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sabato 1 giugno 2013

A Sud del Sud . l'Italia vista da sotto (172)

Giuseppe Leuzzi

Il nonno di Pirandello, il bisnonno in realtà, Andrea Pirandello, veniva dalla Liguria. Nel 1772 si stabilì in Sicilia, a vent’anni, perché era nella pirateria antipirateria: gli armatori investivano nelle scorrerie contro i francesi e i saraceni, e talvolta venivano premiati, anche perché protetti dalla flotta inglese. Pirandello bisnonno ci costruì la fortuna di famiglia, racconta Mario Genco ne “I Pirandello del mare”. Poi si dicono le identità regionali. Non c’è più siciliano – non c’era finora – di Pirandello.
E i liguri pirati?

“A proposito dell’Expo”, spiega il ministro Giovannini al “Corriere della sera”, “mi dicevano che la reazione di alcuni imprenditori è stata: «Bene, ci sono i soldi?»”. Ma l’Expo non si fa a Milano, l’hanno spostata al Sud?

Il Sud è fermo (marcio, incurabile) non perché ha infettato il Nord – la “linea della palma” è fantasia da indolenti all’ombra del banano. Ma perché, nell’unità e dopo l’unità, ha perduto l’identità. A opera dei suoi fuoriusciti, ma il risultato non cambia. Si è piemontesizzato, poi romanizzato e ora milanesizzato.
La caduta della produttività culturale concorre con la perdita dell’identità, e la risultante è il sottoviluppo. Poiché questo è: il Sud è sottosviluppato in senso proprio: incerto, debole, incapace.
Non mancano nella storia passai inequivocabili, dall’essere al niente: la scomparsa dell’Unione Sovietica, o degli Aztechi, degli Inca, dell’Egitto, degli Etruschi. Ciò avviene per quello che l’antropologia chiama “perdita di senso”.

Sicilia
Il mafioso americano John Gotti, finito all’ergastolo, si pavoneggiava al processo esibendo relazioni a Hollywood. Risultò che gli avevano fregato un bel po’ di soldi per dare una particina a un suo congiunto , una nipote. In un film di serie B. Non sarà che i mafiosi sono stupidi, quelli siciliani? Perché le mafie irlandesi, ebree, russe, nere ben altro ottengono a Hollywood. Senza sparare. O forse perché non sparano.

“Cumannari è megghiu che futtiri” si cita sempre in Sicilia, specie nei processi. Come se l’isola fosse sempre a letto. Mentre la Sicilia ha tutt’altre occupazioni, E la massima ha tutt’altro, ovvio, significato: l’insegna dell’isola è motto di chiara origine muliebre, riguarda i conti della spesa.

La rivolta spontanea garibaldina era preparata dal Piemonte almeno da un anno e mezzo. Cavour aveva convocato Garibaldi già all’inizio del 1859. Marx lo sa, poiché lo scrive per la “New York Herald Tribune”, alla quale collaborava (ora nelle “Opere Complete Editori Riuniti, vol. XVI). Non per scienza infusa.

La signora che fa la spesa compra dal droghiere una birra, che uscendo dà a Farid, vecchio tunisino sdentato, e probabilmente senza molto cervello. Farid, che non beve, la riporta al negoziante, che gli dà un euro. Il vecchio tunisino ha così avuto una mancia, senza chiederla, e ha scambiato alcuni sorrisi, di cui non dev’essere stato locupletato.

Non era per caso un paese di tiranni. Che ammaliavano – perfino Platone – più che angariare i sudditi.

Era il paese del lusso per gli antichi greci. Le siculae mensae erano proverbiali anche in epoca romana.

Il ristoratore fa spesso lo sconto. Di poco, giusto per pareggiare il conto. Ma lo fa anche al cliente di passaggio.

È il paese dove ci sono meno segreti. Si è subissati, anche a un breve soggiorno, dai segreti svelati.

Angelo Balsamo, ammiraglio, ha una tomba molto decorativa al Museo Regionale di Messina. Parente di Cagliostro? Nome onorato.

Solo “professionisti” per le “professioniste” della “Gazzetta del Sud” di Messina. Professionisti “seri”, anche “umili”, ma comunque “facoltosi”.

Sicilitudine, la parola è brutta e indigesta ma è gradita. Come la napoletanità. Come la negritudine. Hölderlin aveva inventato das Deutsche, la teutonicità, che non ha dato nulla di buono.

“Tutto è mafia” è fascismo
Imperversa il tutto è mafia. Che è un errore logico (che cos’è allora la mafia), oltre che di fatto, e un crimine. Insomma, più che un errore o un irritualità. La mafia è regolata da leggi d’eccezione: come il delitto d’associazione, il concorso in associazione, il concorso esterno, e i privilegi dei dichiaranti. Che vanno applicati con parsimonia. Applicare le leggi antimafia all’universo è eversivo. Nel senso del fascismo.
Andreotti è stato a lungo al governo, quasi quattro anni dal 1976 al 1979. Col Pci. Senza un solo atto contro la mafia. Forse perché il governo era distratto dal terrorismo, ma in quegli anni la mafia divenne padrona, letteralmente, della Sicilia, ammazzando giudici e politici a piacimento. Poi Andreotti, dopo una lunga pausa, tornò al governo. Con il Psi. E fece le leggi eccezionali che l’alleato gli impose, col risultato di mettere la mafia in rotta in un quinquennio. L’assassinio di Dalla Chiesa nel 1982 fu un atto di superbia di Riina, le stragi di dieci e undici anni dopo gesti disperati. Fece provvedimenti antimafia perfino personali: togliendo le pratiche al giudice Carnevale, e rimettendo dentro d’arbitrio i boss che uscivano dal carcere per l’incapacità dei giudici di processarli. Allora è stato accusato di mafia.

Donne d’onore – 2
Qui si passa dalla mafia analfabeta e violenta, graveolente anche se allicchettata, al capitalismo iperavanzatissimo. Cui introduce Francesca Chaouqui, trent’anni, direttore delle Relazioni esterne di Ernst & Young in Italia, la società americana di contabilità. Che ha scritto al “Corriere della sera” indignata per l’assassinio della quindicenne di Corigliano Calabro, una serie di abomini, contro una terra, la sua dice malgrado il nome, che si vergogna di avere figlie femmine, e appunto le uccide.
Una lettera “estrema”, che ha naturalmente l’effetto di moltiplicarne la lettura e i commenti. Ma, per un volta, non il solito a favore e contro, no, Francesca ha avuto e continua ad avere contro tutti. Per una reazione anch’essa naturale, che Renate Siebert, la sociologa che da quarant’anni studia la condizione della donna in Calabria, così ha sintetizzato al “Quotidiano di Calabra”: “Una storia come questa potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente razzista e aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese”. Elementare. Ma la sociologa non tiene conto di una specificità calabrese: il temperamento femminile.
Francesca Chaouqui è giovanissima dirigente di un’azienda che ha questo vangelo: “Persone che dimostrano integrità, rispetto e spirito di collaborazione. Persone con energia, entusiasmo e il coraggio di essere leader. Persone che creano delle relazioni fondate su valori condivisi. Persone che dimostrano integrità, rispetto e spirito di collaborazione”. È una che sa quello che ha scritto. Potrebbe aver voluto “scrivere” il paradigma del rifiuto, come esercizio di bravura. “Mi occupo di comunicazione”, si difende in rete, come a dire mi tocca lavorare. Ma è regina di twitter. Dove passa il tempo in attesa della notte: “Vivo come se non avessi più tempo, sorrido sempre”, così si presenta, “ogni tanto m’arrabbio, di notte scrivo. Felice”. Anche Kierkegaard scriveva di notte, ma era più lungo, si voleva infelice. Francesca Immacolata, detta Francy, si diverte e ritwittare un Khalid Chaouki, fra i tanti, col kappa, Insomma, anche se si arrabbia è spensierata. Oppure ha scritto la letteraccia perché ci crede – ha solo “amicizie” femminili. In ogni caso un bel temperamento.
Ma non è sola. Un bel combattimento tra matriarche, come solo in Calabria se ne trovano, la sua lettera ha suscitato. I tanti calabresi che sono intervenuti per zittirla, giovani e meno giovani, parlano come “figli di mamma”. Tra le tante risposte merita una citazione quella che Rachele Grandinetti, 29 anni, ha scritto a Corrado Augias, a “Repubblica”: “Mia nonna è rimasta vedova a 29 anni con quattro figlie femmine cui non sono mancati amore, educazione, istruzione. Oggi sono tutte professioniste perché hanno scelto di studiare e di seminare. Mia madre è una donna in carriera, ha iniziato a lavorare a 19 anni e si è laureata che aveva già due figli…”. Indistruttibili, altro che figlie abbandonate.

leuzzi@antiit.eu

L’ultimo etnologo

Autore di “La memoria dell’isola”, Scoditti si può dire l’ultimo etnologo. Ha scelto di vivere per decenni, a partire dal 1973, lunghi tratti dell’anno nell’isola Kitawa, la più remota dello Trobriand. (Malinowski ne ha scritto, ma senza mai essere stato nell’isola). In un comunità che non ha scrittura, e se ne è fatto testimone. Dopo esserne stato parte – fino a un matrimonio locale, da cui è nato un figlio, che la comunista ha accudito.
Scoditti ha avuto la ventura di vivere l’ultima cultura orale probabilmente. Di cui è ora la memoria. Delle parole e, qui, delle figure rituali, decorative, pratiche. Soprattutto le canoe – “la canoa è in queste isole quello che la cattedrale gotica era per il popolo nel nostro Medio Evo”. Gli abitanti, un migliaio, lo conoscono come Rorowai, “l’uomo che ricorda”.
Giancarlo M.G.Scoditti, Kitawa. Il colore e il suono della memoria, Bollati Boringhieri, pp. 170 ill. ril. € 27 (remainders)

venerdì 31 maggio 2013

Stato-mafia, Polizia-Carabinieri

Sono stati i Carabinieri a far condannare Contrada? È possibile. Anzi è probabile, non può essere che così. C’è ora la Polizia dietro il processo a Mori? È possibile. Anzi, non può essere che così.
Si pensa desueta la concorrenza ostile tra le due polizie, ma è attivissima. Un tempo si dava per scontata. Così la ricorda nel 1998 il Procuratore di Palermo che indagò nel 1970 sulla scomparsa di De Mauro, Ugo Saito: “Venivano a trovarmi in continuazione funzionari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Salivano e scendevano continuamente le scale della Procura evitando accuratamente di incontrarsi”. La “guerra” continua.
La Polizia non ha digerito gli arresti dei mafiosi eccellenti a opera dei Carabinieri (si è rifatta con Provenzano,  ma davvero Provenzano era latitante?). Mentre i suoi funzionari venivano assassinati o processati. Mancino ministro dell’Interno non è stato amato dalla Polizia per motivi sindacali – come già Scalfaro, che da ministro dell’Interno nel 1986 indagò personalmente a Palermo sulla morte di un giovane in commissariato.

Le origini della decadenza in edicola

Ritorna, ritradotto dopo sessant’anni, il vangelo dell’estetismo eccessivo, esagerato, prima di Wilde o D’Annunzio. Di uno scrittore  e critico d’arte che ne sapeva il senso vero – l’impiegato pubblico Huysmans passerà gli ultimi anni tra i monasteri. Huysmans, che lo pubblicò nel 1884, forse non era praticante dei riti che magnifica, ma ne sapeva il senso riposto, della vita che si vuol far vivere. Zoliano pentito – “nessuno capiva l’animo meno die naturalisti che si proponevano di osservarlo”.
Ritradotto da Giovanna Coccetti, con introduzione di Agnese Silvestri, si presenta mirabilmente come una leggibile edizione critica, benché in edicola o per questo più apprezzabile. Il suo Des Esseintes, che vive tutti gli eccessi immaginabili, non è più corrosivo. Forse non è nemmeno una pietra di fondazione: Agnese Silvestri gli ricostituisce in poche righe una corposissima quanto evidente genealogia immediata, fino al contemporaneo Verlaine dei “poeti maledetti”, anche loro del 1884. Ma resta ancora personaggio eponimo, di una immensa letteratura, decadente, simbolista, mallarmeana, e onirica, realista, mistica. All’insegna dell’artificio dichiarato. Come lo stesso Huysmans avverte nella prefazione scritta vent’anni dopo la pubblicazione, e nell’avvertenza, qui entrambe proposte.  
Joris-Karl Huysmans, Controcorrente, L’Espresso, pp. XXXIII + 214  € 2,90

Ombre - 178

Lo spettatore ascolta Della Valle tessere per due ore da Santoro le lodi di Bazoli e le banche, e del piano Rizzoli Corriere della sera da 600 milioni. Il giorno dopo apre il giornale e scopre che ha votato contro i 600 milioni e il piano. Il suo rappresentante in cda avendo calcolato che i 400 milioni da versare subito vanno alle banche – per il 50 per cento alle due banche azioniste di Rcs,  Intesa e Mediobanca. Non voleva dare uno scoop a Santoro, che pure gli ha organizzato due monumentali ore?

Però è vero che l’aumento di capitale Rcs è fatto per le banche e non per lo sviluppo del gruppo. Il nuovo capitalismo a Milano è sempre uguale, asfittico.

Qualcuno usa la parola giustizialismo da Santoro, e il conduttore, o il filone esperto Della Valle, ribatte stizzito che non vuole dire niente. Invece la parola ha un significato preciso: è il peronismo, cioè una forma di fascismo. Perché fare gli struzzi?  

Succede a Roma che il “Corriere della sera” sia finito in edicola alle 8. E la domenica sia consegnato senza “Lettura”. Tagliare i costi tagliando le copie? Cosa comprano gli aumentatori di capitale?

365 mila voti in meno per Alemanno rispetto a cinque anni fa, 250 mila in meno per Marino rispetto alla sconfitto Rutelli di allora. Per Alemanno si capisce, era difficile fare meglio (ha preso 27 mila voti in meno pure rispetto a Storace tre mesi fa), ma per Marino?

Stelle di Borsa in questi cinque mesi del 2013, Mediaset e Unipol hanno quasi raddoppiato le quotazioni. Un record. Erano titoli sconsigliati. In nome di che?
Poi dice che non si leggono i giornali.

Giorgio Mulé ha avuto centro procedimenti penali a carico. Solo tre si sono conclusi, quelli avviati da giudici. Tutt’e tre a favore del giudice ricorrente.
Le altre cause stampa si mettono a ruolo il sabato e si rinviano, fino a che un accordo non subentra, o le parti non si stancano. Quando si tratta di giudici, invece, il giudizio è velocissimo e di condanna. Di Pietro, pur essendo un ex, ha vinto centinaia di queste cause, fra 250 e 300, e non ne ha mai perduta una. Ciononostante, la giustizia è solo un problema di Berlusconi. Si può essere stupidi

Si può anche essere fascisti, malgrado la legge. E non per modo di dire. Tra eccellenza e ermellini. E divieti di critica.

Il Procuratore di Palermo Messineo è sicuramente uomo di carisma. Scrive su “Repubblica”e parla alla Rai. Il giudice Caterina Interlandi, che il suo carisma ha sancito, condannando i giornalisti che lo mettevano in dubbio a dure pene, ha più carisma di lui, o sono alla pari?

Il sindaco di Bari Emiliano imperversa dando le pagelle, sprezzante, a questo e quello del Pd. Questo sindaco ha un nome non per altro, ma per essere un giudice, di poco nome, fatto eleggere a suo tempo da D’Alema. Che alla rielezione a giugno 2008 fu mandato al ballottaggio, e l’avrebbe perduto se il giudice Scelsi, d’accordo con D’Alema, non avesse inventato il lettone di Putin.
I democratici hanno sempre bisogno di una puttana per vincere?

Piero Ostellino aveva criticato un mese fa nella sua rubrica settimanale sul “Corriere della sera” la requisitoria della giudice Boccassini al processo Ruby. Un articolo che, “per un qualche motivo” , dice ora, a distanza, non è stato pubblicato. Per trascuratezza?


Buttafuoco incontra Mario Sechi per “Il Foglio”, l’ex direttore del “Tempo” e candidato trombato a senatore con Monti, e l’intervista si conclude così, con una telefonata di Sechi a Calabresi, direttore della “Stampa”: “«Feci recensire il suo libro e lo cercai per chiedergli una breve per il mio più modesto tomo». Sechi, insomma, chiese un contro-favore a Calabresi. «Ma aspetto ancora la sua telefonata». Sechi aggiunge: «Risposero dalla Stampa: il direttore la richiama subito! Attendo ancora con ansia la telefonata. E la recensione»”. Il nuovo che avanza.

giovedì 30 maggio 2013

La sinistra è di centro, Grillo è al 6 per cento

Nello spoglio delle preferenze a Roma, per il consiglio comunale e per quelli municipali, sono ai primi posti i candidati ex Dc, in entrambi gli schieramenti, Più popolari che diessini nel Pd, più Udc che berlusconiani nel Pdl, e nessuno dell’ex partito di Alemanno, il sindaco.
Se ne può anche dedurre che il centro ex confessionale si è mobilitato per il voto. Forse galvanizzato dal governo Letta, dal ritorno neo guelfo. E che il fortissimo astensionismo, quasi mezzo milione di voti, è tutto Pd e Pdl.
Dal numero dei voti è chiaro, inoltre, che 5 Stelle è al 6-7 per cento del voto. Il voto di protesta che era già di Di Pietro e Ingroia. Si fa valere l’astensione in parti uguali tra Pd, Pdl e 5 Stelle, ma per il movimento di Grilo è lecito invece prospettarsi una diversa valutazione del fenomeno: non disincanto, o attendismo, ma subitaneo abbandono. Il voto dei 5 Stelle tre mesi fa, tipicamente giovanile e di protesta, è per ciò stesso tipicamente motivato. Se domenica ha disertato è per un motivo. Il suo esito va visto nei numeri propri, tenendo conto anche del venti per cento di astensioni, e non in rapporto al numero di voti espressi.

Il Reich paranormale

Già fine politologo, Giorgio Galli è evoluto da ultimo al paranormale, colonna di “Astra”. Ma sul Terzo Reich e il paranormale negli anni 1930 dice più di una cosa seria. Qui riprende dati e argomenti di “Hitler e il nazismo magico”, di venticinque anni fa: la magia come processo auto induttivo ma con effetti reali, sulle decisioni politiche. Di Hess, Rosenberg. Himmler.
Molto si potrebbe aggiungere sull’Ahnenerbe Studiengesellschaft di quest’ultimo, la società delle SS per lo studio degli avi. Che ne rintracciò da Taormina al Tibet. Fino al fantomatico battaglione Waffen SS Tibet a difesa di Berlino. Il nazismo aveva molte radici.
Giorgio Galli, La svastica e le streghe. Intervista sul Terzo Reich, la magie e le culture rimosse dell’Occidente, Hobby & Work, pp. 191 € 7,20 (remainders)

mercoledì 29 maggio 2013

Letture - 139

letterautore

Giustizia - Dürrenmatt, che se ne è sempre appassionato (“Il sospetto”, “Giustizia”, “Il giudice e il suo boia”, etc.), le fa usare gli stessi metodi del criminale che essa condanna. Ma con uno slittamento non marginale, del giudice facendo uno sbirro. Questo  a Dürrenmatt riesce col lettore, ma dei suoi racconti non si fanno film: non si possono fare.
In Italia la cosa è impossibile in toto, mancando l’abilità di Dürrenmatt: non nei film ma nemmeno nei libri. Perché il giudice inquirente è identificato col giudicante, e quindi non ci sarebbe racconto, ma una caccia all’uomo. Il “risolutore” italiano, il detective, deve anzi essere all’opposto marginale, “fuori del sistema”, anche quando è un commissario di polizia come Montalbano: uno in punizione, o richiamato, o lì per caso, senza contare le nonne, i vicini curiosi, i giocatori di briscola al bar.
Anche in Inghilterra, a pensarci, il risolutore è sempre eccentrico. È istituzionale in Francia e negli Usa, dove la pubblica accusa è politica, e quindi dichiaratamente di parte: inquisisce chi ha un ruolo ufficiale. Anche perché può perdere, spesso vince la difesa. Cosa che in Italia è impossibile.

Joyce – Potrebbe essere la chiave di “Finnegans Wake” il rapporto con Lucia. Lucia Joyce era psicotica, con James parlavano in una lingua chiusa a loro due. Lo fa notare Carson McCullers, che di mondi proibiti se n’intende. All’interramento di James Lucia dice: “Ora è sepolto nella terra, e sente tutto quello che si dice. Furbo, no?” Senza ombra d’incesto, è l’amore filiale, una forma di esclusione, e in questo caso un dolore, non un desiderio proibito.

I genealogisti derivano Joyce dal francese joyeux. un auspicio, nomen omen. In età matura si portava in tasca il ritratto secentesco di un Duc de Joyeux, e chiedeva agli amici se non ci vedevano la somiglianza. Ma si divertiva anche a dirsi James Joyless, o Jocax o Joker. E Joycity. Non Jokes, che è il suo proprio? Perché sono jokes, giochi, gnocchi, gnoccoli, quelli del severo Jocax. O Gis, come Gesù è detto in Amleto, atto IV, scena V, Ofelia: “Tomorrow is st. Valentine Day” “By Gis and by...”? E joyciano, professione così diffusa, non sarà joysuino - o joysuita?
Per Pound era meglio Job, “che suona meglio in aramaico”, gli scriveva: “Joyce è un palese errore”, ma “può darsi che venga alla luce una forma intermedia Jobce: la vostra linea di discendenza dal patriarca è indiscutibile”. Oppure Joice, echt Joyce, puro succo, juice. Di che? Dei testicoli: il jissum, sibilo dell’eiaculazione, che via jazz riporta a Ji-i-sas, Je-e-e-sus.
“Gesù malinconico” e “Gesù curvo” era per Sylvia Beach.

Oculatamente il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione gli impedì nel 1911 di “trasferirsi nel Paese la cui lingua usa ogni giorno, avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi figli Giorgio e Lucia”, quella dell’amato Denti Alligator, come scrisse nella domanda per un posto di supplente. Benché cultore di Dante, Joyce non poteva essere di lingua italiana. Oltre che della cittadinanza, l’Italia è gelosa pure della lingua.

Nobel – Un’ambizione che l’autore paga caro. Ne è la consacrazione. Ma al culmine di una serie di manovre non onorevoli. Finisce per confermare lo scrittore uomo solitario per eccellenza. E indifeso, perfino da se stesso. Le carte pubblicate di Per Hallstrom (riprese dal “Times Literary Supplement” del 10 maggio), il patrocinatore di Hemingway, mostrano lo scrittore soprattutto depresso sulla propria condizione di solitudine: la scrittura è solitaria.
Solitaria è anche, malgrado tutto, le interviste, i premi, le conferenze, etc., la proiezione sociale dello scrittore. Non della critica, che sempre in qualche modo si istituzionalizza.

Note – Sono invalse nei saggi con un fine preciso, bibliografico – i vecchi “crediti”. Ma l’uso è esteso, largamente, specie nella saggistica storica e letteraria, per “portare avanti” separandoli due discorsi, quello scientifico-tecnico, argomentato, sistematizzato, e quello aneddotico, insorgente, casuale, più narrativo che logico. Anche se spesso è più e meglio significativo.

Stendhal – Non si fa mai nome di Walter Scott a proposito dei suoi romanzi, che invece c’entra tutto – si cita invece Scott a proposito di Manzoni, col quale non c’entra nulla, a parte le chiacchiere.

Verdi – Il miglior libro per il centenario, uscito un anno e mezzo fa a Londra, “Verdi and\or Wagner”, di Peter Conrad, non è stato tradotto e non si cita nemmeno. Nonché pieno di apprezzamenti e anche di qualche verità su Verdi.

Wagner In forma concertistica, senza scena, è anche più “intollerabile”, Preludi e interludi interminabili, scene insensate. “L’oro del Reno” ne è pieno, ma anche ”Rienzi”, o “Parsifal”, o “Tristano e Isotta”. Aggressivo anche quando non lo è, nel sentimentalismo più diluito, per esempio, per l’illusione che impone dell’illimitato. Thomas Mann gli rimproverava l’assenza del “pathos della distanza”, nel saggio del 1933, “Tristezze e grandezza di Richard Wagner”. Voleva togliere il respiro all’ascoltatore e ci riesce, con la morte a ogni angolo, e ogni sorta di violenza: furto, rapimento, assassinio, disonestà, adulterio, incesto, mutilazioni e automutilazioni, sfide alle divinità e a ogni ragione. Un sottofondo intreccia del male. L’amore è torbido, inutile – la lealtà, l’onore. Una sorta di architettura, l’opera totale, dello “spoglio”, il denudamento o l’inaridimento. Lo stesso sacrificio non arricchisce. Con l’apologia costante della morte, da parte di un vitalista ingombrante. Perfino profittatore, della buona fede altrui - del re e degli altri finanziatori, delle donne, dei maestri suoi esecutori.
Il progetto è di sopraffazione. Anche quello teatrale e musicale – la lunghezza, la ripetizione. L’ascoltatore, perlomeno, è sempre portato a pensarlo. Debussy, Klemperer, lo stesso Thomas Mann, numerosi musicologi, lo risentono come un’ossessione, una possessione.

letterautore@antiit.eu

Nanni Moretti rivoluzionario borghese

Dieci anni fa, giorno più giorno meno, la contestazione borghese:
“Nanni Moretti porta a Di Pietro e Occhetto i residui dei “girotondi”, il movimento delle signore-sms cha fu in voga l’anno scorso. Fa manifestazioni con loro, e sembra felice. Tutti sembrano felici. Di Pietro e Occhetto si può capire, ma Moretti? Si può essere felici, contro Berlusconi non solo ma contro il proprio partito, l’ex Pci, con Di Pietro?
“Moretti con le signore dei girotondi, e con i signori di “Micromega”, diventa un curioso borghese: un artista borghese. Specie che si penserebbe estinta, da un secolo”.

I filosofi come Totò, la contesa delle pernacchie

Una reductio ad Hitlerum dice Lorenzo Magnani il “nuovo realismo”. Con una semplificazione cioè, del tipo “stronzo!”, “fascista!”, un’invettiva spenta, all’età del gossip, il linguaggio senza peso, sulla filosofia invece che su Ruby. Analoga a quella che intende criticare, di Maurizio Ferraris. Ma più esatto sarebbe dire una reductio ad Berlusconem, poiché di questo gli uni e gli altri si accusano, di essere berlusconiani, in aspetto di populisti -  si libellano anche, reciprocamente, negazionisti (dello sterminio degli ebrei), ma per fortuna poco. “Il populismo in filosofia è una banalizzazione del pensiero che mira a riscuotere il consenso del vasto pubblico”, dichiarano al primo rigo. E anche: il populismo è “il doppio osceno” della popolarizzazione. Devono aver fischiato le orecchie ai realisti, che tre giorni fa hanno celebrato i loro fasti internazionali in una due giorni alla terza universita romana. Ma è una lotta comune, fratricida, per il popolo, il moraviano andare “verso il popolo”. Anche se questi filosofi, tutti rigorosamente antipopulisti, non sanno venirne a capo – sono sicuri che Berlusconi è un populista, ma non sanno cos’è il populismo.
Uno è tentato di fermarsi alla prima pagina, al primo rigo. Ferraris non è uno che scrive brillante. No, è un populista, “di quel populismo mediatico che ha dominato in Italia ed è un tipico prodotto nostrano” – “ha dominato” e ora non più? tipico? nostrano? prosa malapartiana, battibecchiana. “Animato da propensioni demagogiche, attraversato da una vena autoritaria, anche nelle sue vicissitudini storiche il populismo si rivela dogmatico e a tratti intollerante. Denuncia l’avversario, o meglio, il nemico, e chiede il plauso al popolo accattivandoselo”. Il nome è pronunciato alla fine, proprio al penultimo rigo, Travaglio. Con “un certo giornalismo d’inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e che negli ultimi anni, in Italia, è stato l’unico discorso”. Simone Regazzoni, malgrado tutto, fa centro su un certo giornalismo. Ma il realismo? Travaglio dopotutto è un giornalista. Non un populista cioè, tanto meno un filosofo – o ha fatto domanda a cattedra?
Non sarà invidia? L’ambizione sembra a scrivere un fondino, magari sulla “Repubblica” locale, un corsivo, un battibecco. Donatella Di Cesare, che è filosofa di suo, vice-presidente in Germania della Società di Martin Heidegger,  avrebbe un’arma in più contro Ferraris, la “filosofia globalizzata”, e se la lascia sfuggire. La globalizzazione non è anch’essa da esorcizzare, insieme col populismo? E forse è peggio che una disattenzione: non essendoci qui Berlusconi di mezzo, entrambi i fronti se ne fanno bandiera, accusando l’altro di provincialismo. Magnani, che è uno degli autori del libro (sono sei e non tre), il populismo propone di definire oclocrazia, alla maniera di Polibio: la politica che si fonda sulla “corruzione delle masse”. Ahi, ahi. Non c’era nemmeno la televisione, al tempo di Polibio, con cui prendersela.
Più che del realismo, resta una contesa dei populismi, naturalmente critici. E delle rane, anche, volendolo, nonché della secchia rapita, con un che di patriottico cioè. Nulla di male, se ne fanno anche in Germania, sotto il nome di Streit, degli storici, delle facoltà. Ma un po’ di realismo, per dire, non guasterebbe. Per esempio dei media: una teoria dei media? E dell’università? A parte i soldi che mancano – ma i soldi non bastano mai (anche questo sarebbe un argomento, il debito, o è troppo realista?). E del populismo? Non sarà esso la stessa “società civile” che blatera contro, in nome di una superiorità morale che alla prova sempre latita? Al coperto delle insolenze dei giudici, la casta per eccellenza. 
Un minimo di riflessione sulla loquela giornalistica sarebbe stato necessario anche per fare meglio la critica del realismo. Questi critici invece, come i loro nemici, lo riducono alla mediatizzazione. Cioè alla realtà del “Truman Show”, di telegenia, fiori finti e ragionamento corto. Entrambi i fronti si propongono di vincere così, con la frase breve e l’appeal. Ferraris per Regazzoni è un po’ Berlusconi, un po’ Stalin. Uno squarcio che un giorno bisognerà andare a vedere, la crisi politica italiana – di questo si tratta - è tutta “post Muro”. Ma il filosofo la usa a mo’ di pernacchia. Sembra Totò.
Inutile chiedersi che ne direbbe Roscellino. Diciamo un vero filosofo. Anche Kant, pure lui nella contesa strattonato, reduce da quella delle facoltà. Uno scontro avulso dalla storia (realtà?) – cui invece il comune nemico dei due fronti è evidentemente sensibile, poiché ne sa più di loro (Ferrara beffardo lo aveva già detto subito, in breve, sul “Foglio” del 21 agosto 2011).
Donatella Di Cesare, Corrado Ocone, Simone Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo, il melangolo, pp. 106 € 12

martedì 28 maggio 2013

Berlusconi risorto, con la Dc – 11

Dopo Montalbano Berlusconi? O prima, chi ha fatto il record di ascolti? Di certo c’è che Montalbano ha fatto il record mentre Berlusconi vinceva un’altra elezione dal nulla. Anzi contro il nulla delle sue ali marcianti, finiani incapaci, leghisti ladri: li ha ridotti alla ragione politica e si sono squagliati. Sgonfiando il pericolosissimo pallone Monti. Per nominare poi il presidente della Repubblica, nella persona rispettabilissima di Napolitano, e il governo Letta – seppure del nipote: la prima Grande Coalizione della Repubblica, da sempre anatema in Italia, benché praticata da gente esperta, Germania, Austria, Olanda, perfino a Londra, dal laburista Callaghan col patto Lib-Lab quarant’anni fa. Per vedersi poi sempre condannato, con ignominia ma a nessun effetto, nessuno ci crede (lo crede cioè colpevole, come tutti, ma lui in un teatrino apposito). Mentre moriva Andreotti, il precedente recordman dei processi glamour, fuffa.
Andreotti Berlusconi? La differenza non è nei media, che oggi sono sovrabbondanti rispetto a un tempo – la “mediatizzazione”. Andreotti ne era maestro, anche se all’epoca i media erano i giornali, di poche pagine. I suoi attacchi al generale Miceli, cioè a Moro, negli anni 1973-74 con interviste e “documenti”, furono micidiali. Così come il suo ruolo nei dossier periodici a carico dei socialisti, nella denuncia del Piano Solo nel1968, e poi nell’incriminazione di Cossiga per alto tradimento, e per la Gladio. E nel suo stesso ruolo di vittima, di imputato in processi drammatici, con capi d’accusa infamanti, più volte per omicidio, e apparati di “prove” in centinaia di migliaia di pagine, benché senza intercettazioni – centinaia di migliaia di pagine?
È solo in Italia che c’è la giustizia politica, dice il giudice supremo americano Antonin Scalia e dobbiamo credergli, ma non ci dice a che fine. Montalbano lo sa. Da buon comunista, Montalbano sa che ogni volta che la giustizia ci mette mano è un casino. Il personaggio più popolare d’Italia sancisce immancabilmente l’inutilità (stupidità) della Procura. Una che tutto vede, non solo a Milano dunque, anche in Sicilia, chi l’avrebbe detto, sotto le specie del letto – si dice politica ma è la giustizia del buco della serratura, di gusti un po’ malsani. Allo stesso modo si svolge il teatro berlusconiano. Imputato unico, per esempio, in un processo lunghissimo, quello Sme, in cui era l’unico sicuramente non colpevole tra i tanti possibili – e certi, noti a tutti.
La Dc restituita
Muore Andreotti, recordman dei processi politici, di vecchiaia, onorato, e Berlusconi ancora resiste. I sei anni del Rubygate, assommati ai quattro di D’Avossa, gli lasciano poco respiro. Ma gli affari gli vanno bene – la sua Mediaset è (con Unipol) la regina di Borsa quest’anno, ha quasi raddoppiato (come Unipol) la quotazione in cinque mesi, al solito contro le previsioni (Unipol e Mediaset erano titoli sconsigliatissimi). E anche col suo governo Letta – suo perché potrà affondarlo quando vorrà, le ragioni non difettano (la recessione è un governo difficile, e quindi non gli se ne può fare colpa) – si è tolto più di una soddisfazione. È infatti il suo sogno, ricostituire il governo democristiano: è quello che ha detto e ha fatto da subito, occupare il centro, imporre il centro – per uno storico, se ce ne saranno ancora dell’Italia, sarà una verità evidente. Si capisce che non gliene importi più di niente, neanche delle condanne. Tanto più che gli sono propiziate e inflitte da democristiani professi, lo stesso si potrebbe essere tornati alla Dc propriamente detta, che era cannibale e assassina.
Cinquant’anni di giustizia, dunque, per niente?Andreotti e Berlusconi sono due uomini diversi, di due epoche diverse, e tuttavia si richiamano. Uno la caricatura del romano di curia, l’altro la caricatura del milanese. Divisi da vent’anni, ma come se fossero di glaciazioni diverse. Accomunati dai processi che però sono essi pure diversi: drammatici, cupi, quelli di Andreotti, teatrali, farseschi, quelli di Berlusconi. Andreotti accusato di assassinio, e di mafia. Berlusconi di aver scopato delle minorenni che però dicono che non è vero, e gli sono grate, e parlano meglio delle giudici. Tenebroso Andreotti, cialtronesco Berlusconi, dietro l’uomo d’affari che non ne sbaglia una. L’uno maneggiatore di dossier, l’altro, si scopre, intercettato fin nel bagno da presidente del consiglio.
La battaglia dei populismi
Ma la popolarità richiede un altro capitolo. Di cui nessuno dei due ha goduto, anche se hanno vinto molte elezioni e presieduto molti governi. Andreotti ne avrebbe riso, poiché era uno scrittore, e quindi di narcisismo chiuso – il creatore vive il suo narcisismo nel disprezzo degli altri. Berlusconi invece se ne fa una divisa, da buon milanese, venditore, self-made man – l’imprenditore non è come lo scrittore, è più furbo. E tuttavia non come Mussolini, sempre essendo stato antipatico ai più, ad almeno il 60-70 per cento degli italiani, compresi molti di quelli che regolarmente lo votano. Perché ha una ricetta semplice. Pur confermando a ogni uscita tutte le ragioni dell’antipatia, non si preclude un grano di saggezza: ridurre le tasse, creare lavoro, dare forza al governo, evitare elezioni a ripetizione, una cosa così.
Tanto (poco) basta per farne un monumento di populismo. Che non si sa cos’è, ma impera. Non solo nella contesa politica, come si pensava, ora anche tra i filosofi. I quali anch’essi non definiscono il populismo, ma lo usano come un randello, anzi come un machete. C’è in atto una guerra dei filosofi, che si combatte su Berlusconi. I posteri non ci crederanno, ma ci sono i testi. Il “Manifesto del nuovo realismo” di Maurizio Ferraris si basa su Berlusconi, i suoi modi di dire, “non conosco David Mills”, “non ho mai pagato una donna in vita mia”, “Napoli pulita in tre giorni”. Gli oppositori del nuovo realismo, molto duri, anche: il nuovo realismo, dicono, è berlusconiano. Ora, questo non era riuscito nemmeno ai tiranni di Platone, dominare i filosofi.
Ancora più sorprendenti – berlusconiani? – gli argomenti. Il Berlusconi “della nipote di Mubarak” voi direste populismo o non dabbenaggine? I nemici di Ferraris dicono che “la nipote di Mubarak” è populismo realista, cioè berlusconiano. Come tutto il resto: un marketing filosofico, l’imposizione di un brand, un’autopromozione. Tutte cose che Ferraris aveva imputato ai non realisti: filosofie giornalistiche,  banalizzazioni del pensiero, “all’ombra del berlusconismo”. Un tipo diabolico allora, si direbbe però Berlusconi – o populista è diabolico? Peccato che non sia Andreotti, si divertirebbe moltissimo – peccato per lui.
Quanti voti non prende

Un giorno si dirà la verità, non bisogna stancarsi di dirlo: che Berlusconi prende meno voti di quanto dovrebbe. Una verità evidente oggi, col ritorno dela Dc, al governo e alle elezioni. Questa è la radice del fenomeno Berlusconi, altro che populismo: l’opinione è largamente profondamente moderata. In conseguenza della caduta del Muro e perché la globalizzazione impone resilience, resistenza, per i paesi ricchi è come essere sfidati a una guerra “in campo aperto”, senza più fortezze imprendibili cioè. Si dirà quelo che è evidente, che Berlusconi è stato il tappo della destra e non il condottiero. Si spiega così, per dire, il soviet Balduina-Parioli: i ricchi fascisti sono incazzati con Berlusconi perché è troppo moderato.  E Berlusconi prende i voti, malgrado la figura ingessata, le gaffes e le cene, perché ce ne sono in quantità strabocchevole. Con l’aiuto, certo, dei media, la Rai in testa, che di un personaggio così goffo hanno fatto un martire, dei giudici senza labbra, dei “comunisti” e di ogni altra anima bella. 
 “Il male minore” lo dice lo scrittore, filosofo, architetto israeliano Eyal Weizman alla “Lettura” del 12 maggio: un governo si basa sul compromesso, “e perfino il Vaticano ha appoggiato Silvio Berlusconi come un male minore per proteggere i valori cristiani”. Ma l’ha detto come esempio di quella che chiama “necroeconomia”, la contabilità di quanti morti sono leciti in una guerra. Mentre questa è una guerra speciale, in cui i contendenti si imputano reciprocamente, e insieme si disputano, lo stesso colpevole. Di cui è arduo decidere la giustezza. Non per il numero delle vittime - 29 vanno bene per una guerra giusta, ha argomentato Weizman in dialogo con Zagrebelsky al festival di Torino, quindi Berlusconi non farebbe testo, se conta per uno. Ma per il groviglio delle intelligenze. Tutte eccelse, eccetto Berlusconi.
Ora, si può dire Berlusconi mediocre. Senza offesa, anche la democrazia lo è. Ma gli altri?

Una quindicina di poetiche, dopodiché?

Eco sa di che si tratta: Joyce usa “dei dati culturali solo e anzitutto per fare della musica di idee: egli accosta delle nozioni, fa balenare delle connessioni, gioca sui richiami, ma non fa della filosofia”. Ma dopo averci oberati per un centinaio di pagine col tomismo di Joyce, anzi col non tomismo. Dopodiché insiste, ora sullo “schema trinitario”, con l’uomo o donna dello schermo - non della partouze? La modernità di Joyce nel Medio Evo? Certo che no. Cioè sì - tutti a nostro modo siamo nel Medio Evo. Ma non solo nel Medio Evo…
Un giorno si farà Dublino a Trieste, e Joyce con i baffi di Svevo, e quella sarà la vera novità, la lettura giusta di Joyce - e Joyce a Zurigo naturalmente, negli anni di Jung e di Freud. Uno che viveva molto il suo tempo. L’epifania di D’Annunzio, il flusso di coscienza di Dujardin, la coscienza di Svevo, pur senza penchant per la psicoanalisi. Per il resto, sì, era aristotelico, anzi scolastico, e casuista, avendo fatto le scuole dai gesuiti. Ma più che altro se ne serve per divertimento, un mondo pieno di senso nel mondo senza senso della sue scorribande. Tutte linguistiche, esageratamente – Joyce è il felice paroliere della corrispondenza con Pound. Che cosa voleva Joyce narratore? Eco stesso lo dice, anche questo: “Che il lettore comprenda sempre attraverso la suggestione e non per mezzo di affermazioni dirette”. E la musicalità, “che risulta così bene quando si ode il testo inciso direttamente da Joyce”.
In questa che è la parte viva di “Opera aperta”, estrapolata dopo la prima edizione, e resta la monografia più “profonda”, certamente la più impegnata, su Joyce in italiano, Eco si affanna a spiegare che Stephen, il primo “eroe” di Joyce, è scolastico ma in realtà non lo è. Che le cinque poetiche fino ad allora, 1962, individuate dell’“Ulisse” sono rovesciabili, e le sei o sette di “Finnegans Wake”.  Che “Finnegans” è vichiano, ma in realtà non lo è – e anche molto bruniano, da Giordano Bruno, come tutto Joyce. E alla fine non si è imparato nulla. E non si è indotti a leggere Joyce. Peggio se si scende nei particolari.
Eco ci dice che nel cap. “Eolo” “vengono impiegate tutte le categorie retoriche in uso”, e le elenca in sei o sette righe, “tanto per citarne la metà”. Vuole l’“Ulisse”, epifania del caos, ordinato secondo canoni, “schematismi”, anche se molteplici – “Matteo da Vendöme o Everardo il Tedesco si sarebbero compiaciuti di fronte alla regola ferrea che regge il discorso del’Ulysses”. E ha pagine lunghe su temi brevi. Il flusso di coscienza, per esempio, come percorso euristico e non tecnica narrativa? Anche il “nichilismo in un ordine irragionevole” denunciato da Blackmur, dopo Jung e Curtius, a prima vista così evidente, suscita perplessità. Per uno come Joyce che sempre scrive, cioè ordina, e non fa altro e non pensa ad altro, proponendosi nientemeno che di penetrare babele, rifacendola.  “Finnegans” non ha poi bisogno di spiegazioni (poetiche): “È un mahjong”, diceva Joyce.
Ogni libro di Eco si rilegge come un libro di Eco, e non come l’anamnesi o la paràfrasi di qualcosa. E dunque anche il suo Joyce si può rileggere come un gioco. Quasi la caricatura, però, del libro colto. C’è anche il vezzo fastidioso degli “a parte”, traslato dal teatro nella pagina tagliandola in due, quella di sopra a corpo doppio, in spazio variabile sulla base di quanto si vuole dire sotto, in nota, cioè accessorio, e quindi a corpo minuto, ma invariabilmente la parte più godibile (leggibile, interessante). Per esempio sullo “schema trinitario” sappiamo per caso, in nota, in due parole, del dato “biografico e psicologico” del “complesso di tradimento presente sempre nella vita privata di Joyce, del suo gusto quasi masochistico dell’adulterio subíto”, mentre Joyce “scambista” sarebbe tanto più succulento – mentalmente si capisce, come la celebre Catherine M.
Umberto Eco, Poetiche di Joyce

lunedì 27 maggio 2013

Problemi di base - 143

spock
Borussia-Bayern e Roma-Lazio, è la stessa Europa?

È twitter che crea il personaggio o è il personaggio che crea twitter?

È il messaggio che fa i followers o il personaggio che fa il messaggio?

Grillo dove li trova?

Chi inquina di più a Taranto, il siderurgico o i giudici?

Pene d’amor perdute con la clonazione?

Anche i generi, maschio-femmina, finirà la contesa?

I leder socialisti europei, tutti uomini, hanno terze e quarte mogli molto giovani: è un rimedio alla crisi del socialismo o ne è l’origine?

spock@antiit.eu 

Tutte verità, cioè nessuna

I cultori dell’“amico” Vargas hanno di che esilararsi: Fred non ha scritto un giallo ma un trattato di filosofia. Per sgonfiare alcuni secoli di filosofia. Analizzando, nientemeno, il “il senso della vita”, con un tour de force sul nulla – sull’idea stessa di trattato.
Ce n’è per tutti, anche per i contadini: “A ogni terreno i suoi prodotti”, d’impeccabile originalità, dopo il “concetto vitale” del “verme di terra”, il verme. Con gli accorgimenti del genere trattatistico: “Ci ritornerò su” e “Vedi sopra”. C’è l’amore, naturalmente, in tutte le sue forme grammaticali: “Come mancarlo”, “Come evitare di mancarlo”, “Come essere amati dall’essere amato”. Ci sono i figli, le sorelle, i nipoti, i viaggi, le vacanze, che più spesso non si fanno, e la guerra (“senza nemico l’individuo non sa più chi è”). Con problemi non facili: il “Principio dell’attesa”, l’“excretum”, che purtroppo è giornaliero, il “Principio dei contrari”. Alcuni concetti controversi: la pressione, l’ultimatum, il “Concetto di gambero”, il “Concetto del pitone”, il Rimprovero (sottocategoria: la solitudine compatta). E sicure perle di saggezza: “Perché la sabbia, più si stringe, più se ne va?” “Il mulino macina le sue proprie pietre”.
Un esercizio d’iperletteratura, al termine del quale, dopo le quasi cento pagine, non avete letto niente. Cioè, non avete incamerato niente. Del resto Fred non chiede niente, tre euro in francese, due caffè a Milano - in Italia costa quattro volte tanto ma non è colpa sua (l’originale ha anche un titolo diverso, “Piccolo trattato di tutte verità sull’esistenza”, garantite cioè).
Fred Vargas, Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza, Einaudi, pp. 116 € 12

domenica 26 maggio 2013

Contro la morte, niente

Nella vita severa del nobile fondatore della trappa, con un passato da libertino, Armand Jean Le Bouthillier de Racé, 1626-1700, morto all’abbazia della Trappe, da lui ordinata severamente, molte proiezioni personali di Chateaubriand. Un’agiografia dolente. Più autobiografica delle “Memorie d’oltretomba”: qui lo scrittore è davanti alla tomba. Un passaggio che accelera, poiché rifiuta la vecchiaia, ma non accetta.
François-René de Chateaubriand, Vita di Rancé

Secondi pensieri - 142

zeulig

Autentico – L’autentico non si cerca nella sofferenza – sono ladro per esser povero, etc. – ma nell’invenzione. Di una poesia che è finzione che si accetta. E allora tanto più vera: dice, attrae, innova.

Si connota nel senso di veritiero, reale, rispondente alla vera “realtà”.
È concetto tedesco, per questo indefinito. È inautentico, che all’epoca era anche il disusato filisteo, molto del moderno fra gli scrittori poi detti della Mitteleuropa, o della fine del regno, da Hofmannstahl a Musil.
Adorno, che molto ne scrisse, lo fa sinonimo di artificioso, l’essere dell’arte – lui che i cultori chiamano l’ “esteta incorreggibile”: un gergo, “il gergo dell’autentico”. In musica, nelle arti visive. In alternativa all’inautentico che era il capitalismo – parliamo del 1950.
Autentica in letteratura è in realtà l’invenzione. Allo sbando (libera) ma non contro natura o contro tendenza. E non necessariamente artificiosa. Non lo è anzi in senso proprio, quando è slegata dalla “giustificazione” – oggi dal dolore, la sofferenza, la povertà, lo sfruttamento, specie nel mondo che meno ne soffre. Da ultimo nel neo realismo, che non è morto, e anzi dilaga, ma forte dal romanticismo “maledetto”, dal maledettismo. Anzi dal primo romanticismo, di Brentano, non a caso finito bigotto, e Arnim. Quando la fantasia si riconosce per essere voluta, artificiosa.

In tedesco è eigentlich. Che è anche “precisamente”, “realmente”, “appropriatamente”, “specificamente”, “in definitiva”, “in fondo”, “in pratica”. Un intercalare, proprio perché  indefinito. Derivato da eigen, proprio a, con costruzione quasi siciliana, “uguale allo zio”, eigen più dativo. Da cui Eigentum, la proprietà, anche intellettuale, titolarità. Non invece nel senso di pulito, o di ciò che è specifico, speciale. Che è l’autentico italiano.

È un residuo dell’esistenzialismo, che ne ha fatto il proprio dell’uomo, il suo fattore (valore)  distintivo. Ma con un senso specifico in Heidegger, la sua Sorge, la cura.  L’autenticità, dice Heidegger, il prendersi cura, è simulazione: reticenza e finzione. Su questo il filosofo del chiaroscuro e del celarsi è esplicito: “Non bisogna farsi ingannare, a causa della valenza etica negativa della menzogna, sul senso del tutto positivo che essa ha nella strutturazione di determinati rapporti concreti”.
Meno problematico (più onesto?) in Jaspers, “Psicologia delle visioni del mondo”, 1918, ma allora come mnemotecnica: “L’autentico è ciò che è più profondo in contrapposizione a ciò che è più superficiale”, quello che è “in fondo” alla psiche rispetto a quello che in pelle. Mai puro peraltro, sempre mescolato all’inautentico. Come non detto.

Poligamia – La filosofia se ne disinteressa, come dell’istinto volage in genere, dell’incostanza – la tirannia della naturale insocievolezza (ma naturale non è, per l’uomo, la compassione?). Schopenhauer, che dell’amore scrisse la metafisica, la usa in forma di poliandria. Volendo ravvivare la natura, che ripetitiva genera tanti uomini quante sono le donne, ideò il sistema variabile a scalare della donna in uso a due uomini, da surrogare via via con una più giovane.
Proposta migliore se ne potrebbe ricavare dai cavalli semibradi, tra i quali la poligamia è diffusa ma non la comunione delle giumente: lo stallone, rinchiuso quando la forza monta con una dozzina di femmine coetanee e poi da esse separato, sa ritrovarle alla nuova stagione degli ardori, le infedeltà equine sono rare. Questa sfuggì a Schopenhauer – ma è pure vero che soddisfare una dozzina di fedeltà non è impresa lieve.

Preghiera – “La preghiera fa i miracoli”, ama dire il papa Francesco. O non il miracolo è la preghiera, che è una forza di auto convincimento? Come, nei riti collettivi, il peptalk, l’inno di battaglia. L’invocazione di Dio o dei santi come una forza di autosuggestione. “Tu non puoi supplicare Dio con le preghiere” è verso di Jim Morrison, quello dei Doors, un cantautore dunque, sregolato (morrà di eroina): ottima teologia.

Si prega in ginocchio ma più spesso in cammino. Sul marciapiedi. A Roma è frequente fra tante edicole di devozione, in particolare tre o quattro della Madonna del Divino Amore, quella della “Dolce Vita”. Una devozione dopo cinquant’anni, se possibile, moltiplicata. Le pareti tappezzate di ex voto nel santuario non si contano. E si estende, invece di collassare, l’uso delle famiglie estese. Ricche di prozii e biscugini, di padre e di madre, di fare il Primo Maggio al santuario, sulle panchine e sui prati. Si prega anche in gita.

Sette – È un numero primo, come il tre, ma non è questo che fa la sua fortuna – pure il cinque lo è, mentre non lo è il quattro, che è invece altrettanto pesante nella numerologia.

Si vuole introdotto nella classicità da Pitagora, con la dottrina dei sette pianeti, che non era in uso presso i greci bensì presso i fenici che si erano insediati in Grecia. Nietzsche, “Il servizio divino dei greci”, pp. 29-31, ha moltissimi esempi di “adozione” del sette a un certo punto della storia greca. La questione storica è quindi chiara - il paradigma della storia greca è da alcuni decenni sottoposto a radicale revisione, dopo Arnaldo Momigliano cinquant’anni fa (ma già il fantasioso Bérard aveva le idee chiare, il suo “Les Phéniciens et l’Odyssée” è del 1903): non più il caso isolato e la fortunata eccezione, ma l’esito fertile di un connubio composito.
Di sette è piena in effetti la Bibbia. Ma non al modo come vogliono i commenti vaticani, che “il sette nelle Scritture indica un numero grande, e moltiplicato indica un numero indefinito”. Sarà “la semitica totalità” di Ceronetti. Ma c’è anche nel paganesimo. E nel cristianesimo: i sette diavoli di Maddalena, le sette parole di Cristo in croce - oggetto di appassionata trattazione di san Roberto Bellarmino, quello che invece a Galileo contestava la scienza. Sette anche i gradini della scala di sant’Agostino per valutare la capacità di comprensione dell’anima.
Tutto è sette nell’“Apocalisse” (Sigilli, Angeli, Trombe, Segni, Lampade, Chiese, Coppe versate), opera di san Giovanni di Patmos patrono della massoneria – che il pio Renan definì “libello radicale contro l’impero romano”, e l’erotologo inglese D.H.Lawrence, figlio di minatore, “un’orgia di mistificazione al lavoro da quasi duemila anni” per minare l’aristocrazia del Cristo, o il carattere individuale della salvezza, mediante la sobillazione delle masse (è “metafora del crollo del capitalismo” per H.M. Enzensberger).

zeulig@antiit.eu