentieri sbagliati e anche ai vizi.

L’infedele a Napoli
Nel 902 un emiro tunisino è sbarcato in Calabria per portare il jihad in Italia. Alla notizia Napoli reagisce col terrore. Abbatte il castelo Lucullano, alle porte della città, per evitare che il nemico se ne impossessi. Porta in città dal Luculano, con imemnso corteo, le spoglie del santo Severino, per evitare che cadano nella mani degli infedeli. Giudicando la città difendibile, i sobborghi no, una gran mssa di gente è spostata in città. Ma intanto l’invasore è morto a Cosenza, di dissenteria, e la sua spedizione di è sciolta. Mentre la città è minacciata dalla peste
Il terore diffuso a Napoli alla notizia delo sbarco a Reggio Calabria di Ibrahim è dovuto a “segni inequivocabili”, premonitori, giunti dal cielo: “Signa in sole et luna”, racconta Amedeo Feniello, “Sotto il segno del leone”. “Stelle densissime” e “aste longissime” si rincorrono per più notti nel cielo. Prodigi che “a memoria d’uomo e in nessuna età erano stati mai visti e di mirabile portentum

Sicilia
Non sembra, ma domina lo Stato,. Siciliano sono il preidente delal Repubblica e il presidente del Senato, Mattarella e Grasso. Siciliano il capopartito che ha reso il governo possobile in questa legislatura, Alfano.

Mattarella e Grasso si sono incontrati, anche questo fa impressione. Grasso è il sostituto Procuratore che 35 anni anni fu incaricato dell’indagine sull’assassinio di Piersanti Mattarella, il fratello del presidente. E indagò due terroristi di destra, Cavallini e l’eterno Fioravanti. Come fu possibile? Chi glieli mise davanti? Perché Grasso puntò su di loro?
Quanto Grasso “scoprì” che i terroristi non c’entravano, era troppo tardi per trovare gli assassini dell’onorevole siciliano, che infatti sono impuniti.

Nel racconto di Anatole, France, “Il procuratore della Giudea”, Ponzio Pilato è in pensione in Sicilia, dove, dice, “possiedo delle terre, e coltivo e vendo il mio grano”. Il lavativo era siciliano?

Il Pilato di France è soprattutto uno che si lamenta sempre. Un perseguitato. Quando era in attività dagli ebrei, presso i quali a Gerusalemme si è insabbiato, con tutta la carriera, per una vita. E anche alla fine, in pensione, lamenta di sentire sul collo gli emissari di Vitellio, il governatore di Siracusa, senza motivo specifico. Questo è molto siciliano.

Nei giorni del sequestro Moro”, racconta Camilleri di Sciascia a Cazzullo, “lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare?” Non c’è partita in Sicilia quando si potrebbe vincere la verità.

Si penserebbe il reato di concorso esterno in associazione scivoloso soprattutto in Sicilia. Nell’isola la cultura dominante, anche in ambiente urbano, è familiare e tribale, di amicizie, padrinati, parentele anche lontane, e l’intenzione criminosa è quindi difficilmente configurabile. Ma la giurisprudenza siciliana - attraverso i tribunali e, indirettamente, via Cassazione - è poco o niente critica, mentre sono perplessi studiosi non siciliani, Turone, Sciarrone e altri numerosi.

leuzzi@antiit.eu

Tutti a Londra fuori dalla Ue

L’Inghilterra ci ha lasciati e tutti corrono a investire o reinvestire a Londra. I maggiori gruppi americani e i più avanzati nelle tecnologie: Facebook, Google, Apple, Amazon. Creando uffici, studi e centri di produzione. Con diecine di migliaia di intelligenze qualificate e da sviluppare. Ben retribuite.
Dice che gli americani dovevano scappare. Ma da dove? Dall’Europa delle tasse. Perché, alla fine, la Gran Bretagna rimane Europa, ma fa pagare meno.
È la Ue rigorosa e Londra permissiva? No, non c’è dumping fiscale, questa è una bugia, fuori dalle isolette che ne sono il paradiso. Le tasse a Londra si pagano. Solo non esose, e alla fine il conto entrate è più robusto. Anche molto. E sotto tutti i profili, compreso di cassa: il prelievo può crescere con aliquote più basse, insieme con altri benefici, di investimento, occupazione, retribuzione, formazione, produttività.
La Brexit, che doveva rovinare la Gran Bretagna, continua a beneficiarla. Mentre l’Europa del rigore stringe la cinghia - con l’alito cattivo: i moralismi sono eccessi generalmente non di stupidità ma di furbizia.
Quello fiscale è un’altra cattiva applicazione della politica del rigore. La Scienza delle finanze, quando il fisco era oggetto di analisi e non di presunti moralismi, insegnava a modulare aliquote e prelievi sulle circostanze, sociali, politiche, anche morali, ed economiche, qui comprese le forze relative. È solo l’Europa che pensa di poter multare impunemente questo e quello, e senza avere capacità di fuoco o di contrattazione.

Rousseau si specchia in Tasso

“Agli occhi dei lettori, e soprattutto dei medici, dell’inizio dell’Ottocento Rousseau e Tasso divennero le tipiche figure della malinconia”, della depressione. Rousseau non per altro, perché si identifica in Tasso. Vi si immedesima e ne fa uso costante. In tutte le sue narrazioni e confessioni – apologie di sé. Identificandosi con Tancredi infelice.
Cultore di Rousseau, Starobinski ne è anche il censore. L’identificazione con Tancredi vuole un accorgimento per, tipicamente, deresponsabilizzarsi. In più punti Rousseau dice la sua propria storia già scritta, dall’incolpevole Tasso: “Ha predetto le mie disgrazie”, come se gliele avesse imposte… Ma il suo è un atto d’amore per Rousseau, l’ennesimo, e per il Tasso negletto. Di cui Starobisnki rintraccia i tanti cultori in Francia, da Lully a Voltaire e Delacroix, per dire i nomi maggiori – nonché di Goethe, et al.
Molte le tracce che Starobinski snida e propone. Dirette (citazioni, evocazioni, rimandi) e indirette: l’amore e la fede oltre la morte, i segni di amore disperato incisi sul legno o nella pietra, la conversione alla musica italiana, e quindi a una prosodia e una prosa musicali e non nervose – “sostenere in misura suoni uguali e giusti”, dice Julie infine contenta dopo la scoperta, invece degli “scoppi di voce ai quali ero abituata” – e al “recitar cantando” che il tardo Cinquecento aveva elaborato. In un più generale innamoramento della poesia, sintetizza Starobinski, della “inimitabile musicalità dell’italiano” - mentre la prosodia francese risentiva “saltellante”, si direbbe a passo di marcia, oberata da senari e alessandrini.
Rousseau si può dire abbia convissuto con la “Gerusalemme liberata”, tanti sono i riferimenti nelle sue opere, che Starobiskki ritraccia. Specie in quelle musicali, a partire dalle “Muse galanti”, poi ne “L’indovino del villaggio” e altrove, seppure contraffatti per i più diversi motivi. Il Tasso è una delle tre “passioni” di Rousseau, con la musica e la botanica, in grado di rasserenarne gli umori.
Qui – una Lezione Sapegno 1993, pubblicata nel 1994 col titolo “L’imitation du Tasse” – Starobinski pubblica il brogliaccio della traduzione  che Rousseau avviò della “Gerusalemme liberata”, fermandosi al primo canto. Rimasto inedito. Negli ultimi anni, a corto di immaginazione, o solo stanco, a corto di voglia, “Rousseau custodisce ancora, nel libriccino italiano che ha fatto rilegare in pergamena e che ha gelosamente conservato, la risorsa di un rifugio inespugnabile, la chiave di un sogno popolato di angeli, maghi, conquistatori e amanti”.
L’ultimo studio italiano è di Luigi Foscolo Benedetto, 1912.
Jean Starobinski, Rousseau e Tasso

lunedì 21 novembre 2016

Letture - 281

letterautore

Amour – La parola chiave è da sempre transgender, almeno in francese: maschile al singolare, femminile al plurale.
Anche la Pasqua in francese ha questa ambivalenza, e la delizia.

Andrea Camilleri – Renzi “mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno”.
“Quale?”
“Mi sfugge, ma c’è”.
Dopo aver esordito con l’unanimismo: “Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso”.
Al referendum “pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato”. Ma non per misoneismo: “Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti”.
Camilleri si inquadra da sé parlando con Cazzullo sul “Corriere della sera” ieri come il notabile vecchio corso che traspare dai suoi racconti: Soprattutto da Montalbano, che dice ricalcato sulla figura del padre amatissimo: il galantuomo, altra figura corrente nel vecchio notabilato meridionale. Anche in aspetto di “fascistone”, marciante ma socievole.
Antiamericano naturalmente, il giusto. Ricorda di aver visto coi suoi occhi il generale Patton, solo “su una jeep guidata da un negro”, col quale parla unicamente battendogli le nocche sull’elmetto, che si ferma, scende, prende una piccola croce di legno sulla tomba di un soldato tedesco, la spezza, risale sulla jeep, dà due colpi sull’elmetto del negro, e se ne va.
Sordamente comunista. Sciascia non lo sopportava, e questo non depone a favore. Non senza motivi, però: “Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare?”

Comicità – Aldo Grasso, che non  se ne è “persa una” del “Young Pope”, lo mette tra le opere “sublimemente ridicole”. Di “un compiacimento fastidioso ed esagerato che raggiunge punte acuminate di comicità involontaria”, eccetera – “i protagonisti affrontano i massimi sistemi… come se fossero venditori ambulanti – logorroici, petulanti e sottilmente sadici”.
Tra vent’anni, dovendosi celebrare il “Grande Regista”, che “come lui non ce n’è più”, dirà che non l’ha detto, e dunque è bene siglare la sua prosa, ppv, per presa visione. Anche perché i genitori del giovane papa sono hippie e non yuppies, come li vuole il critico, la due specie confliggono – la cosa effettivamente è comica.
 Soprattutto, Grasso è filologico: “Non è un racconto (non c’è trama o, almeno, è flebile), ma, volutamente, un antiracconto”. E che vuol dire, “Guerra e pace” è un  antiracconto? Ma questo è possibile: che dopo aver lodato tanta fiction tv, e dunque averla vista senza perdersene una, uno sbarroccia.

Lettura – Il telefonino fa bene al libro? Non abbiamo un minuto ormai che per compulsare il cellulare. Ma la vendita\acquisto di libri è in aumento, secondo tutte le rilevazione, dell’Aie, l’associazione degli editori, o della Nielsen, e nelle elaborazioni di Giuliano Vigini. Si compra senza leggere? Improbabile, in questa crisi ormai decennali siamo circospstti anche sul costo del caffè al banco.

Salgari – Tra originali e derivati, carta e ebook, si può scegliere fra 554 edizioni in libreria. È scrittore immortale? Il bollettino n. 83 della libreria D’Ambrosio di Napoli (marenagnum.com), reca in offerta 73 titoli, pubblicati da un numero vasto di editori, quindi già fuori diritti, degli anni  1910 e 1950 – due generazioni ( 16 di Verne).
 
Schwärmerei – È il fanatismo, o “entusiasmo” del Settecento tedesco. Cosi nominato in riferimento alle sette mistiche degli Schwärmer dei tempi di Lutero, protestanti per lo più anabattisti: “sciamanti”, cioè irrequieti,  dissidenti per costituzione – “simili all’incessante, confuso sciamare, schwärmen, delle api (Mittner).
Oggi Schwärmen è ridotto all’uso familiare, per “essere innamorato”, “avere una cotta”. Ma fu la parola poetica per eccellenza dell’Ottocento. Lo Schwärmer di Lavater si perde nelle fantasie trascendentali. Ma di più era schwärmer l’attenzione e il culto della natura, che darà fondo al romanticismo. In entrambi gli sviluppi si direbbe il proprio dello scrittore: quello che vive nella natura e nella trascendenza. Lecito, legittimo, e anzi tanto più tanto meglio.

Sherlock Holmes – Il metodo Sherlock Holmes fu prima ancora del senatore di Bergamo Giovani Morelli, “Ivan Lermolieff”. Un altro medico sviato come Conan Doyle. Inventore dell’attribuzionismo dei manufatti d’arte, maestro di Berenson e Venturi, il senatore lasciò tutto alla cittadina Accademia Carrara - dopo aver riccamente venduto allo Städelmuseum di Francoforte le “Streghe” bonazze di Baldung Grien.

“Mr Holmes – Il mistero del caso irrisolto”, il film di Sherlock Holmes vecchio (Ian McKellen) che Bill Condon ha tratto da “A slight Trick of the Mind” di Mitch Cullin, è di culto immediato, oltre che per lo straordinario protagonista e la fotografia idilliaca, perché dà al detective quello che nelle tante storie gli è mancato: un’emozione. Si direbbe un affetto, nel caso per una donna, che lo ha guardato e gli ha parlato. E per un ragazzo che è un figlio.

Si direbbe la creatura di Conan Doyle l’uomo piatto, il bidimensionale di “Flatlandia” – suo contemporaneo peraltro, Abbott lo scrisse nel 1884.

letterautore@antiit.eu

L'investitura di Obama a Berlino

Non l’ha dato ma non l’ha smentito - forse perché ne parlano solo i corrispondenti italiani: l’incarico ad Angela Merkel di salvare la Nato e l’Occidente dalle intemperanze di Trump. O forse perché avrebbe suscitato facili sarcasmi sui vecchi imperatori che dispensavano investiture ai vassalli.
La designazione  della Germania a secondo pilastro Nato, o vice-Usa, Obama a Berlino non l’ha pronunciata. Ma il verbo della Cancelleria è in linea con lui: buone intenzioni e scarsa applicazione. O dei guasti della buona volontà, tanto più superficiale quanto più è supponente.
Schierare la Nato contro la Russia è stato un errore, e anche pericoloso per l’Europa – se non è stato voluto proprio per questo. È anche un tradimento dell’impegno di Bush con Gorbaciov nel 1989, per facilitare la caduta del sovietismo, di non schierare la Nato alle costole della Russia postsovietica.
Se la Germania vuole guadagnarsi uno sconto a Mosca, per i suoi affari e il suo export, anche di armi, a spese della distensione e del resto dell’Europa, questa non è una buona ragione. Gli Usa sono sempre stati cauti, anzi equanimi, negli equilibri di potenza. Con gli avversari e anche con gli alleati-sudditi.

Lo spettacolo non è per le masse

Lo spettacolo è comunicare col diavolo. Alla fine il trattato è questo, una predica. Ma Tertulliano, il primo dei grandi berberi della cristianità, prima dei santi Cipriano e Agostino, è anche lui un grande scrittore, oltre che un teologo – il primo: argomentò la Trinità, benché tardo convertito, sui trent’anni. La sua arringa contro gli spettacoli, del circo, dell’anfiteatro e del teatro, è anche una miniera di etimologie e di festività. La prima guida al mondo romano delle feste, del 200 circa d.C., che si avviava a prendere dopo pochi decenni la metà delle giornate dell’anno. Una testimonianza anche, vivace, della crudeltà romana.
Una curiosità è che il trattato fu scritto in velata polemica col papa Callisto, che con un breve aveva “depenalizzato” l’adulterio e il sesso – la permissività non è nuova nella chiesa. Resta da accertare, sullo fondo di questo rifiuto filosofico e quasi teologico del divertimento (“ludus”), se esso è un peccato contro Dio, oppure, come voleva Debord cinquant’anni, un trucco del capitalismo, un’alienazione indotta delle masse. Ma sempre resta che le masse non si devono divertire.
Tertullien, La première société du spectacle, Mille-et-une-nuits, pp. 92 € 3,50

domenica 20 novembre 2016

Con Trump spesa in deficit

Dopo Waterloo, la vittoria di Trump segna anche la fine dell’opinione pubblica? Dei media, dei sondaggi, all’evidenza fuori rotta. Durante la campagna elettorale, si è detto, ma di più ora. Per l’incapacità di analizzare la sorpresa più che per la inattendibilità dei sondaggi, che sono oggi i principali veicoli di opinione. Anche dei media qualificati, con i loro analisti e specialisti. A due settimane dalla sorpresa aspettiamo ancora di saperne qualcosa.
La vittoria di Hillary Clinton al voto popolare, concentrata in California e nello stato di New York, conferma indirettamente il collasso della opinione pubblica: nemmeno il partito Democratico, e la macchina elettorale di Hillary Clinton, più potente, molto, di quella di Trump (in questo senso la vittoria dell’“arricchito” Trump è una vittoria della democrazia: i suoi fondi elettorali erano un terzo o un quarto di quelli della rivale), hanno avvertito, nemmeno subodorato, anche solo per ipotesi, la sconfitta.
Cosa attendersi è detto in America Fist. Attacchi concentrati sui media Usa – legittima difesa? Mano dura con gli Stati “canaglia”, Iran, Corea del Nord. Ma, di più, sul fronte multilaterale o della globalizzazione, che non fa più gli interessi americani. Nel quadro di una revisione degli assetti regolatori mondiali, nel commercio e nel clima. Nei quali al Cina marcia all’evidenza in regime mercantilistico, commercio, tecnologia, ambiente, lasciando gli oneri agli altri – la libera produzione di CO2 in Cina è superiore a quella del resto del mondo: i mercati si conquistano senza garanzie di qualità, se non accessorie, e senza rispetto par i diritti umani – paga e orario di lavoro.
Una revisione quindi con la Cina in speciale modo. Ma poi anche con l’Europa, il secondo maggior partner commerciale, e con i paesi confinanti, Canada e Messico. Col Messico anche per l’immigrazione clandestina – un problema che già Bush jr. avrebbe dovuto affrontare, e poi Obama: non è pensabile che il Sud America si trasferisca negli Stati Uniti. Trump vorrà riequilibrare d’imperio i rapporti commerciali – lo ha detto – a prescindere  dallo statuto europeo di fatto, di alleato indivisibile degli Stati Uniti.
Ci sarà anche meno America in Medio Oriente, in Libia, in Palestina, nella penisola arabica.
Fra i tanti paradossi non spiegati dell’elezione di Trump, il candidato impossibile, c’è la fiducia dei mercati, che gli indici di Wall Street sintetizzano. Il dollaro ha accelerato l’apprezzamento in corso da fine 2014, portandosi  contro l’euro al livello dell’1 gennaio 1999, alla quasi parità della prima quotazione. I titoli azionari hanno battuto i precedenti record al rialzo. Immediata si è prodotta una fuga consistente di capitali dai fondi obbligazionari in Asia e America Latina verso Wall Street, 7-800 miliardi di dollari in pochi giorni.
È come se i mercati puntassero su una politica di deficit spending – l’unica che si può delineare dalle confuse dichiarazioni di Trump – per rafforzare e stabilizzare la crescita. Chiudendo la fase d’incertezza che era seguita all’annuncio della Federal Reserve di ritenere chiuso il ciclo dei tassi zero e del quantitative easing.
I tassi al minimo non attiravano più gli investitori: il differenziale reale rispetto ai tassi monetari, misurato con la crescita dell’economia, non era più attraente. Una politica di deficit crescenti, in grado di stimolare meglio l’economia, è ora la scommessa dei mercati sulla Trumpenomics, la politica economica della nuova presidenza.
Era la richiesta degli economisti liberal - di sinistra. Nonché del candidato democratico Sanders, il radicale sconfitto da Hillary Clinton. Ma molti repubblicani si sono espressi in passato per un programma di stimoli all’economia, con sgravi fiscali, spesa pubblica e incentivi.
Se questo sarà il programma di Trump, il divario con l’Europa diventerà un baratro.