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venerdì 11 maggio 2012

Con Hollande come prima

Doveva cambiare tutto ma forse non cambia nulla. L’inattività di Holande nei primi giorni di presidenza ha sorpreso sfavorevolmente il governo. Nessuna risposta da Parigi alle avances di Roma, occhi puntati sempre e soltanto su Berlino. In un primo momento attribuita al desiderio di ottenere personalmente un progetto di crescita dalla sua prossima visita a Berlino, ora, dopo i vari no preventivi pronunciati dalla cancelliera Merkel, l’inattenzione di Hollande è messa in conto del vecchio schiacciamento di pari su Berlino.
Monti riprende paziente la sua tela dal meno. La proposta di escludere dal patto di stabilità gli investimenti “produttivi” e “di profilo europeo”, come la banda larga, la tav, le fonti di energia alternative, è più che altro una petizione di principio. Questi investimenti non cambiano nulla: seguono uno scadenzario da tempo fissato. E non hanno effetti di reddito immediato.

I referendum si fanno per fare

Il referendum piace agli italiani, forse. Ma non decide. Eccetto che in pochi casi, questa è stata l’esperienza storica. I referendum civilissimi della Sardegna domenica vanno visti in questo quadro. Il “forse” va riferito alla totalità, o maggioranza, dell’opinione: nei referendum consultivi pochi si pronunciano, in genere un terzo dell’elettorato, come in quelli in Sardegna.
Si sono svolti 66 referendum abrogativi nella storia della Repubblica, e quattro consultivi. Gli abrogativi sono immediatamente operanti, i consultivi no. Ma due dei quattro consultivi hanno prodotto risultati di rilievo, quello del 1946 sulla Repubblica, e quello del 2001 sul cosiddetto federalismo. Mentre la maggior parte di quelli abrogativi non hanno avuto alcun esito, se non nominale. Efficaci quelli sul divorzio, sull’aborto, pro e contro, contro l’abolizione della legge Reale e della legge Cossiga in materia di terrorismo, contro abolizione dell’ergastolo, contro la chiusura di Mediaset – tre referendum nel 1995 – e contro il nucleare. Ma il divorzio e l’aborto erano già regolati da buone leggi, indipendentemente dai referendum. Singolare e importantissimo invece – stroncò l’inflazione – quello sul taglio della contingenza, nel giugno del 1985. Efficaci anche quelli per il maggioritario alle elezioni, del 1992 e del 1995. L'ultima tornata referendaria, un anno fa, ha bloccato la privatizzazione dell'acqua, ma con effetto opposto ai presupposti del referendum: il costo dell'acqua è aumentato.
Sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti c’è un non e un sì, ma senza effetti pratici, come si vede. Sulla privatizzazione della Rai ci sono due sì, anch’essi senza esito. L’Enel dovrebbe escludersi dalla costruzione di centrali nucleari all’stero – ma non più dopo la privatizzazione... Molti referendum hanno sancito l’abolizione di alcuni ministeri, che quasi tutti però sono riemersi con altra denominazione.
Ventitré referendum abrogativi, in tre tornate, hanno avuto una partecipazione limitata, tra il 25 e il 33 per cento degli aventi diritto, e quindi non sono risultati validi.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (127)

Giuseppe Leuzzi

L’odio-di-sé viene col discorso
Progettando “Il richiamo dell’ululone”, un grottesco mortuario su una copia in età, un tedesco e una polacca, G.Grass concludeva vent’anni fa: sarà una storia su “come Tedeschi e Polacchi non possono fare a meno di corrispondere ai loro cliché rispettivi, ai ruoli imposti”.

Puramente etnico, anzi storico, scevro di nervature religiose o razziali, l’odio-di-sé è esemplificato nella sua natura ultima, di “discorso”, in molte sfumature da Herta Müller su “La Lettura” di domenica 6 maggio. A proposito di Émile Cioran da lei incontrato a Parigi. Due rumeni che si rifiutano, tra rabbia e luoghi comuni.
Cioran si era ampiamente distinto nel rifiuto. Una dele sue frasi celebri è: “La lingua si vendica su di me. Più invecchio e più spesso sogno in romeno. E non posso oppormi a questo”. Il bisbetico Cioran diventa per questo amichevole: “Se avesse potuto proibire qualcosa, disse, avrebbe proibito il mio ritorno”. Di quanto lasciò la Romania nel 1937 Cioran ricorda l’amico ubriaco che la notte, “rivolto verso il cielo scintillante di stelle”, dice: “Dio, perdonami di essere romeno”. Cioran era arrivato da Herta Müller col ginocchio “sbucciato e sanguinante” perché era scivolato sul ghiaccio. E si era difeso così: “La cerco e già cado, già sono un romeno”.
Il rifiuto di Cioran è nella Nobel, se possibile, più radicale. Altrove, e anche qui: “Lui mi cercò”, esordisce, per il motivo che “mi portavo appresso quel paese dell’onnipresente fallire”. Come se i due fosse nati e cresciuti in Romania ma su un tappeto o un prato a parte. Senza contare che “un cielo scintillante di stelle” difficilmente si trova a Parigi, o in Germania, dove la Nobel vive.

Ci sono i romeni-romeni in fuga dalla Romania, Eliade, Cioran. Ci sono i romeni-tedeschi come Herta Müller. E ci sono i romeni-ebrei, Celan, Manea. Le prima due categorie nell’esilio si cercano, anche se di opposti credo politici, dialogano, con gli ebrei no.

Breve storia del Nord – 4
I goti, quando non erano in guerra, giocavano a quelle degli dei – i temporali, che al Nord sono frequenti, erano per loro guerre di dei: scagliavano frecce contro le nubi, pensando così di uccidere gli dei avversi alle loro guerre, e agitavano, racconta Olao Magno, “Storia dei popoli settentrionali”, “dei mantelli di peso insolito, fatti di una gran massa di bronzo, per riprodurre i fragori del cielo”.
Al tempo di Olao Magno il Nord viveva in capanne e caverne, in promiscuità. Olao Magno, 1490-1557, fratello e segretario del più famoso Giovanni, divenuto arcivesco in una con le fortune politiche dei Vasa da lui patrocinate a Roma, è, nella presentazione Bur della sua enciclopedia, egli pure “arcivescovo di Uppsala, primate di Svezia, cardinale e umanista”. Di nome Olaf Manson, latinizzato in Olao Magno, fu inviato dal re Gustavo Vasa in ambasceria in Italia, da dove non tornò più essendo passata la Svezia con i luterani. Si stabilì dapprima a Venezia, poi a Roma, dove morì. Fu attivo al Concilio di Trento, e scrisse il suo repertorio, “Historia de Gentibus Septentrionalibus”, “per appagare la curiosità e l’interesse che gli ecclesiastici e gli umanisti italiani manifestavano per il mondo nordico”.
Suo fratello Giovanni è autore della più nota “Storia dei Goti”, scritta per sancire l’autonomia, e la superiorità, della Svezia dalla Danimarca. Giovanni fu mandato a Roma nel 1517, dieci anni prima di Olao, dal nobile Sten Sture, che voleva staccare la Svezia dalla corona di Danimarca e proclamarsene re. Il re danese Cristiano II, appoggiato dal vescovo di Uppsala Gustav Trolle, montò una spedizione contro Sture, di cui ebbe ragione. Se non che Gustavo Vasa vendicò lo Sture, suo parente, provocando una rivolta popolare, che ebbe ragione dei danesi e proclamò re lo stesso Vasa. Nella sua storia, a uso del papa a Roma, Giovanni Magno sostiene che i goti hanno occupato la Scandinavia subito dopo il Diluvio, che una parte dei goti si spinse fino a occupare la Danimarca, e che quindi la Danimarca era un’antica colonia svedese.
La storia si fa.

“L’anima Nordica” è opera nodale, benché rimossa, di Ferdinand Clauß nel 1923, discepolo di Husserl e Heidegger. Che fu nazista antemarcia, e una filosofia del razzismo creò, fenomenologica, accanto alla biologia. “L’anima della razza” anzi affermò superiore al sangue, che in Germania gli risultava annacquato, per ubriachezza, azzardo, discordie, i tedeschi puri ponendo in Scandinavia.

Negli anni 1950 il lettissimo viaggiatore americano John Günther diede al Nordico “ardimento, semplicità, determinazione, nobiltà, eroismo, forza di volontà, capacità di giudizio, senso della realtà, spirito di cavalleria e un aspetto terrificante”. Senza ironia: gli esemplari di nordici-falici, checché Günther voglia dire, e di orientali-dinarici, con cui illustrava in fotografia i suoi “viaggi”, uno teme di sognarseli.
Si vuole anche che il razzismo sia violento odio di sé, di disadattati, brutti, confusi.

Ai tempi di Breznev – c’è stato un Breznev nella storia europea – lo scrittore Amalrik fu esiliato dalla Russia sovietica perché aveva sostenuto la tesi normannista, che anche gli slavi sono uomini del Nord. Tra essi i veneti, che sarebbero ex polacchi, tra Oder e Dniepr. E i tedeschi? Sono biondi quando sono slavi? Si spiegherebbe il fascino che incutono ai russi. O non scandinavi, figli delle loro violenze? Insolubile dubbio, se slavi e scandinavi uno sono.

La giustizia politica
Il sostituto Procuratore di Palermo Di Matteo e il giudice Morvillo, cognato di Falcone, sostengono al giornale radio del mattino di Rai 3 che l’assassinio di Falcone e di Borsellino fu voluto dalla politica. Di Matteo ha alluso a “ prove consistenti” emerse nei procedimenti. Ma consistenti con una serie di “probabilmente” ed “eventualmente”. Incapacità? Furbizia?
Nessun accenno al Csm, alla stessa Rai, e al Parlamento che coprirono Falcone di una serie d’infamie – e in parte poi pure Borsellino. Dichiaratamente, senza sotterfugi. Ciò che nel gergo della mafia ha un significato inequivocabile: “Mettere nel mirino”.

Due giudici, Alessandra Camassa e Massimo Russo, che si definiscono “allievi” di Borsellino, si sono ricordati che il maestro a giugno del 1992 disse in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Non se lo sono ricordati ora ma nel 2009, quando il Procuratore Ingroia cominciò a parlare della trattativa mafia-Stato. E ora intervengono in Tribunale che Borsellino a questo intendeva riferirsi, alla trattativa. Saranno pentiti anche loro? Cercano cioè “benefici”

Giuseppe Grigoli, il killer di don Pino Puglisi a Palermo, dopo aver confessato “circa” 50 assassinii, si dice “sgravato” e “credente in Dio”. Come l’altro killer, Spatuzza, che invece ha confessato circa 100 assassinii. Entrambi sono pilastri delle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, e sul mandato politico all’assassinio di Falcone e Borsellino.

leuzzi@antiit.eu

Il seducente terrorismo sedicente

Tutto nell’attentato al manager Adinolfi a Genova lo dice terroristico: l’“obiettivo”, l’ora, il luogo, la moto, i caschi, l’arma, la mira. Ma la Procura indaga “in tutte le direzioni”. Anzitutto sulla famiglia cioè, se Adinolfi era in lite in casa, era separato, aveva un’amante. E poi sui conti personali e aziendali. Al terzo giorno arriva la rivendicazione e la Procura esita, distingue, fa la filologia: lo stile, la grafica, la sigla. Al quinto giorno il Procuratore Capo distingue: “Mi rifiuto di indicare linee d’indagine privilegiate perché sarebbe già una scelta”. La cosa è imbarazzante per gli inquirenti veri, e il capo della Polizia Manganelli deve dire che s’indaga “nell’area antagonista armata, dove sfumano i confini tra gruppi marxisti-leninisti e anarco-insurrezionalisti”.
Il Procuratore Capo di Genova parla come Pilato. Per un fatto quindi caratteriale, o culturale. Me è l’eco di una non remota epoca in cui, alla rai nei giornali se non nelle Procure (allora si ammazzavano i giudici) il terrorismo era “sedicente” – o era un refuso per seducente?

Le privatizzazioni sono politiche, di sottogoverno

Tutti contro tutti a Roma per la privatizzazione dell’Acea. Un atto obbligato per legge, si difende il sindaco. Contro il quale l’opposizione ha presentato in consiglio comunale 70 mila (settantamila) emendamenti. E i giornali romani fanno una campagna ogni giorno di più pagine.
Poiché tra i giornali in campagna è compreso “Il Messaggero” di Francesco Gaetano Caltagirone, l’azionista di minoranza che ha messo in mora il sindaco Alemanno sulla vendita per legge, si potrebbe buttarla in burla, il tutti contro tutti estendendo al contro se stessi. Ma non è così: la vendita dell’Acea non è diversa dalle altre vendite di beni pubblici – solo un po’ più volgare: le privatizzazioni sono un mercato politico. Per di più subdolo.
Poiché Alemanno è del Pdl, si può arguire che il Pd ha tutto il diritto di presentare 70 mila (sic!) emendamenti. E invece no: il Pd, se fosse un partito democratico o di sinistra, a Roma ha centomila altre occasioni, opportunità, mancanze, su cui esercitare il suo controllo. Si può arguire che Aurelio Regina, il presidente uscente degli industriali romani, ha tutto il diritto di criticare la privatizzazione. E invece no: dovrebbe semmai favorirla, questa è la sua funzione – se non parlasse solo per avere un buon posto nella Confindustria di Squinzi, che si vuole di sinistra (la Confindustria di sinistra…). Caltagirone parla da sé, col cinismo.
Si sono fatte e si fanno le privatizzazioni come se fossero l’esito e il terreno di coltura di una società e un’economia più libere – il “mercato”. Mentre sono state e sono un mero mercato politico. E più specificamente il mercato della corruttela.

giovedì 10 maggio 2012

Sottogoverno tecnico

Con la figura del “commissario straordinario” Monti si sta prendendo tutti i centri di potere dove gli riesce di mettere le mani. L’ultimo, il Maxxi di Roma, un museo d’arte contemporanea, non sembra big business, ma è un segnale: un commissariamento misterioso, nemmeno giustificato, di cui il settore ha recepito la forza. Più sostanziosi i commissariamenti della spesa pubblica, della Rai, del Cnr – qui il commissario si chiama presidente, ma fa a meno di un direttore generale. Mentre si approntano nomi nuovi per l’Enel e le Ferrovie – con l’Eni per ora in posizione defilata, ma Paolo Scaroni era già parte della nuova filiera.
Il partito Democratico ironizza, parlando di spoil system “tecnico”. Un understatement forse inevitabile, finché Monti è Napolitano, ma allora un altro segnale della debolezza della politica. Di fronte a un gruppo di “milanesi” (affaristi) che fa piazza pulita di ogni garanzia democratica e perfino legale, sulla previdenza come sulla fiscalità, e sui centri di spesa, cioè di potere.

In fuga dal “Corriere”

I manager che piacevano agli azionisti si sono rifiutati, ci sono solo autocandidature, al posto di amministratore delegato della Rcs Media, l’azienda più prestigiosa di Milano, anche se non la più remunerativa. Per mascherare l’insuccesso, il consiglio d’amministrazione procederà lunedì a cambiare la società incaricata della ricerca. Ma la nuova ricerca non sarà facile. E il motivo è semplice: l’azienda è ingovernabile. Con un gruppo di azionisti di riferimento non coeso, e un ponte di comando non rappresentato nel patto di sindacato.
Tutto farebbe riferimento a Giovanni Bazoli. Col sostegno di Giuseppe Rotelli, l’industriale della sanità, che è a questo punto l’azionista di riferimento del gruppo (dichiara una quota del 17 per cento, ma ne avrebbe il 25). Dall’inizio del mese la quota di Rotelli è emersa, il titolare è vice-presidente del gruppo, ma in rappresentanza della “minoranza”, fuori dal patto di sindacato. È un’alleanza trasversale, insomma, che governa il gruppo, non il patto di sindacato.
Nel patto di sindacato, d’altra parte, non c’è sintonia. La Fiat ha fatto atto di sottomissione a Bazoli, ma con sofferenza. Altri si sono allontanati (Generali), o ambirebbero farlo (Benetton). Della Valle si è ribellato e fa campagna per un rinnovo del patto, da alcuni mesi ormai, ma è rimasto solo.
L’ingovernabilità della Rcs non è nuova. Già nel 2006 l’ultimo amministratore indipendente, Vittorio Colao, aveva abbandonato l’azienda dopo una breve esperienza. Ma ora si doppia con la turbolenza tra i soci, tra chi conta e chi no.

L’amicizia all’età dell’Aids

Meglio un amico, anche strambo e appestato, che una moglie bella e di successo. La prima lettura di questo inafferrabile “romanzo” è semplice. La differenza la fa la confidenza, l’identificazione totale che l’amicizia propone, anche nei contrasti e perfino nelle liti: una devozione che, per essere reciproca, è immarcescibile. A differenza dell’amore, soprattutto nel matrimonio. L’altra metà di se stessi che Platone e “Ravelstein” propongono alla questua amorosa è l’amicizia meglio della coppia. Soprattutto in quest’epoca di diritti e, nel caso specifico, di diritti femministi – la moglie che dice al marito: “Tu me lo devi”.
È anche un “romanzo” molto dialogico. Non si salta una parola, nemmeno a una seconda lettura - un interesse supportato da una traduzione impercettibile, di Vincenzo Mantovani, tanto felicemente ritesse la tecnica del racconto. Ma è una lettura solo apparentemente semplice. È un libro dell’amicizia, come se ne registrano pochi, e non più ultimamente. Bellow vi celebra Allan Bloom, l’autore de “La chiusura della mente americana” e di “Love and Friendship”, suo collega all’università di Chicago e compagno di mille stravaganze, mentre ne registra il declino e la morte di Aids, sempre eccessivo e acuto, sempre vivo. Una sorta di biografia a ruoli rovesciati: il biografato è, un po’, l’autore – nel secondo Novecento è il remake di un’altra amicizia celebre, di Montaigne e il più giovane La Boétie, morto prematuramente. E una passeggiata nella storia, personale e del Novecento, all’aperto. Presentato all’uscita nel 2000, come una sorta di pastiche e romanzo a chiave, è una storia di ammirazione e affetto e un esercizio d’intelligenza – contro tutte le storie di depressione che circondano gli ultimi anni di Bellow.
La caccia al tesoro è certo remunerativa. “Ravelstein” è Allan Bloom. “Vela” è la penultima moglie di Bellow, la fisica teorica Alexandra Ionescu Tulcea, virago inattingibile, che ingiunge il divorzio a Bellow nei giorni in cui gli morivano due fratelli, dopo un’annosa frequentazione dell’avvocato divorzista, in costanza di matrimonio, per “preparare le carte”. Il di lei grande amico a Parigi, e dello stesso Bellow, “Radu Grielescu”, è Mircea Eliade, di cui Bellow deve riconoscere che fu per vent’anni fascista e poi nazista, e sempre antisemita. Il maestro Felix Davarr è il filosofo Leo Strauss, generoso e controvertibile. “Rakhmiel Kogon” è Edward Shills, sociologo dell’intelligencja non tradotto in italiano, premio Balzan 1983, patrono di Max Weber e Mannheim nell’accademia americana. “Phil Gorman” è Paul Wolfowitz, uno dei tanti allievi di Strauss che hanno lavorato per Reagan e Bush jr. Più altri professori, grandi medici, e preti cattolici. Il tutto nella consueta bonomia di Bellow - dei due razzisti, Céline è da preferirsi a Eliade, anche se questi è un monumento: “Céline non avrebbe finto di non aver collaborato alla Soluzione Finale”, confida l’autore alla moglie mentre, avvelenato dal cibo, rischia di morire: “Non avrei scambiato l’interbase Grielescu con l’esterno destro Céline. Se la metti in termini mutuati dal baseball puoi comprenderne facilmente la follia”.
Ma si può fare a meno della caccia, la narrazione è già impegnativa di per sé. Il dialogo è solo possibile tra amici. Categoria estesa alla fine anche a una moglie, l’ultima dell’autore, devota senza essere subordinata. È attraverso il dialogo amichevole che il narratore riesce a sviluppare la vicenda. Vale quello che ne scrisse Marina Valensise sul “Foglio” all’uscita: “È la storia di un amicizia che ebbe vita effettiva e dettagliata, ma anche romanzesca”. Un viaggio nel secondo Novecento, una scampagnata più che altro, ma meditata. Di persone anche in età, ma sintonizzate e partecipi. Sugli ebrei e l’antisemitismo. A partire da questa semplice constatazione per quanto riguarda la Germania (p.173): “Sono stati gli ebrei lo strumento con cui Hitler ha conquistato il potere”. Che per fortuna della Germania non è vero, ma il fatto c’è. Sul controverso Strauss, maestro di Bloom e indirettamente di Bellow. La sorte degli ebrei, secondo Strauss, testimonia “l’assenza di redenzione” (185). Bellow non ne è sicuro – e del resto non è come dire che Hitler ha vinto? Sul conformismo soprattutto, anche politicamente corretto, contro il quale Bellow e Bloom possono infine divertirsi in allegria. Il viaggio è in un mondo appannato (p.210): “La grigia rete di astrazioni che copre il mondo per semplificarlo e spiegarlo in modo tale da costringerlo ai nostri scopi culturali è diventata il mondo che vediamo”. Per cui c’è “la necessità di avere visioni alternative, diversità di vedute”. Tanto più in America, dove il nichilismo, “come aveva affermato Ravelstein, con una frase divenuta famosa” (p.227), è “nichilismo senza l’abisso”. È avere il mal di pancia per aver mangiato troppo pop-corn.
È un racconto di malattia e morte. E un inno all’amicizia. All’amicizia come dialogo, condivisione. La ricetta della vita è perdersi e incontrarsi, la metà che ci manca è la disponibilità altrui, l’attenzione compassionevole. L’amicizia come percorso in parallelo. Senza bracci di ferro, adescamenti, lusinghe, adulazioni, prevaricazioni, neppure pedagogiche. È un andare insieme, ognuno nel suo percorso, spalla a spalla, ritrovandosi a certe tappe, con commozione ma senza esagerare. E misura, pur nella dismisura. Una forma di salvezza.
Saul Bellow, Ravelstein

mercoledì 9 maggio 2012

Problemi di base - 100

spock

Se Dio non può cambiare il passato e la storia sì, perché ci sono catastrofi?

È il moto meccanico (copernicano) dei cieli la fine o l’inizio di Dio?

L’anima non costa, perché tanti ne fanno a meno?

Se non c’è verità nelle cose, perché alcuni funghi sono letali?

Si mangia ovunque in Italia “vino escluso”: è così pericoloso?

Chi ruba di più, l’evasore o l’appaltatore?

Con Monti e Napolitano
Non si va lontano.
Con Napolitano e Monti
Si finisce un po’ tonti?

spock@antiit.eu

Per i classici non ci sono che gli Usa

È un ampliamento del saggio “Skills for life. Why cuttings in humanities teaching pose a threat to democracy itself” supplicato sul “Times Literary Supplement” il 30 aprile 2010, sulla democrazia a rischio per i tagli alle discipline umanistiche. Con argomenti appassionati, ma non nuovi: “La democrazia si fonda sul rispetto e la sensibilità, che a loro volta si basano sulla capacità di vedere gli altri come essere umani, non semplici oggetti”, e questa educazione può solo venire dallo “spirito umanistico: approfondendo il pensiero critico, un’immaginazione ardita, la comprensione empatetica delle esperienze umane di tante specie diverse”. Tanto più oggi, aggiunge: con la globalizzazione e l’elettronica il mondo è più complesso, gli eventi numerosi, la comunicazione immediata e multiforme, e per orientarsi ci vuole molta capacità critica.
Martha Nussbaum fa sua la posizione che nel 1987 ancora criticava, criticando la prima denuncia dell’abbandono della cultura umanistica, “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom (nella “New York Review of Books” del 5 novembre). Una “chiusura”, argomentava lo studioso, tanto più cieca in un mondo che invece si voleva più complesso. Con una novità, però, rispetto a Bloom: la filosofa e classicista sostiene che gli Usa, contrariamente all’opinione corrente, resistono allo scadimento dell’istruzione. Grazie al “modello di arti liberali” di Dewey che ancora resiste nelle università, influenzando l’istruzione secondaria. Apprezzato e sostenuto dalle istituzioni e dai donativi privati. Mentre “in molte nazioni dell’Europa e dell’Asia, India compresa, Socrate è ormai fuori moda”.
Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Mulino, pp. 160 € 14

Le radici infette della Germania speciale

È come dice Habermas, una bordata neo-conservatrice, cioè nazionalista. E per questo anti-occidentale. Questo Historikerstreit di venticinque anni fa diceva, da destra e da sinistra, che il passato non è passato, e anzi ritorna. È un dibattito che oggi non sarebbe più possibile, crea forte alla rilettura la nostalgia della Germania renana, della “vecchia” Repubblica Federale di Bonn. Ma per ciò stesso la polemica fra migliori storici tedeschi, Nolte, Habermas, Hillgruber, Hildebrand, Stürmer, Hans e Wolfgang Mommsen, Augstein, Kocha, Fest, sia pure soave, democratica, in linea coi tempi, è già nell’ottica di un nazionalismo cieco.
Si sa, oggi si vede, che la nuova Germania è nata male, ma questo libro ne mostrava le radici infette. Che poi sono una: Olocausto a parte, la Germania ha solo perduto la guerra. Nolte, acuto ma patriottico, ha dato un colpo agli storici del nazismo, col famoso articolo sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 6 Giugno 1986, “Il passato che non vuole passare”. Salvando la Germania. Habermas ha ribattuto un mese dopo, sulla “Zeit” dell’11 luglio, sotto il titolo “Una sorta di risarcimento danni. Le tendenze apologetiche nella storiografia contemporanea tedesca”. Criticando Nolte (e Hillgruber e Hildebrand) ma accettandone l’impostazione: la sospensione del giudizio, insomma la revisione della colpa. Altri storici sono intervenuti nel dibattito, ma poi tutto – tutti i motivi di perplessità per un non tedesco – è elencato qui da Hans Mommsen, e Kocka lo spiega. Da sinistra, insomma. Con la stessa voluttuosa disinvoltura dell’“impolitico” Mann.
Habermas sbagliava anche a martirizzare la Germania di Bonn, animale tranquillo, di cui si rimpiange già la scomparsa. Che accettava la sua colpa: passivamente, portandone la croce. Mentre non c’è nel dibattito un solo accenno critico al sistema sovietico. Non c’è anzi alcun riferimento storico. Una stranezza per un dibattito tra storici: né a Norimberga, e nemmeno a Versailles o alla politica occidentale di appeasement allo hitlerismo - assenza doppiamente strana in un impianto anti-occidentale.
Niente. Si torna all’“identità” tedesca. Problema apparentemente senza fondo, benché semplice. Nel quale tutto viene omologato. “Totalitarismo, genocidio e deportazioni di massa costituiscono il tratto caratteristico del XXmo secolo” (Hildebrand). Lo costituiscono anche di altri secoli. Ma non è vero – questo è il punto – che i totalitarismi sono uguali. Quello di Hitler era popolarissimo, un caso da manuale di servitù volontaria, e anzi entusiasta. Nel solo sterminio degli ebrei erano implicati quotidianamente un milione di tedeschi, calcola Augstein, e coinvolti in qualche modo i loro familiari. Sotto Stalin i sovietici hanno combattuto una guerra civile, con asprezza, con dolore. I tedeschi hanno combattuto con Hitler, contro gli ebrei e contro l’Europa, con gioia e devozione, per diventare grandi, grandissimi.
Incredibile mimetismo, surrettizio, per degli articoli di giornale, che invece si vorrebbero espliciti, al coperto dell’asetticità accademica, e per nozioni così semplici. Nolte ha più di un argomento risibile: la “dichiarazione di guerra di Weizmann”, cioè degli ebrei, la “trappola per topi”, etc. E il richiamo di Habermas alla congiura? Quando ha interlocutori dichiarati, semmai opportunisti. O un Hitler più mito che storia. E l’assurdo pareggiamento della colpa, in diritto e nella storia.
Tre fatti sono incontestabili. Nazismo e antisemitismo sono sordide vendette interne, senza motivazione, né giuridica, né sociale, né politica: solo invidia e rancore, vendetta di massa e non del “pazzo” Hitler. La guerra fu d’aggressione: con tutta la buona volontà, alla A.J.P.Taylor, contro la pace di Versailles ingiusta, la Germania fu sicuramente aggressore. Dire che gli inglesi, cattivi, volevano scorporare la Germania già nel 1942 (o non nel 1943? nel 1942 la Germania era trionfante)rende questi storici patetici. Terzo, la guerra è per natura crudele ma la crudeltà della Soluzione Finale è diversa: la guerra è tra due avversari in armi, la Soluzione Finale è uno sterminio di massa, di indifesi.
Si può capire il revanscismo di chi è stato cacciato dai luoghi da lui sempre abitati, Praga, la Slesia, la Prussia orientale, il Banato, etc., ma questi storici ne sono cattivissimi avvocati. È il sogno dell’identità tedesca che ha distrutto la Germania del Sonderweg, la “nazione speciale”. E con essa la Mitteleuropa, gli ebrei, i tedeschi e i tedescofili di Praga, Vienna, Zurigo, Varsavia, Londra, mezza Italia, mezza Francia, tre quarti dell’Urss europea.
AA.VV., a cura di Gian Enrico Rusconi, Germania un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca

martedì 8 maggio 2012

L’89 è un romanzo in Michelet

Passione rivoluzionaria e occhio critico, contro gli eccessi, le deviazioni, il carrierismo dell’Ottantanove. Una rara misura. Idem per le donne, che non si possono dire eroine: un occhio simpatetico e insieme feroce. In una delle maggiori narrazioni dell’Ottocento: in Michelet è efficace perfino la retorica.
Michelet, Le donne nella rivoluzione

Secondi pensieri - (99)

zeulig

Amore – È la ricerca della metà perduta, secondo l’Aristofane-Socrate-Platone del “Simposio”. Si può anche dire così, ma dice meglio “la ricerca di sé nel diverso”. Un compimento, ma all’esterno di sé.
Presuppone comunque un’anima, nel senso spirituale e non animale della parola: il desiderio e una speranza (ricerca, scoperta). Il resto – la tensione orgiastica – è biodinamica: roba di proteine, ormoni, cicli, etc.

Anima – Era collettiva all’origine, nel peccato originale. Era quindi una colpa, di cui le anime singole nella storia si liberano. Nella Grecia antica immergendosi nel Lete, il fiume dell’oblio. I cristiani sostituirono al Lete il Giordano, facendo del rito purificatore una rinascita e del suo ministro il precursore della salute.

La sua immortalità è il trionfo del femminile? “Con la teoria dell’anima mortale”, spiega Hume, “l’inferiorità della donna trova facile giustificazione”.

Nelle catastrofi balena l’anima.
Ma può succedere all’anima come alla vista, di essere miope

L’anima immortale, che supera (rende “buona”) la morte, è già nell’“Assioco”, dialogo forse platonico (argomenta il solito Socrate) - insieme col giudizio universale, il paradiso e l’inferno.

Catone il Vecchio dice che l’anima di chi ama vive dentro quella dell’amato. L’anima sarebbe dunque amore. Risolvendo il dubbio dell’anima, dell’etimo, che non sarebbe più vento.
È Claudel che pone la trinità di Animus, Anima e Anemos, l’ultimo essendo in greco il vento, cioè lo Spirito Santo, gli altri due il Padre e la Figlia. L’anima sarebbe qui figlia - per gli antichi era Psiche, la farfalla.
Ma è per questo che non c’è più anima? L’anima non c’è perché l’amore è incerto?

A lungo l’anima s’è identificata col genio familiare o del luogo, l’angelo protettore, il cui idolino, in forma di statuetta consacrata da un astrologo, era posto accanto al corpo, che seguiva fino alla resurrezione. Era facile così ritrovarsi.

L’equivoco nasce con Gesù, che in san Giovanni fa testamento: “Chi ama la propria anima la perderà, chi odia la propria anima in questo mondo la conserva per la vita eterna”. Come dire che bisogna vivere senz’anima, questo Gesù sembra Freud.
La frase “può intendersi in due modi” per sant’Agostino, arrampicato sugli specchi: “Se ami la tua anima devi essere pronto a perderla; se vuoi conservare la vita in Cristo non devi temere la morte per Cristo”. Come dire che per amare qualcuno devi annientarlo, e questo è Wilde. Oppure, come dice il santo: “Non amare la tua anima se non vuoi perderla, non amarla in questa vita se non vuoi perderla nell’eternità”. Il cristiano deve quindi rinunciare non solo al gelato o alle carezze ma ad essere, almeno in questa vita – nell’altra non si sa. “Solenne e stupenda affermazione”, si monta Agostino, “se ami in modo sbagliato odi; se odi in senso buono ami”.
L’anima secca è la più saggia pure in Eraclito.

Confessione – È pratica sociale - pochi veramente si vergognano, e si pentono, tra i preti sopratutto, ma anche tra i fedeli - e plebea. La memoria è parte della psiche: ricostruisce ma costruisce, anche, e inventa, qualsiasi sbirro sa che indurre al ricordo è facile. Presto o tardi la maggior parte dei carcerati sente il bisogno di confessare. A chiunque, qualsiasi cosa. Non di punirsi, ma di raccontarla.

Corpo - Con Giordano Bruno si può dire, e con Plotino, che non l’anima è nel corpo ma il corpo è nell’anima. A lungo il corpo è stato l’anima del mondo, il corpo di Cristo, dei santi, del re. A conferma e pena degli arcipuri, che opera di Dio vogliono solo il mondo invisibile, l’incarnazione lasciando al demonio, regno del male, per essere insieme natura invisibile e corpo del divino. Anche se, direbbe Leone Ebreo, tecnico dell’Amore, “la corporenzia è una in tutti i corpi”: ci vuole un po’ d’anima in ogni corpo.

Discorso – “L’ontologia non è quello che c’è, ma il discorso su quello che c’è” – Maurizio Ferraris, direttore del Labot a Torino, laboratorio di ontologia, in “Manifesto del nuovo realismo”, p. 46. Il “discorso” è l’epistemologia. La quale, anche se fallace, non è quello che si sa ma quello che si dice. E chi ha un altoparlante lo dice meglio, lo diffonde, si fa ascoltare e credere. È il discorso del padrone – “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone” è una commedia di Dario Fo del 1969, su un aforisma di don Milani.
Non è vero in assoluto ma lo è nella realtà storica “L’ordine del discorso” con cui Foucault inaugurò nel 1970 le sue lezioni, ribadito nella “Microfisica del potere sei anni più tardi: “L’esercizio del potere crea perpetuamente sapere e viceversa, il sapere porta con sé effetti di potere”.

Memoria – È narrazione, in Proust e Benjamin, ma già in Omero.
Mitica – in Proust è borghesizzata: scandita (tempi e luoghi), selettiva.

Morale - Da che si evince? Uno cerca la morale della morale, dice Ingeborg Bachmann, e i conti non tornano. C’è Dio, ma chi ne sa nulla. Darwin lo dice un istinto, come quello che regola le api nell’alveare. Il punto è: cambia qualcosa, cambieremo noi tutto, o siamo parte di quei moti oscillatori, indecisi, della storia? La storia è pesante.

Storia – È nella storia il senso delle cose, più che nella filosofia. Tutto è storia, la letteratura, l’arte, la filosofia, la scienza, la percezione che se ne ha di esse. Lo disse anche Croce, non volendo: “Non basta dire che la storia è il giudizio storico, bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio stori-co, o storia senz’altro”. E anche: “Pensare è fare”. Pensare che è la verità – veritas filia temporis, diceva Gentile: “La filosofia è storia”.
La storia è inventrice e conservatrice di ogni arte a partire da Bodin. Ma c’era già tutto nella storia di Casaubon: “È in un certo modo filosofia pratica. L’unico genere letterario che insegna sapienza e prudenza insieme. È lo specchio delle azioni umane. La prora e la poppa della scienza politica. Capace di trasformare uomini nati inesperti e idioti in uomini capaci di azione, capaci di compiere anche le imprese più ardue”. Benché “somma di situazioni e azioni tale da non ammettere le sottigliezze dei cavillatori né di indugiare in esse”. La storia è tutto questo essere che è esistere.
Croce non ne era certo: “È metà”, disse anche, “della filosofia e della filologia”.

Cicerone voleva la storia testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, araldo dell’antichità: la prima legge della storia consiste nel dire niente di più e niente di meno della verità, assicurava l’avvocato romano. Pure Cervantes, per dire che conosceva il latino, fa la storia madre della verità, emula del tempo, depositaria delle azioni, testimone del passato, annuncio del presente, monito per il futuro.

zeulig@antiit.eu

lunedì 7 maggio 2012

I partiti si salvano col plebiscitarismo

La novità delle amministrative è la conferma del plebiscitarismo. L’altra novità, il voto di protesta per le liste Grillo, così come l’astensione dei leghisti e berlusconiani, era scontata, ed è congiunturale. Il voto al personaggio è invece la conferma che l’elettorato vuole poter scegliere, in un’offerta politica semplice: Tosi a Verona, Leoluca Orlando a Palermo, Doria a Genova, Perrone a Lecce.
È una scelta politica. Ed è un’indicazione precisa ai partiti, per la prossima riforma della legge elettorale. Il ritorno dei partiti non si farà col ritorno al proporzionale, cioè agli apparati. A meno di non disgiungere il voto parlamentare da quello per l’esecutivo. Ma allora ci vorrebbe un semipresidenzialismo alla francese, con due voti distinti per il capo dell’esecutivo e per il Parlamento. Una buona riforma elettorale, dal punto di vista dell’elettorato, e quindi la sola che possa salvare la politica e i partiti, è quella che porta a un esecutivo visibile e stabile.

Le pensioni Fornero una truffa legale

Rubare sulle pensioni è normale, è legale. Autonomi, precari, disoccupati, e in parte anche i sindacati, lo hanno fatto presente al momento della cosiddetta riforma per decreto delle pensioni, e di quella proposta del lavoro. L’analisi che Roberto E. Bagnoli pubblica oggi su “CorrierEconomia” lo conferma con i dati: il passaggio al contributivo defrauda i lavoratori del 40 per cento delle somme investite – nella media dell’età lavorativa, con punte del 75 per cento.
L’obiettivo dichiarato di Monti e Elsa Fornero è di “liberare” il mercato del lavoro. Ma nulla hanno fatto per dare sostanza alla nuova previdenza, contributiva e libera, che dovrebbe accompagnare e garantire il mercato libero del lavoro. Contribuire alle gestioni separate dell’Inps è come buttare i soldi. Fra quaranta o cinquant’anni matureranno assegni irrisori.
I fondi pensione daranno qualcosa di più, ma pagano, secondo lo studio di Bagnoli, molto di più. La commissione di gestione di un fondo aperto, che nella migliore delle ipotesi cresce annualmente del 5 per cento, è dell’1,50 per cento. Che è alta, ma non basta: si applica sul versamento dell’anno e sul valore netto del fondo, che cumula i versamenti precedenti. L’esito è che “i versamenti del ventesimo anno sono assorbiti per un terzo dalle commissioni; al trentesimo anno per la metà; al quarantesimo per circa il 75 per cento!”.
Dire che Fornero ha premiato i gestori dei fondi pensione non è esagerato. Non c’è futuro senza previdenza. Ma i gestori si accontentano dell’oggi, una previdenza che chiamano “la gallina dalle uova d’oro”.

La corruzione viene con gli appalti

La corruzione politica dominava le cronache già vent’anni fa, alle elezioni del 5 aprile 1992. Anche allora, come oggi, non si toccò però il nodo principale. Che si può sintetizzare con le parole di allora:
“Per bloccare la via maestra della corruzione basterebbe una legge semplice, di due commi, tre righe in tutto:
«Ogni opera pubblica va finanziata per intero.
«Ogni appalto va eseguito nei tempi indicati nel capitolato.»
“Perché il nuovo Parlamento, dove tanti deputati vergini si sentono colpiti nel decoro dalle tangenti, non lo adotta per acclamazione? Non sarebbe stravagante, in molti paesi si fa così”.

Lo spirito è stupido del capitalismo

Un racconto di avventure che è una storia del disonore, dell’imperialismo. Anche quando è ingenuo – per almeno mezzo secolo gli inglesi partono allo sbaraglio, senza sapere dove vanno, morendo per la strada, e senza sapere che fare una volta arrivati. Impiantata come una storia di piccoli eroi, finisce per essere una vicenda di miseria morale. Di stupidità, irresponsabilità, dilettantismo.
Le guerre per la noce moscata sembra un racconto per ridere. Ma lo snobismo inglese va a segno unicamente nel pregiudizio anti-olandese. Contro calvinisti peraltro, ed ebrei, tanto tolleranti a casa, nella Amsterdam celebrata di Spinoza, quanto crudeli nelle isole delle spezie. Due incarnazioni esemplari, ben protestanti, dello spirito del capitalismo.
Giles Milton, L’isola della noce moscata

domenica 6 maggio 2012

Proust l’ha lasciato scritto Stendhal

A leggerlo per intero, è la prova generale della “Ricerca” – benché, pubblicato nel 1894, non figuri tra le letture di Proust. Se ne anticipano, nella mancata riscrittura, i punti deboli: minuziosità, ironia, passività dell’occhio “clinico”, che non danno slancio alla narrazione né corpo ai personaggi. In Proust, in capo alle seimila pagine, abbiamo l’idea di che cos’erano alcuni salotti, benché non di prestigio, di fine secolo, nel “Leuwen” niente. Ma si può fare il peso al contrario: i legittimsti di ogni bordo qui escono dal ridicolo, Lucien è un personaggio, per quel che vale il piccolo arrivista che si fa fare – anche se il modesto Maupassant farà meglio con un decimo delle parole - e il “juste milieu” è più vivace del mondo Verdurin.
Stendhal, Lucien Leuwen

Il mondo com'è - 93

astolfo

Arianesimo - La culla della razza “ariana” sarebbe Balkh, tra i monti e i deserti dell’Afghanistan, la Battra di Alessandro Magno, città che oggi più non esiste, capitale della Battriana - l’Afghanistan odierno è un posto dove tutti gli eserciti si sono perduti, da qui la leggenda di Alessandro che ne sarebbe tornato pazzo. A Balkh nacque Zoroastro-Zarathustra. Ma in tempi moderni la vicenda origina nel Bengala. Il Bengala era stato colonia olandese, fino a che gli inglesi non crearono Calcutta nel 1686. Un secolo dopo, nel 1786, il giudice supremo del Bengala sir William Jones, un poeta, lesse alla Royal Asiatic Society di Calcutta il primo parallelo tra il sanscrito, il latino e il greco, che conosceva, escludendo l’ebraico che non conosceva, e nacque l’“arianesimo”.
Calcutta, già Bertoldino diceva del nome ch’è “un paese dove tutte le donne sono femine”. Costituivano la Royal Asiatic Society i funzionari dell’impero e le loro mogli, che si dovevano spedire “a pacchi”, dirà Balzac, giacché nel Bengala le donne erano “più vecchie a quindici anni di una parigina a cinquanta”, persone tutte cagionevoli all’umidità dei luoghi.
Bengala venendo da Banga, antica popolazione “ariana”, presto il Nord dell’India, che impressionava gli indiani e gli inglesi con le sue montagne, e darà i natali a Orwell, divenne il polo Nord, il circolo polare artico, la Scandinavia, la Urgermanità. Uno dei funzionari, il medico Thomas Young, troverà l’attributo indoeuropeo. La parola mescola geografia e cultura, e lascia fuori metà del mondo nel quale la sua trama s’intesseva: Sumer, Accad, Babilonia, Ur, da dove viene Abramo, gli etruschi e i fenici, da cui i greci ebbero l’alfabeto. Ma piacque, dava l’idea della purezza bianca anche nella lingua.
È pure vero che il modello “ariano” non nasce nell’Ottocento. In larga parte viene dal Contra Galileos di Giuliano l’Apostata, che volle riaffermare, benché minoritario, l’unità di Oriente e Occidente, contro la nuova storia che il cristianesimo introduceva. Il nipote di Costantino vi difende l’ellenismo e il giudaismo contro i cristiani, due volte apostati.
Il mito fu dapprima semita. Furono gli arabi a chiamare Balkh “la madre delle città”, di circonferenza lunga trentacinque chilometri, associandola alla migrazione a Ovest degli “ariani”, di cui non si trova traccia - né della migrazione né degli “ariani”. Gli archeologi francesi ne hanno scavato per un secolo le fondamenta per trovarvi Battra, ma i Battriani di Balkh nascono con Erodoto e presto muoiono. Balkh-Battra è servita agli inglesi, narratori incontenibili del loro quotidiano, per giustificare i viaggi nel nulla e farsi d’erba senza vergogna. Allo stesso modo servì al romanzo di Alessandro, che a lungo fu un genere letterario: il conquistatore vi trovava moglie, la figlia del satrapo locale, e v’impazziva, dopo averne mediato il non lodevole obbligo per i suoi militi di salutarlo genuflettendosi. È possibile che una grande città ci sia stata, in quella grande piana coltivabile dell’Amu Daria, unni e mongoli hanno fatto male soprattutto all’Asia. Ma non s’è saputo mai che in Iran abbiano misurato un “ariano”, o a Kandahar. Sono i semiti ad alimentare il culto degli “ariani”, che se sono antisemiti, stabilirà Otto Weininger, ebreo, non sono “ariani” veri, sono ebrei camuffati.
Il problema si complica se i veri “ariani” sono i camiti, neri. Per la gente del Libro il problema è che, se l’umanità riparte da Noè, solo i figli di Cam sono nella retta linea: “Solo Cam ha avuto accesso alla rivelazione di Noè”, dice la Bibbia. E c’è l’origine africana della grecità, madre dell’Occidente. Che si ritrova in Erodoto, ben prima dei patrioti africani. Simone Weil lo dà per scontato: “Numerosi indizi attestano che gli Elleni hanno preso tutte le loro concezioni metafisiche e religiose dall’Egitto, attraverso i Fenici e i Pelasgi”. E aggiunge: “Ezechiele lo conferma”, il profeta della Bibbia che non è ebreo. Ma la bega è per ora semita.

Internet - Innocente Internet non si può dire, soprattutto con la sua espressione più democratica, i social network. Chi ha un blog anche personale, anche casalingo, lo sa: non una parola passa indenne dalla Rete, tutto è scrutinato. E viceversa, i social network non sono né spontanei né ingenui: tutto vi è manipolabile, i commenti come i “documenti” (testi, immagini, testimonianza in diretta), e dunque vi è manipolato.

Sinistra-Destra – Periodicamente l’America ne trova traccia nell’antiamericanismo della Francia. Della France pourrie del 1940 che non ha più trovato il capo di se stessa. In un primo momento imputato all’alterigia di De Gaulle (destra). In un secondo momento a una filosofia e una linguistica inerti, solo animate dallo stalinismo, da Sartre a Derrida e compreso il destorso Blanchot, in funzione peraltro unicamente antiamericana.

Il Fronte Patriottico, tricolore con pugno (“NON CI SONO UOMINI DI DESTRA E UOMINI DI SINISTRA: C’E’IL SISTEMA E I NEMICI DEL SISTEMA - Patria - Popolo - Rivoluzione - Socialismo – Europa”), apre la sua home page col caso forse più famoso, benché trascurato dagli storici, di coincidenza tra gli opposti: l’“Appello del Partito Comunista Italiano ai fratelli in Camicia Nera” del settembre 1936,
“Agli operai e ai contadini,
Ai soldati, ai marinai, agli avieri, ai militi,
Agli ex-combattenti e ai volontari della guerra abissina,
Agli artigiani, ai piccoli industriali e ai piccoli esercenti,
Agli impiegati e ai tecnici,
Agli intellettuali,
Ai giovani,
Alle donne,
A tutto il popolo italiano!
Italiani!
“L’annuncio della fine della guerra d’Africa è stato da voi salutato
con gioia, perché nel vostro cuore si è accesa la speranza di veder,
finalmente, migliorare le vostre penose condizioni….”
Prosa firmata nell’agosto 1936, durante la guerra d’Etiopia, con l’Italia isolata dalla Società delle Nazioni, dalla dirigenza del Pci a Parigi, Togliatti compreso, su iniziativa di Ruggiero Greco, che all’epoca figurava segretario del Partito. Con firme forse apocrife, compresa quella di Togliatti, ma non smentite dalla dirigenza comunista – l’appello fu del resto pubblicato su “Lo Stato operaio”, la rivista dl Pci fondata da Togliatti nel 1925 a Milano, che negli anni di Parigi rappresentava la pubblicazione ufficiale del Partito. Molto dettagliato, lungo una cinquantina di cartelleCon uno stile, letterario e grafico, che parla da solo.
Il mese precedente l’editoriale di “Stato operaio” s’intitolava “Largo ai giovani”. Uno slogan fascista, per rilevare nella gioventù fascista una buona dose di “anticapitalismo, per quanto vago e contraddittorio”. A ottobre l’appello fu reiterato, in forma più contenuta.

Totalitarismo – Quello contemporaneo si può dire democratico. Per la parte della democrazia che è partecipazione e informazione (opinione). Ce n’è tanta da renderla insignificante.

astolfo@antiit.eu