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sabato 8 settembre 2007

Il vero antagonista di Bin Laden è Bush

"Torna Bin Laden" e l'Occidente gli prende le misure, di quanto ha la barba più lunga, di che colore, di quanto s'è invecchiato, come se con gli anni non s'invecchiasse.... Come un sarto, scodinzolante, che è del resto quanto di più immaginario questo Occidente concepisca. Il capo di Al Qaeda si conferma ottimo stratega, con un semplice video rubando all'America e al mondo l'11 settembre, la memoria, il significato, e in parte la stessa forza di reazione. Ma resta un terrorista, non ha campo d'azione alternativo, e in questo naturalmente è ora debole.
Il terrorismo è efficace sul fattore sorpresa, dopo non fa più paura, per quanti morti possa provocare, e inevitabilmente s'insterilisce. Può prosperare, con le sole armi del terrorismo, se non viene confrontato, come avvenne in Italia coi governicchi di Andreotti e Berlinguer. Bin Laden ha trovato Bush, che, per quanto sempliciotto, o forse perché è un semplice, gli ha risposto con la stessa ferocia, da Guantanamo ai tanti Abu Omar dell'Europa (infiltrazioni, deportazioni, deportazioni a fini d'infiltrazione, l'arma contro il segreto è la confusione). Non è una questione di principi o di onore, e Bin Laden lo sa come Bush, entrambi uomini di religione, questo lo possono credere solo gli sfiancati europei, e sul campo della forza Bin Laden deve perdere, lo sa.

Il "tormentone" di Rinaldi

Giuseppe Leuzzi
“L’Espresso” cattura l’antipolitica reiterando la vieta notizia – ma fino a ieri era tabù – che politici, giudici, generali e prefetti, nonché i segretari di tutti costoro, beneficiano a Roma di affitti irrisori, diventando con le cartolarizzazioni proprietari di belle case a prezzi ridotti. È il genere del “tormentone” giornalistico, per cui una cosa più se ne parla più è vera, che domina la stampa da un ventennio.
E' Claudio Rinaldi, l'ex direttore dell'"Espresso" morto due mesi fa, che ha rinnovato il “tormentone” nella forma che fa testo per i maggiori giornali: cinque articoli a numero contro il personaggio sotto tiro, e uno di rammarico, svariando tra il personale, le testimonianze, le indiscrezioni, le ricostruzioni, i pentimenti, e uno-due “onnisti”, di psicologia, sociologia, scienza politica, etica, economia, diritto. Cominciò all’“Europeo” negli anni Ottanta contro i socialisti e Craxi, concludendo in un decennio felicemente la sua campagna. La riprese negli anni Novanta, con successo più limitato, contro D’Alema, il “Dalemone” mezzo berlusconiano. Ma altri obiettivi meno impegnativi ha colpito tra i due (Sofri, Previti, etc.). A opera di un giornalista che si professava demitiano, e anzi Ciriaco De Mita è andato a intervistare nella sua magione dorata - si spera placcata - a Nusco in Irpinia.
È una forma di giornalismo non nata con Rinaldi. Ma da lui gestita in modo tanto aggressivo che le vittime finiscono per identificarsi nei personaggi e le situazioni da lui montate. I socialisti non erano tanto corrotti quanto Rinaldi ogni settimana faceva scrivere, né D’Alema è tanto impolitico e malpensante come Rinaldi l’ha fatto descrivere in diecine di articoli. Ma alla fine i socialisti sono finiti tutti corrotti, e D’Alema parla e si muove come Rinaldi l’ha voluto, come l’elefante tra le cristallerie. Nel 1988, al primo arresto di Adriano Sofri, Rinaldi, che gli era stato compagno e di cui Sofri diverrà collaboratore, guidò la campagna di demonizzazione – memorabile un articolo in cui venivano trascritte le telefonate con cui gli amici di Sofri si mobilitavano per la sua difesa, una pubblicazione che in altro ambito si sarebbe detta intimidazione.
Nelle determinazione con cui Rinaldi l’ha praticato il “tormentone” si dà però il ruolo di giudicatura: una magistratura tanto di parte, sotto l’alibi del giornalismo di denuncia, quanto insindacabile. Fino ad applicare a sproposito il suo argomento principe, la “questione morale”. Il punto di forza di questi giornalismo è accusare il Nemico di turpitudine: corruzione, concussione, mobbing. Per poterlo fare naturalmente ci vuole cuore pulito. Ma non è questo il caso nel “tormentone”, che raramente è una prova documentata, più spesso si costruisce, si “monta”, con i condizionali, le parole virgolettate del dico e non dico, le insinuazioni, le forzature di titoli e sommari rispetto al testo, le carte di cui non si dà la provenienza. Che possono anche venire da rivali politici, imprenditori falliti, agenti doppi, informatori. Molto diverso dal giornalismo di denuncia, nel quale c’è soprattutto ricerca, e dei documenti esibiti si acclara la provenienza.
Questa non è a sua volta un’insinuazione, c’è una prova. Il giornalismo di denuncia è politico, ed è d’opposizione, per definizione. In Italia l’opposizione non è facile perché, a parte le parentesi berlusconiane, non ci sono mai governi di destra. Un giornalismo di denuncia in Italia dovrebbe essere di destra, e questo non è il caso: solo un 10 per cento delle copie vendute, e un 3-4 per cento dei telegiornali è di destra. È quindi un tipo di giornalismo che, a parte la quota anti-Berlusconi, si esercita a sinistra. Non è male. Ed è a sinistra che Rinaldi ha colpito, con Craxi, Sofri, D’Alema. Ma l’obiettivo del giornalismo di denuncia è la verità storica e il progresso sociale e civile. Mentre Rinaldi ha solo ottenuto di azzerare le novità politiche che potevano insidiare la struttura di potere post-bellica, attorno alla vecchia e nuova Dc – ora Prodi a sinistra e Berlusconi a destra. Non c’è verità e non c’è progresso, ma il trionfo del vecchio - della politica degli amici - a Milano, nelle banche, nelle Fondazioni ex bancarie, nelle Autorità, nei grandi gruppi, Telecom, Eni, Enel, e perfino in Alitalia e Sviluppo Italia.Quanto a Berlusconi, d’altra parte, bisogna dire che è il nemico di Carlo De Benedetti: sono troppi gli affari che gli ha soffiato, e molto più lucida e trasparente la sua patina d’imprenditore di successo (trasparente si può dire di Berlusconi solo per scherzo, ma al paragone con De Benedetti è possibile: nessuno dei suoi dipendenti e dei suoi soci ci ha rimesso, per quanto piccolo azionista). Alla fine, il problema dei “tormentoni” alla Rinaldi è solo questo, il ben noto problema se la questione morale può essere agitata da e per conto di De Benedetti. Infatti la novità del tormentone case è perché “L’Espresso” lo cavalca ora, dopo averlo a lungo rimosso. Forse per eliminare gli avversari scomodi all’asse democratico Prodi-Veltroni. Oppure… Il solito chiacchiericcio, insomma, né informazione né politica, non quelle "morali".
Con un proscritto d'obbligo, poiché il genere del tormentone è legato ai dossier, e i dossier, segreti, anonimi, sono di natura inaccettabile. Ogni numero sei pezzi contro la persona presa di mira, fino alla sua distruzione, sono lo schema del tormentone. Che a Rinaldi è riuscito con tutti, eccetto Cossiga. Contro il quale pure si è esercitato per sette anni, 350 numeri, duemila articoli. E questo pone una domanda: chi era Rinaldi? Chi erano le sue fonti. Contro Andreotti, viceversa, altro beniamino delle informazioni riservate, non ci ha tentato.

venerdì 7 settembre 2007

Il nuovo Partito nasce vecchio

L’edizione palermitana di “Repubblica” fotografa il nuovo Partito Democratico nelle persone, da sinistra, di D’Antoni, Violante, Lumia, Cardinale e un Salvino Pantuso. E uno si chiede: “È possibile?” Lo stesso giornale sembra scoraggiato, che la foto taglia e illumina non nel modo lusinghiero con cui accompagna da due mesi i leader del nuovo partito. Lo stesso avveniva dieci giorni fa in Calabria, dove il nuovo partito si beava della visita di Veltroni: lo scoramento penetrava anche la grafica.
Veltroni è stato in Calabria non per lanciare la sua candidatura, non da quella piazza, ma per sanzionarla, di fronte a una base elettorale che solo di questo si occupa, di chi andrà a comandare, e quindi è o si finge riottosa. C’è andato peraltro nel giorno della Legalità, rubandole la scena, alla Legalità, per la quale tanti soldi locali sono stati spesi, a carico dell’erario naturalmente, non foss’altro per accogliere e mantenere le scorte, se non il pubblico. Senza portare nulla in cambio, ma senza scandalo. Veltroni perpetua l’eterna parabola dei finanziamenti al Sud, che in realtà sono sfruttati dall’Italia. Ma è per questo che ha sbaragliato ogni concorrente, per questa manifestazione di potere.

L'Antimafia più buona del mondo

Il giudice Nicola Gratteri, autore del best-seller “Fratelli di sangue” sull’onniprensenza della ‘ndrangheta, la mafia di Reggio Calabria, dice orgoglioso a Radio Rai: 1) siamo la migliore antimafia del mondo; 2) i magistrati italiani hanno poteri che nessun altro ha. A questo punto non si sa perché la mafia prospera, se non per una propensione alla cattiveria che cresce evidentemente a dismisura con l’apparato repressivo.
Il giudice parla anche della faida di San Luca e della strage di Duisburg. Lamentando che le indagini vanno a rilento perché, più o meno, “i tedeschi non ci sanno fare”. Resta da spiegare perché i 32 arresti a San luca quindici giorni dopo la strage invece che quindici giorni prima. Lasciando fuori, tra i tanti, una signora che fa la truccatrice a Roma e dalle intercettazioni risulta legata a uno dei clan in guerra. E perché i tedeschi si lamentano che i due elementi chiave dell’indagine, l’uomo dell’identikit e l’iniziazione mafiosa di uno dei ragazzi uccisi, il giorno dopo essere stati comunicati agli inquirenti italiani sono usciti sui giornali.
Sentirsi al centro del mondo non è un delitto, certo. Ma non è solo una questione di stile. Il giudice Gratteri parlava alla radio ieri, lo stesso giorno in cui il Libro Verde del ministro dell’Economia certificava che per una sentenza di divorzio ci vogliono in Italia due anni, e per un reato di natura commerciale quattro anni. Mentre le spese per la giustizia sono cresciute in quindici anni del 140 per cento, e il numero dei magistrati, già il più alto fra i paesi europei, cresceva del 15 per cento. E due magistrati italiani su tre si pagano uno stipendio di qualifica superiore alle funzioni svolte – tutti peraltro in carriera per anzianità e senza criterio di merito.

giovedì 6 settembre 2007

Il problema che Hitler non aveva

I nemici degli (ex) comunisti sono da Roma a Torino le puttane e i lavavetri al semaforo. Che da alcuni anni sono zingari - Lenin dev’essere morto. Un progresso dunque c’è, il quadro degli eliminandi si è dimezzato, c’è una lezione se Dio vuole della storia e gli ebrei e gli omosessuali oggi sono accettati. Per puttane e lavavetri i vigili urbani potrebbero anche bastare, non ci sarà bisogno di Einsatzkommandos. Con un problema, però, che Hitler non aveva: non ci sono i campi, spazi per i campi, tutti gli spazi disponibili sono stati presi nelle città degli ex compagni dalla rendita urbana, e dunque bisognerà notificare le condanne, gli arresti, le espulsioni a individui senza domicilio, e spesso senza nome.

Lenin al semaforo, dieci anni dopo

“Seguo la lezione di Lenin “, ha detto qualche giorno fa a “Repubblica” il sindaco di Firenze Domenici, che multa e imprigiona i lavavetri ai semafori. Chi l’avrebbe detto, a Firenze. Con tanto leninismo, per di più, e tanto perbenismo che è solo una copertura di un gigantesco vaso di Pandora di cattiva amministrazione, nel migliore dei casi. Di una città di cultura che è diventata una polverosa piazza di affaristi. Dove gli affari, tra l’altro, si fanno passando prima alla sede del Pci-Pds-Ds.
Domenici non fa che seguire Zanonato e Cofferati, e dunque non c'è scandalo? C'è, perché la Firenze di Domenici e dei suoi predecessori (ex) Pci è un borgo nemmeno tanto grasso, ma senza carattere, preda della rendita fondiaria, che ne ha spostato il cuore, anonimo, polveroso, verso Sesto e Prato. Un capitale immenso è stato bruciato, della città capitale d'arte, del gusto, anche della politica, per il guadagno dei "ceti emergenti", che tanto sono generosi col Partito a patto di poter costruire. E c'entra perché questo Cofferati, per simpatico che sia, dieci anni fa sberleffò e affossò una proposta ben più sensata del sindaco di Milano, che "togliamoli dalla strada", diceva dei pellegrini senz'arte, "diamo loro un minimo di mestiere e se possibile anche un'attività". "No", disse Cofferati, "il lavavetro deve stare al semaforo". Perché? Perché il sindaco Albertini era di destra, mentre Cofferati, come ogni buon (ex) Pci, arriva alle cose dieci anni dopo.

Un giornale per cresimandi

Si può dire “la Repubblica” il giornale della Confermazione. Dei cresimandi, insomma, con compunzione anche se senza unzioni, di sinistra naturalmente, e progressisti. Non fa che confermare i suoi lettori, su ogni aspetto che tratta: tutti rubano, eccetto noi, il pianeta è allo sfascio, Bush è un fallito, o l’America alternativamente, Berlusconi una macchietta e un cretino, l’Inter è meravigliosa, i libri costano caro, la luce pure, tutti tramano golpe, eccetto noi, la mafia è ovunque, eccetto che in noi. Con una quota d’identificazione tra lettore e giornale che non ha paragoni e probabilmente è senza precedenti: il lettore compra il giornale sicuro di trovarci quello che ci trova. Non si spiegano altrimenti le dieci pagine quotidiane da un paio di mesi su chi sarà il capo del partito che non c’è, un non argomento che evidentemente appassiona il Repubblicofilo. Un giornale pastorale è un’idea non male. Il problema resta la laicità.

Il dovere dell'ipocrisia

Un professore americanista a Rai Tre critica il viaggio di Bush a Bagdad, dileggia gli Usa in Palestina e nel mondo arabo, critica la globalizzazione e gli interessi petroliferi, e già che c’è ci mette i messicani a un dollaro l’ora, Chàvez, Faletti e le riserve indiane, Blair che fa la concorrenza a Condoleezza Rice per la pace in Medio Oriente, e gli inglesi che si sono liberati di Blair. Non credendoci, evidentemente, se è americanista. Per un pubblico che probabilmente non ci crede, gli italiani sono stati bene nella pax americana. Perché lo dice allora? Per svolgere il compito. Quale compito, assegnato da chi? Il compito pauperista, che la Rai assegna a chi ci vuole andare (tutti cattivi, noi siamo poveri ma buoni…).

martedì 4 settembre 2007

Il Mondiale fu grazia della Madonna di Polsi

La vittoria azzurra al Mondiale 2006 sarebbe opera della Madonna di Polsi. E anche la ‘ndrangheta potrebbe non essere a essa estranea, la mafia dell’Aspromonte - quest’aspetto della questione resta controverso, ma se il Ct della nazionale francese Domenech vuole fare ricorso contro la squalifica dell’Uefa in vista della partita di sabato ha ampio materiale da presentare.
Che la vittoria dell’Italia al Mondiale di Germania sia stata opera della grazia incondizionata divina non c’è dubbio, nemmeno i tifosi lo negano. Ma c’è di più, secondo lo speciale della rivista del Parco Nazionale dell’Aspromonte, “Aspromonte, Vivere il Parco”, dedicato all’Incoronazione della Madonna di Polsi nel 2006 e distribuito domenica alla festa annuale: il signor Antonio Pelle, proprietario dell’albergo dove gli azzurri alloggiavano, il Landhaus Milser di Duisburg, aveva raccomandato l’Italia alla Madonna. “Tutti sappiamo com’è andata a finire, e Antonio ha prima fatto dono al santuario della maglia di Gattuso, e successivamente è salito a Polsi per ringraziare la Madonna della Montagna”. Il riquadro della rivista si adorna di due foto, del signor Pelle con la Madonna, e con la maglia di Gattuso. Ma il signor Pelle è originario di San Luca, il paese della strage di Duisburg, e tanto basta per associare al suo nome la ‘ndrangheta. Egli stesso rassegnato se ne faceva profeta, con “la Repubblica”, “il Giornale” e altri organi di stampa all’indomani della strage. Gli Antonio Pelle, solo a San Luca, solo sull'elenco del telefono, sono nove, e uno, "Gambazza", è capomafia acclarato, del clan Pelle-Vòttari. Ma lo scongiuro non ha evitato all'imprenditore l’infamia.
Il quotidiano “Calabria Ora” ha riferito il 26 agosto di un’indagine della polizia tedesca nel 1997 sulla provenienza dei fondi per la costruzione del Landhaus, e sull’attività ricettiva dell’albergo. Secondo il giornale, l’indagine avrebbe accertato che il finanziamento dell’opera, benché quasi tutto pubblico, europeo, federale, del Land Nord Reno e della città di Duisburg, era regolare. Ma che l’albergo sarebbe servito alla latitanza di un capo clan, Antonio Romeo. “Calabria Ora” prudente non faceva il nome né dell’albergo, né dei proprietari. Ma l’avvocato Francesco Pelle, fratello dell'imprenditore, ha voluto scrivere al giornale una lettera di precisazioni, negando ogni addebito ad Antonio. Che, a questo punto, avrà anch’egli di che raccomandarsi alla Madonna.