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venerdì 1 gennaio 2010

Il vero capo del governo è Napolitano

Preciso, spedito, sensato, il presidente della Repubblica ha dato per san Silvestro una lezione di politica quale l’Italia da tempo ha scordato e non ama. Che tuttavia s’impone, la qualità s’impone. Soprattutto al governo, che ancora stenta a crederci: Napolitano ha spiegato cosa il governo ha fatto, il vertice dignitoso dell’Aquila, le missioni di pace dei suoi militari, le riforme varate, quelle in corso, quelle da avviare, compresa la non rinviabile riforma della giustizia. Per il bisogno che ha il presidente della Repubblica di tenersi il governo eletto e, sperabilmente, farlo lavorare per l’Italia. E perché non se ne può più di un Berlusconi “ladro di voti”, che se ne approfitta per le sue noiose, incontinenti ciance, e per i bagni di folla a compensazione dei dispiaceri familiari.
Senza dirlo, e senza sicuramente volerlo, quale referente di una costituzione parlamentaristica di cui è e vuole essere il depositario, Napolitano ha “rappresentato” l’esigenza di un esecutivo in grado di governare. A suo modo, cioè con le idee, ma forte di un sicuro status costituzionale: la presidenza della Repubblica è la carica politica più garantita delle istituzioni (i magistrati sono più garantiti di lui, anche se felloni accertati, ma quello è un altro discorso, non li eleggiamo). A suo modo Napolitano ha detto: il presidente sono io, dell’Italia e quindi del governo. La riforma che non ha citato ritenendo probabilmente la più utile e urgente, per rimediare a quel “governo attraverso la crisi” che da troppo tempo s’è imposto all’Italia aggravando i ritardi e le colpe della funzione pubblica - l’esecutivo è il punto debole sempre scoperto della Costituzione, fin dai tempi di De Gasperi, roba da quarta Repubblica francese, quella per intenderci finita cinquant’anni fa: il presidente del consiglio non ha nessun potere costituzionale, nemmeno quello di dimettere un ministro lestofante o traditore. Notevole tra parentesi la non dissmulata insofferenza per il presidente della Camera Fini, l'unico non citato, per l'uso strumentale della carica a fini di bottega.

Vuoto di critica per Alda Merini

Poesie religiose, poesie d’amore: questo “Carnevale della croce” mette insieme, a cura di Ambrogio Borsani, “ventitrè poesie inedite”, e un florilegio delle ultime raccolte di ispirazione religiosa. È un’antologia affrettata (alcuni degli inediti sono nelle raccolte Acquaviva e Crocetti), in morte della poetessa, ma centrata sui suoi due temi, l’amore e la croce. E sottende la verità, che la brama d’amore della Merini, anche il più animale, quello che la raccolta cortiana “Vuoto d’amore” documenta in manicomio, è sempre a suo modo religiosa: è mistica e non è panica, è sempre indirizzato, anche quando non lo dice, a una particolare sensibilità religiosa, che è quella di Gesù e del Cristo, dell’uomo vivente e dell’uomo in croce (il sacro è legato al corpo, lo insegnava Giovanni Paolo II negli incontri del mercoledì, ma non ce n'era bisogno). Il titolo, “Il carnevale della croce”, riprende il commento finora più denso benché breve sulla poesia della Merini, quello di Luca Bragaja, che ha ordinato nel 2003 la raccolta “Nel cerchio di pensiero”: la poesia di Alda Merini come “un violento «carnevale della crocifissione», culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano”.
Ma la cosa, ogni cosa di Alda Merini, va approfondita. La pubblicazione einaudiana avrà anche il merito di sottolineare, sempre per omissione, l’assenza di un approfondimento critico della poesia meriniana, l’assenza del Critico – ogni autore è il suo Critico, si sa, l’assestamento critico duraturo delle sue poetiche, dei loro esiti. Molto gettonata per i fatti della vita, la malattia, la solitudine, la povertà, gli amori, il manicomio, i matrimoni, la quasi riduzione a barbona, che lei stessa in vecchiaia ha dovuto alimentare per sopravvivere, l’amore di Manganelli e Quasimodo, o del pittore, o del ballerino, o dell’editore, il vino, i preti bellissimi Da Piaz e Turoldo. Ma mai studiata. Maria Corti, che l’ha seguita dagli esordi, ne dà utili notizie nell’introduzione al “Vuoto d’amore”, ma più, anch’essa, per montare il personaggio, “la cronaca” che dice di voler mettere da parte, e la sistemazione critica dell’“eccezionale sistema metaforico della Merini” rinvia, “non è questo lo spazio”, limitandosi al riduttivo “poesia istintiva e epifanica”. La mancanza è offensiva per una poetessa che “non esiste fuori della poesia”, come spesso di sé dice.
La storia di Alda è semplice. Ma neanche questa a ben vedere in tanto pettegolismo si dice: la si mostra marchiata dal manicomio, mentre era una bella ragazza, e la sua psicologia è a questa condizione legata. È la storia di una bella quindicenne, poetessa prodigio in ambiente milanese molto raffinato, Romanò, Spagnoletti, Luciano Erba, Turoldo, Maria Corti, che Manganelli si scopava il sabato pomeriggio nel pied-à-terre della Corti, o in camere a ore, dopo che aveva già avuto un ricovero per disturbi mentali, e talvolta portava a far vedere a Fornari e Musatti – chissà come analizzavano i grandi clinici questa minorenne. La poetessa adulta può perciò dire in “Alla salute”, la raccolta di versi e pensieri: “Alda Merini è stata in manicomio ma non è una pazza”. È anzi speciale. Per il senso religioso di ogni evento. E perché naturalmente dotata, da “ragazzetta” (l’apposizione di Pasolini, quando la ragazza prodigio aveva già ventitrè anni, è evidentemente per “chiara fama” – divulgata da Manganelli?) e poi dopo le lunghe degenze in manicomio, e perfino durante, del dono della poesia. Su richiesta ultimamente spesso degli amici, dalla ben intenzionata crudeltà. Una scrittura per evidenti aspetti automatica - “improvvisazioni” le definisce Bragaja, “di getto” Corti - e tuttavia consequenziale, per logica grammaticale e sintattica oltre che per musicalità. La parola come dono, tipica dei mistici, e di alcune forme di schizofrenia. E sempre densa, provvida di senso. Molte della sue ultime composizioni sono dettate al telefono agli amici, Arnoldo Mosca Mondadori, Giuseppe D'Ambrosio Angelillo, don Marco Campedelli, della parrocchia di san Niccolò a Verona, Alberto Casiraghi, Borsani, le voci che a periodi Alda sentiva amiche. “Il mistero di ogni apparenza è corona alla nostra fantasia”, dice del suo dono. Che si spinge a individuare “il suono dell’ombra”.
È una poesia anche esemplare del “lombardismo”, un uso preciso e quindi irreale dell’italiano, senza faglie. Che ha in Manzoni momenti insigni, e anche nella regolare irregolarità di Dossi e Gadda, benché artefatto. In Alda Merini fa parte della “dote naturale”, manifestandosi nei racconti de “Il ladro Giuseppe” quasi da scuola.
I racconti sono peraltro deliziosi, commoventi. Per dei trent’anni che si possono comparare utilmente con altri trent’anni famosi, quella di Ingeborg Bachmann, per il diverso crogiolo o ambiente letterario. Il che riporta al discorso iniziale: milanesissima e celebratissima, Alda Merini soffre anche lei della disattenzione milanese. Ha avuto estimatori sempre emeriti, grandi critici, editori di ogni specie, e da vecchia molteplici dame e cavalieri di san Vincenzo, e mai attenzione verso il suo lavoro.
Alda Merini, Il carnevale della croce, Einaudi, pp. 985, €11
Alla tua salute, amore mio, Acquaviva, pp. 128, € 9
Io dormo sola, Acquaviva, pp. 80, € 6,50
Nel cerchio di un pensiero, Crocetti, pp. 80, € 10
Il ladro Giuseppe, Scheiwiller, pp. 82, € 10,33
Vuoto d’amore, Einaudi, pp. 136, € 13

giovedì 31 dicembre 2009

Le colpe della Colpa morale

Sottile rilettura della Colpa, la colpa tedesca come teorizzata da Jaspers nel 1946: morale, politica e metafisica, secondo la nuova categoria dei delitti contro l’umanità, e quindi imprescrittibile, non più legale e personale. Jaspers è l’unica citazione, e solo per il titolo, “La questione della Colpa”. Ma la sua idea fa da contappreso a tutto il film. Qual è la Colpa di una ragazza di vent’anni, analfabeta, operaia alla Siemens, che nel 1940 si arruola nelle SS, e finisce guardiana di un campo di concentramento? La colpa è invece accasciante per il ragazzo suo tardivo amante di un’estate, che non rivela al processo a carico della donna per crimini di guerra la circostanza dirimente, il suo analfabetismo. E soverchia la donna stessa quando, all’ergastolo, impara da sola a leggere e prende i libri in biblioteca – si impiccherà il giorno prima di uscire per buona condotta, saltando dalla catasta dei libri.
Il finale è agghiacciante tra la bambina scampata al lager, che con le sue memorie ha portato alla condanna della guardiana, ora divenuta ricca e gelida analista, e l’ex ragazzo ora avvocato di successo e tuttavia fallito, cui non resta altro che l'identificazione con la morta amante dei suoi quindici anni. La conclusione tra i due è ovvia, che il lager cancella ogni umanità. Ma i ruoli sono rovesciati, tra l’ex vittima e l’ex carnefice, visivamente (nel decoro, il portamento, la sensibilità), e per il non detto della memoria: perché la bambina si è salvata, con sua madre, perché all’aguzzina è stato imputato un rapporto che non poteva scrivere.
Il regista di “Billy Eliot” narra molto bene l’adolescenza, la prima metà del film. La seconda metà è piatta, ma il tema è appunto poco filmico.
Stephen Daldry, The Reader – A voce alta

Era Céline fin da ragazzo

Un Céline accudito dai suoi fino al soffocamento, con molte spese (pianoforte, lingue, soggiorni all’estero, corredo militare) e non nella povertà. Che ha sempre “problemi di denaro”, specie per le donne. Che nella tarda adolescenza sono la sua unica occupazione: infermiere, anche anziane, attricette, incontri al caffè – al Café de la Paix dove s’installò per qualche mese nel 1916, in congedo malattia dal fronte, dava il nome di Kennedy. Noto agli amici per il “temperamento focoso”, e per “le clienti dei gioiellieri in là con gli anni” (Céline era stato apprendista dal gioielliere Lacloche), e per le “massaggiatrici di quarta pagina”. È per una donna, scrive agli amici nel 1915, che “fugge a Londra”. Dove ne deve sposare una. Da alcune riceve soldi.
È il Céline vero, in queste prime lettere, scritte e ricevute, tra i diciotto e i venticinque anni. Un po’ baro e un po’ no: fantasioso. È già anche scrittore. Céline non viene fuori all’improvviso nel 1932 col “Viaggio”, lo è nelle lettere al padre dal Camerun, a ventitrè anni, e con le relazioni sanitarie per la Fondazione Ford a venticinque. La vita miserabile (il missionario senza missione nella Guinea spagnola, la procedura per bere un po’ d’acqua…)dei coloni nell’Africa equatoriale è buon reportage, ma è anche, nella sua crudezza, Céline: muoiono come mosche, sopravvivono come larve, per un guadagno comunque irrisorio. È Céline pure nel razzismo scontato – non argomentato, non ideologico - verso gli africani, che sono “nessuno” (“trenta giorni senza parlare con nessuno”, cioè con nessun bianco, è un ritornello).
È un ritratto definitivo dello scrittore che queste lettere giovanili bizzarramente fissano, così come sono, senza apparati, con la sola nota d’inquadramento di Véronique Robert-Chovin, che è stata confidente di Lucette Destouches, l’ultima moglie dello scrittore, con la quale ha compilato dieci anni fa il video-libro “Céline vivant”.
Devenir Céline, Lettres inédites 1912-1919, Gallimard, pp.205, € 16

mercoledì 30 dicembre 2009

C'è Céline in Gadda

Fuori dalla scapigliatura (Dossi) e dall’espressionismo, categorie italiane, Renato Barilli, analizzando Céline, pone Gadda dentro una dimensione europea, culturale e stilistica, che tutto sommato più si confà allo scrittore, milanese di molteplici esperienze. Nel saggio, "Vitalità patologica di Céline", Gadda è, gaddianamente, in nota, sei righe che dicono tutto. Ma rientrava poi, nello stesso numero del “Verri”, per un lungo tratto insieme con Céline, nell’ampia recensione che Barilli fa di “Eros e Priapo”. La ribellistica è rivelatrice, dice Barilli: fatta salva la posizione giusta, antifascista di Gadda (dopo vent’anni….), di contro al bieco antisemitisimo di Céline, l’“omologia” è fortissima. Stilistica, perfino linguistica, e retorica: da entrambi i loro bersagli, Gadda e Céline fanno discendere la stessa colpa, la disgregazione della “sanità” di istinti e volizioni dei poveri ariani. Entrambi “positivisti in ritardo”, seppure “mossi da una disperazione irrimediabile” - che non potrebbe essere la contemporaneità, questa e non Proust, la disintegrazione di ogni speranza, sia pure positivista? Molti testi sono del numero speciale “Céline” dei “Cahiers de l’Herne”, 1965, quindi già ben noti ai cultori. Ma per altri versi resta storico il numero del “Verri” quarta serie, il 26, che Anceschi dedicò a Céline (la rivista del nuovismo è senza tempo - immortale? - ma questo “Céline” è del 1968). Intanto per la scelta dei testi dall’ammasso del quadernone de l’Herne: l’omaggio a Zola, la prefazione al “Semmelweis”, la fine dell’argot. E un saggio critico, tra i tanti, molto illuminante: già nel 1934, a un anno dal debutto col “Viaggio”, Céline poteva contare sull’analisi stilistica di Leo Spitzer, circostanziata (notevole in particolare per la categoria del “richiamo”). Ci sono poi, con le impressioni di Celati, le difficoltà del tradurre Céline di Caproni, e un lungo saggio linguistico di Anna Licari, una chicca fulminante di Franco Lucentini: l’invenzione di una mostra, “Céline e i celineschi” al Petit Palais, dove il futuro giallista tenta di liberarsi del fantasma ingombrante mettendolo al museo. E il saggio di Renato Barilli, per almeno due aspetti sempre magistrale. Il riconosciuto vitalismo di Céline è patologico perché è “vecchio”, è lo scientismo del secondo Ottocento trasposto in un mondo disintegrato. Céline è tutto d’un pezzo, argomenta Barilli, fin dalla sua prima opera, la tesi di laurea su Semmelweis: tutto vi è anticipato, in particolare il sodalizio col “vero”(con Semmelweis come poi con Plinio il Vecchio, Galileo, Harvery, Pasteur), “l’«io» basso”, la sensibilità sociale radicale, e la cifra stilistica del rendu émotif, l’imitazione fortemente introiettiva del parlato – tutto tranne il pessimismo che poi dilagherà. L’identificazione scientista col “vero” Barilli ritrova anche nei libelli antisemiti. Che palese rendono il limite di Céline, col “trionfo” di Proust cui lo stesso Céline a suo modo s’inchinava: “Il trionfo della complicazione semita su un rozzo schema deterministico, su un quadro di reazioni obbligate a pochi impulsi primari”. Céline è al suo tempo “minoranza”, anche se “agguerrita, stupendamente energica, affascinante”. È però una minoranza attiva. Dopo le catastrofi della seconda guerra Céline ritorna, argomenta Barilli, in un “abbassamento”, negli anni 1950 e 1960, “a toni e ritmi via via più accelerati e corsivi, bassi e volgari”. Barilli cita il picarismo beat americano, lo “stile basso” di Grass, gli esperimenti di “parlato” di Sanguineti e Lucentini, Arbasino al registratore. Ma soprattutto rintraccia più di un’identità in Gadda - è questa la seconda traccia ancora fertile, tanto più per essere rimasta inesplorata. 
“Il Verri” n. 26, Céline

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (51)

Giuseppe Leuzzi

“L’Alta Velocità fino al Ponte sullo Stretto”. Non è vero, non c’è un progetto e nemmeno un disegno, ma il ministro può dirlo, il “Corriere della sera” non gliene chiede ragione, e in Calabria e Sicilia l’annuncio viene celebrato.

Si fa una festa nel reatino dell’olio d’oliva. A cui partecipano specialisti e scienziati del settore. Si possono così ascoltare analisi spassionate del tipo: “L’olio spagnolo è connotato all’olfatto da inconfondibile piscio di gatto”. Vomitevole allora? No, al contrario, dev’essere connotazione di pregio, poiché l’extravergine spagnolo si vende ad almeno otto euro al kg, quasi il doppio che l’equivalente italiano – non si vende in Italia, ma nel Centro Europa sì, così pare. E il perché non è un mistero: è il marketing, che la puzza fa diventare un sapore.

Vita agra per gli emigrati interni della seconda ondata, intellettuale: insegnanti, infermieri, medici, ingegneri. Non amati al Nord, rifiutati al paese d’origine, invidioso, triste.

Sicilia
Camilleri racconta in siciliano la Sicilia senza trovarsi costretto dalla mafia. La lascia dove essa è, ai margini, nella sua mediocre vita parallela di violenze. Nei suoi romanzi e racconti il mafioso è un caratterista e non un protagonista. Dei cento, o quanti sono, casi criminali di Montalbano, commissario di polizia a Porto Empedocle, non uno è di mafia. La mafia c’è, ogni tanto se ne parla, ma non prende nell’economia della narrazione più di quanto prende nei problemi di ogni giorno. Anche nei sette, oquanti sono, romanzi storici di Camilleri la mafia non c'è. Sciascia, che ne è invece ossessionato, che ne avrebbe detto?
È che Sciascia viene da una cultura isolana, di paese. Racalmuto, il suo paese, ha questo motto: ““Muto e silenzioso\il cuor mio si rinvigorì ”. Camilleri è di cultura urbana. Viene da una città di mare, a ridosso della città capoluogo, per quanto modesta.

La Sicilia profondamente s’identifica al Gattopardo, al principe Lampedusa in disarmo: che tutto sa e nulla fa, se non nutrire il proprio ammirato misoneismo. Che ha un disegno preciso del mondo ma è misantropo e anche spregiatore di sé. Forestierista e sinceramente spassionato. Il suo unico affetto andando a una cugina canara, e a un cugino spiritista, che solo aspettavano di morire prima che finisse il capitale.

La Sicilia non ha nulla d’italiano, si legge a p.375 di “Tra amiche”, la corrispondenza Arendt-McCarthy tradotta da Sellerio. Mary McCarthy passa le feste di fine 1967 col marito dell’epoca in Sicilia, dodici giorni “gradevoli”, e il 26 gennaio 1968 ne scrive a Hannah Arendt da Parigi: la Sicilia “non richiama affatto l’Italia, salvo l’angolo di Taormina, che somiglia a Capri, fisicamente e moralmente. E non è nemmeno la Grecia. Forse è più vicina all’Africa del Nord, benché senza deserto immemorabile. Una linea continua di montagne sullo sfondo, e un tempo tipicamente di montagna, di tempeste alternate a un sole brillante. Molto fertile e verdeggiante, ciò che rende la miseria nera ancora più sorprendente”.
Era subito dopo il terremoto di Gibellina, ma pazienza. È del resto vero che, a dicembre, il tempo è alterno. Anche in Africa del Nord, dove Mary non è masi stata. Ed è vero pure che la miseria in Sicilia è sorprendente.
Ma le impressioni, al solito, sono miste, la bellezza non si sottrae: “Non è un paesaggio dolce, ma fratto e severo. Con un lato mitico come certe parti della Grecia… È una terra d’arcobaleni – magia dell’acqua: avevo dimenticato gli arcobaleni, che sembrano associarsi all’infanzia. Ne abbiamo visto uno straordinario, quasi incredibile”. Come al solito, i ricordi di viaggio dicono degli scrittori, ma non – se non poco – dei luoghi visitati.
A Taormina, davanti al teatro greco, Mary nota questo cartello: “Si prega di non scrivere sulle piante”.

Il feudo che non c’è
Si dice il Sud feudale, fa parte del linguaggio derisorio. Ma ne parlano anche molti storici, in chiave antiborbonica o solo grandi semplificatori. Feudo sta per cattivo, ma è anche un sistema socio-politico che purtroppo è mancato al Sud, eccetto in parte la Puglia. Altri storici ne parlano per dire invece fedecommesso, un sistema per cui si comprano e si vendono fondi, sulla carta, fra proprietari assenteisti. A metà Seicento, sui 2.700 centri rurali esistenti nel Regno di Napoli, oltre 1.200 erano infeudati a Genovesi. Prestatori di denaro, alla corte e ai nobili. Ciò avveniva ovunque nel Regno, ma soprattutto in Calabria, al punto che non c’è altro in quella regione, che non ha avuto il feudalesimo.
Il feudo è inalienabile. E impone doveri alle due parti, sudditi e signori. In Calabria e altrove invece sono documentati compravendite libere, cioè predatorie, di titoli di proprietà. A rendimenti decrescenti in assenza di qualsivoglia investimento. Dove non ci sono padroni, se non nomi distanti e assenti. Che non forniscono sementi, attrezzi, tecniche, mercati, non costruiscono strade né ponti, come un feudatario farebbe, non cercano l’acqua né la organizzano.
Latifondo sarebbe la parola giusta: conserva la carica critica ma risponde a verità, di proprietari assenti e ignoti, mutevoli. Solo in parte però. La Puglia, l’Abruzzo, la Campania, la Basilicata e buona parte della Calabria sono state a proprietà frammentata, anche eccessivamente, dalle alienazioni napoleoniche della manomorta ecclesiastica in poi, e anche prima, dalle alienazioni borboniche.
C’è indigenza e non sfruttamento. E c’è polverizzazione sociale, estrema, duratura, da cui il Sud non emerge. Che il dopoguerra ha elevato a sistema – assolto e intronato: "ci pensa mamma Dc", e questa è tutta la politica.

leuzzi@antiit.eu

martedì 29 dicembre 2009

Se Mourinho ci libera da Milano

Ha rimpolpato il suo contratto di un buon venti per cento, a 13 milioni di euro l’anno, cifra che non percepirà sotto nessun altro sole, e tuttavia ha nostalgia dell’Inghilterra. Al punto da avere urgenza di dirlo, nel giorno di Natale che pure da buon cristiano sa essere la festa della bontà. José Mourinho sarà lo Special One almeno in questo, oltre che per l’antipatia: che non sia il nostro Libertador, benché portoghese e serioso, colui che libererà l’Italia dal giogo milanese? Col ridicolo, poiché lo sdegno non fa breccia. Rifiutare i 13 milioni di Milano e di Moratti è un segno infine tangibile dell’insofferenza: non se ne può più, della prepotenza, della superficialità, del bigottismo.
Berlusconi dice, dal buen retiro della sue ville riunite: “Sono tornato a lavorare per l’Italia”. E il “Corriere della sera” pubblica, senza ironia. Lo stesso “Corriere” che non lascia tregua, unitamente alla “Gazzetta dello sport”, agli juventini nostalgici degli scudetti 2005 e 2006: le corti interiste del calcio li hanno decretati rubati, col superarbitro in busta paga al Milan, e questo basta, ogni settimana una reprimenda parte dai due grandi giornali contro la squadra torinese, benché sia ridotta maluccio. Mentre un allenatore che era stato cacciato dalla milanesissima Inter per fare posto a Mourinho, a caro prezzo, il superleggero Mancini, vince in continuazione con una squadra mediocre, sempre in Inghilterra. Che poi è la vera patria dei milanesi, via, che ci fanno in Italia? Il problema è che il Mourinho milanese fu lasciato andare via da Londra semza rimpianti.

Il suicidio di Khamenei

Non è la fine degli ayatollah, ma di Khamenei sì. Non subito, ma inevitabilmente. Con inevitabile indebolimento dello stesso regime religioso, se non in favore di un’alternativa laica che non esiste, la nuova borghesia essendo legata alla moschea. Ci sono delle costanti, nelle società consolidate e integrate, qual è quella iraniana, e l’uso perdente della forza è una di esse. Le morti di Teheran riaprono la spirale, con la serie di lutti che il rito sciita prevede e prescrive, che agiteranno la piazza a tempo indeterminato.
L’opinione internazionale non ne sembra cosciente. Si fa anzi l’esempio della durezza costante del potere centrale nella storia dell’Iran. Fino ancora a Reza Khan, il padre dell’ultimo scià Mohammed Reza, deposto da Khomeini nel 1979. Ma tra il padre, morto nel 1944, e il figlio si era creato un abisso, con l’occupazione americana, ideologica se non militare: le masse urbane alfabetizzate del paese, che sono quelle che contano, sono definitivamente democratiche. Gli ayatollah lo sanno bene, che ne hanno fatto il loro punto di forza contro Mohammed Reza. E lo sapeva lo stesso scià, che però non ha avuto la forza di liberarsi del regime di corruzione che lo attorniava.
Di questo tuttavia sembra ben cosciente Obama: il dipartimento di Stato ha sempre avuto sull’Iran migliori informazioni e valutazioni di tutti gli altri centri diplomatici e mediatici. Khamenei del resto, facendo sparare sulla folla, ha manifestato la sua incapacità a reagire altrimenti. Potrebbe proprio essere un caso da manuale del brocardo notarile “il morto si prende il vivo”: morendo, l’ayatollah Montazeri, di cui Khamenei è stato per molti aspetti l’usurpatore, ne segna la fine. Minacciare di morte i suoi oppositori è solo un modo per accelerarla.

lunedì 28 dicembre 2009

Se torna il filisteismo ebraico

Lascia in sala i più di ghiaccio, in altra epoca e in altre mani sarebbe un film dell’antisemitismo. Lo spettatore viene con la promessa di godersi la storia biblica del giusto Giobbe trasposta negli Usa, magari con qualche risata. Ma vi si irride tutto: le donne, la famiglia, la lingua, i riti, la religione. Col solo contrappunto, minimo, dello yankee col fucile, e dell’asiatico corrotto. Le donne sono stupide, i figli sciocchi, la confermazione si fa in sinagoga strafatti di fumo, i presidi e i rabbini si dilettano al più dei Jefferson Airplane, accomunati dall’avidità, con maschere tirate fuori dalla cartellonistica antigiudaica. Il tutto presentato come commedia, "laica e geniale".
C'entra molto la commedia all’italiana, in cui tra le battute fulminanti e le situazioni ridicole una disgrazia chiama l’altra, genere che Hollywood invidia molto. Ed è un segno confortante di sicurezza: si vede che, malgrado tutto, anche gli auguri degli amici ebrei che mandano “cartoline da Auschwitz”, e i timori di una cancellazione d’Israele, non c’è affatto aria di pogrom. Ma, è curioso, i fratelli Coen si pongono al centro di quello che fu l’inizio dell’antisemitismo dell’Ottocento, la polemica contro il “filisteismo”.
Il loro film è appunto un insistito fragoroso pernacchio alla sottigliezza semita. Ridotta bizzarramente a filisteismo Si ricorderà questo fantasma insorto in Europa a metà Ottocento, insieme con l’antisemitismo “moderno” – urbano, scritto, dotto, tedescofono, non più quello popolare dell’Est slavo – per denotare insensibilità, superficialità e presunzione. La sua storia si conclude alla vigilia della seconda guerra mondiale con i libelli antisemiti di Céline, che al filisteismo, inteso come forma di dominio culturale, di modelli, influenze e posti, imputa la “complicazione semita”, deleteria per la “sana razionalità” o virtù dell’Occidente. La stessa parabola non si può dire dei fratelli Coen, che a partire da “Barton Fink” e “Fargo” ben altri filisteismo hanno individuato. Ma l’effetto in questo film è analogo.
Joel e Ethan Coen, A serious man

"Millionaire" da "Sciuscià" a "Gomorra"

È un po’ un film della nostalgia. Si rivede in India, con molti attori, con molti mezzi, in diecimila immagini invece di mille, il vecchio “Sciuscià” e il contemporaneo “Gomorra” insieme. Una capacità d’invenzione e progettazione che l’Italia ha avuto e mantiene malgrado la politica, manteneresi nel mainstream e anzi ispirarlo.
È una fiaba, sotto l’insolita truculenza. Un’incongrua miscela che ha una ragione “tecnica”, di cineasti che rifanno il cinema più che la sceneggiatura, ciò che più li ha attratti al cinema.
Danny Boyle, The Millionaire

Gelmini e le giavazzate, la goccia e l'università

Ha approfittato dei consigli del nemico Giavazzi per bloccare tutti i concorsi in essere. Ha costituito, autorevolmente consigliata dal suo nemico, delle commissioni che non riesce a riempire. Due generazioni ha già fatto saltare di nuovi docenti all’università, e ancora non ha finito. E magari non sa neanche di averlo fatto, magari è convinta che col grembiulino alla scuola materna e la maestra unica, la scuola italiana sia già di livello planetario.
La storia delle commissioni uniche nazionali di Giavazzi-Gelmini è una gag comica: si costituiscono commissioni con un numero minimo tale che tutti gi ordinari non riescono a riempirle… Qualcuna si riuscirebbe a riempirla a condizione che ognuno degli ordinari voti per sé: basta che qualcuno voti generosamente per un altro, come a Storia contemporanea, che il numero minimo non si raggiunge. E per “fare” Storia contemporanea si è dovuta aprire la commissione anche ai modernisti.
Non c’è da aspettarsi autocritiche dal professor Giavazzi o dal “Corriere della sera”, la loro autorità non ammette deroghe – anche se giavazzata sarebbe un ottimo neologismo, per acume vanitoso. Ma Gelmini? A che pro fare il ministro di una cosa che non c’è, o si vuole cancellare? Nella sua carriera le è anche toccato di fare un discorso alla Camera, e si ricorda che disse: “Sarò inflessibile, sono come la goccia che scava la roccia”, qualcosa di simile. Certamente è la goccia che sta scavando l’università.
La qualità dei ministri del governo Berlusconi è questa, quella dei non residuati socialisti, in particolare quella delle ministre giovani e belle, e c’è poco da obiettare. Ma anche all’opposizione nessuno se ne occupa, né all’estrema sinistra, né all’estrema destra dei tribuni Grillo e Di Pietro. E neppure nel pensoso Pd, che del resto è quello che ha aperto la distruzione dell’università, nelle sue precedenti incarnazioni. Perché, non lo si ricorda abbastanza, l'università si è distrutta soprattutto da sola, nei dieci anni o poco più di autogoverno: sono le tante, incontenibili, malversazioni degli accademici ad aver portato al blocco di ogni ricambio, se non della ricerca, e al ricorso al precariato per assicurare una qualche forma di insegnamento.
Solo per voler razionalizzare si può dire questo un disegno coerente di Berlusconi: affossare l’università col non fare, sornione. L’università pubblica. A favore delle università private, lo stesso Berlusconi se ne sta costituendo una - mettendo infine a frutto una delle sue numerose villone. E Gelmini segue Moratti, insieme fanno quasi sette anni d’immobilismo. La malafede della ministra in essere si può dire scoperta nel momento in cui ha preso per buona la stravagante proposta del professor Giavazzi per bloccare tutti i concorsi che le università, con fatica, erano riuscite a varare. Ma forse non c’è nemmeno questo calcolo. Forse è solo l’inefficienza molto lombarda, molto autorevole naturalmente. Che dopo Malpensa, e in attesa di cimentarsi con l’Expo, si diletta con l’università. E, soprattutto, c'è la malatia terminale della stessa università, indotta dagli accademici.