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sabato 28 giugno 2008

Su basi etniche Obama ha già stravinto

Meno del 15 per cento degli americani possono vantare una discendenza inglese, imbastardita. Neri e latini sono più numerosi, e più puri, in ragione della loro esclusione.
Cosa contraddistingue l’America, che pure è così differente, è patriottica, all’unisono? La voluntary society? Sì, ma a livello locale. L’eguaglianza di opportunità? È una favola. La legge, salva l’America e la santifica la legge. La verginità di Obama di fronte alla legge è sicuramente il primo fattore del suo successo, di fronte ai vecchi routier Clinton – che insieme hanno avuto forse più processi che Berlusconi in Italia.
Ma sono i tempi propizi per un presidente americano nero, oltre che giovane e inesperto di governo? Per quanto riguarda la razza sì: su basi etniche Obama stravince su McCain, la quintessenza dell’anglosassonità: non più del 15 per cento degli americani possono vantare una discendenza britannica, ma un buon terzo di loro sono per Obama. Con i tedeschi, che sono un 10 per cento della popolazione bianca (l’America rischiò di parlare tedesco… ), il voto bianco anti-Obama arriva al 20 per cento. Al 25 con gli ebrei, che dubitano di Obama per le radici familiari islamiche. Obama ha con sé i neri, che sono censiti attorno al 10 per cento, ma con varie sfumature arrivano al 15, e almeno una metà dei cattolici europei: irlandesi, italiani, polacchi: un altro 15 per cento. Con gli asiatici e gli africani, e con i latini che gli porta il “matrimonio” con Hillary Clinton, la sua maggioranza è assicurata. Posto che si voti su basi etniche.
La questione etnica, nel paese multiculturale per eccellenza quale sono gli Stati Uniti, e insieme il più fortemente caratterizzato in senso nazionale, è sorprendente. Americano. I neri “sono la nuova razza”, scriveva già quarant’anni fa Chester Himes, “la sola nuova razza da qualche tempo”. Se si facesse un libro d’oro dell’americanità, i neri vanterebbero più generazioni certificate.

Ci vuole Bush per l'Eni in Asia

Che fare di Kashagan? L’Agip, cioè l’Eni, s’interroga sul futuro del maxigiacimento petrolifero in Kazakistan. Con riserve valutate in 9-16 miliardi di barili, in grado di dare da solo una produzione annua media di 300-500 milioni di barili, pari a 40-70 milioni di tonnellate, il consumo dell’Italia, il giacimento ha segnato l’entrata del gruppo italiano tra le grandi potenze petrolifere. Ma ha scontato una lunga serie di problemi sollevati dal governo kazako. Senza altro motivo che la collaborazione dell’Eni con la Russia, il nemico del presidente kazako Nazarbayev. L’entrata in produzione del giacimento è così slittata dal 2005 al 2011. E l’Agip deve fare i conti con una partecipazione non sempre amichevole del governo kazako in consiglio e nei programmi, di spesa e di ricerca. Alcuni dei maggiori soci della prima ora del progetto, British Gas e la Bp, hanno già preferito cedere le proprie quote.
Un anno fa il “Financial Times” argomentò che le grandi compagnie del consorzio, Exxon e Shell, intendevano scalzare l’Agip, cioè l’Eni, dalla leadership. Exxon e Mobil si presero la briga di smentire, e la cosa finì lì. Come un articolo ispirato dal governo kazako, che all’epoca brigava dall’Eni più poteri in consiglio. Ma ora l’Eni s’interroga se non è più conveniente defilarsi, lasciando la Exxon (la Shell guarda da sempre con molto distacco all’affare) a tirare fuori il giacimento dalla palude.
L’Eni non intende abbandonare il progetto. Anche se sa cheKashagan, come qualsiasi altro interesse in Centro Asia, economico o politico (la guerra in Afghanistan per esempio), non si può sviluppare se non d'accordo con la Russia, in contrasto quindi co uno dei "credo" della presidenza Bush. Potrebbe vendere sicuramente la quota con qualche beneficio rispetto alle spese sostenute, ma resterebbe fortemente indebolito sul piano patrimoniale. La quota del 16,81 per cento del consorzio, analoga a quella degli altri grandi gruppi, Exxon, Shell, Total, “pesa” molto di più nel patrimonio del gruppo italiano. D’altra parte, Scaroni in persona è rimasto scosso dall’ultimo round di trattative col governo kazako a gennaio. Al punto da dubitare che l’ex repubblica sovietica dell’Asia centrale possa sacrificare Kashagan alle ambizioni politiche di Nazarbayev. Una via d’uscita potrebbe essere un approccio diretto con la Exxon, per un’alleanza irrobustita, anche diplomaticamente. Un avallo americano potrebbe rassicurare Nazarbayev, e anche “convincerlo”, ammorbidire le sue fobie antirusse.

Gazprom vuole fare l'Europa dell'energia

Il presidente di Gazprom, Medvedev, è divenuto presidente della Russia, candidato di Putin. Il primo ministro russo di Putin presidente, prima dello stesso Putin, Zubkhov, diventa presidente di Gazprom. Che credibilmente annuncia di voler diventare in cinque anni il maggior gruppo mondiale dell’energia, con una capitalizzazione doppia di quella di Exxon-Mobil, oggi il più grande. In grado di garantire la politica energetica di tutta l’Europa, liberandola dal condizionamento dell’Opec.
Gazprom è la pupilla dell’occhio del potere in Russia. Ma non è solo una creatura politica. Gazprom è da quarant’anni giusti il partner energetico più fidato dell’Europa occidentale, a partire dall’Eni, con cui all’epoca avviò la relazione privilegiata. Il contratto del gas russo del 1968 è un romanzo, anch’esso a forti connotazioni politiche. Ma Gazprom è stato da allora il partner più sicuro e di maggior profitto dell’Eni – dopo la Libia di Gheddafi. Quello con cui l’Ente di Stato, quando ancora faceva progetti, intendeva costruire la rete europea dei gasdotti, basando il continente sul gas, più che sul tutto-elettrico e sul desueto tutto-petrolio.
Negli ultimi tempi l’Eni ha in più punti messo a rischio questa partnership privilegiata. Dapprima per errori politici. Quando Putin cinque anni fa disse a Berlusconi di prendersi tutto il gas russo che voleva, l’ambrosiano Cavaliere ci mandò il suo amico Mentasti, pensando a un affaruccio: non aveva capito. Gazprom fece allora pressione su Putin, e ottenne quello sfondamento in Germania che forse, giustamente, è all’apice dei suoi progetti, prendendosi nell’occasione come consigliere l’ex cancelliere Schroeder - che naturalmente, a differenza di Berlusconi, sa di che si tratta.
L’Eni ha poi parzialmente recuperato. Ha potuto sottoscrivere varie iniziative con Gazprom, spendendo il capitale di entrature e contratti in essere nei paesi petroliferi del Nord Africa. E di più forse non può fare, avendo il fucile puntato del Kazakistan contro chiunque collabori con i russi. In Kazakistan l’Eni ha il suo maggiore giacimento di petrolio, Kashagan, che è anche il maggiore del mondo. Ma una valutazione dei pro e contro dell’iniziativa in Kazakistan si sta imponendo all’Eni: non tutti i dirigenti, a cominciare dall’ad Scaroni, ritengono sia utile farsi legare le mani da Kashagan.

Napoli fa la festa alle intercettazioni

Dice bene Luca Barbareschi: “Se sei intercettato, sei colpevole”. Sarà per questo che la valorosa magistratura napoletana, col volenteroso aiuto dell’“Espresso”, ci ammannisce dieci e anche venti intercettazioni al giorno online. Ci voleva un attore per scoprire la verità. Perché di questo si tratta, di teatro, vaudeville si chiamava una volta, una farsa in gilet, magari da magistrato, da borghesia urbana. Prendendola seriamente, l’ultima raffica d’intercettazioni serve solo a rendere obbligatoria una legge restrittiva. E a innalzare un monamento ad Agostino Saccà, l’imputato principale. Ma non si può pensare all’“Espresso” e ai magistrati dell’accusa, benché napoletani, come a dei provocatori.
È la festa di Napoli, questo è. Ultimamente tornata alla fase piagnona, la città si diverte muta con l’elettronica. E si sfoga coi pettegolezzi prima che siano proibiti. Con battaglioni di carabinieri e finanzieri che muti ascoltano le telefonate, rimuginando di farsi questa o quella delle celebrità che gli tocca ascoltare per il loro misero stipendio - lo stipendio è sempre misero, non solo a Napoli, bisogna dire. Torme di consulenti di ogni risma che a caro prezzo sbobinano, trascrivono, tagliano, cuciono. E giornalisti amici degli amici che solerti prendono e mettono in rete – pare che l’esame di giornalismo sia ora mettere in rete: al candidato viene fornito un articolo che lo stesso dovrà con accortezza mettere in rete.
Un caso esemplare di produttività, questo delle intercettazioni partenopee, da Napoli a Milano e Torino, e giù a Potenza e fino a Lagonegro. Come solo a Napoli il lavoratore sa essere solerte, l’investimento produttivo, la capitale dell’economia nera, che è tanto più concorrenziale e ardua di quella in chiaro. Ma è anche una festa, questa della Procura del giudice Mancuso, quello del “non si toccano i miei figli”, anche se rompono, fedele discepolo del presidente Scalfaro, è una Piedigrotta, benché muta e priva degli assoli di Woodcock, tricche e ballacche in full swing, direbbe Arbore, con quel po’ di farfanteria che ci vuole, con la a alla Camilleri, che s’immaginerebbe suo cantore. In un paese civile qualcuno sarebbe stato sospeso, in Italia è cassa infernale e putipù, divertitevi.
E poi, non è il divertimento istruttivo? È così che Saccà, che i giudici di Napoli vorrebbero incastrato, ne esce leone: un supermanager. Berlusconi un cretinetti. Saccà incorrotto e incorrompibile, maestro nel proteggere l’azienda dalle pressioni politiche, che è il primo dovere di un manager pubblico, e uno che ha sempre battuto con le sue stronzate, chiamate fiction, le stronzate di Mediaset. E per questo l’unico manager sospeso dal consiglio d’amministrazione della Rai – non che i gentiluomini consiglieri siano al soldo di Mediaset, probabilmente sono veri poveretti. Berlusconi invece è un “ciula”. Che si fa telefonare da signore sconosciute. E fa telefonate, lui, il potente padrone di Mediaset e della politica nazionale, al calabrotto Saccà e non viceversa, per raccomandare signore che non conosce, e non stima. Su impulso, anticipiamo un'altra serie di indiscrezioni, della incombente e non troppo brillante famiglia, magari della signora Veronica.
Ma poi, finita la festa, bisogna chiedersi dove sta il fascismo. Perché c’è molta mafia, e si vede. Ma anche di fascismo qui ce n’è molto. Solo, non dove ci si aspetterebbe. Uno si sarebbe aspettato che le troniste di Berlusconi ripetessero le contesse di Mussolini, ma niente, qui niente coca e nemmeno trombate. Qui è tutta roba di sinistra, autocertificata. E di volenterosi assistenti alla morte – eugenetica!
La Repubblica, la storia più democratica dell’Italia millenaria, ha ucciso alcune centinaia di cittadini inermi, ha messo migliaia di bombe, sui treni, nelle piazze e nelle banche, e ha promosso il terrorismo. Ma sempre negandolo. Tanta impudica violenza è una novità, come quando gli squadristi brandivano liberamente i manganelli, si capisce che Napoli è eccezionale.

giovedì 26 giugno 2008

M il partito di Spataro, resistenza! resistenza!

Dunque la giudice Nicoletta Gandus, che deve giudicare Berlusconi, ne ha detto molto male nel 2006 schierandosi per il partito di Spataro, il procuratore della Repubblica di Milano di cui basta il nome: “Si tratta di leggi che - a prescindere da ogni altra considerazione - hanno devastato il nostro sistema giustizia e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi”. La ragionevole durata dei processi, secondo il partito di Spataro, è dieci anni? Dodici?
È probabile che, essendo di Magistratura Democratica, la giudice Gandus sia un’oppositrice politica di Berlusconi, con ambizioni dunque a titoli resistenziali. Partecipante ai social forum di Porto Alegre, Firenze e Parigi, si è distinta anzi per mettere l’Italia al di sotto del Terzo mondo quanto a riconoscimento dei diritti umani e civili, dice il suo santino – irritando per la verità un po’ tutti in Brasile, come sempre quando i ricchi si lamentano. Ma non è da escludere che attacchi il suo convenuto per farsi ricusare, perdere una sessione, favorire la prescrizione. Anche le persone di buona volontà hanno di queste debolezze, seppure inconfessate - la prescrizione consente al giudice di uscire a testa alta nella reputazione dei più, senza sporcarsi la coscienza. O magari, perché no, la giudice venendo bene nei fotoritratti alle manifestazioni, bionda vaporosa sulle forti bandiere rosse, punta ad aprirsi le porte di Vespa e Santoro, le corti italiane del ventunesimo secolo. A questo punto, Nicoletta è tutti noi. E gioiremo quando la corte milanese che dovrà decidere sulla ricusazione le darà ragione. Ma…
C’è un ma. Può darsi che Berlusconi non abbia 900 giudici alle calcagna, come pretende “Repubblica”. E nemmeno 789, come lui stesso pretende con De Benedetti. Ma anche se ne avesse 78 sarebbe un problema. Perché allora Berlusconi, che non è simpatico, si confermerebbe ubiquo, benché delinquente, è questo potrebbe corroborare la sua pretesa di essere Dio. Questo potrebbe anche dargli ragione nel disegno di sospendere i giudizi nei quali lui è coivolto per celebrare gli altri: forse i giudici troverebbero il tempo di condannare anche qualche pedofilo o grassatore, meglio se mafioso (dice oggi “Repubblica” in un pezzullo interno: “Capomafia uccise 13 persone\libero per scadenza dei termini. Nell’ambito di una faida una famiglia fu data in pasto ai maiali”).
I giudici italiani sono i più numerosi al mondo rispetto agli abitanti. Ma lavorano poco. Ora, se sono solerti contro Berlusconi e non lasciano scadere i termini, questo non può che fare piacere. Ma 900 giudici sono il 12 per cento di tutti i giudici italiani, uno su otto. Considerando quelli in servizio (non in malattia, non comandati a impieghi più prestigiosi, lucrosi, non in disponibilità, non al Csm, non al sindacato), i giudici di Berlusconi sono il 20 per cento del totale, uno su cinque. Allora speriamo che siano solo 78.
È un “sistema di giustizia” quello del processo a Berlusconi per avere avuto come avvocato Mills? Certamente lo è, c’è sistema dove c’è potere. Ma è un sistema democratico? Per il dottor Spataro sì, e per la corte mediatica che questo tribuno ha creato a Milano, di forcaioli e terroristi. Ma perché la Repubblica dovrebbe mantenerlo, e anzi proteggerlo? La Resistenza è contro questi infiltrati: sono provocatori. E parliamo di un partito di Milano, benché di Spataro. Poi ci sono i giudici di Napoli, dove non c'è limite all'abiezione.

Le intercettazioni cancro della repressione

Le intercettazioni sono opera di quelli che una volta si chiamavano sbirri, ed erano guardati con sospetto e sdegno dai Carabinieri e nella Guardia di finanza.
Un ufficiale della Guardia di finanza o dei Carabinieri – la Polizia cospicuamente se ne tiene fuori, dopo la demilitarizzazione - apre, con l’ausilio di una lettera anonima, che più spesso si scrive, o di una “confidenza”, sempre anonima, l’indagine che ha deciso di effettuare. O anche un sottufficiale, con le famigerate Note di servizio nelle quali un capo stazione può scrivere tutto, senza obblighi di prova Dopodichè due strade si aprono. O si cerca da un procuratore della Repubblica in sintonia l’autorizzazione alle intercettazioni - per un mese, ma nessuno poi controlla se durano anni com’è l’uso. Oppure l’ufficiale o il sottufficiale procede in autonomia, anche con le intercettazioni, e poi si cerca un procuratore della Repubblica che ne sia ghiotto e le spesi. Si conoscono almeno due dossier di grande eco che hanno girato mezza Italia prima di approdare alla Procura compiacente.
Non un casalese è stato arrestato e condannato grazie alle intercettazioni, uno di quei terribili personaggi che da due anni ingombrano le librerie. Né un mafioso. Nemmeno gli incredibili latitanti trenta e quarantennali, anche se hanno fatto numerosi figli, li hanno avviati agli studi o alla professione, hanno sposato le figlie, hanno condiviso i matrimoni, i battesimi e le malattie in ospedale della famiglia, sempre numerosa, eccetera. L’unico sequestro di persona nel mitico Aspromonte in cui sono state usate le intercettazione, quello della signora Sgarella, ha dimostrato che la temibile Anonima era una famiglia di balordi – il sequestro è stato l’ultimo, ma di intercettare i banditi non si è più sentito parlare, si rischia di prenderli? Le intercettazioni, nessuno della miriade di gialli che occupano le librerie ne fa caso. Né le dieci o dodici fiction investigative che si rifanno ogni anno in tv, di carabinieri, poliziotti, giudici, preti e guardiamarina, che per questo forse si ripetono con successo. Le intercettazioni, pure precise, sulla preparazione della strage di Duisburg non l’hanno evitata.
Un’intercettazione su cento, forse, si giustifica con ragioni d’investigazione. Le altre nascono e s’ingravidano all’insegna del dossier, la pratica sbirresca che condiziona la politica dagli anni del piano Solo – il ricostituente della Repubblica è il veleno, in forma di segreto, e appunto di ricatto. Ma l’origine è fascista. Si pubblicano telefonate di questo a quello, e indiscrezioni varie, di abusi, sessuali e non, licenze e inganni, in cui non è più il potere che attraverso i suoi apparati droga l’informazione. È la giustizia, con i giornali. Ma non è certo la libertà di stampa e il diritto all’informazione: il vizio è sempre quello delle veline di stampo fascista. Gli scandali politici venivano alimentati dal fascismo attraverso i giornali, ai quali il regime forniva in esclusiva le notizie e i materiali di corredo. La Repubblica naturalmente non è fascista, c’è la costituzione e c’è il mercato. Ma l’abitudine è rimasta: le prerogative costituzionali dei magistrati e il mercato convergono nel commercio delle notizie. Commercio non necessariamente a scopo di lucro, i magistrati non sono tombaroli – non sono ladri: a loro basta un semplice barbaglio di carriera, sociale e politica se non professionale.
Le intercettazioni, un tempo in sospetto per le deviazioni acclarate dei servizi segreti, sono dopo Mani Pulite il metodo d’indagine preferito: non ci sono più indagini ordinarie, o denunce documentate, né impegni precisi e delimitati dei responsabili di polizia giudiziaria. Sono un metodo sempre produttivo: se non c’è reato c’è sempre turpitudine, negli altri. Danno lustro: quante carriere sulle intercettazioni. E sono comode: piuttosto che lavorare, e magari rischiare, gli ex sbirri se ne stanno seduti, e danno appalti, a minisocietà d’informatica e tecnici del suono, il figlio, il nipote, l’amico del figlio, e a dattilografe, interpreti , specie dai dialetti, abili trascrittori. Poche centinaia di euro, ma questo è il grosso della corruzione in Italia.
Si fa finta, la sinistra fa finta!, in Parlamento!, nei tribunali!, che le intercettazioni siano opera di giustizia mentre sono, e tutti lo sanno, tutti!, opera di dossieraggio, cioè di spionaggio. Quanti cronisti non si sono visti offrire dei dossier completi? Con cassetta, con trascrizione rivista redazionalmente.
Non c’entra la giustizia con le intercettazioni, se non nel senso deteriore che essa ha acquisito in Italia dal processo a Sofri in poi, quasi vent’anni. Mentre tre gravi deficit di democrazia si sono con esse costituiti. Della legalità, sacrificata ai dossier. Della giustizia. Dell’integrità delle forze dell’ordine. Si conferma che la vera questione morale è in Italia, dal 1992, di chi si avvantaggia della questione morale. Di chi si pretende società civile che surroga la politica in ogni sua piega, dalle signore girotondine ai compagni reduci e a tutti i furbi: il combinato media-giustizia, con gli speculatori in veste di parroci e editori della questione morale, singoli e bancari.

Ombre

Mercoledì sera, dopo non aver fatto vedere Germania-Turchia, l’ineffabile redazione sportiva della Rai trova giusto il tempo di far commentare la non avvenuta nomina di Lippi ad allenatore della Nazionale, non ancora, a Zeman. Uomo dispettosissimo, in particolare contro Lippi. Che tentò di far dimettere, in combutta con la stessa Rai, alla vigilia del Mondiale 2006. Dice che il nuovo direttore De Luca avrebbe dovuto ripulire la redazione ineffabile. Forse dei residui di onestà?

Fanno pena la Merkel e i reali di Spagna a ogni partita del mediocre Europeo. Ma questa è la nuova Europa, tribale.

Angela Merkel che esulta contro i resti della Turchia, che hanno dato lezione di calcio alla Germania, è la Germania di oggi, un corpaccione inerte.

Nell’articolo del “Financal Times” che non avete letto, finalmente, almeno uno, in cui si chiede ai giudici di non distruggere l’Italia, la spiegazione è molto semplice: la cosa è americana. Quindici anni fa “il presidente Clinton fu soggetto a un processo dietro l’altro. Si vide che era altrettanto importante per i giudici restare sopra il sospetto di politicizzazione che per i politici sopra il sospetto di corruzione. L’immunità sembrò la maniera migliore di proteggere gli elementi democratici di un governo democratico – specialmente in un paese in cui il giudiziario è altamente politicizzato. Gli Stati Uniti erano e sono quel paese”. Dunque, i giudici italiani della resistenza sono amerikani? E Berlusconi è Clinton.

Sono solo settanta giorni che si è votato. Contro tutti i partiti di sinistra. Solo quaranta giorni che c’è il governo. Ma sembra un’eternità. L’Italia è un paese antico, giusto?
Anche molti animali non hanno il senso del tempo. Né quello delle convenienze. I cani per esempio, in tutto obbedienti, fanno cacca dove e quando gli pare.

Si fa per la munnezza il termovalorizzatore ad Agnano, invece che a Pianura, sito da tempo prescelto. In ragione, dice il “Corriere della sera”, dell’“assenza della camorra”.

L’Agenzia delle Entrate lunedì è sopraffatta dalle denunce e-mail, dei ristoranti e le pensioni dove gli italiani sono stati nel week-end. Ora, l’Italia risulta ultima al mondo per i collegamenti Internet. È Internet in Italia in nero, parte dell’economia clandestina – si fanno le denunce dall’ufficio, anche per passare il tempo?

Moggi accusa un colonnello dei carabinieri e il suo concorrente Baldini di avere complottato per incastrarlo. Si penserebbe l’accusa grave, roba come minimo da querela per diffamazione, e anzi di azione penale. Ma né il colonnello né Baldini si querelano, nessuna Procura apre un’indagine, il “Corriere” non ne parla (per il noto principio: “Se il “Corriere” non ne parla…”), la “Gazzetta dello sport del noto napoletano Palombo irride Moggi in due righe, senza dire qual è l’accusa. Il giorno dopo Baldini torna da Londra e dice che Moggi l’ha minacciato: le ammiraglie della Rcs ci fanno pagine.

Sulla Juventus come su ogni altro fatto, Fiat compresa, i giornali della Rizzoli sono cattivissimi dopo che non hanno più bisogno degli Agnelli Elkann per sopravvivere, gli basta Bazoli.

La Cgia, l’associazione artigiani di Mestre, ha scoperto che chi paga le tasse le paga per oltre la metà del suo reddito – in termini tecnici, che la pressione fiscale reale supera il 50 per cento. Scopre l'acqua calda. E la scopre ora e non prima, all’epoca delle “tasse belle” di Visco. Disfattismo?

Le cronache romane trattano il commissariamento della città, fatto che s’immagina grave, con questo metro: “Ci sarà la notte bianca?”, “Ci sarà il festival del cinema?” “Che ne sarà della Roma da bere?”

Si celebra Gianni Rodari, l’indimenticato autore di filastrocche che tutti coloro che sono stati bambini ricordano, col consueto premio in suo nome. Quest’anno il premio è preceduto da sei spettacoli per bambini. Con un titolo del devoto Saramago, e Cenerentola vista dalla scarpetta, “la vera protagonista”. Gli spettacoli per bambini si tengono all’interno di Villa Pamphili, dopo una passeggiata di una quindicina di minuti. Alle 21,30. Il premio sarà assegnato “da una iuria di bambini”. Alle 21,30?

Mercoledì 16 aprile 2008 il Tar del Lazio ha dato ragione al Codacons e ha imposto al Comune di Roma l’apertura della zona blu, i parcheggi a pagamento, perché illegali. Lunedì 14 l’ex sindaco di Roma Rutelli era andato al ballottaggio con Alemanno, che perderà imprevedibilmente con largo distacco.
I giudici italiani possono far male alla politica, prmai si sa. Ma non è detto che colpiscano solo a destra. Anzi, nella basculla postbellica, per quasi un trentennio anno colpito a sinistra. Ora, dopo un trentennio di magistratura “di sinistra”, il ciclo vorrebbe una magistratura di destra.

domenica 22 giugno 2008

La giustizia napolitana

C’è la parlata napolitana, c’è la romanza, c’è la spazzatura, e c’è la giustizia. Quello che questo sito tenta da tempo di mettere in chiaro Nicola Mancino l’ha affermato solennemente, forzando il Consiglio superiore della magistratura a condannare una legge che non c’è. Con una decisione che non c'è. Tutte cose che a Napoli si possono fare, solo a Napoli. Dopo un’analisi che non è stata fatta, perché il Consiglio sabato riposa. Ma Mancino voleva occupare le prime pagine dei giornali, e anche questo a Napoli si può fare - impunemente ma non solo a Napoli, bisogna riconoscere.
Mancino non è di Napoli e non è giudice, ma è di lì vicino, e napoletanamente ha sancito l’irresponsabilità totale dei giudici. Il presidente della Repubblica, napolitanamente?, tace, che è il capo del Consiglio superiore della magistratura e quindi di Mancino.
Qualche giorno fa l’innominabile Moggi aveva accusato un napoletano colonnello dei carabinieri di avere complottato per distruggerlo, con giudici napoletani. L'ha accusato a Roma, è vero, e non a Napoli. Ma in tribunale. Il colonnello forse non ha sentito? Ruggiero Palombo, napoletano patrono della “Gazzetta dello sport”, sempre bene informato, dal colonnello?, l’ha però ben sentito. Anche se la spocchia estende a far finta che lui è un gentiluomo e Moggi un rubamazzo.

Bazoli al "Corriere": muoia Berlusconi, e pure Veltroni

Aprire in qualche modo al Partito della Libertà, o comunque a un’infomazione meno schiacciata sul partito Democratico? Nemmeno su questo il cda straordinario della Rizzoli Corriere della sera il 16 giugno si è diviso: sì a una correzione di rotta, ma solo nel senso preconizzato da Bazoli, il patron di Intesa. A favore cioè degli ex democristiani nel partito Democratico e non più solo di Veltroni e i Ds. Correzione sulla quale Bazoli ha l’appoggio convinto dell’amministratore delegato Antonello Perricone.
I risultati sono stati immediati e evidenti sul giornale. Dove continua e anzi s’intensifica il martellamento di Berlusconi: “Clandestini, veto dei giudici”, “Clandestini, no di Onu e Vaticano”, “Rifiuti, la Lega vota contro il governo”, con i santini di Nicoletta Gandus e Bertolé Viale, spigolature acidissime, titoli contro anche sui mocassini o il taglio dei capelli, e censura degli aspetti scomodi come il crack del Comune di Roma. Una prima pagina nella quale il vignettista Giannelli si aggira come uno del dopo 8 settembre, anche se al Forte dei Marmi. Mai una riapertura per Berlusconi. Per banchieri e ministri ombra sì, ma per il governo no.
Lo squisito avvocato Bazoli, il miglior banchiere e il miglior imprenditore degli ultimi venticinque anni, uno che da un fallimento ha creato la più grande banca italiana, pupillo di Paolo VI, è uscito dal cda esclusivo patron del “Corriere”. Anche per essere il custode della migliore borghesia italiana (“l’Avvocato mi ha chiesto", “Cuccia mi ha incaricato”…). Bazoli è padrone e patron del credito, la banca, l’industria, mezzo Vaticano, mezzo Pd, e di Milano, compreso ora il “Corriere della sera”. È anche dell’opinione politica prevalente fra gli ex Dc, il verbo andreottiano, che il miglior nemico – o “amico” che sia – è meglio morto: lui non ha mai fatto prigionieri.

In attesa di Riotta governa Perricone

È Perricone a gestire la Rcs e lo stesso “Corriere” – nell’attesa di Riotta. L’amministratore delegato è in piena sintonia con Romano Prodi e con Bazoli: mantenere inalterato l’assetto proprietario, riequilibrare il giornale a favore della componente bianca del partito Democratico. Il “Corriere” ha anche bisogno di un restyling, e di un rilancio promozionale. Ma a questo si provvederà con l’arrivo del nuovo direttore in pectore.
Riotta avrà l’incarico di rilanciare il “Corriere della sera” con una formula editoriale più snella. Sempre vivace, sullo stile ormai dominante di “Repubblica”, ma agile. La sfida è sempre tra i due giornali, anche se non combattono per un mercato più ampio. Anche se essa pure in perdita di copie, “Repubblica” soprattutto punta a strappare di nuove la leadership di mercato al “Corriere”.
L’arrivo di Riotta è ritardato per due motivi. Per consentire a Perricone di realizzare la pesante ristrutturazione in programma, lasciando il nuovo direttore fuori dagli inevitabili contraccolpi. E per la fiduciosa attesa che dai nuovi assetti della Commissione parlamentare Rai e del consiglio d’amministrazione dell’emittente pubblica il nuovo direttore esca da martire, se possibile con lo stigma del mangiafuoco Berlusconi.
Nelle more, Perricone farà gli esuberi. Operazione che assicura indolore, per il consenso preventivo che avrebbe già acquisito dai sindacati, sia dei giornalisti che dei poligrafici. L’ad di Rcs ha dalla sua una sorta di ricatto, con l’allargamento della ristrutturazione ai quotidiani, cui le federazione della stampa e dei poligrafici sono assolutamente contrari, per motivi politici oltre che sindacali.

Per il "Corriere" 500 esuberi nei periodici

Decisione incomunicata, ma solo poco meno che ufficiale, al consiglio d’amministrazione straordinario della Rcs il 16 giugno: una radicale ristrutturazione dell’area periodici per riportare il gruppo in bonis entro l’anno, anche se l’area maggiore di perdita sono i quotidiani italiani, “Gazzetta dello sport” e “Corriere della sera”. Particolare curioso: la “Gazzetta dello Sport” non si è ripresa dal salasso di lettori nelle province juventine, in Toscana, nel biellese, in Romagna, ma non cambia registro, non è finita la spremitura di Torino da parte di Bazoli, l’“erede dell’Avvocato”?
Il Gruppo ufficialmente conferma “di confidare, allo stato delle conoscenze attuali, di raggiungere nel 2008 risultati correnti operativi sostanzialmente a tenuta rispetto all’anno precedente”. Leggi: con una lieve perdita operativa, anche se poi sarà “sostanzialmente” sostanziale, tenuto conto degli oneri finanziari. L’andamento del primo semestre sarà esaminato dal cda a Ferragosto, ma è già noto: pubblicità e vendite in calo, anche se di poco rispetto al 2007-2006. Quando però il calo diffusionale era stato sostanziale rispetto al 2005. Il rimedio sarà tentato con una riduzione drastica dei costi.
Il cda straordinario non è stato sbrigativo come il comunicato del presidente Marchetti lascia presumere. La ristrutturazione di Marchetti-Perricone ricalca quella di Ronchey-Calabi dodici anni fa: sarà cioè radicale, e si farà a spese del personale della Periodici. Anche se la parte che produce le perdite è la Rcs quotidiani, i quotidiani italiani del gruppo. Gli esuberi sarebbero però “dimezzati”. Nel 1995-96 la ristrutturazione si fece con mille licenziamenti. E del “Corriere” si riuscì il recupero con la direzione Mieli, che trasformò il quotidiano in una “piccola “Repubblica””. Oggi la ristrutturazione va per la stessa strada, con esuberi dimezzati, a quattro-cinquecento. Ma del recupero del “Corriere” non si ha idea. Anche perché Mieli non è più disponibile.

Niente capitali, per il "Corriere" si taglia

Un aumento di capitale è balenato al consiglio d’amministrazione straordinario della Rcs il 16 giugno. Ma come semplice ipotesi: il consiglio ha deciso di mantenere inalterati, “allo stato”, i piani industriale e finanziario, e per tornare in bonis ha varato la ristrutturazione. L’aumento di capitale era stato prospettato in alternativa ai tagli, per allegerire il bilancio Rcs degli oneri finanziari. Ma sarebbe stata una novità rivoluzionaria per la Rizzoli Corriere della sera, dove nessuno dei padroni post Rizzoli ha mai gradito mettere mano al portafogli. Il "Corriere" è un’azienda che tutti vogliono avere ma nessuno vuole finanziare. Anche perché gli equilibri vi sono misurati con il bilancino, e sempre sono delicati. Ha prevalso quindi la linea del “quaeta non movere”. Che è poi quella di Giovanni Bazoli, il patron effettivo del “Corriere della sera”.
L’equilibrio che si mantiene col mancato ricorso alla ricapitalizzazione è anche quello dell’antiberlusconismo. Tra le incertezze di un eventuale aumento di capitale c’è pure la linea politica. Anche in questo caso ha prevalso, con l’antiberlusconismo, il patron di Intesa. Con una sola correzione: più attenzione ala componente bianca del partito Democratico. Nessuno in cda ha prospettato un cambiamento di linea. Ma più di uno dei dieci membri del cda, in rappresentanza dei tredici azionisti, ha prospettato un “Corriere” agile come “Repubblica”, capace cioè come il giornale romano di rappresentare tutti i personaggi in campo, mentre il “Corriere della sera” appare massiccio, rigido, impacciato.

Mieli sull'Aventino al Circolo della Stampa

Paolo Mieli alla presidenza della Circolo della Stampa a Milano uguale remissione del mandato di direttore del “Corriere della sera”. Non si danno altre letture a Milano dell’elezione di Mieli al Circolo, un incarico finora di seconda e terza linea, che il direttore del “Corriere” ha però brigato in prima persona: ci teneva, e l’azienda l’ha accontentato. Tutto avviene in modo felpato perché è nel carattere di Mieli, che comunque si ritiene un dirigente della Rcs. E perché è nel dna della ex Rizzoli, che non licenzia i suoi dirigenti. Non è esclsuo che Mieli e l'azienda abbiano cercato concordi una via d'uscita onorevole e che soddisfi Mieli.
Due invece, e opposte, le ragioni che si danno della scontentezza di Mieli. Una è che non condivide la linea di assoluta chiusura per il Pdl, il partito di Berlusconi. Non tanto per Berlusconi quanto per la Lega. L’altra è che non condivide la decisione di abbandonare il sostegno a Veltroni e di restare alla finestra, per ora registrando, e anzi alimentando, il dibattito nel partito Democratico. Mieli avrebbe fedelmente eseguito le decisioni del suo consiglio d’amministrazione, anche con la consueta abilità (il ritorno di Prodi, col solito "ci sono ma lo nego", l’invenzione di Parisi, etc.) ma mettendosi appunto in libera uscita. Per il resto il giornale è allo sbando, con aperture insensate, il genere “Conti in rosso, Estate Romana a rischio”, c’è il terremoto, il gatto ha paura.
È significativo che Mieli abbia deciso di restare comunque a Milano. La nuova stagione delle nomine che si apre a Roma, alla Rai, all’Istituto Luce, a Cinecittà, lasciava presumere che sarebbe diventato il candidato di bandiera del Pd. Ma l’“elezione” al Circolo della Stampa indica che Mieli ha altri programmi. Il più gettonato è la Direzione generale Libri della stessa Rcs.

Ds camorristi? Il "Corriere" non lo dice

“La vecchia sindrome dell’“Unità” (“L’Unità non lo dice”) sarebbe passata al “Corriere della sera?”, chiede un lettore, che segnala un articolo del quotidiano in data 3 giugno, dal titolo “Sospeso il Comune dove Orsi era iscritto ai Ds”. Orsi è l’imprenditore campano pentito di camorra e assassinato il 2 giugno. Un articolo, scrive il lettore, “ridotto a poche frasi e firmato con una sigla, Ma.Po., e poi cancellato dall’archivio del quotidiano, “che pure registra perfino le lettere”.
L’articolo è pieno di notizie importanti, a giudicare dalla frasi che il lettore cita: “Il prefettop Ezio Morra sospende il consiglio comunale di Orta d’Atella, 13 mila abitanti, per presunte infiltrazioni della camorra. È la prima ricaduta politica dell’omicidio di Michele Orsi a Casal di principe. Orta d’Atella è uno delgi enti promotori di Cmc, azenda mista publico-privata del settore trasporti, che ha ra i componenti privatu la società dei fratelli Orsi. Del resto, era ala s ezione Ds di Orta che i due fratelli risultavano iscritti nel 2007, quando furono arrestati nell’inchiesta della Dda di Napoli su camorra e business dei rifiuti. Il partito decise di commissariale la sezione. Gli iscritti protestarono, si autosospesero, dissero che i due fratelli erano incensurati quando presero la tessera… “
Con i diessini di Orta era il sindaco Salvatore del Prete, anch’egli diessino, che poi passò con Clemente Mastella. “Seguendo”, dice la brebe rimossa, “la traiettoria politica di Angelo Brancaccio, che dei Ds di Orta d’Atella è stato a lungo un pirotecnico leader. Figlio di uno dei fondatori delPci a Orta, Barnacaccio, quando era di sinistra, riuscì a arsi eleggere sindaco del paese con il 95% dei voti. Era il periodo in cui Orta vantava il record italiano di cittadini che prendevano il reddito minimo d’inserrimento. Anche Brancaccio, oggi consigliere regionale Udeur,nel 2007 fu tovcato da un’inchiesta per corruzione, peculato ed estorsione”.
Una lettura in effetti interessantissima, uno spaccato in bereve della vita reale della politica in provincia. Ma si vede che il vizio al “Corriere” perdura. “La vecchia sindrome dell’“Unità” è la prima cosa che i borghesi buoni del “Corriere” hanno adottato, fin dai tempi di “Lascia o raddoppia” (“Se non lo dice il “Corriere”… “). Cos’altro può essere questo articolo che c’è e non c’è? Il giornale ha “occupato il posto”, nel caso che l’assassinio di Orsi creasse un’ondata emotiva. L’emozione non c’è stata, a nessuno frega più nulla di Napoli, e la debole traccia del pezzo sminuzzato è stata fatta sparire.
È un reperto che potrà fare storia. Dopo le ultime novità nel quotidiano bazoliano, si potrà ritenere questa una delle ultime censure del Minculpop postcomunista.

Zentrum Zentrum! se Casini si fa da parte

Berlusconi non muore. Ne sono stati certi, per due legislature, ma pare sia immortale. E dunque,
accantonato Prodi nella riserva della Repubblica, e abbandonato Veltroni ai suoi compagni, D’Alema in testa, si passa alla mossa B della (ex) Dc. Ammesso che ci sia una Dc e che abbia dei piani strategici, Prodi ha rappresentato con Veltroni il progetto di leadership angloamericano, teoricamente dell’alternanza. Ora è la volta della vecchia Dc o dello Zentrum, la melassa degli interessi.
Il presupposto è sempre che Berlusconi, quel porco, quel frocio, quel ladro, deve restituire
i voti che s’è appropriato, i voti Dc, eterni – gli elettori magari no, ma i politici Dc sono molto ecclesiastici, si ritengono unti del Signore. Per anni gli (ex) Dc hanno aspettato. Dapprima storditi. Poi fiduciosi che Berlusconi morisse. Proprio così. Ora la pazienza è esaurita, cinque anni fuori dal potere sono troppi, e la decisione è presa di muovere in campagna subito.
Il moto è concorde. Dal partito Democratico, gli ex popolari. Forse incluso Rutelli. Dalle formazioni di centro di Tabacci, Baccini, Montezemolo, Della Valle. Dal cuore dell’Udc, se solo Casini si facesse da parte. E anche dal cuore del berlusconismo: i gruppi che l’altro ieri hanno fatto vincere Prodi, seppure con quantità minime di voti, le Dc di Rotondi e Pizza, il Movimento regionale di Lombardo. Qualche segnale sarebbe arrivato anche dal Vaticano, che si tiene stretto Berlusconi ma non lo digerisce.
L’appoggio è certo dalla Banca d’Italia di Draghi, e dalla Cisl di Pezzotta. E il sostegno si dà per scontato dai media privati, di De Benedetti e Bazoli, oltre che del vecchio e nuovo Raiume, orfano inconsolabile della vecchia Dc. Il parquet delle personalità sostenitrici include, oltre a Draghi, De Benedetti, Bazoli, Montezemolo, Tronchetti Provera, anche Emma Marcegaglia, la stinta Gelmini ministra di Berlusconi, e Letizia Moratti, forte dell’Expo 2015. Il massimo è Gianni Letta, ma senza più speranze.
Dove avviene tutto questo? In sogno certo. E sui tavoli delle trattorie romane, tanto costose quanto inappetenti.