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venerdì 16 maggio 2008

Il mondo com'è (9)

Borghesia – Quella italiana tipicamente si nega. Per il peccato originale, la manomorta. Che se non è peccato è fonte tuttavia di cattiva coscienza, per l’arricchimento facile e un tantino illecito. Cattiva coscienza non nei confronti della chiesa – anche: non è lecito escludere dallo Stato i due terzi, o siano pure solo i due quarti, della popolazione – ma del Risorgimento, che si affermava con i profittatori. Non per questo tuttavia si ritrae, è anzi battagliera. Si afferma pretendo di negarsi. E' un tratto costante, negarsi per essere. I borghesi di Marcel Proust sono ridicoli, ma lo scrittore se ne fa il cantore malinconico in quanto snob, borghese che si nega. C’è però qualcosa di più nella borghesia nazionale, la vantaggiosa deprecazione. Oppure il grande silenzio, l’afasia sociale. In ciascuna delle sue eminenti caratterizzazioni: borghesia del denaro, manageriale, intellettuale, istituzionale. Si suole anzi dire, lo dicono i borghesi buoni, che in Italia non c'è borghesia. Un senso di mancanza che, bisogna riconoscerlo, viene da un’idea escatologica della borghesia, sempre idealizzata in Italia, classe etica se mai ce ne sono. Anche dagli scrittori e dai politici che, da destra o da sinistra, fanno professione di fede antiborghese. Etica nel senso di interprete del buono e del giusto. La classe dotata dell’etica della responsabilità, si dice occhieggiando a Max Weber. Il che è molto borghese. Si dice perfino che la borghesia non ci può essere perché l’Italia non è protestante, tirando sempre in ballo l’incolpevole Weber. Per protestante s’intende, chissà perché, socialmente responsabile. Il male è antico. Già nel Mille, ricorda Gioacchino Volpe, “schiere di funzionari vescovili, vicedomini, viceconti, avvocati”, nonché lo stesso clero, carico di mogli, amanti, figli, passavano “come una bufera sul patrimonio ecclesiastico, patrimonio di tutti”, a ogni vacanza, del canonico, del vescovo, del cardinale – ne nacquero le repubbliche cittadine, di chi viveva del proprio lavoro, i briganti, poi principi, e le eresie. Oggi naturalmente è diverso, e nell'epoca della comunicazione, dovendo dichiararsi, la borghesia si nega accusando. Nel dopoguerra si è servita della reazione antifascista laica, cristallizzatasi con l’azionismo sul deficit morale della società italiana - italiana e quindi cattolica: il Mille rovesciato. Ma poi i deprecatori sono generalmente proustiani, sedotti da quella borghesia cattolicheggiante - snob e compiacente, per nulla rigorosa - che Proust ha tratteggiato. Quanto all’etica, si vogliono “sottilmente coscienti e riccamente responsabili” come Henry James voleva i suoi personaggi - per un'innocua ambizione estetica. “Borghesi”, insomma. Ma vengono da lontano. La borghesia è una di quelle cose che tipicamente non c'è, essendo una categoria sociologica, ma agisce. In Italia ha anche il vezzo di negarsi, e non solo perché le sub-culture dominanti, la cattolica e la totalitaria, gliene fanno una colpa. Borghese è chi si applica a moltiplicare il reddito, mettendo a frutto le rendite e le conoscenze, che anch'esse fanno patrimonio. In questo senso l'Italia è perfino il paese più borghese d'Europa, poiché ha più padroncini, piccoli e grandi, con il demone del rischio, e uno spirito d’impresa più radicato. Ma in Italia si nega politicamente. Da sinistra com’è giusto, com’è da aspettarsi. E da destra. Per una tradizione reazionaria corposa, da ultimo con Papini e Prezzolini, Mussolini, Longanesi, Montanelli, tutti molto borghesi, per la quale la borghesia è informe, inerte, incapace di governarsi e di governare. Questo negarsi è molto borghese nell'autocertificazione di integrità che esso implica, e nelle conseguenti esclusioni: i ricchi sono ladri, gli industriali non leggono, neppure il giornale, gli intellettuali sono servi. La deprecazione è strumento retorico notabilare, da borghesia magisteriale. È un vezzo, forse un difetto, ma non fa male. La borghesia è “clase discutidora”, diceva Donoso Cortès, il teorico liberale dell’altro secolo di un paese, la Spagna, che ha inventato la parola ma non ha conosciuto il liberalismo. La definizione è velenosa: la borghesia trasferisce la politica nel discorso - nella stampa cioè e nel Parlamento, nell’opinione pubblica – perché è mediocre e insicura. Ma in quanto discutidora la borghesia non è dannosa. Sotto questo aspetto è anzi “la classe della libertà di parola e di stampa”, come riconosce un filosofo della politica dichiaratamente antipatizzante, Carl Schmitt. Diverso è l’effetto dell’autoreferenzialità. Delle fazioni, che intorbidano gli eventi e le conoscenze. Sia all’interno dei gruppi, fra protagonisti che si eleggono e si difendono vicendevolmente, sia all'esterno: da una parte nell'area di rispetto che essa genera fra i poteri costituiti, dall’altra nel disprezzo signoriale rovesciato su clienti, lettori, sindacati, dipendenti, risparmiatori. Queste borghesia che si presenta virtuosamente come una diminutio, una negazione, è in realtà una mascherata, anche violenta. Non è così dove, in Gran Bretagna e negli Usa, la borghesia si sa, e si riconosce, da sempre legata agli affari. Lì governa senza camuffarsi. I primi saggi sulla proprietà, che sono del Locke, ne fanno un diritto naturale senza speciali connotazioni etiche. Di negazione in negazione si arriva al punto: la borghesia non sa farsi classe di governo. Da una parte il ceto medio informe, dall’altra i poteri forti, così viene semplificato l’assetto di comando della società. Contro il senso comune e ogni evidenza. Poteri forti è formula giornalistica, mediata dalle mani forti del gergo di Borsa, che sono gli operatori in grado d’influenzare surrettiziamente le quotazioni. Ma questi poteri, che ci sono e talvolta sono organizzati in piccoli gruppi, sono naturalmente essi stessi borghesia. Operano coi meccanismi della concorrenza monopolistica, spesso elidendosi tra di loro. Si integrano in una struttura oligarchica ma non permanente e nemmeno stabile. I poteri sono forti nella disinformazione, e ovviamente nella finanza, dove gli affari si fanno a spese di qualcun altro. Sono nelle professioni e nelle istituzioni, attraverso il nepotismo e il baronato. Si sono moltiplicati con il ritorno della funzione notabilare in politica, dopo il fallimento dei partiti di massa e delle istituzioni democratiche costituzionali, il Parlamento in primo luogo. L'ideologia dell’“esperto” e del “tecnico” ha sfondato nel mercato politico come in quello economico. Spiega la facile identificazione del potere giudiziario con la giustizia. Si ritrova nel ritorno del manager a scapito dell'imprenditore. Tecnocrazia e tecnostruttura, che avrebbero dovuto essere protagoniste della “Rivoluzione dei tecnici” (“The Managerial Revolution”) di James Burnham negli anni 1940, ritornano sotto la specie ancora più antica, hegeliana, della “classe universale”, buona a tutti gli usi perché è buona in sé, - buona perché non politica, cioè non democratica. Crisi - Luca di Montezemolo, quando era ancora presidente della Confindustria, e trattava Berlusconi da furbetto del quartierino, ha scritto una lettera-manifesto a “Repubblica”, per deprecare d’acchito: “Credo anch’io che la crisi del nostro spirito repubblicano chiami in causa tutto il cosiddetto establishment del paese”. Lui escluso naturalmente. E questa la caratteristica principale dell’establishment italiano, o classe dirigente, o società civile, o borghesia. Dunque, lo “spirito repubblicano” è in crisi. L’Italia è monarchica? O è in crisi lo spirito democratico? L’Italia è per l’uomo forte? O non sono in crisi le istituzioni repubblicane, il governo, il Parlamento, la giustizia, i tre ordini monesquieviani del famoso Stato? Ma non sono in crisi da ora, purtroppo. Erano in crisi già poco dopo l’adozione, negli anni Cinquanta. “L’autunno della Repubblica” è un titolo di Scalfari degli anni 1960. Scalfari che dello spirito repubblicano si può dire per più aspetti vestale: questione morale, borghesia illuminata o società civile, e il sapere prima del potere, o governo dei tecnici. Leggendo Salvemini, vestale numero uno, era in crisi anche prima, prima del fascismo e dell’ultima guerra d’indipendenza. La crisi è della borghesia italiana, che si nega. La crisi è di una certa cultura, il laicismo, che a lungo si è voluta prevalente, in Italia e nelle condizioni del progresso, salvo scoprirsi poi succube, una subcultura, tra le due culture dominanti, la confessionale e la rivoluzionaria o totalitaria, non indegna di esserne schiacciata, tanto era sparuta e ancillare - vestale, se non pontefice, lo stesso Scalfari, in ossequio al Compromesso Storico. Ma la crisi c’era già prima, naturalmente. Tutti corrotti, il re di Napoli, che aveva un secolo d'illuminismo, il duca di Modena e Reggio, e perfino quelli di Parma e Piacenza, Massa e Carrara, benché fossero tedeschi, madre e figlio, o il granduca di Toscana. Tutti reazionari, incapaci, arretrati. Di Fronte ai Savoia, figurarsi. E si può andare anche più indietro: la crisi è la deprecazione savonaroliana. Ma a tratti anche machiavelliana. Insomma, toscana. Che però divenne nazionale quando i lombardi s’impadronirono del toscano. E insomma è manzoniana. La crisi è dei “Promessi sposi”. Il senso della crisi è ritornante ai cambi di secolo – poi la curva, verso il centro del secolo, risale, anche a grandi altezze, per poi ridiscendere - e più ancora quindi di millennio. C’è insomma una ciclicità della crisi. Mensile col lunario, annuale con le stagioni, quinque-decennale con l’economia, periodica con le stelle, siamo ora nell’età dell’acquario?, millenaria col clima, la grande umidità con la grande siccità della Bibbia e del romanzo “Orlando”, geologica, astrale. Sapendo che, se non si muore, sempre si risale, la curva è sinusoidale. Anche l’Italia quindi è periodicamente malata. Oggi lo è un po’ di più perché è vittima indifesa della depressione europea. 

Indipendenza – L’esperienza mostra ricorrente nel Terzo mondo un pattern molto distinto: le società e gli Stati deperiscono, talvolta mortalmente, man mano che si allontanano dalle ex madrepatrie, dai modelli culturali coloniali, e si nazionalizzano. I casi dell’Uganda civilissimo di Milton Obote, dissolto da Idi Amin, o del Kenya di Kenyatta e Tom ‘Mboya rispetto ai tribali successori, o di Mugabe nelle sue due incarnazioni, di leader antirazzista anglofilo, e poi di despota indigenista che ha immiserito e disintegrato la Svizzera dell’Africa. Il Ghana superbo di ‘Nkrumah quarant’anni fa, senza paragone con la miseria economica e morale di oggi. L’ex Dahomey, che era la Sorbona dell’Africa, Il Senegal di Senghor, poeta e accademico francese, al confronto degli affaristi che poi l’hanno impoverito. La Costa d’Avorio di Houphouët-Boigny, deputato socialista francese, e quella dei suoi incapaci, tribali, suicidi successori. Talvolta il cambio è stato imposto dall’ex madrepatria, per motivi politici contingenti. Idi Amin, il fuciliere che sarà “cugino della regina”, fu espediente contro la sponda pericolosa di Obote all’Urss in Africa. Paesi sulla via dello sviluppo, comunque al ritmo dei tempi, sono stati disintegrati, talvolta anche territorialmente. Solo per essere passati dall’apparato del colonialismo e dell’imperialismo, con un’amministrazione, una costituzione e un sistema giudiziario all’indigenismo sregolato. Ciò è reazionario ma è vero. È reazionario da ogni punto di vista: è razzista, anche se non è solo africano, è antidemocratico, per quante connotazioni si possano imporre alla democrazia, è pessimista e regressivo. Ma è storico. Il pattern non emerge nelle società complesse, stratificate, a loro modo strutturate, quali l’Egitto o l’Algeria. Regge il Marocco, l’unico paese del Nord Africa con uno standard di vita quasi europeo, per l’integrazione, seppure ridotta, nel sistema globale della produzione, al passo coi tempi, perché la monarchia impone un sentiero europeo: detribalizzato, parlamentare, sindacale, con un forte controllo da parte dello Stato. Nel lungo periodo lo scehma invece si applica da tempo anche nelle repubbliche sudamericane. Non in Argentina o Brasile. Sì in quella, Messico in testa, Perù, Ecuador, e ora Venezuela e Bolivia, dove le élites criolle progressivamente lasciano il governo alle masse indigene. Il Perù ha il record mondiale della crescita continua da una dozzina d’anni, ma gli effetti nel paese non si vedono, la ricchezza vi si dissolve. 

Islam – È religione maschile, alla moschea, nella preghiera. I suoi pellegrinaggi sono avventurosi (mentre il cristianesimo è da un paio di secoli femminile: solo donne in chiesa, e pellegrinaggi all’insegna del beghinaggio, Fatima, Lourdes, Medjugorie, e perfino padre Pio). Per questo resta assertivo, militante.

giovedì 15 maggio 2008

Ma è una fiducia piena di sorprese

Non è vero che è andata liscia, anche questa fiducia ha le sue sorprese.
Che fine ha fatto Rosy Bindi?
Non c’è nell’organigramma del partito, non c’è nel governo ombra, non la invitano più in televisione. Nemmeno fugacemente, nemmeno alle dirette per il voto di fiducia. Era la concorrente di Veltroni alle primarie del partito Democratico, e ora non è più. È Rosy Bindi. Con lei è scomparso, proprio fisicamente, il vecchio ceto ex democristiano ex popolare, Marini, De Mita, Castagnetti, per la San Ginesio non dichiarata dei “giovani” Franceschini e Letta.
Vecchie e nuove trinità
La Trinità dell’antipolitica era costituita nel 2004, tra le dame dei girotondi, da Di Pietro con Nanni Moretti e Ochetto. Ora il santino è Di Pietro con Grillo e Travaglio. Tre facce in primo piano, gialline, un po’ torve. È affascinante pensare Moretti alla destra di Di Pietro. Sarà stato il suo ultimo film scherzoso.
Dall’emiciclo alla rotonda
Solo applausi per Berlusconi alle Camere. Con la giustificazione: “È un altro”. La bontà sarà la nuova virtù degli italiani, tra l’impoverimento, la xenofobia e la violenza montanti. Il libello contro i partiti di Simone Weil parla di passaggio “dall’emiciclo alla rotonda” per dire le collusioni parlamentari tra i diversi partiti per la comune sopravvivenza – la filosofa dice comune “totalitarismo”. Ma nel caso con un singolare contorno: fuori dell’abbraccio restano solo profittatori accalorati, un rancore che si può scambiare per ricatto.

"Repubblica" tra D'Avanzo e Travaglio

È lite dunque a “Repubblica” fra D’Avanzo e Travaglio su chi è più mafioso, se Schifani o lo stesso Travaglio. È il giornalismo di oggi, in cui si può dire tutto di tutti, anche mafioso, e se non si dice anzi non è buon giornalismo. E magari i due tra un anno si complimenteranno per essersi fatta pubblicità a vicenda. Non bisogna dunque preoccuparsi.
C'è però un problema per il lettore, che paga per questo. Non per essere informato ma per avere di questo sapido pettegolezzo. Perché è un problema? Per due motivi. Perché di saporito questi pettegolezzi non hanno nulla, si capisce che sempre meno gente compri i giornali. E perché “Repubblica” era nato per essere il miglior giornale italiano, e ancora se ne giova. Mentre il fondatore Scalfari continua la ricerca dell’Io, che chiama Dio. E la sua questione morale viene lasciata a giornalisti e collaboratori del “Borghese”. Che sono ottimi cronisti giudiziari, sono anzi quelli che sanno tutto. Ma per essere vicini, anche in vacanza, agli organi d’informazione che una volta si chiamavano sbirri.

"Rozzo!" "No, rozzo tu!", l'Europa Bovary

L'italianista polemista Seibt, nemico dello Spass, la società dell'effimero, dice sulla "Suedddeutsche Zeitung" che, signora mia, non c'è più religione. "Che ci arriva dall'Italia?", si chiede, e si risponde: "Grossolanità" ("Per Lessing gli italiani erano mosconi, che si nutrivano dei cadaveri degli antichi romani...", questo è solo l'inizio ). Sì, ma dalla Germania cosa arriva all'Italia? Giusto Schumacher, in una quindicina d'anni, uno che parla inglese, sta in Svizzera, e quando vince è come quando perde, un baccalà. E dalla Francia, cosa arriva più da Parigi all'Italia, e alla stessa Germania? "L'Italia non ha più un ruolo in Europa", dice lo storico Seibt. Perché, la Germania ce l'ha? L'Europa ce l'ha?
Gli scambi di complimenti non sono una novità. "Rozzi nell'animo", il titolo della "Sueddeutsche", si deve, pare, a Rudolf Borchardt. Uno cioè che visse tra Pisa e Lucca, tradusse la "Commedia" in antico tedesco, e fu ucciso dai tedeschi nell'occupazione. Ma ora sono arma politica, e culturale. Neppure il papa tedesco ha riportato l'Italia nel cuore della Germania. Anche se l'altra autorità antitaliana citata da Seibt, lo scrittore Mosebach, si distingue nell'elogio della messa tridentina restaurata da Benedetto XVI, esaltandola anzi in un libro promettente, che la religione vuole ancorata alla liturgia più che alla rivelazione. E a questo punto va detta l'evidenza: un certo laicismo non ama l'Italia e tenta d'isolarla. Invece si chiedersi perché si è ridotto praticamente e rapidamente a roba da giardino zoologico, specie che presto andrà protetta.
Dalla Spagna, dove questo laicismo è invece trionfante, così gli piace pensarsi, le bordate sono peraltro feroci da ridere. La vice presidente del consiglio spagnola si fa fare una domanda da un giornalista compagno e si risponde: “Noi non siamo razzisti come gli italiani”. Basta guardarla e uno capisce. La Spagna che importa in Europa compiacente tutti i sudamericani che vogliono, soprattutto i borsaioli e i pusher, e ne deporta ogni anno trenta-quarantamila, contro i trenta-quaranta dell’Italia. Dopo avere eretto un muro attorno al Marocco spagnolo (c’è ancora un Marocco spagnolo… ), sparando su chi lo salta, come si faceva a Berlino.
Se l'Italia è il bersaglio di questo laicismo sbandato, un ruolo evidentemente ce l'ha. Ma è vero che l’europeismo, quando è vuoto, è un vizio - si capisce che ne siano patrone tante cortigiane oneste. E che oggi non c’è l’Italia in Europa. Non se si riflette alla demenza ormai imperversante a Bruxelles. Sotto tutti gli aspetti: una potenza che coltiva il suo orto come usava nelle fortezze assediate, anche se è aperta a tutti i venti, pensandosi migliore, come il professor Seibt e la vice presidente spagnola, personalmente e razionalmente, e meritevole di miglior compagnia. Andiamo a Antalya, o a Gerba, e guardiamola, non è un bello spettacolo questa Europa.
Suicida nella politica agricola
L’Europa limita le colture, anzi finanzia la non coltivazione (il maggese), e riduce la produzione di latte e di carne, in tempi di prezzi triplicati di cereali, legumi, latte, carne, e quasi di carestia. Per far guadagnare cifre astronomiche ai coltivatori francesi di granaglie, ai vaccai bavaresi e olandesi, ai porcilai bretoni. Un’agricoltura in cui, a fine 2007, dei 42 centesimi al litro incassati dal produttore di latte 25 andavano al cartone. Per produttore intendendosi Parmalat o Granarolo, non il bovaro (al supermercato lo stesso latte si pagava 1,60 euro!).
Succube degli Usa
Accucciata dietro la Germania, che dopo la sconfitta la politica estera considera una noia, l’Europa si professa pacifista e per il resto si affida agli Stati Uniti. Alla potenza cioè che odia. Non senza ragione, dacché tutte le direttrici di politica estera americana contro l’Europa: la globalizzazione con l’area del dollaro, l’Arco della Crisi o Medio Oriente (Palestina, Iraq, Afghanistan), il terrorismo islamico, acora di marca Usa in molti posti, il Pakistan, il Kossovo, il petrolio, la Russia, la World Trade Organization.Specie di fronte alla Russia e al Mediterraneo, alle minacce e alle enormi opportunità che i vicini le offrono, l’Europa chiude gli occhi. In cinquant’anni L'Unione europea non è riuscita a costruire un rapporto con Israele – e nemmeno con i Palestinesi. Non per la difesa, non per la pace, non per l’integrazione di questi mondi. Che sono i più occidentali e molto europei, per cultura e ambizioni, malgrado il radicamento ben orientale. O con il Libano, abbandonato a quindici anni di Siria e di guerra civile.Gli Usa hanno costruito la globalizzazione - l’apertura dei mercati, l’apertura delle Rete - per assicurarsi un’era di crescita costante a prezzi decrescenti. La Fortezza Europa, arcigna e piena di sé, aderisce a malincuore, anche se è sola al mondo nel rifiuto della globalizzazione, e s’impone l’impoverimento per poter continuare a vendere fuori dei suoi mercati protetti. S’impone disoccupazione, retribuzioni irrisorie e prezzi altri: il business europeo deve capitalizzare all’interno della Fortezza, per poter continuare a esistere nel mondo. I mercati protetti, che usualmente si limitano ai servizi, banca, gas, elettricità, acqua, posta, in Europa si estendono a tutto l’agroalimentare e alla cultura, cioè al 60-70 per cento della spesa. Da qui l’inflazione, che Eurostat non rileva accomodando gli indici, ma che è un fatto: chiunque viaggia, o anche solo compra su Amazon o e-Bay sa che c’è un abisso fra il costo della vita in Europa e nel resto del mondo.Difesa, mercati commerciali, mercati finanziari, moneta, energia, musica, cinema, abbigliamento, stili di vita, droghe, e ora perfino i vini e la cucina: l’Europa mummificata sopravvive all’ombra degli Usa, ne è anche protetta, e lo risente. Nelle questioni piccole e grandi il punto di vista europeo si precisa per divaricazione da quello americano, quale che sia. Non per un gioco di squadra, com’è stato in molti frangenti nella guerra fredda, in Medio Oriente per esempio per i palestinesi, con l’Urss per l’energia. Ma per una rivalsa, generica, generale, totale. Con una riserva ideologica – ma forse solo propagandistica: quella, per intendersi, per cui un presidente ridicolo e antieuropeo come Clinton è un’icona europea. Ma per il resto senza tregua: è un risentimento che non trascura nulla.Il bovarismo europeo è, senza saperlo, americano anch’esso. Tutta la voglia di vivere europea è quella di Whitman e Kerouac, il loro nichilismo epidermico: il culto del corpo, del sole, del sesso, dell’igiene, dell’atletismo. Dell’etica sterile del lasciarsi fare – con la differenza, certo, che Whitman e Kerouac sono letterati appassionati, iperprofessionali. L’America lo sa, e non ne tiene conto: dai tempi di Nixon e Kissinger l’Europa conta poco o nulla a Washington.
L’euro di ferro
Sarà, ammesso che duri, o sarà stata, la moneta più sterile che si ricordi, in questo senso una vera moneta di ferro. Asfittica, regressiva. Quante sciocchezze non si dicono e non si fanno a Bruxelles all’insegna del vangelo dell’economia, l’elenco sarebbe sterminato. L’euro è stato per l’Italia sedici anni di sacrifici di cui non si vede il vantaggio. Nemmeno in termini di costo della vita: i paesi che vivono col dollaro deprezzato hanno meno inflazione dell’Europa.
Più uguale degli altri
La politica industriale è la Fattoria degli animali di Orwell: alcuni sono più uguali degli altri. La Francia e la Germania. Germania e Francia fanno quello che vogliono (privatizzazioni? liberalizzazioni?), gli altri si beccano calci sui denti per episodi minimi come l’Alitalia. In Europa i formaggiai d’Inghilterra possono vendere un Parmeggix a metà prezzo, ma quelli di Lodi non possono fare il Cedarmed a un terzo.
Schiavista a pagamento
Al meglio, l’Europa è cieca nelle politiche dell’immigrazione. Limitate a Schengen, i controlli di polizia ai porti e agli aeroporti. Senza indirizzi di accoglienza e naturalizzazione per il suo cinque per cento di popolazione immigrata (6 per cento in Francia, per metà concentrata nella regione parigina, 9 per cento in Germania), e anzi con una crescente xenofobia. Con l’effetto, sotto gli occhi di tutti, della più grande tratta di esseri umani al mondo, nel Terzo millennio, la più cruenta, la più cinica. Nello schiavismo si veniva razziati, e poi mantenuti, gratis, per l’Europa il viaggio della morte si paga, da mille a cinquemila dollari, il reddito dell’aspettativa di vita in Africa o Asia, di un’intera famiglia. E dopo tutto questo se ne dice anche minacciata, minacciata dagli immigranti impoveriti, sradicati, annientati.
Tutto sarebbe semplice, in questa questione.
C’è bisogno del lavoro immigrato per la produzione, questo è certo: nell’edilizia, nei servizi al consumo, in fabbrica, e nell’agricoltura.Ce n’è meno bisogno nel commercio, dove l’immigrazione è più visibile, ma non del tutto: il turismo ne ha bisogno, e la stessa economia nazionale in una fase di crisi come questa, che non passa mai.C’è bisogno del lavoro immigrato nelle famiglie, anche questo è certo: di badanti per gli anziani e più ancora di collaboratrici domestiche, dove ci sono figli. Se si vuole accrescere come si dice la partecipazione delle donne al mercato del lavoro – l’alternativa è sacrificarle al lavoro casalingo.Un triplice bisogno cui risponde un’opinione xenofoba, anche questo è certo – seppure sia l’opinione dei media più che della popolazione. Per un fine forse recondito. Ma sicuramente a nessun effetto.C’è bisogno di più immigrati e non di meno. Immigrati riconosciuti, con una residenza e una posizione contributiva e fiscale. Il fine forse recondito della coartata xenofobia è di tenerli in clandestinità, e pagarli poco? E di consentire agli affittacamere introiti da capogiro? Ma questo non è l’interesse alla fine dei conti di nessuno, a parte i delinquenti che profittano della clandestinità, necessariamente pochi. Tanto più che, seppure clandestini, gli immigrati hanno diritto ai consumi primari e alla sanità.Non si vogliono delinquenti d’immigrazione, ma questo vale per gli immigrati come per ogni europeo: non si vogliono delinquenti.In uno scenario così chiaro, il problema è in realtà l’Europa, la sua indigenza. Non ha nessuna politica di accoglienza, a parte i Cpt. Non fa alfabetizzatone né alcun’altra forma di integrazione. Non ha trovato il tempo, in quindici anni ormai di forte immigrazione, nemmeno di attrezzare la Polizia, si vede nei commissariati e nei Centri appositi. Né, con tutta la dichiarata xenofobia, ha emanato una sola norma che combini le due esigenze, al lavoro immigrato e al controllo del lavoro immigrato. I flussi annui italiani, per regione di arrivo e per paese di provenienza, col primo clic che arriva via Internet, fanno ridere se non creassero tragedie - il clic è servito come autodenuncia (ora sappiamo quanto sono gli stranieri irregolari, almeno 600 mila). L’Europa poteva introdurre l’atto di richiamo, per cui il regolarizzato diventa garante del nuovo arrivato. Poteva aprire degli uffici del lavoro all’estero. Poteva attrezzare i consolati a vagliare le domande d’ingresso. Soluzioni nemmeno costose. Poteva e può farlo – oppure non può, congenitamente?
L'integrazione è difficile, l'esperienza lo mostra, a New York-Harlem da oltre un secolo, a Marsiglia e in molti quartieri di Londra da alcuni decenni. Ma non è un ragione valida per non fare almeno un primo passo, regolamentare.
Senza identità
L’Europa vive nell’irrealtà. Ricca come non mai, è sempre la più ricca del mondo, ma di un’intelligenza fanée. Ormai da un secolo, irrimediabile. Non ha passioni, se non dissolutrici. Né idee. Se non un laicismo che non è nemmeno buona massoneria, solo diavoleria. Che fa votare mozioni a favore dell’immigrazione islamica, fatalmente sradicata, a preferenza delle repubbliche ex sovietiche, dove sono cristiani. A fine aprile il gruppo Liberaldemocratico, cui il Pd si apparenta, ha tentato di assimilare le chiese alle lobbies… L’ultima volta che l’Europa fu qualcosa fu comunista.

I quindici anni perduti dell'Italia

Crescono le esportazioni malgrado il caro euro, c’è insomma competitività, ma a scapito del reddito disponibile. I profitti sono alti, anche in questi anni di crisi. Per le banche perfino nella loro crisi più grave dai primi anni1930. Ma le retribuzioni stagnano o latitano: l’Italia nel complesso s’impoverisce mentre il resto del mondo va avanti, con grandi balzi.
L’opinione corrente, Tremonti compreso, imputa l’impoverimento collettivo dell’Italia alla globalizzazione, all’arrivo del Terzo mondo alla sviluppo. Che col lavoro a un dollaro l’ora sarebbe imbattibile. Ma con un dollaro l’ora altri sanno competere gagliardi, dagli Usa alla Germania. La verità è che in Italia da tempo non s’investe. “Il cavallo non beve”, si diceva una volta. E non s’investe per un motivo noto, seppure trascurato: l’eccessivo costo del lavoro – il costo complessivo, non la retribuzione.
Una parte non a caso trascurata dalla stampa lo spiega nell’ultima Trimestrale di Padoa Schioppa, l’ex ministro dell’Economia: “Dal 2000 al 2007 la crescita dei salari reali in Italia è stata molto modesta: 0,7 per cento la media annua… Nel 2007 essa è risultata ancora più contenuta (0,2 per cento)”. Le retribuzioni sono ora troppo basse, benché l’Italia figuri nel G 7, i paesi più ricchi del mondo: “Secondo una recente pubblicazione dell’Ocse (“Taxing wages”, ottobre 2007), i livelli dei salari reali italiani sono inferiori a quelli degli altri paesi industrializzati. In una famiglia con un singolo percettore di reddito e due figli, nel 2007 il salario netto è inferiore del 15,9 per cento circa alla media Ocse, del 34 per cento circa rispetto alla Germania e del 17 per cento circa rispetto alla Francia”.
I lavoratori italiani sono gli ultimi. Perché la loro produttività è ferma: “La bassa crescita dei salari italiani è essenzialmente conseguenza della scarsa dinamica della produttività”, scesa dal 2,4 per cento annuo medio degli anni 1980 all’1,1 nella seconda metà degli anni 1990, e a zero negli anni Duemila, 2007 incluso. Mentre in parallelo è aumentato il costo del lavoro. Con retribuzioni in relativo calo il costo del lavoro è aumentato di più che in ogni altro paese dell’area euro, del 33,8 per cento contro una media del 21,6 negli anni 1999-2006, ed è stato pari alla media euro nel settore privato. L’esito è: “In presenza di una crescita molto modesta della produttività, l’aumento del costo del lavoro… va a incidere direttamente sulla competitività, e quindi sulle prospettive di crescita dell’economia, e in particolare su quelle dei redditi delle famiglie”. Un circolo vizioso di cui è noto l’innesco.
Il radicale smobilizzo del mercato del lavoro quindici anni fa, pur lasciando inalterato il famoso articolo 18 sull'impossibilità di licenziare, è la prima causa del lag tra costo del lavoro e retribuzioni. Gli ammortizzatori sociali con si sono coperti i quasi tre milioni di licenziamenti, tutti finiti in pre-pensionamenti, vanno spesati. Bisognerebbe prenderne atto, eliminando questa escrescenza, con un atto di finanza straordinaria. Ma non si può farlo per il vincolo europeo. Un secondo circolo vizioso si sovrappone al primo, costituendo a questo punto una rete soffocante.

martedì 13 maggio 2008

Eni nel mirino per l'oro perduto di Kashagan

Dietro l’annuncio dell’ennesimo rinvio per Kashagan c’è una morsa, che questa volta si potrebbe stringere, tra la Exxon e il governo kazaco per estromettere l’Eni dalla conduzione del consorzio. Il governo vuole raddoppiata, senza spesa, la propria quota nel consorzio di produzione, il gruppo americano vuole sostiturisi all'Eni per accelerare la messa in produzione. Ci sono problemi per mettere il giacimento in produzione, idrogeologici e logistici. Ma Kashagan è pur sempre il maggiore giacimento di petrolio esistente, che da solo può dare 55 milioni di tonnellate l’anno, poco meno del consumo dell’Italia. E la sua mancata produzione in questa stagione di prezzi altissimi del petrolio viene risentita dal governo kazaco e da alcuni partecipanti al consorzio come un semi-fallimento.
L’entrata in produzione, prevista per quest’anno, è stata rinviata un anno fa al 2001, facendo infuriare il governo kazaco e la altre compagnie della cordata Eni. Ora la scadenza è rinviata di altri due anni, al 2013. Il governo kazaco, isolato internazionalmente, non ha molta capacità di pressione. Ma nel corso del negoziato per il primo rinvio la Exxon aveva tentato di sopravanzare l’Eni. E ora si è riproposta.

L'Asia salva gli Usa dalla recessione

Dov’è finita la recessione americana? Era stata registrata quasi con giubilo, argomento perfino di talk show e rotocalchi. Una recessione non fa comodo a nessuno, ma a leggere i giornali italiani sembrava una vittoria e una vendetta: il governo americano diceva no, ma la sua economia, l’economia americana, era in recessione. Si trovano esperti per ogni verità, e comunque i presupposti non mancavano: la profondissima crisi bancaria dei mutui, il taglio del reddito spendibile, la debolezza degli investimenti. Ma per avere tecnicamente una recessione bisogna che per due trimestri di seguito il pil dminuisca. E questo non è avvenuto. Nemmeno per un trimestre.
Una corretta informazione economica avrebbe dovuto registrare anche questo fatto. Ma in Italia l’ideologia fa premio pure sulla cronaca nera, figurarsi quando è in gioco l’economia Usa. Che invece da qualche mese vede aumentare l’occupazione, la produzione, la produttività, e perfino i consumi, malgrado la crisi finanziaria. È la forza profonda della globalizzazione, o dell’area del dollaro. Con cui da un ventennio, dalle quattro modernizzazioni di Deng, l’America si tiene agganciata agli enormi tassi di sviluppo asiatici.

Alemanno virtuista e la voglia d'autorità

C'è una domanda di autorità, non c’è dubbio, nel voto alla Lega e, di più, ad Alemanno a Roma, l’ex duro del Fronte della Gioventù. Roma e l’Italia sono evidentemente preoccupati, e la materia non manca: il degrado, urbano, sociale, economico, l'insicurezza, l’avvenire assente. E il disordine amministrativo e politico da cui tutto ciò discende, unicamente. Sullo sfondo c’è la mitica e l’epica del fascismo, che i ponti, le strade e le scuole li fece, in poco tempo, e puliva i treni che faceva viaggiare. Insomma, tutti i discorsi che una volta si sentivano in treno, prima dei vagoni senza scompartimenti e i cellulari onnivori. Roma in particolare il fascismo aveva urbanizzato, con una visione pratica e d’avvenire, mentre la Repubblica non ci ha piantato un albero. E quella di sinistra, con le quattro sindacature di Rutelli e Veltroni, ha consegnato agli immobiliaristi, per valorizzarne le aree – con quale tornaconto? Alemanno invece fa i salti mortali per scrollarsi di dosso questa identità. Il “Sunday Times”, per tenere fede al giornalismo britannico, lo chiama ogni settimana Duce, e lui niente, si occupa solo d’inseguire il politicamente corretto - minaccia perfino di sfilare coi gay.
Lo vuole la politica dell’immagine, certo, bisogna fare i pulcinella. Ma l’immagine non è innocua. Alemanno è in pieno “ci sono e non ci sono” delle peggiori stagioni del peggiore malgoverno. E così i netturbini, che nelle settimane successive al voto popolavano le strade per spazzarle, la terza settimana non si sono visti più. Non ha fatto la giunta, benché Roma abbia problemi urgenti: le cartelle pazze, la vigilanza nelle periferie, la sanità, il bilancio. E si occupa del festival delle letterature, del festival del cinema, dell’Estate romana. Non di pulizia. Non di strade senza buche, non così tante. Né di trasporti pubblici. O di progettazione della città. Magari seguendo gli interessi dei costruttori, ma con juicio, come il Buonanima rinnegato.

Simone contro i partiti (comunisti)

Non è il libretto – bianco, nell’occasione – ante litteram del “vaffa”. La verità del saggio, pubblicato postumo nel 1950 e poi accantonato nelle riedizioni di Simone Weil, la dice André Breton nella nota introduttiva di questa edizione, un articolo pubblicato allora da “Combat”, il giornale di Camus. “Combat” fu una delle poche voci che il sovietismo, imperante in Francia per un ventennio dopo la guerra, non sovrastò. O con più durezza il filosofo Alain, maestro di S.Weil, nella nota che la conclude: “Di cosa si tratta (nell’articolo di S.Weil)? Di questo: che il partito comunista si è incaricato di portare alla perfezione la decadenza e la nullità di un partito”. Un’eresia evidentemente, se tuttora nelle presentazioni del libretto che si leggono sui giornali non se ne fa menzione – di cosa si tratta? Ma di abolire i partiti… Le filosofe che in vario modo nel Novecento hanno occupato la politica, Rosa Luxemburg, Simone Weil, Lou Salomé, Elizabeth Anscombe, la stessa Arendt, e Ayn Rand naturalmente, sono ancora nocive.
La passione è totalitaria
Simone sa che il terreno è insidioso e la reazione è in agguato, ma svolge un assunto semplice. La democrazia, “il nostro ideale repubblicano”, deriva dal “Contratto sociale” di Rousseau, dalla nozione di “volontà generale”. Individuarla non è facile, si sa, poiché è lo spirito di verità e giustizia. “Rousseau pensava che nella maggioranza dei casi un volere comune a tutto un popolo è conforme nei fatti alla giustizia, per via della mutua neutralizzazione e compensazione delle passioni particolari”. Questo non basta naturalmente, nessuno giurerebbe sui plebisciti. Rousseau stesso pone condizioni alla volontà generale. “La prima è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di una delle sue volontà e la esprime non sia presente alcuna specie di passione collettiva”. Perché “la passione collettiva è un impulso al crimine e alla menzogna”.
Indistintamente. La filosofa non fa distinzioni tra liberali, repubblicani, socialisti e comunisti. Introducendo la figura parlamentare “dall’emiciclo alla rotonda”. La passione politica è totalitaria e confonde i termini, “il totalitarismo è menzogna”: “Quante volte, in Germania, nel 1932, un comunista e un nazista, parlando per la strada, devono essere stati colti da vertigini mentali constatando che erano d’accordo su ogni punto!” Se non si considera che comunisti e nazisti evitano di fare strada insieme (ma si può dire che per questo si evitano, per non dover concordare). Il più totalitario di tutti è il partito Comunista, che ha portato a perfezione le punizioni per l’indocilità: “Il sistema dei partiti comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi tutto: carriere, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla perfezione”. Un controllo che non lascia scampo, o la sottomissione o la fuga: “Un uomo che esegue calcoli numerici molto complessi sapendo che riceverà una frustata ogni volta che otterrà come risultato un numero pari si trova in una situazione molto difficile”, cercherà di trovare i numeri dispari richiesti.
La modernità del berlusconismo
Il ragionamento va avanti sillogisticamente, e si chiude perentorio in apertura: “Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva”. È costruito per determinare le passioni dei suoi membri. Ha come fine primo e ultimo “la sua propria crescita”. Il sillogismo, in cui la conclusione corrobora (invera) le premesse, è inconsueto per S.Weil. Segno che nel 1943, l’anno in cui scrisse il saggio, a Londra, dov’era con la Resistenza, aveva già motivo di preoccuparsi. Esso in parte non è vero (è vero per i partiti Comunisti postbellici). Ma può essere utile per capire la crisi della politica, suicidata dai partiti di questo tipo, centralisti più che ideologici, gli unici che restano in vita. Simone Weil è la negazione dei Grillo e dei “vaffa”, ma quello che voleva è l’Italia dell’ultimo quindicennio, malgrado l’antiberlusconismo, della politica liquida direbbe il sociologo. O questo è il segno della modernità del berlusconismo, invano relegato alle categorie diminutive del partito di plastica e del populismo.
Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, pp. 69, €7

Giallo stinto di Scerbanenco, postmoderno '40

Giallo d’esordio a coda di pesce per il massimo giallista italiano. Il finale sciapo è anche sbagliato, non tenendo conto di nessuna delle premesse. Tutte peraltro senza spessore né suspense. Fra personaggi improbabili in ambienti senza carattere – come d’altra parte è ora l’uso per la narrativa postmoderna, che si vuole in presa diretta (in inglese).
È un Omnibus del 1940, quando, spiega in nota Roberto Pirani, non c’erano delitti in Italia. Ciò non è vero, ma è vero che il giallo non va nei regimi dittatoriali, o del pensiero unico. Se non in queste forme senza sapore – è il postmoderno allora indice di pensiero unico, se non di potere, di vacuità in qualche modo obbligata?
Giorgio Scerbanenco, Sei giorni di preavviso, Sellerio, pp.279, €12

domenica 11 maggio 2008

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (17)

Giuseppe Leuzzi

Milano ha un sindaco di grande intelligenza politica, ma genovese, giudici napoletani, direttori di giornali romani, un cardinale fino a ieri illustre ma torinese, e un capo politico varesino. Di milanese ha i banchieri, Berlusconi e l’Inter, di cui tutti farebbero volentieri a meno.

C’è, c’è stata, un’era leghista, e questa è la sua Italia.

Ebbe una pessima impressione di Napoli, Walter Benjamin, e ne scrisse male. Di una città “porosa”, concetto che altrove avrebbe apprezzato (a Mosca, a Marsiglia), ma a Napoli come tutto lo disgustò. Dice “porosa” anche la vita privata, come quella degli ottentotti: “Ciò che la distingue da tutte le altre città Napoli lo ha in comune con il kraal degli ottentotti”.
Non sappiamo cos’è il kraal degli ottentotti. Né Benjamin ci ha fatto caso, non lo spiega, non ne parla altrove. La cosa ha due letture. O il visitatore ha un pregiudizio, e la città visitata ne è vittima. Ma questo non è Benjamin, persona di enorme curiosità. O una città può dare ai nervi, e allora si perde anche il gusto della letteratura.

In altra immagine di “Immagini di città”, Walter Benjamin evoca “la solitudine solitaria dei tetti delle città del Sud”. Che ora invece ne hanno dimenticato l’arte, le case lasciano incompiute, irte di fasci di tondini, in attesa di fare un altro piano, con o senza condono, l’abusivismo è una necessità. E magari ne hanno dimenticato l’arte.

Nel Sud al tempo del delitto d’onore i ragazzi crescevano nell’incubo di dover compiere un assassinio e andare in prigione se le loro sorelle, statisticamente sempre più numerose, avessero fatto l’amore con qualcuno.

Sul “Sole 24 Ore”, in un vecchio ritaglio del 19 giugno 2005, il giorno del compleanno, Riccardo Chiaberge suggerisce ai milanesi “di fare quattro passi nello sfacelo di piazza Mercanti, o di ficcare il naso nell’ex garage di piazza San Babila ridotto a discarica, o in uno dei tanti caseggiati fantasma, transennati dai tempi dei bombardamenti alleati”. Dodici anni dopo “Fuori l’Italia del Sud” i Mercanti, San Babila e il Palazzo Senatorio erano dunque sempre sporchi e inchiodati. Milano è piena di se stessa.

Un giornalista di Milano va a Palermo o Reggio Calabria, e viene sommerso dai dichiaratori di ogni segreto. Di ogni prevaricazione. Di ogni malaffare. Di ogni ingiustizia. Un giornalista di Palermo va a Milano o Firenze e non trova nulla. Nessuno che denunci la speculazione palese, di Borsa, sugli immobili, negli appalti. Gli ospedali dove si muore. Le polizie provinciali in Suv. Le incredibili clientele dei sindaci e governatori, scelte, carissime, magari di coscia lunga, o sotto forma di consulenti specializzati.

In tempi di lotta senza quartiere alla mafia, la s’incontra in piazza come un qualsiasi pensionato o perditempo. Non si può uscire in paese, ad Afragola o a Locri, senza il timore di essere abbordati da un giovinastro ben conosciuto che vi chiede duecento euro in prestito per un’urgenza, che poi vi restituirà, o duemila euro, per l’anticipo della macchina, o quello che gli passa per la testa. La lotta alla mafia si fa segandone la gioventù. Va colpito il fascino del guadagno senza lavoro, le centinaia, migliaia, diecine di migliaia di ragazzi che terrorizzano ogni lavoratore con le loro sevizie, ed è inevitabile che diventino killer.

La mafia allegra dell’antimafia
Il nodo della mafia è che per voi è un problema di vita o di morte, della vostra attività, della vostra persona, dei vostri familiari. Ma per chi è addetto a contrastarla è solo un fatto di criminalità tra i tanti, e un problema di priorità, procedure, tempo, e prove che voi non avete. Senza pressione, senza passione, salvo quella che mettono su di voi, se per caso ci inciampate. Mentre la lotta alla mafia solo i carabinieri possono farla: repressione, e poi repressione, e ancora repressione. Con tribunali rapidi e carcere sicuro.
La politica c’entra, certo. La mafia da qualche tempo si preferisce politica, non senza verità. Ma bisogna essere precisi. La politica è vittima della mafia. Vittima di uno stato di fatto, nei paesi e anche nelle città in Campania, Calabria, Sicilia. Mentre la politica che si specchia nella mafia è solo l’antimafia. È indigesto, ma è così: nell’antimafia nazionale, in quelle regionali, nei tanti comitati cosiddetti di base, e nei partiti che questo fenomeno governano. È l’antimafia che stabilisce le regole. Che segnala cosa si può fare e cosa no, e chi va punito – chi le “forze dell’antimafia” non gradiscono. Certo non volendo. Anche se delle tante antimafie fanno parte uomini e donne legati alla mafia - e sono anche noti\e. Lima e Falcone sono due casi, ripetutamente denunziati da Orlando e Santoro in tv – i mafiosi danno molto credito alla tv. Andreotti disse all’epoca che l’assassinio di Lima, suo proconsole, gli veniva “buttato tra i piedi”. Per condizionarlo: il delitto può non essere stato ininfluente sul cambio di casacca dell’onorevole. Falcone era inviso al Pci. I casi sono tanti, da Mattarella a Fortugno.
Che la mafia sia interessata alla politica è un fatto. È manageriale e capitalistica in quanto legata alla politica. Fra le tante prove la più evidente è statistica: se si fa il conto dei morti di mafia non mafiosi, non vittime cioè di regolamenti di conti, si vede che in maggioranza sono politici, più i magistrati e i giornalisti. Gli imprenditori (industriali, negozianti, professionisti) sono pochi. La mafia intimidisce, per supportare i suoi ricatti, ma non uccide le vittime del pizzo. Le sua vittime sono sempre traditori, oppure nemici degli amici. A lungo la Sicilia, Sciascia compreso, ha voluto la mafia indipendente, ma è evidente che uccide anche per conto.
C’è un clima di svagata furfanteria attorno all’antimafia. Suoi esponenti anche illustri, democristiani, radicali, socialisti, comunisti, hanno preso localmente i voti dei mafiosi e ne sono stati, ne sono, i referenti. Dei magistrati non si può dire, nel senso che non è opportuno. Ma la loro selettività è impressionante, e non è un fatto di errori. Con effetti perfino controproducenti. L’accusa a Dell’Utri di mafiosità, il giorno prima delle elezioni, a propaganda chiusa, per avere ricevuto due telefonate da un ex Dc trapiantato in Venezuela, l’imprenditore petrolifero Micciché, non è certo antimafia, e forse è un servizio politico reso allo stesso Dell’Utri: si scredita l’antimafia, si screditano i collaboratori di giustizia, si screditano le intercettazioni, che devono essere ossessive, minute, a carico di Dell’Utri non solo, si scredita l’anti-berlusconismo.
L’ipotesi non è implausibile. Venendo da Reggio Calabria, l’accusa a Dell’Utri potrebbe essere uno sberleffo: per il linguaggio calabrese la beffa è irresistibile, anche a danno di se stessi. Anche perché Dell’Utri non è indagato di niente, il suo nome è solo accidentalmente apparso, sui giornali di sinistra. La beffa è insomma doppia. Ma l’inquirente, Di Palma, non è calabrese. Ed è improbabile che Dell’Utri sia emerso casualmente nelle intercettazioni sui rapporti tra Micciché e la cosca Piromalli, i Piromalli non parlano al telefono. È probabile che le intercettazioni fossero sulle telefonate di Dell’Utri. A meno che i Piromalli non siano informatori, anch’essi, collaboratori di giustizia.

Secondi pensieri (12)

zeulig

Ateismo – L’unica forma di ateismo è il materialismo, l’indifferenza.
La fantascienza è atea, il mondo senza tempo, senza attese, senza memoria, a parte l’elettronica.

Dio – Non si sa dunque se esiste, la prova non c’è. Ma la stupidità esiste.

È morto per i credenti, s’intende.

È morto se è morta l’ultima sua creatura. Non ci sono più uomini?

Non c’è mai stato tanto quanto dacché si pretende morto. La morte di Dio è ancora un’astuzia di Dio.

La vita c’è. E ci sono ottime leggi fisiche e biologiche per consentire, se non l’eternità, l’iterazione della vita in una logica di miglioramento. E tutto questo è Dio: Dio è “la verità e la vita”.

Economia – È metafora reale (pratica, effettuale) del mutamento, e quindi della condizione umana. Causa ed effetto della tecnica, delle priorità intellettuali e affettive – le scelte generazionali. Della politica.
Razionalizza – per adattamento – gli eventi. L’ostilità sanguinaria degli arabi contro l’Occidente che ha aperto il millennio, se portasse all’abbandono forzoso del petrolio, porterebbe all’abbattimento degli incidenti stradali e dell’inquinamento, che sono le cause maggiori di mortalità. Le cosiddette astuzie della storia sono prevalentemente le logiche dell’economia.

Filosofia politica – L’eccentricità di Plessner e la destituzione di Arnold Gehlen sono le condizioni non dell’antropologia ma della filosofia: il filosofo, che vaglia le profondità della sfera interiore, è per questo stesso motivo inadatto a quella esterna. Da Platone (e Aristotele: Alessandro Magno, il suo miglior allievo, non è un buon risultato) a Heidegger.
Dunque, la filosofia politica non esiste. Da Cicerone e sant’Agostino a san Tommaso, il Rinascimento, l’illuminismo e Hegel, con le questioni degli antichi e dei moderni, sembra che sia possibile, ma è politica, non filosofia.

Giallo - È il ritorno della narrazione come gioco - dopo cinquant’anni di correzione politica, più o meno neorealista. Inventiva, sorpresa. Anche le passioni vi sono gioco da (de)costruzione.

Il detective è un archetipo. Ogni grande detective di gialli è un meccanismo semplice, sotto l’apparente mistero, e ripetitivo. Incarnando (astraendo) nella fattispecie una procedura logica – che è insieme complessa e semplice (intuitiva), come ogni fatto logico.

Dev’essere accusatorio. Anche Perry Mason difende accusando.
È la rivincita dell’invidia? Da qui la sua dilagante diffusione. Anche quando si presenta compassionevole, alla Chandler.
È la letteratura all’epoca del giustizialismo, col quale s’identificano le democrazie contemporanee. Gli Stati Uniti in primo luogo naturalmente, e tra gli altri l’Italia, da Clinton a Andreotti – vittime? protagonisti?

Giustizia – Per un cristiano non è affare di legge ma di coscienza: siamo legge a noi stessi. Per questo è sempre insoddisfacente. È il problema centrale dell’etica, ma dell’etica cristiana – ancorché anticipata da Platone.

Heidegger – La sua speciale lingua è un prato peloso. Che potrebbe non nascondere neanche serpenti.

Idealismo – Viene con la letteratura prima che con la filosofia, il suo errore è per questo pervicace. È difficile spiegare che è un errore, poiché si tratta di un sentimento e una passione.

Io – Si è dissolto perché non c’è. Si lascia dissociare perché sa che l’identità è complessa, e dissociata.
La sua scoperta, e la scoperta della sua dissociazione, è stata avventurosa, e tuttora lo è, oltre che redditizia, per gli analisti. Ma è un’avventura inconcludente e fine a se stessa.

Libertà – Vuol’essere selettiva.
La liberazione è democratica: è ugualitaria. Ma la libertà c’è solo nella differenza.

Memoria – Salta il tempo – lo annulla - più di quanto lo ricostituisca, il presente in soggettiva sovrapponendo allo stesso vissuto.
Il ricordo è ricostituzione, del presente. Si capisce che ricostituisca l’inconscio.

Paternità – È acquisita – è pedagogica, both ways.
La maternità invece è naturale: c’è o non c’è. In molte donne non c’è mai, anche con molti figli.

Politica - È la mobilitazione dell’indicibile e l’ingovernabile – dei bassi istinti, dalla sopraffazione all’avidità. Dei potenti, secondo la storia (la storia dei potenti) e l’ideologia. Ma di più – sempre più – delle masse.

Popolo - È concetto salvifico, delle Scritture. L’equivalente di fedeli, comunità dei credenti. In che cosa: Dio, la tribù, la lingua?

Progresso - È il proprio dell’uomo, il mutamento incessante. Positivo o negativo (accrescitivo o distruttivo, migliorativo o peggiorativo) ma voluto, cercato, architettato.

Realtà – Ha bisogno di vanità. L’uomo discreto è nulla, invisibile: l’autore inedito, l’innamorato non dichiarato, il diavolo delle buone intenzioni.

Storia – Parla al futuro, ancorché ristretto dalle “prove” (documenti, testimonianze, statistiche). È progettazione, ancorché ideologica.
Il futuro può essere generazionale, culturale, mitico, e ideologico – che è stato il futuro regressivo, e fallito, del Novecento.

È cieca. Non ha un progetto, e non prepara rivoluzioni, le subisce.
Ma le rivoluzioni possono impossessarsene, le passatiste e le futuriste, farsene una ragione. Tutto se l’ingroppa.

Uguaglianza - È sfacciata. Vi si perde il pudore e ogni limite.

Vita – Passa attraverso molteplici morti: dei genitori, di un’attività, un matrimonio, una malattia, un’idea.

zeulig@gmail.com