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sabato 21 marzo 2020

Ombre - 505

Si ferma per i virus il paese reale, si vive solo virtualmente. Si lavora, si studia, si compra, si paga, via whatsapp, email, skype.

I media moltiplicano i consigli di lettura per passare la giornata, i dischi, i giochi da tavolo. Che si comprano dove, poiché è tutto chiuso? Consigliano anche, molto, le serie tv, nelle piattaforme a pagamento. La pubblicità non cessa col contagio.

Unipol va su del 17, 73 (sic!), giovedì, e giù del 7,35 venerdì. Unicredit era scesa del 12,13 venerdì 13, è risalita del 5,08 lunedì, è ridiscesa del 5,07 martedì, sale del 5,29 giovedì, e del 7,65 venerdì. È successo qualcosa?

La Corea del Nord ha bloccato l’epidemia tracciando tutti i profili possibili degli infettati: abitudini, spostamenti, contatti. Attraverso le cartelle sanitarie, le celle dei cellulari, le carte di pagamento, le telecamere di sorveglianza. Il primo paese infettato  fuori dalla Cina, 52 milioni d abitanti, con molti slums urbani, ha registrato solo 8.652 contagi, con 92 morti.
Questo non si può fare in Italia per la privacy. In un paese che non ha nessuna privacy, a parte le miriadi di bolli da firmare per ogni occorrenza. Che spia liberamente, e con lode.

Filippo Di Giacomo si lascia trasportare dalla polemica, sul “Venerdì di Repubblica”, contro il movimento dei Focolarini: “Ne fanno parte migliaia di cristiani di 350 confessioni, seguaci di diverse religioni, agnostici e atei. Tra questi, anche un buon numero di cardinali e vescovi”.  Oppure no?

Gianluca Di Feo, vecchia volpe della giudiziaria, si segnala su “la Repubblica”, di cui è vice-direttore, per denunciare gli intrighi e i colpi di mano di Trump in tema di vaccini, tamponi e altri strumenti antivirus, in Italia, in Europa e dappertutto nel mondo. Soprattutto predatore in Italia, dove si è appropriato di mezzo milione di tamponi. Una narrazione anni 1970.
Un giorno “la Repubblica” scoprirà la Cina? Sicuramente sì – la Cina è stata scoperta prima dell’Europa - ma quando?

Trump si è appropriato manu militari, racconta Di Feo febbrile, di mezzo milione di tamponi da una ditta di Brescia. Che non aveva a chi altro venderli. E glieli ha venduti a caro prezzo. Un affarista stupido?

“Ci risulta che banche d’affari a Londra ragionano sull’ipotesi default Italia e che grossi gruppi internazionali potrebbero puntare su asset strategici” in Italia, le grandi imprese. Risulta a Berlusconi, non ai social.
Come che vada, sarà la fine del libero mercato degli affaristi: la crisi dei mutui non garantiti non è bastata, nessun vincolo è stato introdotto. Ma i superstiti al coronavirus non potranno fare finta di nulla.

Singolare la gaffe all’esordio della neo presidente della Bce, Christine Lagarde, in tema di debiti e di spread. Una persona di vertice, di grande importanza, che dà l’impressione di non sapere cosa dice, come fosse eterodiretta. Non ha capito bene cosa doveva dire?
Anche le correzioni successive, non sembrano dette o scritte da lei.

La gaffe della presidente Bce che ha provocato il crollo di Borsa, tre crolli successivi, particolarmente sembra studiata: non è possibile dire, con tanta chiarezza, quello che ha detto. Come se avesse organizzato – fosse stata chiamata a organizzare – una gigantesca speculazione al ribasso.
Un’impressione sbagliata? La controprova è che nessuno gliene chiede conto.

Lorenzetto ha scovato un ad di una multinazionale ridotto a senzatetto dalla legge Fornero. Uno con due superliquidazioni, l’una impiegata a estinguere il mutuo casa dei figli, l’altra per la passione di una vita, da coltivare in pensione, la vita al polo Nord. Per scoprire al ritorno che non aveva più diritto alla pensione, per cinque anni. Che ha poi vissuto tra le mense dei poveri e i rifugi comunali della Caritas. 
Bastava poco, niente, per “accompagnare” gli esodati. Ma due buoni credenti, cattolici praticanti, Fornero e Monti, non ci hanno sentito.

L’ex ad di Lorenzetto, Aldo Scaiano, spiega anche il business del sociale. “Non ha la sensazione che per tante associazioni i poveri siano un business?”, è la domanda. “Ne ho la certezza” la risposta: “Una casa retta da religiosi, ai quali il Comune versava 8 euro al giorno” per un letto ai poveri, “in 24 ore” li scacciò, “con la scusa che serviva una disinfestazione, in realtà per fare posto ai profughi (gli immigrati, n.d.r.), per i quali la prefettura pagava 35 euro”.
Lo spiega uno che non può vivere senza messa.

Cronache virali

Al 19 marzo, su 740 contagiati a Roma e nel Lazio (tolti cioè i guariti e i deceduti), uno su dieci era un medico.
Più di 2.700 alla stessa data in tutta Italia gli operatori sanitari contagiati, l’8,3 per cento delle persone colpite dal virus. Una ogni dodici. Contagiati da un virus che si trasmette a contatto.
A Castellaneta (Taranto) un medico ospedaliero che era andato a Milano a prednere la figlia con sintomi da corona virus, rientra in ospedale e infetta 44 tra medici e infermieri – 44 i casi accertati in un primo momento.
“Dobbiamo tornare sull’anomalia dei focolai scoppiati a Codogno, Bergamo, Brescia e Cremona”, dice la virologa Ilaria Capua: “In comune hanno l’epidemia partita dentro gli ospedali”. Lo dice dalla Florida, dove può insegnare liberamente – Capua sa tutto dei virus, ma in Italia è indigesta alle Procure e alle università.
Il contagio dilaga in Spagna alimentato da Valencia e Barcellona. Da Atalanta-Valencia e Valencia-Atalanta, le partite di calcio, dalle Fallas valenciane, le feste di san Giuseppe che decorrono dall’utima domenica di febbraio, e dalle manifestazioni dell’8 marzo. Una prova generale dell’indipendenza catalana?
La colpa? Di Trump: “la Repubblica” segue, col vice-direttore Di Feo, la traccia americana. Di Trump che compra e ruba tamponi, vaccini, e altri strumenti antivirus. Ogni giorno con nuovi particolari.

L’Italia senza rete

Da sprinter a lumaca, nei settori trainanti: anche in internet, come per il personal computer, l’Italia è passata da posizioni di avanguardia, con piani industriali adeguati, alla retroguardia.
“Si scarica un film a Taiwan in 8 minuti, in Italia in 39” - “La Lettura”. L’“Economist” ha usato tradizionalmente come termometro dell’inflazione nel mondo il costo comparato dell’hamburger. Cable, sempre da Londra, ha avviato la comparazione delle performances di rete. Da rete fissa, la rapidità di connessione internet (e quindi di moltiplicazione del tempo di lavoro), misura in Mbps, megabit pre secondo, vide in cima Singapore, 200,1. La media mondiale è di 73,6 Mbps. In Italia la velocità è di 59,3 Mbps – in Romania di 144,9.
Trent’anni fa la Sip-Stet aveva avviato, con Pascale e Agnes, un progetto Socrate, Sviluppo Ottico Coassiale Rete Accesso Telecom: il cablaggio dell’intera penisola a fibra ottica. Un piano da 13 mila miliardi di lire, partito infine nel 1995.  Ma presto bloccato. Prima perchè i Comuni volevano poter decidere ognuno per sé, a chi dare l’appalto e come – il business del sottogoverno: Bologna, Venezia, Roma, Torino. Sollecitati da gruppi concorrenti, che ambivano a una parte della rete anche se non spendevano: Cable & Wireless, un consorzio anglo-italiano, la Olivetti di De Benedetti, British Telecom, France Telecom. Poi perché la Sip andava privatizzata.
L’Italia ha abbandonato il campo del personal computer, su cui era in anticipo, quando il personal diventava commerciabile, per i problemi finanziari di Olivetti. Ha abbandonato il cablaggio per la politica vorace, soprattutto locale – che tuttora litiga sulla fibra.

1966, quando le donne non potevano parlare

Il 16 marzo del 1966 si apre a Milano un’inchiesta giudiziaria che farà epoca: la Procura incrimina tre studenti del liceo Parini, la scuola bene di Milano 1, due ragazzi e una ragazza. Ai tre, Claudio de Poli, Claudia Beltrami Ceppi e Marco Sassano, si addebita l’inchiesta “Che cosa pensano le ragazze d’oggi?”, che hanno organizzato e pubblicato sul giornale studentesco, “la zanzara” – “una smilza rivista”, anche se “uscita per la prima volta nel giugno 1945 con un editoriale intitolato «La libertà nella scuola»”. 
Il giudice Carcasio ha convocato i tre a palazzo di Giustizia per sottoporli a visita medica, come dire che sono tarati. Per poi compilare una “scheda minorile medica”, prevista da una circolare del 1933, che lascia al giudice e al medico, in apposita colonna, una personale valutazione. Di cui Carcasio non nasconde i termini, con pesanti allusioni all’etica sessuale dei ragazzi e delle loro famiglie. La ragazza rifiuta, telefona ai genitori, e un processo si avvia.
L’iniziativa giudiziaria seguiva alcune proteste. Di un gruppo di genitori. Dei “Pariniani cattolici”, emanazione di Gioventù Sudentesca di don Giussani (Gs prima di Cl, Comunione e Liberazione). E il 22 febbraio, su sei colonne, del “Corriere Lombardo”, “Scandalo al Parini” – uno degli ultimi numeri dell’influente giornale milanese del pomeriggio, fondato e a lungo animato da Edgardo Sogno. Non c’era scandalo. Non a una rilettura, ma nemmeno all’epoca: nulla di pruriginoso, tanto meno di osceno, come Carcasio sosterrà. 
“La zanzara” dava voce alla parte femminile del liceo, che all’epoca ne aveva poca o nulla, su tutto: istruzione, cultura, lavoro, matrimonio, morale, religione. Lo scandalo era che le ragazze parlassero? È quello che emerge dalla ricostruzione di Alessandra Gissi.
La storica non nasconde che per l’opinione corrente all’epoca l’inchiesta era una novità. E che le ragazze del Parini non si sottrassero: “Le ragazze interpellate auspicano l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, «libertà sessuale e modifica totale della mentalità». Sostengono che «la purezza spirituale non coincide con l’integrità fisica». La maggior parte si dichiara favorevole all’uso di metodi anticoncezionali durante il matrimonio. Si pronunciano in merito alla recente proposta di legge sul divorzio definita «cauta e limitata», criticano l’ipocrisia come unico collante dei rapporti sociali e personali. Sperano in una vita indipendente”. Ma – erano pure gli anni di Mary Quant, della minigonna e del no bra – niente di osceno: “Insomma, rispondono con piglio ma soprattutto autonomia di giudizio, incluse quelle che si dichiarano cattoliche”.
Segue un processo. Preceduto da una mobilitazione larga in tutta Italia, e da una manifestazione a Milano – “in giacca, cravatta e gonne sotto il ginocchio” - contro lincriminazione. La difesa schiera un battaglione di grandi nomi, gli avvocati Delitala, Dall’Ora, Crespi, Smuraglia, Pisapia padre tra gli altri. Il 13 aprile, dopo sole tre udienze, l’assoluzione: non c’era altro esito possibile. Alla metà degli anni Sessanta l’Italia è ancorata a valori e codici di comportamento tradizionali, mentre il conflitto intergenerazionale non viene intercettato dalla politica”, commenta Alessandra Gissi. Dall’Italia istituzionale, ancora imbalsamata – la politica aveva già svoltato, col primo centro-sinistra, del divorzio e il nuovo diritto di famiglia, dello statuto dei lavoratori, della prima protezione ambientale, e del sistema sanitario nazionale. Otto anni dopo, al referendum contro il divorzio, le donne saranno determinanti nel no, 6-4 - le donne del Sud: in Abruzzo, Calabria e Sicilia, dove i no all’abolizione del divorzio furono la metà, furono tutti di donne.
 “I ragazzi non stanno più al posto previsto per loro”, scriverà la storica Anna Bravo a commento del processo. In Italia. In una certa Italia. Nel 1966, mentre Milano processava “la zanzara”, Mary Quant entrava a Buckingham Palace: la regina Elisabetta la nominava cavaliere, per la liberazione dell’abbigliamento femminile.
Alessandra Gissi, 16 marzo 1966,  “Il Mulino” 16 marzo 2020

venerdì 20 marzo 2020

Problemi di base lombardi - 548

spock
Una Tirreno-Adriatico hanno fatto tutta uno sprint?

Una Milano-Sanremo da record, più veloci di Eddy Merckx?

E il Giro d’Italia a cronometro, fino a Reggio, e a Palermo?

I lombardi inquieti corrono veloci in massa , verso la morte?

Ogni santo week-end?

E infettano il mondo?

Il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica”, Al. Manzoni, “I promessi sposi”: è per questo che i milanesi si corrono dietro?

spock@antiit.eu

Il modello cinese

Il mercato cinese, il più grande e il più prospero del mondo, è programmato. Effetto della programmazione. Di una cornice istituzionale, politica, legislativa, finanziaria curata fin nei particolari, e continuamente in tensione, in aggiornamento.
Naufragata cinquant’anni fa nella polemica democristiana e comunista contro il centro-sinistra socialista, la programmazione è stata ed è la chiave dell’interminabile boom cinese. Ciò per effetto della monoliticità del potere, controllato dal Pcc, il partito Comunista. Ma articolato e flessibile. Occhiuto. Le “purghe” ci sono sempre, anche se non si dichiarano, anche di grandi capitalisti o proprietari, in teoria autonomi. Ma per errori manifesti o contestazioni serie, approfondite: il mercato vuole sentirsi libero.
È una programmazione a lungo termine, strategica. Sull’Africa, sull’Europa. E tattica, adattabile – sui dazi di Trump, sulle reazioni al coronavirus. Avendo fatto un caposaldo  dell’ideologia del mercato, sornione.
Le catene di valore cinesi sono strettamente controllate. Dal costo e orario di lavoro, agli investimenti, agli incentivi fiscali, alla politica monetaria condiscendente. E tenute fuori da occhi indiscreti – concorrenti: c’è inflazione in Cina, oppure no, chi sa?
Una programmazione di successo perché mette in campo risorse pubbliche, senza limiti. Direttamente, attraverso l’Esercito, il più grosso soggetto capitalistico in Cina (e probabilmente nel mondo), la Polizia, e lo stesso Partito, grandi centrali d’investimento. E indirettamente, attraverso la banca centrale e le banche di Shangai, a controllo più o meno pubblico. Una struttura non dichiarata - alla Cina tutto è in questo mercato globale permesso, nel quale cioè tutti i concorrenti ci guadagnano, giapponesi, americani, europei - ma sotto gli occhi di tutti.
Non c’è probabilmente popolo più difficilmente disciplinabile dei cinesi. Ma il partito Comunista Cinese è solido e avvertito: ottiene i risultati che si propone.

La poesia popolare di Pasolini

Il massimo interesse di Pasolini per tutti gli anni 1950, e ancora nei primi 1960. È la ormai classica riproposta di Alberto Maria Cirese dell’antologia della poesia popolare che Pasolini aveva redatto a due riprese, nel 1952 (insieme con Mario Dell’Arco, “Poesia dialettale del Novecento”) e nel 1955 con questo titolo, “Canzoniere italiano”, sottotitolo “Antologia della poesia popolare”. Comprensiva dei due lunghi, puntigliosi studi, “La poesia dialettale del Novecento” e “La poesia popolare italiana”, che nel 1960 riprese nella raccolta di interventi critici “Passione e ideologia”.
È tutto detto nel primo capoverso del secondo saggio, quello più onnicomprensivo. Che la poesia popolare pone tra virgolette, partendo dall’invenzione della tradizione in Scozia e in Inghilterra, da Ossian in qua. Poi “naturalizzata” e generalizzata dal pre-romanticismo tedesco, Herder, lo stesso Goethe, Schlegel, Uhland, i fratelli Grimm. Con una curiosa inversione temporale: “È evidente che già nel Vico o nel Rousseau germinano certe nozioni, sia pure appena espresse, che si svilupperanno nella passione alto-romantica per la poesia primitiva”.
Un’apertura confusa, “La poesia popolare italiana”, tra pre- e alto-romantico, che sono la stessa cosa. E un “alto” contemporaneo “di Vico e di Rousseau”, i quali invece si distanziano di due o tre generazioni. Ma la confusione portando nello stesso capoverso iniziale (conclusivo, riassuntivo, come di pratica saggistica) a ottimo termine: una poesia “implicante un regresso nel parlante udito come specimen di un’idealizzata collettività, e quindi coincidente con la scoperta, così densa di futuro, della «nazione», in senso etnico e patriottico prima, socialistico poi”.
In questo inizio c’è tutto. Senza le incertezze successive sul concetto di “popolare”, e della stessa poesia. I nodi sono noti, e non si sciolgono – ma il tema, certo, non appassiona più (il populismo esclude il popolare?). Popolare come adattamento del colto? allargamento della audience? della tematica? della finalità (poesia per il popolo?)? È l’uso del dialetto. Limitiamoci a questo. Pasolini si limita a questo. Anche se ne farà pratica intellettualistica – il popolare verace vuole, col dialetto o con la κοινή, anche il ritmo, meglio se in settenari o ottonari cantanti, con la rima.
Pasolini non è comparatista. Ma assumendosi il compito di “formare” la tradizione popolare italiana, che ritiene scoperta, a fronte di quella inglese e di quella tedesca, legge molto. E molto ha recuperato, operando sulle raccolte precedenti: una tradizione che, quale che sia il senso del popolare.
È la rassegna che mancava. O, in altri termini, una ottima base censitaria per una storia della poesia popolare, che poi non si è fatta. Ma molte annotazioni restano nuove. Il recupero del Nigra, il diplomatico che fu studioso appassionato e acuto del genere - “L’Italia rispetto alla poesia popolare (come rispetto ai dialetti) si divide in due zone: Italia inferiore, con substrato italico; e Italia superiore, con substrato celtico”. E di molto Croce. Oltre che di Gramsci, naturalmente, che per primo ha posto il tema. Nonché del nazionalismo, che ha base etica, “nel binomio «Popolo e Dio», che vale tanto per il reazionario von Arnim che per il rivoluzionario Mazzini”.
Molto se ne può ricavare su Pasolini stesso, come si poneva - prima del mito. In nota, p. es.: “È di questi anni la scoperta (dovuta a Bo) e la moda in Italia del popolareggiare andaluso (squisito) di Garcia Lorca”. E nel testo: “Non avevano poi tutti i torti i romantici a parlare, ingenuamente e apoditticamente, di una creazione collettiva ed etnica”. Del poeta-vate: se “l’individuo inventante” non inventa se stesso ma espone, sintetizza, “una collettività e una razza, considererebbe anzi disonorante non essere tale”. Una sorta di manifesto.
Una ricerca che da sola vale una vita. Un Pasolini ne viene fuori romantico-romantico. Anche questo in nota – citando da un saggio di Pasquali, compresi i puntini di sospensione: “Romantico è il senso vivo per l’unità integrale di tutte le manifestazioni dello spirito in tutta una età. E romantica è anche la distinzione netta fra tradizione dotta e tradizione popolare; romantica la fiducia soverchia riposta in quest’ultima…” Il ritratto del poeta civile. Corroborato da una sorta di autoritratto in “Pascoli”, un saggio che Pasolini ha collocato, nella compilazione successiva, “Passione e ideologia”, subito dopo questo “La poesia popolare italiana”. Di quando non si era ancora immerso-perduto nell’impegno, nella fedeltà al Partito, e nell’attualità, inconclusivo – si ritroverà nel cinema. “La semplicità (o altrimenti, per assurdo l’unilinguismo, malgrado la materia semidialettale) dello stile popolare, è in effetti la superficie – semplice, o semplificante per fossilizzazione, per fusione – di un mondo complessissimo ed estremamente composito, babelico, d’influssi culturali e stratificazione stilistiche” è la provvisoria conclusione.
Pier Paolo Pasolini, Canzoniere italiano, Garzanti, pp. 666 € 22

giovedì 19 marzo 2020

Cronache virali – il focolaio è la Lombardia

L’Italia, 40 mila contagiati e 3.500 deceduti, è proporzionalmente, in rapporto alla popolazione (60 milioni), il paese più colpito dal coronavirus. La Cina, dove l’infezione si è sviluppata e manifestata, è in rapporto alla popolazione (1,4 miliardi) molto meno infetta, con 81 mila casi.
Spropositato il rapporto per quanto riguarda le vittime del virus: ai 3.405 deceduti in Italia fanno riscontro 3.245 morti in tutta la Cina - di cui 2.310 nella città di Wuhan, focolaio del virus.
L’Italia ha lo stesso numero di contagi e decessi dello Hubei, la regione di Wuhan, con una popolazione approssimativamente uguale – 60,5 milioni l’Italia, 58,5 lo Hubei.
La Lombardia da sola supera, per numero di contagi e decessi, la città di Wuhan. Con una popolazione pressappoco uguale, 10 milioni sparsi nella regione contro gli 11 ammassati nella Detroit cinese.

Von der Leyen sfida la Cina - e Bruxelles

Finalmente Bruxelles l’ha capita, che sfida la Cina – virus permettendo – sul digitale e l’ambiente. Merito della nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen? Non ne ha sbagliata una, in quasi quattro mesi ormai di governo - i due punti del programma sono di Angela Merkel  della intervista al Financial Times di metà gennaio, ma il suo e un altro mondo rispetto a quello della cancelliera, che pure lha designata (per liberarsene?): renano, europeo, aperto sul mondo. 
In realtà non è Bruxelles che sa cosa fare, è Von der Leyen che prova a rianimare la esanime capitale europea. Non più che sgomenta di fronte ai contagi di massa, forse inebetita dal violento uppercut inglese. Con un programma che punta come è ovvio al futuro, e non al rattoppo, nell’interesse di questo o quel paese o gruppo. In un quadro o conformazione continentale. Senza sudditanza alla Ue ragioneristica del patto di stabilità, che è il Vecchio Continente ha asfissiato.
Cosa ne sarà non si può sapere – finora Bruxelles è sempre stata al di sotto del minimo sindacale. Ma von der Leyen se non altro ha presenti i fronti aperti. E il problema: la dinamica spenta dell’economia europea, in perdita di quote globali e di innovatività. Adagiata, la Germania, su produzioni mature, la meccanica e la chimica. E l’Unione su Greta e la decrescita. Mentre le macchine elettriche le fa la Cina. E la nuova comunicazione digitale, con annessa intelligenza artificiale.
L’Europa non è più al centro di niente, è sulla via di diventare una periferia - Von der Leyen questo non lo dice, ma il suo messaggio lo presuppone. E di perdere anche quel poco che ancora ha. Questa non è una previsione, è una constatazione.

La fine della corsa alla Cina

Nel passaggio alla nuova frontiera del digitale, il 5G, l’Europa rischia di essere tagliata fuori dal futuro, ma in questa fase non può fare a meno di Huawei, di Zte, della Cina. I gruppi europei potenziali competitors, Ericsson e Nokia, hanno in Cina i centri di ricerca e i fornitori. Avendo come tutti smarrito il senso comune, di gruppo o nazionale, per via del costo del lavoro, infinitesimale, delle leggi draconiane sul lavoro, e del capitale pubblico-privato a nessun costo, o allora irrisorio, grazie ai consoci locali d’obbligo (“opportuni”) in Cina.
Finché c’è questa disparità normativa non ci sarà concorrenza possibile. Il riallineamento delle condizioni concorrenziali con Pechino può non seguire la via tentata da Trump. E forse non è possibile – bisognerebbe avere la potenza contrattuale degli Stati Uniti. Ma è necessario.
Gli interessi aziendali e di gruppo hanno favorito la Cina, che può operare liberamente nell’ambito della Wto, l’organizzazione del commercio mondiale, benché fuori, o in contrasto, per aspetti fondamentali del ciclo produttivo, dagli standard dell’organizzazione. Ma è indilazionabile.

La delocalizzazione fa boomerang – per tragica ironia si vede ora nelle produzioni paramediche e ospedaliere antivirus che l’Occidente è costretto a importare. Gli stessi gruppi che hanno beneficiato dell’assetto produttivistico cinese ora ne sono minacciati.


Cresce l’età del mondo

Le classi di età dai 65 anni in su cresceranno di un miliardo fra tre-quattro decadi, secondo le proiezioni dell’ultimo bollettino  “Finance & Development” del Fondo Monetario internazionale. In aggiunta ai 700 milioni di oggi. Fra queste classi, quella degli 85 + crescerà più rapidamente, attestandosi a fine secolo a oltre mezzo miliardo di persone.
All’orizzonte 2050-2060 le classi di eta 65 + dovrebbero ammontare a un quinto della popolazione mondiale. Una quota proporzionalmente “giusta” fra le varie classi di età. Non fosse che si tratta di classi di età non più lavorative, e con problemi di salute proporzionalmente più gravosi.
Inoltre, la distribuzione dei 65 + non è uguale ovunque. Al 2050 ventinove paesi e territori, tra cui l’Italia, avranno un terzo della popolazione nella terza età.
La demografia richiede un riassetto degli equilibri finanziari pubblici, con uno squilibrio crescente fra entrate e spese. Il mercato del lavoro richiederà una quota maggiore di popolazione immigrata. Per i ventinove si prospetta un riequilibrio del tipo di quello attuale negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove il 17 per cento della forza lavoro totale è di immigrazione.

Bergamo muore di sufficienza

Non fosse per l’attacco, uno si penserebbe in una storia di pesti e untori. Ma lo storico parla dal vivo, in diretta –“vivo nell’epicentro del contagio, a pochi chilometri dall’ospedale di Alzano, cuore del disastro bergamasco”. E quello che vede sono ambulanze, una ogni sette-otto minuti, bare che si accumulano nelle case, e liste d’attesa di dieci giorni per l’incinerazione. Sapendo di molti più morti di quanto si dice ufficialmente. Si muore di virus a casa. O anche “senza avere mai contratto il virus, ma a causa del virus” – “se hai un infarto qui, oggi, resti in attesa, anche se di tempo non ne hai”.
Barcella non ha tempo o voglia per gli autoelogi che si fa la sanità lombarda. Sa che l’area non è stata dichiarata zona rossa tre settimane fa, come avrebbe dovuto, per non interrompere i voli a Orio al Serio, hub delle low cost, il terzo aeroporto d’Italia. E la produzione in Val Seriana. Dove una popolazione di molti 65 + boriosi si mescola a decine di miglia di lavoratori delle sue “centinaia di aziende”, che mattina e sera fanno su e giù nel trenino della Valle. “La media valle Seriana, oltre a essere molto popolosa, è una delle regioni più produttive d’Europa, tanto che nessuno ha pensato di chiuderla, temendo il disastro economico”.
Tanta superficialità sembra impossibile. Ma è quello che è avvenuto, e ancora sta avvenendo. Infettando mezzo mondo, ma questo non conta.
Paolo Barcella, Perché proprio qui?, “Il Mulino”, 18 marzo 2010

mercoledì 18 marzo 2020

A Sud del Sud - il S ud visto da sotto (419)

Giuseppe Leuzzi

A Napoli ci saremmo salvati
Il virus a Napoli invece che a Milano? La reazione non sarebbe stata pronta e radicale?
Napoli sarebbe stata subito circondata da cordone sanitario, isolata tempestivamente, con durezza, i controlli sarebbero stati rigidi. In Lombardia invece no, non si è potuto – e tuttora non si può.
Milano addirittura si compiace, all’insegna del “non lasciamoci abbattere”. In strada per la fitness, il primo week-end della chiusura, per la temperatura gradevole. Con il “Corriere della sera” che dovutamente documenta l’indisciplina, ma a Delia e a Secondigliano – Delia è in provincia di Caltanissetta, quattromila abitanti.
Milano alla vigilia del coprifuoco nazionale si voleva città aperta. Riaperta, con appello del sindaco, pure manager accorto,  “riprendiamoci la città”. Forse non per arroganza, per superficialità.
Il numero dei medici contagiati in Lombardia, uno su cinque a oggi, è spropositato, fuori da ogni comprensione. Si vanta il numero come segno di abnegazione. No, è superficialità, improvvisazione. O il numero dei milanesi in libera uscita malgrado i divieti e le raccomandazioni,  quattro su dieci: mai visti in tempi normali tanti milanesi per strada.
La Lombardia ha superato Wuhan, epicentro del virus, per numero di contagi e di morti – senza contare il contagio indotto nella Bassa padana, l’Emilia finitima. Un fatto di gravità eccezionale. Per tutti. Eccetto che per i presidenti e gli assessori locali, che si specchiano compiaciuti, fluviali, sugli schermi.  

D’improvviso omerici
Però è vero, almeno ventimila pugliesi, forse trentamila, e trentumila siciliani sono scappati da Milano per infettare le terre (e le famiglie) d’origine. Un’improvvisa epidemia di νοστοι, di ritorni nostalgici alle origini? Si riscopre casa nell’occasione, la parentela, l’isolamento, l’aria buona, tutto quello che si detestato e da cui si è fuggiti. Ma la presunzione di sé è la stessa dell’abbandono, della fuga. Ci sono delle tare tribali.
E disamministrazioni. “In Puglia ci sono 15 mila addetti alla sanità in meno rispetto all’Emilia-Romagna, che ha lo stesso numero di abitanti”, denuncia il virologo Lopalco, nominato dalla Regione Puglia a capo del coordinamento anti-virus. Ma il bilancio della sanità è uguale: 7,5 miliardi in Puglia contro 9,6 in Emilia-Romagna, per una popolazione di 4 e 4,6 milioni di persone.
Può darsi che Lopalco esageri, che i 15 mila siano solo 1.500. Ma sono sempre tanti.

L’informazione è l’anima del commercio
C’è stato “un esodo” dalla Lombardia e la Bassa padana verso la Liguria, la Versilia, la Romagna (seconde case) e il Sud, ma non l’abbiamo saputo.
C’è stata, la prima domenica della serrata a Milano, una invasione delle strisce verdi per la fitness. Vista in qualche social, ma non nei giornali né in tv. Eccetto in una tv, in breve e senza le immagini, giusto per esibire il sindaco di Milano Sala con gli occhi bassi, che invita i concittadini che hanno protestato per l’invasione a non dividersi. Le uniche cronache di “violazione delle regole” il “Corriere della sera” fa da Secondigliano e Delia (Cl). Riprende anche severo le raccomandazioni dei sindaci di Roma, Bari e Lecce.

Le mafie e gli anni
Motivando la condanna per mafia della famiglia o clan Fasciani a Ostia la Cassazione  evidenzia “condotte di sistematica valenza criminale consumate e sedimentate nel corso degli anni”. Nel corso degli anni – dei decenni’? Ma non è come incriminare le forze dell’ordine, e la stessa giustizia? L’azione penale è obbligatoria, perché per le mafie si aspettano decenni?
È l’impunità che costruisce le mafie. Che non nascono per arcani, per eredità, o per investitura, come elucubra certo sensazionalismo. La mafia si costruisce atto per atto, prevaricazione per prevaricazione, grazie all’impunità. Riina non era un Beato Paolo o un Carcagnosso. Era uno che pensava di poter ribaltare a Repubblica, avendo trascorso cinquant’anni nell’impunità, cinquant’anni di grassazioni, di centinaia di assassinii perpetrati, molti nell’ignominia, e di stragi, ai massimi livelli della stessa Repubblica.
Un giorno si dirà che le mafie furono l’inerzia o incapacità dell’azione di contrasto. Certo, non ci vuole molta sociologia per questo. 

Leghismo 1960 e scrittura lombarda 
“Carne magra la proprietà”, spiega al “meridionale di Vigevano”, dell’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, l’“industrialotto”, uno dei tanti, della città (allora) delle scarpe: “Se un qual santo mi dice: Arnaldo, vuoi la proprietà o una malattia, serna!, me serni la malattia”.
Sarà la proprietà, la “roba” verghiana, pirandelliana, la malattia del Sud? La casa a n piani, interminata, la litigiosità plurigenerazionale, l’improduttività, la sterilizzazione di ogni energia -  a parte i mutui a vita, per la casa interminabile.
 “Il meridionale di Vigevano”, 1964, ha già l’antropologia bossiana del meridionale, leghista: troppi figli, dieci in una stanza, ignavi, sporchi. E l’altra verità del “non si affitta a meridionali”. Per metterli quattro o cinque in una stanza, con quattro o cinque affitti – come tuttora usa nelle periferie romane, sulla pelle di rumeni, ucraini, albanesi e altri avventurati.
Non c’è in Mastronardi l’altro stigma del meridionale: parlare a voce alta. Mentre i suoi lombardi  parlano in continuazione, veloci, a voce alta e altissima.
Hanno una peculiarità di cui però non c’è memoria, i meridionali di Mastronardi: parlano agli alberi. Quando hanno problemi, soprattutto le donne, vanno a confidarsi con gli alberi. Quando muore il suo bambino, la madre dice: “L’albero me lo disse: la terra che dà vuole pegno di sangue”. Peggio: “Mi disse: a questa terra piace la carne vergine”. Questo è il Meridione “altro” – bizzarro, demente, stupido: un mondo di ombre, immaginabile a volontà.
Mastronardi, nato a Vigevano, di madre lombarda, era di padre abruzzese. Un padre che si penserebbe importante in famiglia, perché antifascista e per questo, dipendente pubblico (ispettore scolastico) messo  in quiescenza dal regime. E invece non ce n’è traccia. Mastronardi figlio scrive da lombardo. C’è una “scrittura da lombardo”? Sì, epidermica: sociologica. Di quello che e come si vede, da Porta a Camilla Cederna – Manzoni era cresciuto a Parigi, ha vissuto a Firenze, era credente, e una personalità forte: non sfugge al sociologismo, ma lo sa usare.
Il “Calzolaio di Vigevano” si ambienta a cavaliere della guerra. Alla mobilitazione, il medico militare incorruttibile è “quel terrone dell’ostia”. Anche il commercialista - nei venti anni della trilogia vigevanese, è sempre lo stesso - è meridionale, Racalmuto, magniloquente ma preciso, corretto.

leuzzi@antiit.eu

La guerra fredda tecnologica


Passato la pandemia, non sarà più lo stesso nel mercato globalizzato. La questione del G 5, e del predominio tecnologico e commerciale di Huawei è solo l’inizio di una controffensiva. Che si estenderà a tutte le “catene di valore” o catene produttive.
È strano ma non può non essere. È strano che la Cina comunista difenda l’ortodossia liberista, mentre l’Occidente, gli Stati Uniti soprattutto, la attaccano e la limitano. Ma è solo l’esito del soft power cinese, la via sorniona con cui Pechino ha portato il suo miliardo e mezzo di consumatori-lavoratori a basso costo a dominare la produzione mondiale.
Trump non è il pazzo delle cronache compiaciute – specie italiane: ha posto un problema. Con mezzi discutibili, ma non in urto con  gli interessi americani e anzi in linea con lo “Stato profondo”, la continuità istituzionale. Von der Leyen lo ha messo in chiaro, senza la iattanza di Trump: nella  tecnologia informatica o comunicazione digitale, e nell’economia dell’ambiente, a partire dall’auto elettrica, l’Europa vuole e deve sfidare la posizione cinese dominante – un (semi)continente da mezzo miliardo di persone, non può impoverirsi o scomparire.
Semplice: è una “guerra” per la sopravvivenza, prima che per il controllo dei mercati. Si discute sul come, ma non si mette in dubbio la revisione della divisione del lavoro quale si è venuta configurando in questi due decenni del Millennio, quanto Europa e Stati Uniti si sono concentrati sul terrorismo. Nell’era tecnologica il rischio è concreto di vedere soccombente e impoverita la meta del mondo finora più ricca, e questo non è possibile.
La Germania, la stessa Merkel per una volta decisa e precisa, vuole anch’essa riformare il multilateralismo. Non rimetterlo in discussione, poiché ne è stata, dopo la Cina, la maggiore beneficiaria, con la meccanica (automobili, macchine utensili) e la chimica. Ma ora non più che il digitale e l’intelligenza artificiale prendono il sopravvento. Dove la Cina ha accumulato un forte capitale, effetto de.la programmazione, che il regime ha messo a profitto, e delle risorse finanziarie pubbliche illimitate.

Pechino tira le redini

Il “centralismo” cinese – il controllo del partito Comunista – è sempre più centralista. L’ultima “purga”, rapida e radicale, si è avuta con il contagio da coronavirus.  Vari “responsabili”, anche non legati a Wuhan, dove l’epidemia è scoppiata, sono stati rimossi. Con un richiamo breve e chiaro “all’obbedienza” indirizzato a tutte le province – Wuhan, la centrale dell’industria cinese dell’auto, ha una tradizione di resistenza al potere centrale, e di ostinatezza.
Non è una novità.  Ma col virus il centralismo si è fatto sentire senza le perifrasi e le analogie che infiorettano il discorso politico in Cina. Con brutalità, anche se non si ha notizia di condanne o deportazioni: la rimozione in Cina è radicale e riservata. Anche manager e “padroni” spariscono d’arbitrio d’improvviso: è un mercato col morso stretto.
Manager, sindaci, governatori, segretari politici sono intercambiabili: decide il partito, la fazione che governa il partito. Anche se i maggiori centri di potere economico, comprese le banche di Shangai, sono legati all’esercito, a gruppi nell’esercito, e alla polizia, le centrali finanziarie della Cina.

Cronache virali


i combatte questa come tutte le altre infezioni con medicinali che per larga parte la Cina produce – e ora si offre generosa di fornire. Dobbiamo a Pechino la peste e la cura.
Si chiudono i cieli di mezzo mondo, il governo italiano per primo li ha chiusi, ma viaggia tranquillamente a Roma Iran Air, la linea area di uno dei paesi più infetti al mondo – probabilmente più dell’Italia (la trasparenza non esiste nel regime degli ayatollah)
Si ragiona in Europa di qualche decina di miliardi, e di zero virgola nei bilanci statali, mentre la Federal Reserve Usa riduce di un punto il costo del denaro e compra 700 miliardi di obbligazione. E il criticatissimo Trump vara un piano di liquidità per 850 miliardi di dollari, per chi lavora e per chi non lavora.
Il “Corriere della sera” approfitta dell’emergenza per conquistare fette di mercato fuori edicola. Il Sinagi, il sindacato degli edicolanti, afferma che il quotidiano milanese “invece di sostenere lo sforzo degli edicolanti”, che tengono aperto, “ha scelto di inondare alcune zone d’Italia lasciando gratuitamente il giornale nei palazzi, con promozioni, sconti e altro”.

Il partito cinese

C’è in Italia il partito pro Huawei, forte al limite del ridicolo. Lo rappresenta Di Maio, che si crede gemello di Xi Jinping, ed è tutto dire. E c’è in Europa il partito anti Huawei. In Germania e in Gran Bretagna, dove sanno cosa è in gioco. E a Bruxelles con Ursula von der Leyen.
Di Maio, che è ministro degli Esteri, così facendo si mette in collisione con gli Stati Uniti – con Trump e senza Trump. Che contro la leadership economica cinese, nel 5G ma non solo, hanno avviato e faranno una guerra a oltranza. Guerra che Pechino non contrasta, sapendo di essere la parte debole, e\o in torto. L’accordo commerciale infine firmato con gli Usa alla vigilia della pandemia, nei termini voluti da Washington, passato sotto silenzio nel quadro dell’anti-trumpismo, è il riconoscimento di questa dipendenza di Pechino. I fiancheggiatori si troveranno spiazzati.

Dio è un risentimento

Se sente più vivo, più largamente, il bisogno di Dio, ma non nelle forme religiose tradizionali.  Il sociologo dei processi culturali e religiosi Franco Garelli ha rifatto dopo venticinque anni una ricerca sulla fede, finanziata dalla Conferenza episcopale italiana, giungendo a questa conclusione. La ricerca del 1994 aveva pubblicato col titolo “La religiosità in italia”.
Si è moltiplicato il numero dei non praticanti. È aumentato di un terzo il numero di coloro che non si riconoscono in nessuna fede. Ed è passato da 5 al 23 per cento il numero di coloro per i quali la fede in Dio è da ingenui o sprovveduti. Con la conferma della perdita di richiamo dei riti religiosi: matrimoni, funerali, messe. Si è triplicato, dal 10 al 30 per cento, il numero di chi dichiara di non partecipare ad alcun rito religioso – eccetto quelli sociali, matrimoni e funerali. Analogamente è cresciuto il numero di chi dice che Dio non c’è – più spesso nell’ottica del bene indefettibile (se ci fosse Dio non ci sarebbe il male).
Manca la statistica sui battesimi, ma è da presumere che diminuiscano nella stessa proporzione: i matrimoni con rito religioso sono passati dal’83 per cento del totale al 57 (ma la percentuale è più larga se si considerano le convivenze), ed è da presumere che i figli dei matrimoni civili (e delle convivenze) non siano battezzati. Ma è solo una piccola minoranza, uno su dieci, chi nega senza dubbio Dio. Mentre quattro su dieci credono in una “potenza maligna”. Due su tre ritengono perfino di avere avuto una grazia o un favore divino. E aumenta pure, curiosamente, chi si identifica con la chiesa per educazione o tradizione, dal 27 la percentuale è salita al 43 per cento.
Il panorama di una confusione – della confusione dell’età della crisi? Il sottotitolo di Garelli è “Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio”.
Franco Garelli, Gente di poca fede, Il Mulino, pp. 256 € 16

martedì 17 marzo 2020

Problemi di base virali - 547

spock

È il Nuovo Impero Cinese, il virus col gel?

Il Nuovo Impero è il Primo, risorto - quello dei Tre Augusti, Mao, Deng, Xi?

O il virus è il castigo di Dio contro i risparmiatori?

E ringraziare di essere sopravvissuti – la salvezza come grazia, siamo tutti calvinisti?

A favore degli speculatori?

O la mano è di Tridico, per ridurre gli esborsi dell’Inps?

Timeo Danaos et dona ferentes: il cinese Di Maio ha dimenticato il suo Virgilio (Virgilio?) quando uggiola che dalla Cina gli mandano la mascherina?

spock@antiit.eu

Il soft power cinese

“Questa è una guerra. È come se fossimo stati invasi dagli alieni”. È la sintesi un un economista americano, Kenneth Rogoff, che nel 2007 ci aveva azzeccato nell’analisi e il decorso della crisi bancaria, e ora non trova il filo, se non questo. Dove però gli alieni sono tra noi, a capo di tutte le “catene di valore”, di tutte le catene produttive, tradizionali e innovative, per costi, qualità, e anche tecnologia, innovazione.
La Cina è uscita dall’epidemia in un mese o poco più, e manda fuori medici e medicine. È il “soft power” cinese, che si presenta col sorriso, generoso: commercio, consumi, lavorazioni per conto, e investimenti, investimenti, investimenti. Un forziere inesauribile. Se necessario con capitali pubblici e comunque con la protezione litica.
Un potere soft ma accorto. Il Covid-19 è diventato epidemico perché in Cina era “sfuggito” l’86 per cento dei casi quando Wuhan fu isolata, il 23 gennaio. Era sfuggito a una struttura di comando e controllo a cui non sfugge niente. Senza complotto naturalmente – né creazione in laboratorio del virus: è il mondo così com’è.
“Cecinesi”, raccontava una vecchia barzelletta toscana sugli abitanti di Cecina in provincia di Livorno, reputati per poco vispi, che così interpellati da un comiziante (in toscano “c’è i cinesi”), scapparono via. Ora i cinesi ci sono davvero, anche in forma di virus, ma bisogna tenerseli. Le “catene di valore” altrimenti si ridurrebbero, gli affari.

Nella contesa fra Stati Uniti e Cina per la leadership mondiale, il partito Comunista cinese viene senz’altro al primo posto, col soft power degli affari. Le “catene di valore” come catene di comando.

La Germania fa per sé

La Federal Reserve taglia i tassi di un punto, di domenica, e annuncia acquisti di titoli pubblici per 700  miliardi di dolari. Il massimo sforzo di Lagarde, la frontwoman della Bundesbank tedesca alla Banca centrale europea, è di 120 miliardi, a rate, a bocca stretta. In compenso la Germania ha di suo messo sul piatto, per la Germania, 550 miliardi.
C’è molto che non funziona, nell’Unione Europea. Nelle regole di bilancio, e nella Banca centrale (euro).  Che a ogni piccola increspatura traborda. Peggio: questo si dice sempre, che molto non funziona,  ma non si risolve mai.
Si dice o si pensa che questo avviene perché la Germania ha nell’Unione un ruolo insieme preponderante e evasivo, cioè in definitiva mercantilista – mi faccio gli affari miei. La Germania oppure Angela Merkel. Che però non perde occasione per dire: senza di me, vedrete che Germania, sarà molto peggio.

Se sia vero non si sa – se la Germania è come dice Merkel, molto poco europeista. È però la verità della cosa, il problema della Ue. Ma parlarne è sacrilego. 

L'Italia non è un modello

D’un colpo Francia, Germania e Gran Bretagna si trovano costrette ad adottare il “modello italiano”. Anche gli  Stati Uniti, via New York e lo stato di New York, amministrati da due italoamericani. Isolamento delle persone, città chiuse, molti tamponi, molte rianimazioni, mascherine e gel, sussidi e defiscalizzazioni. Con budget perfino mostruosi, decuplicati (Germania, Usa) rispetto a quello italiano.
L’epidemia avrebbero potuto evitarsi se avessero deciso per tempo, preventivamente? Non si sa. Si sa però che non lo hanno fatto perché l’Italia lo aveva fatto.
Colpa dell’Italia, paese non credibile? Malattia dell’Occidente, il nazionalismo dispettoso, invidioso?
Questo però si può dire. È da tempo evidente che l’epidemia non si poteva evitare. Tanto più se il primo caso in Italia è di un ingegnere tedesco tornato dalla Cina. Altrettanto evidente, dopo la prima sorpresa in Lombardia, che il contagio si poteva limitare adottando subito misure restrittive e spese speciali, in primo luogo per la sanità. Non è stato fatto perché l’Italia lo aveva fatto, seppure in ritardo.

Montalbano stanco

Montalbano fa la gag di se stesso, della troupe che gira i “Montalbano” in Sicilia, tagliando a mezzo paesi e città. Rispolverando per l’occasione, l’ultima della pregiata serie?, le svedesi - tanto più simpatiche dell’impalpabile Livia. Con un Camilleri in risposta a Mollica nella presentazione specialmente distaccato: i Montalbano sono già scritti per metà, tre quarti, ogni episodio si completa in fretta; Montalbano sono io, non vado a cercare altri vizi… Molto camilleriano – strafottente – come se presumesse la fine.
La regia senza Sironi è all’evidenza stanca. Metà tempo passa nell’ufficio del commissario. E le sortite, un tempo sorprendenti, ora sono per lo più rituali. La parte di Sironi nel successo della serie strabiliante si avverte per mancanza.
Alberto Sironi-Luca Zingaretti, La rete di protezione

lunedì 16 marzo 2020

Cronache virali


Il virologo milanese Burioni, che non ne ha azzeccata una, per promuovere il suo libro continua ad attaccare fuori casa. Esaurita la Toscana, si attacca da qualche tempo a Roma. Da ultimo postando una foto dell’Isola Tiberina come se, nella prima domenica di serrata, fosse adibita a parco divertimenti, spensierati. Mentre chi ci è passato non vedeva proprio nessuno, un deserto strano per un ospedale, anzi due ospedali - l’Isola Tiberina è due ospedali, Fatebenefratelli e Israelitico. C’è a chi il virus porta fortuna. Speculatori, profittatori.
Burioni posta dell’Isola Tiberina foto vecchie. Palesemente vecchie, sicuro che saranno subito sbugiardate in rete. Virologo in quanto untore? Magari no, ma per la pubblicità, “più parlano di me meglio è”. Alla vecchia insegna lombarda, della pubblicità che è l’anima del commercio.
Roma ha adeguato due ospedali al coronavirus, con terapia intensiva, in quattro giorni dacché è stata decretata l’emergenza. Ma questo non fa testo. Milano, che ha gli ospedali saturi, non c’è riuscita, ma per colpa, dice, della Protezione civile. Il virus è anche reagente di verità.
Trentunmila ritorni in Sicilia in una settimana, dalla Lombardia e dalla Bassa padana. Ventimila (forse trentamila) in Puglia, sempre dalla Lombardia. Per amore o per soperchieria?

Il mondo com'è (398)

astolfo
Afghanistan È un posto dove tutti gli eserciti si sono perduti. Da qui la leggenda di Alessandro Magno che ne sarebbe tornato pazzo. Kipling lo ha scritto in vari modi, in molti racconti, “di frontiera” e non, un secolo e mezzo fa. Pur essendo un paese aperto e ospitale, in un Medio Oriente più spesso infido, che viaggiatori e viaggiatrici hanno potuto attraversare in solitario, in epoche molto più rischiose dell’attuale, Peter Levi, Chatwin, Annemarie Schwarzenbach, Ella Maillart, varie dame inglesi.
Balkh, città che oggi più non esiste, tra i monti e i deserti dell’Afghanistan, la Battra di Alessandro Magno, capitale della Battriana, è la culla della “razza ariana” – lo è stata nel secolo e mezzo di dominio dell’ariogermanesimo o della dottrina “ariana”. A Balkh nacque Zoroastro-Zarathustra.

Gli Stati Uniti lasciano un Afghanistan non domato, ma non sconfitti. Il paese resta ingovernabile per gli odi tribali incoercibili: i Talebani, con i quali Trump ha fatto l’accordo per il prossimo governo, sono solo una delle tribù, quella dei pashtun, divisa tra Afghanistan e Pakistan. In contrasto con hazara, uzbeki, tagiki - e turkmeni, beluci, aimak, nomadi kuchi. E per le frontiere aperte, che ne fanno campo libero per qualsiasi banda o gruppo armato, terroristico o di diritto comune (contrabbando, droga).
Non aveva radio né tv, vent’anni fa, sotto il dominio fondamentalista talebano, ne ha ora un centinaio. Non aveva cellulari, ne ha oggi 12-13 milioni, uno ogni tre abitanti, molto attivi in rete e nei social. Si è costruito moltissimo: le abitazioni sono migliorate senza alcun confronto possibile. Si sono costruite strade, asfaltate. Il pil è decuplicato, da 2,2 a 22 miliardi di dollari. E per la prima volta il paese ha un’infrastruttura civile. Ci sono banche, alberghi, e soprattutto scuole: vent’anni fa andavano a una qualche scuola un milione di ragazzi, maschi, e 50 mila ragazze, oggi sono undici milioni, di cui un terzo femmine, e gli universitari sono passati da poche migliaia a 160 mila, con 20 mila donne.

Duchessa di Paliano – La strage familiare che ha stimolato la curiosità di Stendhal per una delle sue “Cronache italiane”, ha avuto altri aspetti e un altrettanto sanguinolento seguito. Stendhal racconta lo strangolamento della duchessa di Paliano, Violante di Cardone (“Diascarlona” nei testi d’epoca, Diaz Carlon di suo), e del presunto amante di lei, Marcello Capece. Lo strangolamento, deciso dal duca di Paliano Giovanni Carafa, fu attuato col concorso del fratello cardinale Carlo, del nipote Alfonso Carafa, arcivescovo i Napoli, del cognato Ferrante Diaz Carlon conte di Alife, e di un altro congiunto della duchessa, Leonardo di Cardine.
Marcello Capece era un giovane e bel gentiluomo napoletano del Seggio di Nido – seggio era il logo, portico o galleria, dove si riunivano i notabili, del quartiere,“Nido” è napoletano per Nilo, a Spaccanapoli, dove il punto di riunione era sotto al statua del fiume Nilo. Secondo Stendhal, innamorato della duchessa, le si era dichiarato, ma ne era stato respinto.
Giovanni e Carlo Carafa, famiglia napoletana, erano due uomini d’arme. Feudo e titoli avevano avuto dallo zio cardinale Gianpietro, quando questi era stato eletto papa a metà 1555, col nome di Paolo IV. Nel 1559, al tempo del fatto di sangue, i nipoti erano però in disgrazia presso il papa, per le loro condotte riprovevoli – eccetto Alfonso, l’arcivescovo di Napoli, ancora giovanissimo. Il papa li aveva destituiti da ogni incarico, e progettava di privarli dei beni acquisiti. Ma a Ferragosto morì. Quattordici giorni dopo, mentre ancora durava il lutto pontificale, e in una Roma avversa ai Carafa, per le troppe tasse, il duca di Paliano procedette all’eccidio narrato da Stendhal.
Il nuovo papa, Pio IV, il milanese Giovanni Angelo Medici, per prima cosa fece istruire un processo a carico dei nipoti Carafa. Al termine del quale, nel marzo 1561, ne decretò la condanna a morte:   Carlo, in quanto uomo di chiesa, fu strangolato, Giovanni, Alife e Cardine decapitati. Papa Pio V, il rigido piemontese Antonio  Michele Ghislieri, ne vorrà riabilitata la memoria, e farà giustiziare il procuratore fiscale Alessandro Pallantieri, che aveva sostenuto l’accusa, per avere agito fraudolentemente, per un intrigo di palazzo.

La fortezza e la ducea di Paliano Paolo IV aveva assegnato al nipote Giovanni in odio ai Colonna. La famiglia Colonna il papa napoletano fortemente avversava perché alleata (“quinta colonna”) degli spagnoli, di Carlo V. L’imperatore il papa riteneva il principale nemico dell’Italia, dopo avere sperimentato di persona il terribile Sacco di Roma ordinato da Carlo V ai Lanzichenecchi nel 1527. In particolare odiava il capo casato Ascanio, il quale, sempre in lega con la Spagna, ne aveva avversato l’elezione in conclave – sconfitto dal partito francese.  
Ascanio era fratello di Vittoria Colonna, la poetessa amata da Michelangelo, che Ariosto ha  immortalato come esempio di capacità e coraggio, in apertura al canto XXXVII, della forza delle donne. Prima di Vittoria, eccellente in poesia, Ariosto elogia un’altra Colonna, eccellente in virtù: Isabella Colonna, principessa di Sulmona, sposata Gonzaga - una cugina di secondo o terzo grado di Vittoria e Ascanio. 
Isabella era figlia di Vespasiano Colonna, duca di Traetto e conte di Fondi, figlio di Prospero dei Colonna di Traetto e Fondi, secondo cugino del capo casato Ascanio. Sposato due volte, dapprima con Beatrice Appiani, madre di Isabella, e poi, da vedovo, con Giulia Gonzaga, un matrimonio senza figli, Vespasiano aveva legato tutto in morte, nel 1528, all’unica figlia. Ma Ascanio contestò la disposizione. Per decidere la lite dovette intervenire il papa, Clemente VII, col quale peraltro Ascanio era in lite, che ne tacitò le pretese passandogli la fortezza di Paliano.

Manomorta- La vendita forzosa dei beni della chiesa, a questa alienati e venduti dallo Stato, ha modellato l’Italia unita, la sua peculiare borghesia, a lungo redditiera più che imprenditrice, e il modo d’essere dello Stato. Ha creato o cementato il potere privato, o privatizzato, delle consorterie o mafie legali, e in forme appropriative e non innovative né accrescitive, quali le borghesie, imprenditoriali o professionali, ebbero altrove, in Germania dopo l’Inghilterra. E nella sessa Francia modello dell’Italia, che l’appropriazione dei beni della chiesa elesse a religione. I beni finirono nelle mani degli “amici degli amici”, senza cioè una vera asta. Amici per essere massoni professi, o anche buoni credenti per l’occasione iscritti a una loggia. Con beneficio poco o nullo per le casse statali.
La vendita della manomorta In Sicilia rafforzò il latifondo, la proprietà assenteista, pure abolito per legge nel 1812, nota De Amicis nei suoi “Ricordi d’un viaggio in Sicilia”, nel 1906: “I quarantasei anni trascorsi dopo l’unificazione dell’Italia  non l’hanno punto smosso”, il latifondo, “dalle sue fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non fece per contro che favorirlo, poiché di quei beni s’impinguarono la borghesia e l’aristocrazia,  creando un nuovo feudalismo terriero in aggiunta all’antico, abolito soltanto di nome nel 1812”.

astolfo@antiit.eu