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sabato 20 giugno 2015

Ombre - 272

Marino,Crocetta
Sarà una barzelletta
Crocetta, Marino
Un po’ di sale fino
dentro la zucchetta?

La devozione del Veneto passa dal papa a Salvini: niente rom e altri ambulanti. È un miracolo, l’aggiornamento definitivo della devozione. Sarà per questo che il papa li ha già perdonati invece di anatemizzarli.

Napolitano, il primo presidente compagno della Repubblica,  premio Kissinger. Il mondo va avanti o indietro?

Draghi, così pulcioso ogni giorno col Monte dei Paschi, Carige, la Bim (che sarà?) e Veneto Banca, non si accorge del dissesto di Deutsche Bank, la banca più grande - ci devono pensare gli azionisti ad aprire la crisi. Non si può dire che Draghi non sappia cosa fare.

Dopo tante “tragedie” - sembrava la fine del mondo, irrespirabile - Fiumicino 3 riapre senza problemi, non era tossico. Ma questo non si dice. Così come non si era detta la causa della chiusura, giusto gli esiti: traffico dimezzato, file interminabili, bagagli irreperibili. Il terminal 3 poteva riaprire il giorno dopo la chiusura, ma si sono lasciati passare tre giorni per non indisporre la Procura che ne aveva disposto la chiusura.

Si dice la Procura di Civitavecchia, ma è il Procuratore Amendola che ha disposto il sequestro di Fiumicino 3. Il giudice con la chitarra di lontane stagioni romane. Il pretore di Roma che infine dispose la rimozione delle auto in sosta nel raggio di 200 metri dai monumenti, cioè da tutta Roma.

De Magistris resta solo a Napoli. Ha vinto il ricorso contro la legge Severino, che l’aveva fatto decadere per condanna intervenuta – giudice non morde giudice - ma i fedelissimi coi quali ha fatto carriera politica e ha premiato con incarichi e prebende lo hanno abbandonato, dal giudice Narducci al vice-sindaco Sodano, ex parlamentare di Rifondazione. Solo col fratello Claudio. E col generale dei Carabinieri Attilio Auricchio.

Auricchio Sodano dice, dimettendosi: “È il cattivo consigliere del sindaco”. Uno che vuole mettere le mani dappertutto, specie nella gestione dei rifiuti. Sarà indagato Auricchio o sarà indagato Sodano, per la gestione dei rifiuti? La riposta è facile.

Auricchio è quello che imbastì l’operazione Moggi-Juventus, per la carriera propria e dei giudici Beatrice e Narducci. Che subito montarono al top. Al Comune, il generale in aspettativa dei Carabinieri dirige il gabinetto del sindaco. Tanto integerrimo che la Procura di Napoli non ha mai aperto un fascicolo. Poi si dice la corruzione.

Casson sconfitto dà la colpa al “fuoco amico”. Ai veneziani che non sono andati a votarlo. Ma perché candidare uno che non ha mai combinato nulla? Perché è giudice.

“Il conflitto d’interessi? Solo i parassiti non ce l’hanno”. Brugnaro parla, il ricco imprenditore neo  sindaco di Venezia, e la critica ammutolisce. Perché Brugnaro ha avuto cura di dirsi prima non berlusconiano.

Antonella Manzione, vigile urbano a Pietrasanta, ha denunciato nel 2006 il suo sindaco Mallegni facendolo imprigionare. Erano accuse false, avallate da suo fratello, procuratore della Repubblica a Pietrasanta e sottosegretario di Prodi, e ora Mallegni è di nuovo sindaco.

Ma la storia di Pietrasanta  è doppiamente a lieto fine: Manzione ha fatto addirittura meglio di Mallegni: ha fatto il salto a Palazzo Chigi, dove fa leggi per conto di Renzi – sì, è il suo cervello giuridico. Mentre suo fratello è papabile a Procuratore Capo.
Solo Pietrasanta, che era rossa, ha dovuto votare bianco.

Passera, che non ha corso alle amministrative, ha vinto, dice. In tutti i Comuni dove hanno vinto i moderati, negli altri non ha perso.

Il nuovo direttore del “Corriere della sera”, Fontana, ha subito rispolverato Caizzi e cambiato gli inviati a Bruxelles e Berlino. Eppure, de Bortoli era il meglio posizionato per misurare il merkelismo dei suoi.

 “Capitale corrotta, nazione infetta”, etc., si rispolverano  vecchi titoli del “Mondo” e dell’ “Espresso” di sessant’anni fa. Come una voglia di notabilato, di nuovo, immarcescibile, di cui i due settimanali erano la fortezza.

Di buzzi buoni
Intascavano i doni
Sfidando minchioni
Le intercettazioni
Dei pignatoni

Il papa all’Expo

Un dibattito d’opinione, e non più un esercizio di teologia quali quelli condivisi col predecessore  Benedetto XVI: papa Francesco si trova infine a suo agio. Il saggetto non si può non dire ottimo – per esprimersi come i giudici italiani: l’argomentazione è sciolta, il linguaggio immediato, le tesi dirette e inoppugnabili. Solo un po’ trite, come è delle cause unanimistiche, oltre che scontato col nome che il papa s’è dato: senza contrasti religiosi, politici, di schieramento di qualsiasi genere - siamo tutti ecologisti.
Si direbbe la giornata del papa all’Expo. Lo riscatta la denuncia di banche e banchieri, i signori del denaro che ci stanno stritolando, e certo è qualcosa.
Il papa argentino ha perso l’impronta sovversiva con cui si era presentato. Si vuole, ed è, un papa politico: si è introdotto nel concerto internazionale, da Cuba all’Ucraina, e con questo documento si siede alle assisi mondiali che periodicamente prendono il polso del pianeta. È un buon partito. Ma che ne è della sua comunità di fedeli? Chi se ne occupa? Della trasformazione del mondo che si trovano ad affrontare impetuosa: la sessualità e la procreazione, i cloni, la buona morte, la famiglia, i sacramenti, la morte di Dio?
Papa Francesco, Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, free online

venerdì 19 giugno 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (249)

Giuseppe Leuzzi

Torniamo a parlare in dialetto. Ma non nella forma intermittente, esornativa, espediente alla narrazione, com’era l’uso. In forme chiuse e dure, per il tono e il taglio, le cadenze affrettate,  cupe. Specie il napoletano. Anche il siciliano, e il calabrese. Come a calare una saracinesca.

Prima estate, quest’anno a Roma con l’afa, e la questione si propone subito. Se non sia più conveniente tenere chiuse le finestre della scala condominiale la durante il giorno, come io dispongo ogni mattina, o non invece spalancate, come il coinquilino pervicace ogni giorno subito dopo fa. In casa teniamo bene tutta l’estate, relativamente freschi, con la tecnica delle finestre chiuse durante il giorno contro il sole e il riverbero dei muri circostanti – aiutati dalle persiane romane vecchio stile, con la gelosia, la metà inferiore mobile sul telaio, che consentono di fare luce - e aperte la sera e la notte.
La questione si complica per essere io calabrese e il coinquilino piemontese. Per il pregiudizio razzista, cioè, benché il coinquilino sia negoziante in pensione, e si ritenga onorato di coabitare con un”dottore”.

La Sibaritide vent’anni era un deserto, più o meno. Ora è un giardino, di frutta precoce e tardiva premiata dai mercati, dolce il giusto, non quella gonfia e insapore che viene dalla Spagna, e di ortaggi anch’essi gustosamente naturali, anche se anticipano o ritardano la stagione. Si è messa a frutto la calura.
La Piana di Gioia Tauro, che era – è – il giardino più ubertoso, 240 km. quadrati nel triangolo Palmi-Delianuova-Rosarno, di olio, agrumi, ortaggi, sopravvive da decenni coi sussidi europei, lamentando prezzi non remunerativi. Coltivando stancamente prodotti scadenti. Li coltiva anzi solo per avere il sussidio. Si può essere ricchi nella povertà, e poveri nell’abbondanza: la ricchezza è impresa.

Scendendo in macchina da Potenza in direzione di Brindisi, Robert Byron trova, in “L’Europa vista dal parabrezza”, “il paesaggio più incantevole che si possa immaginare. Una campagna che non aveva nulla di teatrale.  Non era resa banale dal tramonto né drammatica dalla tempesta o da un qualche pizzo roccioso.  Era come un’opera d’arte, equilibrata e ponderata a lungo nell’animo di un colorista celestiale. Superandola si aveva la sensazione di avere ricevuto in dono  un’intuizione che non è concessa ad altri,  la visione di qualche divinità pagana, di un dio delle messi mature e dell’oro sfumato di ocra, le ricchezze rosse, brune e nere delle terre del Sud, il Sud di Annibale e della Magna Grecia, la culla della civiltà europea”.

Onore ala strage
Si fa grande caso della Germania che non volle punire i militari che ordinarono le stragi, in Italia e altrove. Ma nella Grande Guerra i comandi italiani non furono da meno, e anzi inaugurarono, si può dire, le esecuzioni all’istante, sul campo e senza giudizio, a tiro singolo e in massa – come poi inaugureranno, con Badoglio in Etiopia, e il maresciallo Graziani in Libia e in Etiopia, tutte le pratiche che verranno in giudizio presso i tribunali internazionali: le rappresaglie con decimazioni e ostaggi, i campi di concentramento, la deportazione delle popolazioni, la colpa dei vinti, moderno Sippenhaft, e i defolianti (in Etiopia, dopo un attentato, Graziani ci pensò su una diecina di giorni e il 19 giugno ‘37 fece accoppare tutti i monaci del convento di Debré Libanos, 297, più 129 diaconi e 23 laici, 449 in totale; in Libia faceva buttare dagli aerei i resistenti).
Sul periodico “Calabria Sconosciuta”, che dedica il suo n. 145 alla Grande Guerra, Corrado Bruni ricostruisce la storia dei quattro fratelli Bruni arruolati in guerra, due dei quali non torneranno, il sottotenente Nicola, il più giovane, poco più che ventenne, e il tenente Eugenio, classe 1890.
Nicola muore il 15 maggio 1916 a Castel Dante, vicino Rovereto. Il 12 è sereno, scrive al fratello Umberto, che segue un corso di addestramento a Firenze. Il 15 maggio, alle cinque del mattino, si scatena l’offensiva austroungarica, quella che poi sarà la Strafeexpedition, l’occupazione austriaca degli Altipiani, avviata dall’XI armata di Francesco Giuseppe. Nicola Bruni comanda una compagnia di mitraglieri, nella “stretta cengia serrata tra la montagna della Zugna Torta e gli strapiombi della Vallarsa”. Piovono granate anche di dieci quintali, con uno di tritolo, le cui tracce devastanti il terreno ancora conserva. .
Eugenio muore il 26 maggio a Monfalcone, nella battaglia attorno al “massiccio dell’Hermada”, una modesta colina, nella X Battaglia dell’Isonzo. Una delle tante offensive mal condotte dello Stato Maggiore di Cadorna. Il comando di Reggimento lo proporrà per una medaglia al valore, definendolo “caro, simpatico ed eroico”, rimpianto da “colleghi, superiori e soldati che lo adoravano”. La motivazione della medaglia d’argento il 25 luglio 1918 lo conferma: “Sempre primo, nei cimenti più ardui … Costantemente animato da sacro entusiasmo…”, etc. Ma la storia di Eugenio è triste ed emblematica.
“Quel 26 di maggio l’offensiva era in stallo”, così Corrado Bruni riassume il fatto: “Si lavorava per riordinare le truppe, e anche Eugenio era impegnato a raggruppare i superstiti”. Il colonnello Angelo Cases, comandante pro tempore del reggimento, gli ingiunge di lasciare la postazione e portarsi avanti. Eugenio Bruni oppone l’ordine del comandante di Brigata di presidiare la località e raggruppare i dispersi. Il colonnello insiste nel suo ordine, Bruni si muove in avanti per eseguirlo, e viene ucciso da un colpo di moschetto, alle spalle, di un carabiniere, per ordine di Cases.
La denuncia dei fatti, dopo una rapida inchiesta del fratello Luigi accorso da Firenze, così li descrive: “Dagli atti dell’inchiesta eseguita, e in ispecie della dichiarazione scritta del Carabiniere Pepoli Pietro, risulta che questi, chiamato dal colonnello Cases, che teneva per un braccio un tenente di fanteria, il quale piangendo diceva “vado avanti, non mi rifiuto, vado avanti”, gli ordinò di fare fuoco contro il medesimo”. Il Carabiniere si difende - ma il seguito è inequivoco: “Il Pepoli sarebbe rimasto prima titubante, ma avendo il Colonnelo ripetuto l’ordine, ordinando altresì all’ufficiale di voltarsi, egli, fattosi indietro di pochi passi, avrebbe esploso un colpo, ferendolo alla schiena mortalmente”. Fattosi indietro di pochi passi:  i Carabinieri erano specialisti di esecuzioni sommarie, che furono migliaia.
Il caso di Eugenio Bruni fu indagato, accertato e giudicato il 7 marzo 1918. Cadorna non c’era più, e il cadornismo, che aveva imperversato fino alla ritirata di Caporetto, con migliaia di soldati in fuga, dispersi, sfollati, “giustizia” lì per lì (erano gli Stati Maggiori “napoleonici” – del famoso aneddoto: “Sire, questa batlaglia (Wagram, n.d.r.) sarà inutile, a che pro far moire centomila uomini per niente?” con la risposta napoleonica: “Uno come me se ne fotte della morte di centomila uomini”), pure. Diaz aveva ribaltato le condizioni morali e sociali delle truppe combattenti, e il giudizi fu di condanna. A un anno. Il Tribunale Speciale Militare condannò il colonnello Cases  per il delitto Bruni “alla pena di anni uno di carcere militare essendo stato ritenuto colpevole di abuso di autorità col beneficio della seminfermità di mente”.
Il seminfermo di mente verrà reintegrato un anno dopo, dal ministro della Difesa Orlando nel governo Nitti. Nel 1924 avrà anche lui una medaglia d’Argento al valore, per i meriti in guerra. Nel 1935 sarà Commendatore del re. Nel 1944 morirà generale, a Roma a casa sua. Il suo caso in effetti non era non eccezionale, era anzi la noma.
Dei quattro fratelli, Corrado Bruni si dimentica di dare l’origine. Erano di Staiti, in Calabria. Posto di notevole presenze normanne ancora vive nella pietra, ma evidentemente non più negli spiriti. La storia dei fratelli Bruni non fa testo, Ma anche la storia in generale: fatica a raccapezzarsi, dietro l’apologia.
È bene ricordare, ora che non si discute più della riabilitazione dei condannati a morte durante la guerra, le cifre dell’ecatombe. Che sono quella che questo sito ha già sintetizzato. Si fa una cifra di circa 1.100 giustiziati, e si lascia intendere che erano disertori. Ma erano anche obiettori e ammutinati, per l’incapacità dei comandi e l’orrida gestione del personale - per esempio quelli della brigata Catanzaro, ammutinati dopo dieci campagne di fila in prima linea, quasi due anni, senza mai un turno di riposo, con gli effettivi più volte dimezzati.
I soldati processati nei tre anni del conflitto furono 262.481. Più 61.927 civili  e 1.110 prigionieri di guerra. In totale furono processate 325.527 persone. Si conclusero con la condanna a morte 4.028 procedimenti, 1.100 furono eseguite. Ma queste sono le cifre dei Tribunali di guerra. Bisognerebbe mettere nel conto il gran numero di soldati passati lestamente per le armi durante la ritirata dopo Caporetto, o per insubordinazione – la repressione della brigata Catanzaro fu fatta così: 28 i Carabinieri presero e caso e fucilarono, senza nemmeno un vero plotone di esecuzione, in uno stanzone (un’anticipazione delle decimazioni, che tanto orrore ancora suscitano nell’applicazione che ne fece la Wehrmacht tedesca durante l’occupazione), 123 li mandarono al Tribunale di guerra.
Centinaia, forse migliaia, furono i soldati, sottufficiali e ufficiali fatti passare per le armi, più spesso da uno o più Carabinieri, dai comandanti sul campo, di compagnia, di reggimento o di brigata.

Milano
“A Roma accade che una signora, in via Dandolo, venga aggredita da due cornacchie”, c’è traffico a Porta Maggiore, assenteismo tra i vigili, organico ridotto ai giardinetti, troppi – o troppo pochi, non si è capito - insegnanti, e ci sono buche nelle strade. Su questi e simili argomenti il “Corriere della sera” aggredisce da tre giorni Roma, “Se questa è una Capitale”. Due pagine al giorno che chiama “L’inchiesta”, affidata a Rizzo e Stella, le sue firme massime. Che non la prendono sul serio – il sito i effigia ghignanti sullo sfondo del Colosseo – ma, alla romana, ci marciano.

La cosa evidentemente piace a Milano, ai lettori. Dev’essere una grande soddisfazione per una città che non ha depuratori. Quando piove si allaga. E quando vuole respirare va a Roma. Che è la metropoli italiana, malgrado tutto, meglio amministrata: meno corrotta, più efficiente - più di Napoli ovviamente, e anche di Milano: nella scuola, la sanità, i trasporti, i rifiuti, gli acquedotti, i giardini pubblici, il tempo libero, la protezione e il godimento dei monumenti.  

L’“inchiesta” del “Corriere della sera” concorre a far cadere la giunta Marino? È possibile, con Marino dovrebbe cadere a questo punto il governo, che Milano non ama - Milano non ama i governi solidi.

L’Expo è solo una “fiera campionaria dell’alimentazione”. Lo dice deluso e arrabbiato Albero Contri, presidente della fondazione  Pubblicità Progresso, dei pubblicitari. L’evento per cui l’italia è stata mobilitata, e tanta corruzione, quasi miliardaria, è stata profusa. Uno de tanti eventi fieristici di cui Milano è stata per secoli specialista.
Milano si sa vendere. La federazione degli operatori della pubblicità e lo stesso Contri sono peraltro lombardi e milanesi per l’essenziale. Un “partito” di governo e di opposizione..

È la prima – la più ricca – città metropolitana non capitale, senza cioè l’investimento Stato. In assoluto, fatturando 185 miliardi l’anno. E pro capite, con un pil medio di 45 mila euro annui. La terza, dietro Parigi e Londra, per pil pro capite. Ma dappertutto vede ladri e nemici – molto tedesca in questo.

Erano lombardi i banchieri (affaristi, usurai) e i pioppi. Anche i “bravi”, in epoca spagnola, la protomafia – poi s’imborghesirono: l’iter è fatalmente quello (vedi i robber barrons  americani, i briganti di passo in Toscana, i “condottieri” signori).

Bossi, Berlusconi, Monti, Tremonti (Passera, Grilli, Moavero), i lombardi al governo d’Italia l’hanno stremata.

Arriva Mr Bee, uno sconosciuto, e subito diventa un banchiere, un magnate e quasi un principe. Perché ha promesso che farà del Milan uno squadrone senza paragoni. Milano non è credula, ma sa agghindarsi, e le piace.

leuzzi@aniit.eu 

Si punta Marino per colpire Renzi

Nessun dubbio che l’obiettivo dell’offensiva dei grandi media (“Corriere della sera”, “Stampa”, “Messaggero”, Sky Tg) contro Marino sia “politico”, come dice Renzi. E cioè che sia il governo. La storia oggi dei 350 milioni di salario straordinario da richiedere indietro non sarà lultima provocazione.
Un governo che governa non è mai piaciuto, dai tempi di Fanfani e poi di Craxi, che tutti sono finiti male. Tutti poi da un quarto di secolo devono privatizzare, cioè svendere, regalare. Farà Renzi eccezione?
Renzi si è mostrato duttile. Tiene duro giustamente su Marino, cedendo sulle privatizzazioni, che sono l’oggetto vero dell’offensiva moralistica. Dando in pegno la Cassa Depositi e Prestiti. I capitali pubblici cioè mettendo a disposizione dei privati, dei più avventurosi tra essi, i banchieri d’affari. Basterà?
La mira è sulle grandi reti. Per la connessione veloce e per l’informazione – con le torri Rai che non sono ferraglia ma, in mani esperte, una grande strumento di telecomunicazioni. Per le stesse reti del gas ed elettrica, semiprivatizzate ma non abbastanza. Per la rete telefonica. Per la Saipem, anche, un gioiello di progettazione e meccanica che si vorrebbe regalato a individuati interessi lombardi.

Il giudice politico Pignatone

I piatti della bilancia di Pignatone sono che fino alla primavera del 2013 a Roma imperava la mafia, dopo no. Agli indagati e carcerati della gestione Alemanno contesta l’associazione mafiosa, con l’aggravante del favoreggiamento. Agli imputati della gestione Marino no, anche se gli imputati sono altrettanto numerosi, il capomafia Buzzi se possibile più attivo e corruttore, e abbia finanziato anche Marino.
Il doppio peso il Procuratore Capo di Roma non lo nasconde, anzi vuole che si sappia. È lui stesso che lo ha spiegato questa settimana instancabile ai parlamentari e ai giornalisti, che pretendono di non tenerne conto.
I due pesi sono sua pratica costante. Quando era a Reggio Calabria azzerò come mafiosi il sindaco Demetrio Arena, appena eletto con larga maggioranza, gli assessori e il consiglio, prima ancora che prendessero un qualsiasi provvedimento, senza poi mandarli a giudizio. Perché erano di destra. In questi giorni li ha voluti ribadire perché ha avuto  l’avallo autorevole del presidente del consiglio?
Renzi da Vespa a “Porta a porta” martedì aveva detto di Marino e della sua maggioranza: “Non esiste l’ipotesi del commissariamento per mafia, perché è una decisione che tocca al Consiglio dei Ministri e noi non la prenderemo. Guarderemo le carte e non la prenderemo, trattandosi di decisione politica”. 
Dunque, i sindaci sono mafiosi, oppure no, per decisione politica. E i giudici? Pignatone è in corsa da tempo per diventare ministro o qualcos’altro. Ma gli altri novemila?

Alla destra 5,80, non ammessa

Si può non ammettere alla maturità un ragazzo che non è mai mancato alle lezioni, è disciplinato, e ha studiato, con uno scrutinio di 5,80? Si può, a Massa, alle magistrali.
All’obiezione dei genitori, il dirigente scolastico risponde che la legge Gelmini è ferrea, il voto d’insieme è la media aritmetica dei voti nelle singole materie, scritto e orale. Un 6 in un orale avrebbe guastato la media, o la mente del dirigente?
A Massa, alle magistrali, l’insegnante di italiano e storia ha dato 4 al maturando in questione, che pure è appassionato di storia, con una motivazione insindacabile. “Non elabora”. In realtà perché le stanno antipatici i genitori del ragazzo, noti per essere di destra.
Sono gli stessi ai qual il dirigente ferreo oppone la “legge Gelmini” per non ammettere il ragazzo alla maturità con un 5,80. Sembra una storia inverosimile e invece è vera. 

Le origini della crisi, solo il papa ricorda

Solo il papa ricorda che la crisi che ci affligge, e forse ci ha depressi, era delle banche, avventurose, imbroglione. E che la crisi del debito è sopravenuta, e in buna misura conseguente: 1) a causa dell’indebitamento subitaneo e elevato degli Stati per salvare le banche, 2) per consentire alle banche stesse di rifarsi speculando sul debito pubblico – a spese dei risparmiatori, ma questo non importa, di più e in maodo quasi letale a spese degli Stati..
Non tutti i debiti pubblici hanno sofferto dello sviluppo 1). Ma l’aumento elevato dell’indebitamento generale, di almeno il 20 per cento, e comprese le due economie maggiori dell’Occidente, la Germania e gli Usa, ha ristretto (rincarato) le condizioni di approvvigionamento. Notevolmente: la speculazione procede a sbalzi, non è progressiva, non si commisura al rischio effettivo.  
Tutti lo sanno, solo il papa lo dice. C’è un motivo?

La speculazione al vertice

Un’altra cosa che tutti sanno ma solo il papa dice è che il “mercato” non si è riformato dopo la crisi, per quanto grave, che esso - cioè le banche – ha provocato. Al § IV del cap. V, “Politica ed economia in dialogo per la pienezza umana”, avviandosi a concludere la sua summa della questione “ecologica”, della sopravvivenza dell’ambiente e dell’umanità, il papa dice: “Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo”.
La riforma era stata affidata al Financial Stability Forum, un organismo delle stesse banche, presieduto da Mario Draghi. Che si è adoperato per non decidere nulla. Dopodiché è stato assunto al vertice della Banca centrale europea. Dove per prima cosa ha salvato definitivamente – ma sono senza fondo – le banche tedesche. Mentre agita e sovverte  il resto delle banche e le finanze pubbliche.  

I greci e l’Europa

“Ad Atene”, scrive Robert Byron quasi un secolo fa in “L’Europa vista dal parabrezza”, quado si progettò la suddivisione in caseggiati della città moderna, quasi tutto ciò che era bizantino venne distrutto”. E in tutta la Grecia, non molti anni fa, si potevano vedere chiesette e mura bizantine abbandonate alla rovina: non c’era più niente di bizantino, né chiese né conventi, né monumenti.
Poi venne l’Unione Europa, coi suoi fondi strutturali e per il recupero dei ben culturali, e oltre un migliaio di  reperti bizantini sono stai recuperati e restaurati.
Si fa colpa alla Grecia oggi di sperperi e ruberie, e la si punisce da alcuni anni con grande durezza. E tuttavia la Grecia ha saputo usare appropriatamente i fondi europei.

Alle origini della crisi greca le agenzie di rating

Si fa risalire la crisi greca ai bilanci poco chiari e un tantino truccati al momento dell’accesso all’euro – meno chiari e più truccati degli altri? Ma la deriva è molto più recente e ha una data precisa: la primavera del 2010, quando cominciava la campagna delle agenzie di rating degli operatori sui mercati finanziari. Quando, cioè, partì la campagna contro i Pigs: Portogallo, Irlanda-Italia, Grecia, Spagna.
L’offensiva partì con la Grecia. Mentre erano in corso le trattative fra Atene e Bruxelles per una nuova definizione del debito, bancario e pubblico, Standard and Poor’s lo declassò a “spazzatura”. Subito dopo attaccò il Portogallo, con lo stesso metodo, declassandone radicalmente il debito.
Il seguito non fa più storia. Standard and Poor’s è l’agenzia che accreditata affidabilità a doppia o tripla A a Lehman Brothers e le altre banche del crac americano alla vigilia del crac.

Žižek alla crociata

Blasfemo è questa volta il filosofo sloveno, anche se il taglio è da pamphlet, da scritto polemico. Averlo redatto a caldo, dopo le stragi di Parigi, non esime. Il fondamentalismo e il liberismo sono lo stesso - i decapitatori sono gli speculatori in Borsa, E lo scontro di civiltà è inevitabile: c’è un islam buono, perfino libertario ma… . A mezzo tra storia, teologia, Ottantanove, psicoanalisi e giornalismo, Nietzsche, Yeats, Benjamin. Leninista prima del 1989, e psicoanalista, filosofo a tempo perso, qui si vede.

Apparentemente Žižek ha i nervi saldi. “Dialoga” col filosofo indo-pakistano Abu l-A’la Maududi, inventore dello Stato Islamico, del nome. E con Sayed Qutb, il pensatore fondamentalista egiziano che Gilles Kepel ha esumato in “Il profeta e il faraone”, nella storia dei Fratelli Mussulmani, ora icona dell’Is, fatto giustiziare da Nasser nel 1966 per un tentativo di colpo di Stato. E si rifà all’islam “delle origini”. Ma per meglio stigmatizzarlo, ricorrendo a un artificio che sembra originale ed è antico, di una rimozione-interdetto fondamentale che sarebbe la “dipendenza dell’islam dal femminile”. Un interdetto forse scientifico, ma un torto ai maschi e alle femmine, anche fuori dell’islam.

Žižek non teme di essere tacciato di islamofobia. Ma ricaccia il fondamentalismo nella premodernità, malgrado la scaltrezza finanziaria e informatica. “Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano se si sente minacciata da una stupida caricatura in un settimanale di satira? Il terrore fondamentalista non si fonda sulla certezza della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare l’identità religiosa e culturale dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che noi li consideriamo inferiori, ma che loro stessi si sentono segretamente tali”. Bestie.

Slavoj Žižek, L’islam e la modernità. Riflessioni blasfeme, Ponte alle Grazie, pp. 94 € 9

La penisola come un’isola

E.F.Benson, prolifico scrittore inglese del primo Novecento, tornando in Italia all’inizio del suo “Up and down”, maggio del 1914, prova la strana sensazione, che non sa spiegarsi, sbucando in treno dai tunnel alpini, di “essere arrivato a casa”.
Robert Byron nel suo primo libro, dieci anni dopo, “L’Europa vista dal parabrezza”, dice la stessa cosa, che anche lui non sa spiegarsi: “L’idea che l’Italia ci appartenga, come per diritto di nascita, allo steso modo come le grandi opere d’arte sono patrimonio della civiltà, è solo una convinzione comune ai popoli di tutte le nazioni, o c’è piuttosto qualche similitudine tra l’isola e la penisola?”, tra la Gran Bretagna e l’Italia: “Non proprio una somiglianza, ma un’affinità magari dovuta alla loro netta distinzione rispetto al resto dell’Europa? È possibile si tratti di una qualità troppo elusiva per riuscire a definirla” E aggiunge: “In Francia, le località turistiche si anglicizzano. In Italia i visitatori si italianizzano”.
L’Italia “tagliata” dalle Alpi, marginale all’Europa seppure ne sia all’origine, perché non pensarci?

James Pallotta un po’ Turturro

Un po’ lo ripete somaticamente, l’occhio remoto, triste, e i riccetti, un po’ ne sarebbe l’incarnazione reale, l’investitore sbucato dal nulla per salvare la ditta. È così che uno si chiede: Nanni Moretti non avrà inventato il Turturro di “Mia madre” dall’avvocato Pallotta?
Avvocato poco praticante, e miliardario senza i miliardi, oltre che italo-americano che non sa nulla d’Italia,  Pallotta è forse un po’ di più di Turturro, se è stato scelto da primaria banca, Unicredit, quale intestatario del pacchetto di controllo dell’ As Roma. Ma niente di più.
Tutto finora quadra. Intestando l’As Roma a Pallotta, Unicredit ha potuto sottrarre alla massa degli insoluti i debiti della famiglia Sensi.  L’As Roma è salva e ha una proprietà. Nominale, ma in grado di far marciare le cose: i bilanci, gli acquisti, le cessioni, i conti. E tutto si risolverà per il meglio se il progetto dello stadio di proprietà partirà, come ha detto Pallotta, a dicembre. I capitali affluiranno copiosi, per il club di calcio, e per la proprietà reale, di Unicredit.
Si dice stadio di proprietà, ma è un progetto immobiliare su 125 ettari. Di periferia (Tor di Valle) ma integrati alla città. Con uno stadio, naturalmente, ma con almeno 50-60 ettari edificabili. In parte già progettati: un Business Park di una diecina di mega costruzioni da uffici, sormontate da tre torri-grattacielo firmate Daniel Liebeskind, l’archi-star – una delle quali prenotata da Unicredit. Con un collegamento autostradale a Fiumicino e alla Via del Mare. Un investimento da 1,5 miliardi in due anni, già probabilmente nervosi al via, tanto l’ffare si presenta goloso.
Un po’ poi, però, Pallotta richiama Turturro. Quando si pensa che la Consob non ha mai chiesto un briciolo d’informazione sulla proprietà di una società quotata quale è l’As Roma.  

giovedì 18 giugno 2015

La Francia, i socialisti e gli immigrati

Non è la prima volta che i socialisti al governo in Francia si fanno ostili e un po’ robusti contro gli immigrati. Successe già col Fronte Popolare, nel 1936, allora contro gli italiani – peggio andrà, sul finire dell’esperienza del Fronte Popolare nel 1938, con i profughi spagnoli, in fuga da Franco. Ciò aviene a prescindere dalle situazioni storiche, di fatto: avviene per un fatto umorale.
Ora, forse, la Francia non ha bisogno di più immigrazione. Ha un mercato del lavoro fluido, con una demografia robusta, anche per virtù dell’immigrazione africana e caraibica di seconda e terza generazione. Allora veniva invece da una lunga depressione demografica, e ne aveva bisogno. No, è un riflesso condizionato, istintuale.
Ciò operò avviene contro certi immigrati e non contro altri. E contro certi paesi. L’ipotetico Hollande alla presidenza all’epoca non avrebbe osato rimandare indietro l’“idraulico polacco” in fuga che la Germania nel bisogno accoglieva. E infatti la Francia non lo ha rimandato indietro.
C’è modo e modo, comunque, e questo non è dettato dalla paura irrazionale. Dal riflesso condizionato sì. Nessun gendarme francese avrebbe rimandato indietro un eritreo o un siriano che fosse riuscito ad attraversare Muscolari sì, ma con juicio

L’intelligenza di Londra

Ettore Livini su “Repubblica”: “Durante la crisi del 2012 la stampa inglese, mai smentita, ha parlato di aerei-cargo carichi di euro in contanti spediti da Italia e Germania alla Grecia per far fronte alla crisi di liquidità”.
Come si fa a smentire un aereo-cargo, anzi più aerei-carghi, carichi di bigliettoni? E perché smentire la stampa inglese, che nessuno in Inghilterra prende sul serio – basta divertirsi alla lettura?
A Renzi Cameron ha assicurato che lo aiuterà a bloccare il traffico di carne umana in Libia “tramite i nostri servizi di intelligence”. Gli stessi che hanno portato alla guerra a Gheddafi e all’installazione in Libia del mercato della carne umana.
E parliamo solo dell’intelligence politica e militare. Poi c’è quella finanziaria, dove anche lì Londra è come il prezzemolo, c’entra dappertutto: tutti gli affari segue, apprezza, deprezza, rivaluta, svaluta, anche a mezzo stampa.
L’intelligence è merce apprezzata a Londra. Le Carré ci ha costruito una fortuna e molti brillanti e brillantissimi scrittori e intellettuali si vantano di averne fatto parte, da Graham Greene a Anthony Blunt. Ma è una merce in un mercato? Perché è la stessa intelligence  che sorveglia da un secolo Mosca senza sapere nulla di quanto vi sta per accadere, dalle rivoluzioni del 1917 a Putin. Che al suo meglio aveva provocato la guera disastrosa all’Irak, prima che alla Libia. E voleva la disgregazione della Siria - da dove vengono i disperati della Libia. Chiudendo il cerchio: come se provocasse il danno per risaldare il business.
Le ragioni del mercato sono rispettabili. Ma fino a un certo punto. Una volta, per chi viaggiava nel Medio Oriente, c’era il “tassista di Beirut”. Tutto quello che si voleva dire di un mondo che non si conosceva si attribuiva al tassista di Beirut, naturalmente poliglotta e molto bene informato. L’intelligence britannica è certo più furba del “tassista”, ma non innocente.

I popoli di Hillary

Hillary Clinton alla presidenza degli Usa moltiplica la prospettiva di ”primavere” a ripetizione del genere “primavere arabe”. Le quali sono a lei dovute, per la parte che gli Usa vi hanno giocato, contro Ben Ali (??), contro Mubarak e contro Gheddafi, schierando i propri servizi e gli ambienti locali, specie militari, a loro più legati. Obama si è limitato a patrocinare la diplomazia di Hillary al Dipartimento di Stato. Anche contro il parere del Pentagono – che invece è dietro Meidan e l’Ucraina.
La futura segretaria di Stato di Hillary, Anne-Marie Slaughter, ne ha fatto una dottrina. Che si può leggere online nella recensione, imprevedibilmente benevola, all’ultimo libro di Kissinger, “Ordine mondiale”. Su “New Republic”. Slaughter è benevola con Kissinger per la sua “evidente conversione” sulla questione della legittimità. Lo critica perché non vede che “un mondo di Stati”, invece che “un mondo di popoli” – “l’era dei puri statisti è finita”, non è più possibile “ignorare ciò che accade ai popoli, in un mondo sempre più forgiato dai popoli”. Ma lo assolve perché, in conclusione, Kissinger non rifiuta ai popoli – meglio sarebbe dire agli emergenti – gli strumenti del potere. Là dove prende atto che “i principi di indipendenza nazionale, di statualità sovrana, di interesse nazionale e di non ingerenza  si dimostrarono efficaci strumenti contro gli stessi colonizzatori durante le lotte per l’indipendenza, e in seguito come protezione dei loro Stati di nuova formazione”.  
Ci saranno molte sovversioni, contro la diplomazia dell’ordine e della non ingerenza. I motivi non mancano: i diritti umani, o in difetto quelli politici, o in difetto quelli economici, o la corruzione, o le mafie. Slaughter, ora alla presidenza della Fondazione clintoniana New America, è stata direttrice della Pianificazione al Dipartimento di Stato con Hilary Clinton.


Il mondo com'è (220)

astolfo

Banche d’affari – Ottimamente wikipedia, che ne sintetizza il ruolo nella intermediazione finanziaria. Coma banca d’investimento, a medio o lungo termine, spesso con assunzione di rischi propri. Coma banca privata, per correntisti facoltosi. Come vera e propria merchant bank, di intermediazione, quale era la funzione all’origine, nell’alto Medio Evo, della banca.
È però ora più che altro una mascheratura di affaristi, che si vogliono consulenti, investitori, analisti, broker, a percentuale, in proprio, di fusioni, scorpori, ristrutturazioni, o di governi e altri enti pubblici. E monetizzano più spesso doppiamente la funzione, con le informazioni riservate  le manovre speculative.  

Destra e sinistra – Napolitano, il primo presidente compagno della Repubblica, premio Kissinger, non sarà di destra? Marchionne invece, che riassume alla Fiat, non sarà di sinistra? La pignola  differenziazione di Bobbio, che si ripubblica come nuova, ed è anzi l’unica a tenere banco, è del tutto avulsa dalla politica contemporanea – già al tempo di Bobbio. Dove molti fatti vanno invece nel senso del sinistra-destra, dell’indistinzione.
La distinzione non c’è nella società, nei fatti, e non c’è nello spirito, nelle idee e la dottrina. C’è nel giornalismo, ma per abitudine, e nella politica, ma spuria e di posizione, per sfruttare i bacini elettorali, passivi e abitudinari. Nell’opinione, quando non è ripetizione stanca, è solo opportunista.  La guerra all’Irak  è cattiva, quella alla Libia buona. I respingimenti di Napolitamo erano buoni, altri eventuali sono cattivi. Le pensioni sono un furto, o al contrario, i pensionati non si toccano, indifferentemente, a destra e a sinistra.

Franchi  - Furono la forza d’urto del papa anti-bizantina e anti-ortodossa. Anti-unitaria.  Così li dice la tradizione polemica ortodossa, ma non  senza verità. Anzi, è una storia dimenticata che per molti aspetti conviene rivangare. La vulgata ortodossa è che ci fu tra il Sesto e il Quattordicesimo secolo un impero franco, che si creò una chiesa, la chiesa di Roma, e attraverso di essa s’impose. I benedettini sarebbero stati il braccio religioso della monarchia franca, abbazia di Cassino compresa. E le invasioni di Roma e dell’Italia momenti del disegno criminoso.
Ma è vero che nel Sud Italia, dove le radici greche si perpetuavano malgrado i normanni, i franchi dovettero intervenire più volte. E che il papa, tra il 1254 e il 1255, spostò la sede a Napoli per riprendersi il Sud dopo la morte di Federico II. Poi gli angioini rovinarono tutto, al Sud e all’Est. La spedizione fallita di Carlo d’Angiò fu concepita dal papa, Clemente IV, come una “crociata cismarina”, contro i saraceni e i “cattivi cristiani” di Corradino di Svevia. La rivolta dei Vespri antiangioina colse la chiesa, in sinodo a Melfi, impegnata a latinizzare l’ortodossia. Peggio andò con i papi in Avignone: i franchi rivendicarono l’impero d’Oriente per Carlo di Valois, fratello del re di Francia, e non lo ebbero.
Gregorio Magno proclamò a Roma il primato del papa sapendo di che si trattava, dopo dieci anni sprecati a Costantinopoli. A Costantinopoli invece Adelchi (???v.) si rifugiò, per sfuggire Carlo Magno a Pavia, incoronato dal papa. Carlo Magno vi cercò a sua volta moglie, dopo aver ripudiato Ermengarda per prendersi il regno dei Longobardi, e prima d’infognarsi nella venticinquennale carneficina dei sassoni al fine di cristianizzarli, nella persona dell’attempata basilissa Irene. La basilissa, che sarà santa, rispose proponendo invece il matrimonio di Rotreude, figlia di Carlo Magno, con l’imberbe suo figlio regnante, Costantino VI, succeduto a nove anni nel 780 al padre Leone IV il Kazzaro - figlio che presto ella stessa detronizzò, per essere a sua volta detronizzata, nell’802, e rinchiusa in convento (la tradizione fratricida era stata inaugurata dai figli di Costantino, l’isapostolo, che a Nicea fondò la chiesa, benché non fosse ancora battezzato): Costantino VI, bastonato e accecato nel golpe, ne  morì.

Un’inversione dei ruoli in riguardo alle immagini avrebbe potuto essere provvidenziale tra la basilissa e l’imperatore. Sant’Irene era contro l’iconoclastia, Carlo Magno contro l’iconolatria. Promosse a tal proposito i “Libri Carolini”. E per vincere la renitenza del papa convocò il concilio di Francoforte, i cui atti recitano: “Si tenne in assemblea una discussione riguardo al Sinodo dei greci, che era stato convocato a Costantinopoli per decretare l’adorazione delle immagini, nel quale si scrisse che si scagliava l’anatema contro coloro che non avessero offerto servitù o adorazione alle immagini dei Santi, così come alla Trinità deificatrice. In tutti i modi i santissimi nostri padri [...] rigettarono con disprezzo l’adorazione e la servitù, condannando coloro che accettavano questa dottrina”.
Un compromesso fu poi raggiunto da Carlo Magno col papa, sostituendo “venerazione” a “adorazione”. La controversia era d’altra parte terminologica: nel 787 il secondo concilio di Nicea aveva sancito su impulso di Irene la proskynesis delle immagini, la venerazione, ma il traduttore aveva usato in latino l’equivalente di latria, l’adorazione di Dio.

Grande riforma – S’intende del Parlamento e dell’esecutivo, per rendere più rapido l’iter delle leggi, e per rafforzare i potersi dell’esecutivo. È quella che il governo Renzi tenta di attuare. Senza proclamarla. a parte. Il progetto infatti si tenta da una quarantina d’anni costantemente di delegittimare riportandolo a Gelli, il Venerabile della loggia P 2. Con Renzi come già con Craxi, che pure lui aveva tentato di cambiare l’assetto istituzionale. Ma il progetto di Grande Riforma che Gelli faceva circolare nel 1974, d una “riforma costituzionale che spazzi via i partiti e la corruzione”, era da realizzare mediante una intesa di Andreotti con Berlinguer.

Moro-Andreotti – Napolitano premio Kissinger sarà un primo passo per chiarire la vicenda, tuta italiana, che portò alla fine di Moro? Di cui si dice sempre, anche dopo i tanti processi, che è oscura, mentre invece fu molto chiara.
C’è un richiamo incongruo, nelle lettere dal carcere di Moro, all’onorevole Misasi come uno capace di venire a capo del suo problema. Misasi, poi con De Mita segretario amministrativo della Dc, era allora un deputato calabrese, con qualche incarico pregresso di sottosegretario. Il suo nome era palesemente un anagramma scoperto per il Sismi, il servizio di controspionaggio militare. Un nome che apriva una pista. Tanto scoperta quanto rifiutata e anzi in nessun modo praticata.
Nella fattispecie, non è possibile sapere a cosa Moro alludesse. Nel contesto, è invece un riferimento agli Stati Uniti. Ma allora non, come si suol dire, a una presunta guerra degli Stati Uniti, e in particolare del segretario di Stato Kissinger, contro Moro. Bensì alla decisione ferma e ribadita degli stessi Stati Uniti che i governi col Pci li facesse Andreotti e non Moro. Un riferimento che mette il rapimento e la morte di Moro in un contesto, e spiega la decisione di Andreotti di lasciar uccidere Moro, dopo ricerche superficiali e mal condotte. Gli Usa volevano che il governo col Pci lo facesse Andreotti, in un’ottica di contenimento del Pci stesso, e di un suo svilimento – furono “governicchi” di vecchie glorie, senza prestigio né capacità, che non fecero niente, benché la crisi mordesse allora, dopo la crisi del petrolio, quasi come oggi (una storia avvilente, quella dei governi Andreotti-Berlinguer, che purtroppo non si fa). Non considerarono nemmeno Fanfani, che temtò a più riprese di mettersi in mezzo – Fanfani non aveva appoggiato gli Usa in Vietnam, anzi li aveva contrastati, già ne 1962. Ma non volevano nemmeno Moro, che pure era stato l’uomo politico italiano più filoamericano, soprattutto nella guerra del Vietnam, perché non abbastanza “concorrenziale” col Pci – dopo i governi con Andreotti il Pci perdeette per la prima volta le elezioni, con un meno 4 per cento.

Stateladyship – Bisognerà aggiornare il vocabolario della statemanship, ora che con Hillary Clinton, dopo Angela Merkel e Margaret Thatcher, la funzione esce dalla sfera maschile. Ne esce cioè nel cuore del pianeta, non più nelle Filippine o in Argentina.

Velo – Usato in chiesa fino a recente. E tuttora, secondo un’etichetta non cancellata anche se desueta, quando una donna va in visita dal papa. D’uso non obbligato ma sentito e comune.
Carlo Buccisano, socialista, medico condotto a Melicuccà a fine Ottocento-primi Novecento, e a tempo perso folklorista, studioso dei costumi e la parlata locale, ricorda, nel “mutare delle fogge del vestire”, due copricapi ampi in uso per le donne: “La rizzola o scuffia, specie di reticella o cuffia multicolore per lo più in seta, che conteneva i capelli” e la “tovaglia” – “La tovagghia era quel lino candido, portato in testa, mulierum velumina, abbassato leggermente sulla fronte e rovesciato per le spalle e i lombi… Speciale ornamento di bellissimo effetto e seducente, oggi sostituito dal variopinto fazzoletto”. 

astolfo@antiit.eu 

Si vive meglio dopo il default

Perché gli Stati non fallirebbero? Tanti ne sono falliti – gli autori censiscono un centinaio di casi, in 66 paesi dei cinque continenti. Tra essi la Grecia si segnala per la maggiore frequenza: nei 190 anni dall’indipendenza, nel 1822, è stata insolvente per la metà del tempo.
Fa senso leggere questo libro in ritardo: sei anni fa, quando fu scritto e pubblicato, era tanto realistico. Panico bancario, inflazione irresistibile, svalutazioni non sono mai mancati dal Medio Evo a oggi. L’insolvenza, però, per gli Stati non è mortale: il tracollo è in genere vissuto meglio di una crisi latente irrisolta.
Carmen Reinhart-Kenneth Rogoff, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria, Saggiatore, pp. 426 € 22

mercoledì 17 giugno 2015

Stupidario greco-germanico

Se Schaüble caccia la Grecia dall’euro, come lo chiameremo poi, bavarese?
E l’Europa? Belvedere?

Ma non doveva la Germania essere la nuova Grecia? Come diceva Goethe, che un po’ se ne era stufato – e non aveva letto Heidegger - “Faust”, II, 7742-3: “È una vecchia storia, dallo Harz all’Ellade tutti cugini”.

La Grecia diventerà poi tedesca grazie a un sacco di gente di spirito, Hölderlin, Hegel, Winckelmann, e poi Nietzsche e Freud, e Heidegger.  Ma nessuno c’era andato. Neppure Winckelmann, che il bello greco divisò: preferì farsi infrociare a Trieste. Heidegger solo da ultimo, in modeste vacanze tutto incluso, nelle quali cercare l’“elemento greco originario”. Karl Otfried Müller, che nel 1824 creò i dori, ci andò per morire, troppo tardi. Nietzsche ne fu attratto, ma non gli sfuggì che l’esametro greco è diverso dal tedesco, e soffriva il mal di mare.
E tutto l’indogermanesimo ariano? L’università di Gottinga ci ha lavorato due secoli per metterlo a punto.
Esito primario di Gottinga è la bufala dei dori, che nel 1800 a.C. crearono la civiltà greca, o occidentale, cioè la civiltà, per essere “ariani”, parenti dei germani. Come questi infatti amavano i cori.
In effetti, non c’è un prima e un dopo: è la stessa intelligenza.

E tutti quei re e principi forniti alla Grecia per l’indipendenza? Merkel punisce la Grecia, si può dire senza sbagliare, per aver cacciato coi colonnelli il suo ultimo re, Costantino, re tedesco. Ma anche, anche questo senza dubbio, come innesco alla recessione del Sud Europa, da cui tanti benefici la Germania ha tratto.

Il 18 ottobre 2010, sul lungomare di Deauville, Angela Merkel impose a Sarkozy, quindi alla Ue, il principio che “gli Stati possono fallire” - la Grecia (ma non solo). Era la ricetta Ackermann, l’allora capo della Deutsche Bank: non ristrutturare il debito (allungare le scadenze, tagliare gli interessi) ma farlo pagare con l’austerità, anche cruenta. A questo fine limitando gli aiuti Ue.
Il capo della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, francese, reagì furioso: “Non vi rendete conto di cosa provocate”. Ma il suo capo, lo statista emerito Sarkozy, lo mise a tacere.
Ackermann fu poi allontanato dagli azionisti Deutsche Bank per indegnità. E la Deutsche Bank è ora minacciata d’insolvenza per i troppi trucchi. Che lezione trarne?

Il 27 novembre 2010 l’Ue salvò l’Irlanda dalla bancarotta, con un prestito gratuito di 85 miliardi, di cui 35 per le banche e 50 per alleviare il debito. Un anno prima la Grecia, che chiedeva 30 miliardi contro la speculazione sul debito, non li aveva ottenuti, la Germania s’era opposta.
L’Ue tentò in vari modi di sostenere la Grecia contro la speculazione, ma sempre la Germania s’oppose. Eccetto che per 15 miliardi, troppo poco, troppo tardi. Molto sempre criticando i greci, imputati d’indolenza meridionale e mediterranea, nonché del vizio di sbafare a spese del contribuente tedesco. I greci, che lavorano tutto l’inverno ad abbellire le case per le vacanze dei tedeschi, a cui locarle a prezzo modico. I greci si dimezzarono i salari e le pensioni ma non bastò: per la Germania mangiavano sempre troppo.


La Germania greca risale a Federico il Grande, che la inventò per la Prussia, prima di Hölderlin. La filosofia era già greco-tedesca, ma irrealizzabile. Divenne di uso comune con Waterloo, il Griechentum, veicolo dell’idealismo tedesco, argine alla democrazia della Rivoluzione. Dove andrà ora la Germania, senza Grecia? Farà la rivoluzione?

La sensualità della colpa

Nicola Crocetti riunisce, in originale e in traduzione, le edizioni di Kavafis che negli anni è andato collazionando per la sua casa editrice. Un poeta “alessandrino” di Alessandria d’Egitto, immerso nel mito e nella memoria. Si dice la storia, ma è la memoria, vaga, immemore al tempo, alle persone e alla natura, che i fiori vuole finti - “Datemi fiori finti”. Anche quando la storia evoca, non sa che farsene. Un greco senza patria. Tra fine Ottocento e primo Novecento, costeggiando in città Marinetti e Ungaretti, ma parnassiano, si direbbe in gergo europeo.
È la stessa antologia, più curata, pubblicata tre anni fa dal “Corriere della sera”. “La memoria e la passione” era il titolo di quella raccolta, e questo Kavafis è. La storia è Itaca, l’insofferenza del ritorno. E nostalgia, allora come oggi. È l’amore, anonimo per lo più, e di sesso, benché di occasioni sfumate o passate. Dell’amore che non si dice(va), vissuto come colpa, la foja insaziata imputandosi a peccato:  “Giura”, il poeta irride al suo sé, e poi, “quando giunge la notte col suo potere\ del corpo che desidera e reclama, fa ritorno,\ smarrito, a quel predestinato suo piacere”.
La sensualità è come la città, di confluenze ormai remote: la “pelle come di gelsomino fatta”, la promessa di uno sguardo rubato, il rimpianto di un incontro evitato, e di tutto il “ricordo appena” degli occhi - “Erano azzurri, credo…,\ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro”.
Curiosamente amato da Montale, che ne tradusse (dall’inglese?) “Aspettando i barbari”, forse per l’assunto più che per la poesia. Del poeta sperduto-stordito nella storia: la poesia è l’attesa di una palingenesi che naturalmente non arriverà nemmeno con i barbari, il languore di un’eterna fine.
Costantino Kavafis, Le poesie, Einaudi, pp. 320 € 14

L’unione delle chiese – 4

“Barlaam, monaco dell’ordine dei basiliani, greci passati all’osservanza latina, nato e cresciuto a Seminara, feudo angioino nell’ex Thema di Calabria, piccolo, esile, maestro di Leonzio Pilato che insegnerà il greco a Petrarca e Boccaccio, tentò dal 1329 al 1341 di salvare Costantinopoli in alleanza coi latini. La stessa Grecia d’Italia era ancora divisa. Un “Opusculum contra Francos”, redatto in latino nel tredicesimo secolo, prova la persistenza della vera fede: “I calabresi sono ortodossi da sempre”. Mentre Antonio de Ferraris, detto il Galateo, da Galatina in terra d’Otranto, che fu di rito greco prima di ospitare il famoso castello delle messe gotiche, difendeva la donazione di Costantino al papa, architrave della latinità. Si sperava insomma nel superamento dello scisma, Unus Deus, una Fides. Anche se Dio aveva disposto altrimenti. Del resto, i greci di Turchia, pochi per la verità, non si chiamano tuttora romei, e non elleni, come i greci della Grecia – oltre che pòlitis e polìtissa, i cittadini per eccellenza, della città per eccellenza, che fu Costantinopoli.?
“Nel 1329 Barlaam si recò in “terra romana”, cioè a Costantinopoli, chiamato da Giovanni Cantacuzeno, megas domestikos di Andronico III Paleologo, il giovane imperatore che nel 1328 aveva costretto Andronico II ad abdicare, per conto degli unitaristi. Delineò un compromesso per disinnescare la questione del Filioque, ma fu contestato e sconfitto da Gregorio Palamas. Non sostenuto dal papa, Benedetto XII: ambasciatore di Andronico a Avignone, Barlaam non ne ottenne nulla. Non c’è dubbio in questo caso che il papa era dei franchi. Quando Andronico III morì, nel 1342, Barlaam tornò a Avignone, dove il papa Clemente VI lo pensionò vescovo di Gerace. Andrà e verrà da Avignone a Gerace, via Napoli, allora nobilissima per l’impulso di Roberto d’Angiò, “il Re da sermone di Dante”, che l’aveva adornata della maggiore biblioteca in Europa, fino alla morte nel 1348, di 58 anni.
Contro il fondamentalismo ortodosso, Barlaam pretendeva autonomia per il sapere “esterno”, esterno alla fede, sulla base dei Vangeli e di san Paolo. Ma agli esicasti rimproverava di voler mantenere l’intelletto nel corpo. Fu facile a Palamas obiettare che il corpo non è l’opposto dell’anima, e anzi deve avere “una natura conforme a essa”. E che, Dio essendosi incarnato, i doni dello Spirito Santo passano per il corpo, le mani, gli occhi, la lingua.
“Al Concilio Tridentino Barlaam fu creduto due, uno d’Oriente e uno d’Occidente, uno sconosciuto. Per lo storico della chiesa Viller era un secolo fa un israelita, che adorava contemporaneamente sia Geova che Baal.
“Entrambi i monaci, Barlaam e Palamas, temevano i “turci”. Ma mentre Barlaam consigliava di legare la futura Turchia al resto d’Europa, Gregorio volle salvarsi da solo con la vera fede. Per questo attuò un vero colpo di Stato, con l’aiuto di “Anna”, Giovanna, di Savoia, l’imperatrice vedova di Andronico III e madre del successore Giovanni V Paleologo, che impegnò con Venezia i gioielli personali e della corona per finanziare la sua spregiudicata politica. Contro Giovanni V, che aveva nove anni, Palamas arruolò Cantacuzeno, il primo ministro. Cantacuzeno si dichiarò coimperatore, Giovanni VI, e si garantì l’appoggio dell’imperatrice sposandone la figlia Irene. La coppia ispirerà una poesia a Kavafis, “Vetro colorato”, di notevole intelligenza storica: “Avevano soltanto poche pietre preziose,\ e così ne portarono di false. Un cumulo\ di pezzetti di vetro, rossi, verdi, celesti”. I Cantacuzeno tenteranno di unificare le due cariche imperiali nel proprio figlio Matteo, ma coi gioielli di vetro erano destinati a uscire dalla storia. Non prima però di avere assicurato il successo a Gregorio Palamas, la Trinità riducendo ad appendice della numerologia – la quale porta al diavolo, e non per colpa di Gödel, della matematica.
“La tendenza latina era forte a Oriente, includendo il patriarca Kalekas, i cui epigoni hanno ripiegato in Sicilia a fare ottime ceramiche, e l’imperatore Andronico III, che pure era stato cresciuto da Palamas padre. Ma Gregorio Palamas aveva avuto sul monte Athos la visione di san Giovanni, il discepolo prediletto, figlio del tuono, nella luce increata del Monte Tabor, la stessa che gli apostoli videro nella Trasfigurazione, che gli ingiungeva: “Illuminami le tenebre!”, e non desistette. Gregorio non temeva la debolezza dell’impero: “La povertà”, scrisse, “genera l’assenza di timori”, la quale genera vigilanza, che “elimina le percezioni costituite”. Aprendo “la via della virtù”, che assicura “la gioia e il servizio felice dell’anima”. Non male pure la teologia: increata e divina è per i latini solo l’essenza di Dio, mentre Palamas volle divine e increate pure le manifestazioni dell’essenza di Dio. Senza le manifestazioni del resto l’essenza sarebbe priva dell’essere – Heidegger ci deve ancora arrivare. La verità inoltre si differenzia per lui dalla falsità solo per pochi tratti. E ancora, essi sono rilevabili, definibili, solo eticamente: dipende da ciò che si vuole.
“Gregorio bloccò il sinodo del giugno 1341, convocato dagli unitaristi sul letto di morte di Andronico. Dopo due mesi, con un suo sinodo di poche ore, completò il golpe e aprì la capitale al Cantacuzeno. Lui pagherà per questo con la prigione e l’esilio, la città con la guerra civile. Il 2 febbraio 1347 il partito antilatino vinse, col patrocinio di nuovo di Anna di Savoia. E poi perse: la corona resterà a Giovanni V Paleologo, Cantacuzeno si farà monaco. Ma già i turchi s’aggiravano in periferia. Gregorio sopravvisse aggregandosi a Stefano Dušan, il re degli illiri, ex alleato del Cantacuzeno, che ne pagherà il riscatto quando il futuro santo sarà ostaggio dei turchi – gli illiri, oggi serbi, l’unica popolazione allora combattiva dell’impero, erano detti triballi, con tre palle.
“Quando gli unionisti chiedono un nuovo sinodo, nel 1351, Palamas è ancora isolato, ma riesce lo stesso a bloccarli. Sarà santo pochi anni dopo la morte nel 1359, di 63 anni: ha guarito mani anchilosate e incontinenze corporali, ha provato che il buon autore del colpo di Stato deve difendere la libertà, e ha trovato una “e” che divide, che solitamente unisce. Soprattutto a Istanbul, che è stata bizantina e romana, e ora è orientale ma vuole diventare occidentale. La vera fede è inconciliabile: “Va’ e scavezza il papa”, incitava due secoli prima lo svevo palermitano Federico II in pungenti esametri greci il cartofilace Giorgio di Gallipoli, archivista del locale vescovo, greco.
“Barlaam aveva ragione, converrebbe il conquistatore Mehmet II, che i suoi turchi disse i teucri di Omero, i vendicatori dei perdenti di Troia che poi fondarono Roma, e l’Occidente. Ma alcune cose non si dicono. Nulla più è armeno, per dire. Per esempio il caffè, che per essere diventato turco è innominabile in Grecia. Ma, poi, né in Grecia né in Turchia piace, lo fanno per i turisti, nescafè ribollito”.
(fine)

martedì 16 giugno 2015

Le sanzioni arricchiscono i mediatori

L’America (ma non c’è più la Cia?) denuncia troppi traffici con la Russia per il petrolio. Mettendoci di mezzo qualche broker vagamente americano, ma sottintendendo che il traffico è opera di mediatori europei. È possibile, anzi è probabile: l’effetto delle sanzioni è di favorire la mediazione.
L’esperienza personale dice che precedenti sanzioni, contro Cuba e contro l’Iran, hanno solo favorito il caroprezzi e gli importatori-esportatori. Poco a Cuba, una miseria, l’isola è un mercato piccolo e non aveva niente da vendere, se non lo zucchero di canna, in un mercato in sovrapproduzione. Ma anche su quello gli importatori europei e sudamericani hanno realizzato “creste” cospicue, sotto il manto della solidarietà. Con l’Iran era diverso. Si comprava petrolio greggio, si vendevano prodotti petroliferi raffinati, tutta roba ad alto valore aggiunto. Mentre nel commercio al dettaglio le sanzioni hanno arricchito i famosi bazarì, i commercianti del bazar che lo scià disprezzava. Le sanzioni li hanno irrobustiti a fulcro della borghesia nazionale, pilastri sociali e politici del khomeinismo - provveditori primari delle decime del venerdì direttamente nella case e le casse degli ayatollah, a uso dei poveri e della lotta politica.

Il partito dei demoralizzatori

Non è raro vedere un partito di refrattari o incapaci, che rema contro il suo governo, per non sa che cosa. Giusto per rompere, per antipatia, per principio - per principio? Specie quando questo governo governa bene e ha qualche successo. Senza, comunque, riserve o critiche di qualche spessore, a questo o quell’aspetto dell’azione di governo. Era anzi la prassi della Dc, e il Pd di Renzi se ne può dire la fotocopia – con le correnti, i cavali di razza e tutto, già detto e ridetto.
Senonché: il partito è la fotocopia del modo di essere della Dc, ma il suo rank-and-file non è di parrocchia e di campanile, è l’ex Pci. E questo è il punto, nuovo e stranamente affascinante, mostruosamente: era il Pci una Dc travestita? si comportano gli ex-Pci come i vecchi Dc per camuffarsi, hanno paura? invidiano i vecchi Dc, che furono (sono) al potere tanti anni, e vogliono imitarli? Ne va di mezzo la diversità di Berlinguer, l’ultimo santo.

Problemi di base - 233 bis

spock

Morire per Crocetta?

Crocetta croce?

Ma peggio è in Toscana, pupilla del polifemo Renzi: moriremo per Manzione?

I Manzione sono due, fratello e sorella: per quale dei due?

Perché le primarie sono buone, leali e democratiche? Perché le fa il Pd?

Gabrielli dovrebbe commissariare Marino, ma poi vince Grillo. E allora?

Tutti condannato la guerra contro Saddam, nessuno quella, più pretestuosa, contro Gheddafi: le guerre democratiche sono buone?

Chi è di destra chi di sinistra, nella mafia e in guerra?

E in politica?

spock@antiit.eu