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venerdì 6 gennaio 2012

Monti il federatore esterno

Prima a Bruxelles e poi, soprattutto, a Parigi, Mario Monti ha lanciato come Befana la sfida all’Europa: fare o perire. Garbatamente, come ha ripetuto a Parigi, ma con un argomento inoppugnabile: l’Italia ha fatto la sua parte, l’ha fatta rapidamente e con interventi decisivi, sulle pensioni e sul fisco, tocca agi altri fare la loro. Un discorso rivolto alla Germania, senza nominarla. Cosciente, ha lasciato intendere, che la “volontà europea” dev’essere comune, ma con una chiara indicazione delle responsabilità.
L’offensiva di Monti è partita da una tribuna qualificata come quella che gli ha offerto il convegno parigino organizzato da Sarkozy sul “Nuovo mondo”. Dove ha rubato la scena al presidente francese: una manovra diplomatica di aggiramento molto abile. I quindici giorni fino al 20 - incontro con la Merkel e triangolare con Merkel e Sarkozy - serviranno a ispessire il dossier italiano.
Monti non avrà bisogno peraltro di grandi gesta, il suo “discorso all’Europa” è nei fatti. Nei fatti è come se fossero Monti, il governo italiano e l’Italia i federatori dell’Ue in questa ormai cancrenosa congiuntura: oltre che sull’incerto Sarkozy, la posizione italiana potrebbe infine offrire un varco alla debole Merkel per riportare la Germania ai suoi doveri di primo partner europeo. Il rapporto speciale con il consigliere economico della cancelliera, Lars-Hendrik Röller, che Monti volle suo stretto collaboratore a Bruxelles nel 2003 e poi gli è rimasto vicino, dovrebbe dissipare anche i presunti ostacoli “tecnici”.

Camilleri diabolico non si spende

La cosa migliore è il risvolto, se uno non legge il libro - ma “33 racconti di 3 pagine ciascuno: 333” non farebbe 99? E l’idea, mediata insieme col titolo dal film di Bresson, “Il diavolo probabilmente”. Trentatré aneddoti, a volte faceti, a volte neppure. Sull’imprevisto che ci salva, o ci danna. Con pesanti tracce da vecchio Circolo dei galantuomini – l’autore, diabolico?, non si spende: sono aneddoti che Camilleri non racconterebbe agli amici - e gli amici non si farebbero raccontare.
Andrea Camilleri, Il diavolo, certamente, Mondadori, pp. 171 € 10

L’amore tra il vivo e il morto

“Calendario di morte e resurrezione”, della madre. Con la quale Nelly in solitudine ha vissuto, sessanta dei suoi ottant’anni. La poesia dei “Sepolcri” senza gli eroismi. Dell’accumulo della memoria, la morte aiuta l’amore: “Non faccio che dire addio”.
È la poesia in prosa di uno speciale amore materno, quale è l’amore filiale. Avvicinandosi l’anno dall’evento, Nelly “scrive” alla madre morta. Ci dialoga cioè, con la sola compagna di una vita di solitudine e malattia. Esercitando la “nostalgia della morte”, come di un futuribile: “Tutto è spazzato salvo la nostra destinazione. La morte è il dissipatore del superfluo”. Solitudine, sofferenza, indigenza fisica e economica: “Resta il «silenzio parlante», la «nostalgia»… Oh morte, che partorisci le anime”. Il “silenzio parlante” è della “meravigliosa musica dell’armonia che domanda e risponde”, tra il vivo e il morto.
È la coedizione in contemporanea con la pubblicazione a fine 2010 in lingua originale, “Briefe asu der Nacht”. Un’elegia che si legge in controluce del chassidismo, nel linguaggio iniziatico, acuto, del fantasioso chassidismo, e della sua teologia della redenzione, che Nelly mediò in gioventù con la lettura di Buber e Rosenzweig, e fu il suo orizzonte mentale e il suo conforto nella lunga e travagliata vita. “La redenzione è sorgente e madre”. Nei colori del sogno: “Là dove il divino diventa il colore «Niente»”.
Nelly Sachs, Lettres en provenance de la nuit, Allia, pp.86 € 6

Il governo del presidente lo inventò Segni

Si chiama governo dei tecnici o di emergenza ma è il governo del presidente. Entrato nella costituzione materiale con Scalfaro e ora con Napolitano, è stato divisato e fortemente voluto, al punto da organizzare un tentativo di colpo di Stato, il famoso piano Solo, da Segni nel 1964. Segni non ci riuscì proprio per aver voluto il piano Solo, aver tentato cioè l’impossibile. Questo precedente mise poi a lungo la sordina al governo autoritario dell’uomo forte del settennato. I governi successivi di decantazione si chiamarono balneari o a termine, e furono organizzati dalle stesse forze politiche in Parlamento. Fino al revival di Scalfaro, che lo assortì di due scioglimenti d’autorità del Parlamento.
Il governo tecnico è insomma un governo politico, un tempo contro la sinistra parlamentare, negli ultimi venti anni contro la destra, alla quale il paese è stato condotto dalla operazione Mani Pulite. Dei presidenti di questo ventennio anti-destra, se ne è astenuto significativamente proprio il presidente tecnico per eccellenza, Ciampi, che si è invece attenuto alla costituzione vera.
Il piano Solo, col golpe militare, è contestato da molti storici. Le forze armate non ne erano parte, e nemmeno l’arma dei carabinieri, solo poche diecine di ufficiali allineati sul generale De Lorenzo – che peraltro, medaglia d’oro della Resistenza, non ne accettò mai la paternità. Ma Segni, contrario al centro-sinistra, il governo con i socialisti che la Dc, il suo partito, aveva intrapreso sotto la guida di Fanfani e di Moro, operò attivamente, a pochi mesi dalla formazione del primo governo Moro, per farlo cadere. E sostituirlo con un governo di sua fiducia.
Il bimestrale “Nuova Storia Contemporanea” ne fornisce una ricostruzione accurata. Segni propose la presidenza a Scelba, ex presidente del consiglio e ex ministro dell’Interno, e a Merzagora, presidente del Senato. Forse anche a Pella, altro ex presidente del consiglio. Scelba ne parla nelle sue memorie. Merzagora si prodigò attivamente, proponendosi come il “tecnico” che poteva garantire l’economia.

giovedì 5 gennaio 2012

Gli Usa fanno le guerre, l’Italia paga il petrolio

Gli Usa menano fendenti da un quarantennio nel Medio Oriente e in Nord Africa, l’area del petrolio, per quale motivo non si sa bene, e l’Europa paga il conto. O, meglio, l’Italia paga, e pochi altri paesi europei. Non la Germania o la Francia, che metà dei loro consumi di energia li riforniscono autarchicamente, col nucleare e col carbone. Né la Gran Bretagna, che aveva il carbone e ora ha gli idrocarburi, di cui è esportatore netto.
Periodicamente gli Usa scuotono l’area del Golfo e il Nord Africa, il nucleo centrale della produzione di petrolio e gas nel mondo, con embarghi e guerre, in Ira, Iraq, il Golfo, la Libia, e chiamano l’Europa (l’Italia) a pagare il conto. E l’Europa (l’Italia) volentieri obbedisce e paga.
L’Italia è il paese più esposto ai rincari di petrolio e gas, perché ne è il grande importatore, per oltre l’80 per cento del fabbisogno. Come il Giappone, e in prospettiva la Cina. Che, se non altro, si accodano malvolentieri, e anzi protestando spesso si dissociano, sia dalle guerre che dagli embarghi.
C’è una diversa logica degli aumenti dei combustibili per gli importatori (l’Italia, il Giappone) e per gli altri. Uno schema che si è purtroppo consolidato dalla prima crisi del 1973. Per i primi sono un onere, sempre più gravoso: un circolo vizioso. Per gli altri, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, contribuiscono a rafforzare l’industria nazionale delle fonti di energia, e l’autonomia, in un circolo virtuoso: crescono i margini e gli investimenti.

Queste Ue è il Congresso di Vienna

Alla vigilia del vertice Ue che ha varato l’unione fiscale, si è tenuto a Berlino il Congresso della Spd, il partito socialista tedesco. Il decano dei socialisti tedeschi Helmut Schmidt, ex cancelliere, 93 anni, ha criticato con asprezza la politica della Germania First. Questo il punto centrale del suo intervento, che non ha avuto all’epoca alcuna eco in Italia:
“Gli attivi tedeschi non sono altro che i passivi degli altri stati europei. I diritti che invochiamo i loro debiti. È una violazione di quanto abbiamo seminato sulla base ideale della «bilancia esterna». Questa violazione non può che spaventare i nostri partner. Se soccombiamo alla tentazione di dominare gli altri, i nostri vicini si ergeranno contro di noi. Le preoccupazioni di una periferia attorno a un nucleo centrale troppo forte dell’Unione europea tornerebbero rapidissimamente. Con la probabile conseguenza della paralisi per l’Europa. E dell’isolamento per la Germania”.
L’ex cancelliere ha chiesto “più ambizione”, ma nel senso di “più solidarietà, meno arroganza”. Sul presupposto che l’Europa si attende dalla Germania una funzione politica pilota, ma in un’ottica europea e non nazionale. Che tanto più potrebbe pesare sulla Germania, ha aggiunto, perché “evoca cattive memorie”, il passato è ancora doloroso. “La Germania è cresciuta con l’Europa e grazie all’Europa”, ha aggiunto.
Schmidt ha difeso l’euro, che ha assicurato più stabilità di quanta ne ha assicurato il dollaro o ne assicurasse il marco. Ha definito “punitivo” il nuovo trattato fiscale che si stava per adottare. E, qui con asprezza, ha attaccato la Commissione di Bruxelles e “tutti coloro che fanno” oggi l’Europa, accusandoli di attentare alla democrazia. Si è scusato di non avere fatto abbastanza, quand’era cancelliere, per rafforzare il Parlamento europeo. E ha chiesto a Martin Schulz (il “nemico” di Berlusconi) d’impegnare a questo fine il partito e i socialisti europei.
Schulz ha convenuto, con l’ormai noto stile categorico: la Commissione europea, ha detto, ha cessato di esistere, facendo e disfacendo i governi, come in Grecia e in Italia, si è trasformata in un congresso di Vienna, in testa il duo Merkozy.

Ombre - 114

Di Frederick Seidel, il poeta americano famoso per le sue Ducati (prima di Valentino Rossi?) la “London Review of Books” dell’1 dicembre pubblica la poesia “Rome”. Che così si conclude: “L’eccitazione monta finché la repubblica italiana diventa isterica\ L’orgasmo è un’aria d’opera italiana di vanteria e brina” - il corsivo è in italiano nella versione originale.

A Berlino a Natale si poteva pagare in marchi. Le bancarelle al mercato di Alexander Platz rassicuravano: “Qui si può pagare in marchi tedeschi. Un euro = due marchi”.

La Corte Costituzionale deciderà sui referendum elettorali tra dieci giorni. Ma la sua decisione è già sui giornali. Questi dieci giorni che mancano all’annuncio se li prende di vacanza?

Grave scandalo perché un vicecapo della polizia dice in Parlamento che le camere di sicurezza non sono attrezzate a fare da prigione. Le ministre dell’Interno e della Giustizia dicono che non è vero. Ne hanno mai visto una? Perché Napolitano c’impone queste persone a ministre? Perché c’impone questi gravi scandali?

Un professor Giovannini fa uno studio comparato di retribuzioni e rimborsi spese parlamentari in giro per l’Europa. Per dire che i parlamentari italiani sono strapagati. Lo manda anche a mezzo mondo ma non al governo che glielo ha commissionato (era il governo Berlusconi, ma un governo c’è pur sempre) e alle Camere. Poi lo definisce un papocchio: le voci non sono comparabili. Questo stesso professore è presidente dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica.
Si capisce perché l’Istat dica da dieci anni che non c’è l’inflazione: dev’essere un disco rotto.

I candidati repubblicani alla presidenza americana sembrano tutti improbabili a un europeo. Bachmann non vuole le tasse federali e la riforma sanitaria. Santorum è un “creazionista”, benché cattolico, un anti-Darwin. Paul è antistatalista al punto di rifiutarsi di ritirare la pensione. Romney e Gingrich sono manager e consulenti finanziari. È anche questo un teatrino della politica, ma quanto meno noioso.

Ottanta agenti del fisco a Cortina per San Silvestro, con diaria onerosa e straordinario festivo. Per accertare che alcuni possessori di Suv e Supercar dichiarano redditi bassi. Non l’avevano accertato prima? Bisognerebbe metterli dentro: accertare la proprietà di Suv e Supercar dovrebbe essere automatico alla registrazione al Pra.

C’è sdegno per i ricchi di Cortina: i grandi giornalisti dei grandi giornali li vorrebbero tutti ar gabbio. Anche se loro pure vanno tutti a Cortina, specie se invitati.
È tanto lo sdegno che lì si esaurisce. Non ce n’è infatti per il banchiere superministro Passera che obbliga mezzo milione di vecchietti ad aprire, gestire e pagare un conto corrente per avere i soldi della pensione – che diventeranno due milioni fra qualche mese.

Le Poste tornano a non consegnare più le cartoline – la corrispondenza dichiaratamente privata – ed erraticamente le lettere. La scoperta delle Poste americane fu la grande meraviglia del dopoguerra, e del grande film di Jacques Tati, “Giorno di festa”. Era una delle tante scoperte della liberazione? Ma le Poste funzionavano alla stessa maniera, prima della guerra, anche in Europa e in Italia. E anzi un secolo fa, prima della Grande Guerra: le lettere arrivavano. Il giorno dopo in tutte le corrispondenze famose, quella di Pascoli per esempio, da un borgo della Garfagnana interna a un borgo della Romagna.

Lo sceicco Al Khalifa, che assiste all’allenamento, su una sedia di plastica, tra Leonardo e Ancelotti, mentre la squadra sfila di corsa, in assetto atletico, in (quasi) allineamento, sul prato sintetico, sotto un cielo grigio. Il quadretto della la corte dei tempi moderni, dollari e plastica.

Incisiva, illuminante, memorabile, tutta da leggere la brevissima storia del calcio di Paolo Casarin sul “Corriere della sera” martedì: “Lo show a tutti i costi”.

La società Autostrade a ottobre affiggeva ai caselli un cartello: “L’aumento ingiustificato dell’Iva ci costringe a un aumento delle tariffe”. L’iva aumentava dell’1 per cento, le tariffe del 2. Ora Autostrade aumenta le tariffe del 3,5 per cento, anche se l’Iva aumenterà fra sei mesi. È un premio per la resistenza autunnale? Questo aumento si fa e basta, senza cartelli indignati. E senza proteste.

In nessun articolo del “Corriere della sera” su don Verzé e il gruppo San Raffaele si dice che Rotelli è il primo azionista del giornale, non sgradito.

Si leggono cose assurde in morte di don Verzè. Con i vituperati Craxi e Berlusconi ha potuto fondare il san Raffaele (ospedale, università, centro di ricerca), di cui tutti dicono bene. E dunque dove sta il bene e il male? Chi ha crocefisso quest’uomo senza accusarlo precisamente di nulla?

I cronisti giudiziari del caso don Verzè e i loro giudici non inventano nulla, il canone dell’accusa non è nuovo. Tra le due guerre fu usato contro padre Pio: profumi di marca, dolce vita, abusi sulle figlie spirituali, tesori nascosti. Ma è più antico, dell’anticlericalismo.

Yanukovich ha fatto arrestare e condannare la sua rivale Timoshenko alle elezioni presidenziali del 2010 con l’accusa di avere svenduto l’Ucraina alla Russia. Ma non era Yanukovich l’uomo dei russi nella saga dieci anni fa della “rivoluzione arancione”, contro l’eroe Yushenko? Che ci raccontano gli americani? E perché noi ci crediamo?

Angela Merkel ha prodded Napolitano a cacciare Berlusconi, lo ha spinto, stimolato, come insegna Pino Sarcina sul “Corriere della sera”, o si è solo detta preoccupata per l’Italia? Napolitano, un atto di coraggio, per una volta dica la verità: mi sono arreso a Milano.

Lele Mora, che non ha ammazzato nessuno ma sta in carcere malato, e i giudici di Milano (ma sono tutte donne) che dicono che sta bene e che sta meglio in carcere, beh, Milano ogni tanto si scopre.

Va all’asta a Milano l’ospedale di don Verzé. Finalmente si capisce perché quest’uomo è diventato all’improvviso un lestofante.

“È difficile giudicare quel che accadeva allora”, dice il presidente della Einaudi Cerati a Simonetta Fiori su “Repubblica”, degli anni 1950-1955: “Stalin era quella roba lì, il laudatore dell’uomo semplice” – secondo una stampa agiografica appesa alla parete dell’ufficio, nota l’intervistatrice. Una rivalutazione di Stalin? Potrebbe essere un filone di mercato.

La vedova Sanguineti è per Marta Vincenzi, sindaco di Genova, e contro Roberta Pinotti, senatrice. Tutt’e tre le signore sono democratiche ex Pci, ma di due correnti diverse. Se la candidatura a sindaco andrà alla Pinotti, la vedova Sanguineti non donerà al Comune la preziosa biblioteca del marito. Novità? Beh, una c’è: una volta la faziosità era negata.

mercoledì 4 gennaio 2012

Ma la Francia dice no

Monti, il governo italiano, l’Italia potrebbero essere la sua ultima arma, l’ultima ciambella di salvataggio per il presidente francese Sarkozy, tanto potente in patria e tanto isolato. Più delle riserve di Moavero, è infatti la Francia, uno dei due fondatori della Ue “germanica”, che potrebbe portare al rifiuto della unione fiscale europea. Non subito, entro giugno: nella campagna elettorale di primavera e subito dopo. Ma già al vertice europeo tra un mese Sarkozy dovrà mantenenrsi cauto. A meno che il compito svolto e la buona coscienza dell’Italia non gli diano il coraggio e la possibilità di smarcarsi dalla cancelliera Merkel, se non di denunciarne le responsabilità.
Il presidente francese è praticamente solo in Francia a sostenere il patto tedesco. Ha contro la destra, ha la fronda socialista (ma tutte le correnti socialiste sono contrarie, compresa quella della supereuropeista Martine Aubry), e all’interno del movimento gollista, e nel nuovo Centro di François Bayrou e del suo nemico de Villepin, è criticato per l’eccessiva arrendevolezza. L’opinione resta sicuramente antifederalista in Francia, e più ora che la prevalenza tedesca è manifesta. Lo è di principio e di fatto. Di principio per la cessione di autonomia. Di fatto perché riduce salari e pensioni, nel mercato privato e nel potentissimo pubblico impiego, comprese le aziende pubbliche. L’«Europa tedesca» non piace. Alcuni esponenti socialisti si sono spinti a evocare i peggiori momenti del Novecento. Ma anche il candidato socialista Hollande, europeista, è andato in Germania a dirlo, al congresso socialista, alla vigilia del patto fiscale: “Non è concepibile un direttorio franco-tedesco per gestire l’Europa”. E: “Nessun paese ha lezioni da dare a un altro. Abbiamo bisogno di un compromesso dinamico tra la Francia e la Germania”. E anche la Francia potrebbe giovarsi ora del veto di Cameron, che impone accordi intergovernativi tra i 26, con le relative lunghe procedure. Senza cioè doversi spingere all’eccesso di sei anni fa, quando silurò la Costituzione europea con un referendum dall’afflusso massiccio.
Già si parla in Francia di Unione fiscale rivista. Sulla traccia della Costituzione europea. Quella bocciata al referendum del 31 maggio 2005, 448 articoli, redatta sulla base del trattato di Amsterdam tre anni prima, fu sostituita a metà dicembre 2007 dal Trattato di Lisbona, 70 articoli, e una quindicina di modifiche all’assetto iniziale. Una di queste è la possibilità di recedere dall’Unione. Anche per il Trattato di Lisbona il paese che pose più problemi fu la Gran Bretagna. Anche allora Polonia e Francia fecero leva sulla Gran Bretagna per far valere le loro proprie riserve.

Come sopravvivere alla Germania

Appena accettata la formula tedesca dell’unione fiscale, il governo Monti si è preoccupato dunque di delimitarla. È questo il senso del memorandum, che il ministro Moavero ha reso pubblico, con tutti i paletti che Roma intende porre a Berlino al prossimo vertice europeo tra un mese. L’applicazione dell’accordo del 9 dicembre, quello che subì il veto di Cameron, obbligherebbe l’Italia a ridurre ogni anno il debito di 50 miliardi, e questo semplicemente non è possibile. La pubblicazione del memorandum è intesa ad attivare una indispensabile, difficoltosa, azione diplomatica volta a “interpretare” i termini dell’accordo.
Il sì a dicembre è stato dunque un errore di calcolo dei professori? Può essere. Sicuramente il ripensamento rientra nell’ottica di Monti, che è germanofila per Realpolitik, dovendo riconoscere i veri rapporti di forza, ma idealmente e dottrinalmente è più inglese. La cessione di sovranità, in nessun quadro costituzionale o istituzionale di garanzia, non può andare bene per Monti, come per Cameron, già prima dell’impossibilità pratica per l’Italia di ridurre il debito ogni anno di 50 miliardi.
Ciò può andare bene alla Polonia, che è sempre in lotta per la sopravvivenza con la Germania. Può andare bene anche alla Francia, che non vuole e non può rinunciare all’illusorio asse o duummvirato con la Germania. L’Italia invece punta a u’adesione larga si suoi paletti da parte dei paesi piccolo-medi del’Unione, a partire dall’Olanda.

Il modello tedesco

Angela Merkel celebra un anno fausto, con un aumento del pil, l’unico in Europa, e dell’occupazione. Ma perde tutte le elezioni. Non senza motivo.
Portata a esempio oggi in Italia di sana rigidità, quasi una reincarnazione della Thatcher, Angela Merkel ha fruito nel 2011, e fruirà si spera nel 2012, della cosiddetta “Agenda 2010” messa a punto nel 2003 dal governo socialista di Schröder che l’ha preceduta – e che per essa ha perso le elezioni. La cura Schröder si basa su un allargamento della domanda di lavoro di un buon sesto. È questo l’effetto dell’aumento dell’età pensionabile dai sessanta ai settant’anni. E sull’espansione dei bassi salari, sotto i mille euro al mese. In un paio di milioni di casi sotto forma di part-time, per cui si lavora mezza giornata, con un’integrazione federale del salario (una delle spese non contabilizzate nel debito pubblico, che fu all’origine tre mesi fa dell’allarme sul debito reale della Germania lanciato da “Handelsblatt”, il “Sole 24 Ore” tedesco). I bassi salari erano un sesto del totale dei salari otto anni fa, sono un quarto oggi.
È tutto qui, incidentalmente, il divario di produttività accumulato nel decennio 2000-2010 dall’Italia nei confronti della Germania, che spesso si cita nei talk-show: trenta punti. I salari medi italiani, pur in diminuzione, sono in aumento rispetto alla produttività tedesca: nei dieci anni dell’euro, i costi per unità di prodotto sono aumentati del 9 per cento in Italia, e sono diminuiti del 17 in Germania. In parte per effetto di una diversa modulazione e intensità degli investimenti, ma nella parte maggiore per il forte divario nel costo del lavoro.

L’Italia, una democrazia autoritaria

È scandalo a Napoli – figurarsi – contro la gip Laviano che ha trascritto tal quale in una sentenza l’atto d’accusa della Procura. Escluso il dolo (che la dottoressa abbia stilato una sentenza-suicida, i magistrati lo fanno spesso), il fatto non è un’eccezione: il gip è un falso giudice, è un’ombra delle Procure, la dottoressa Laviano ha solo sbagliato la copiatura, evidentemente lasciata alla segretaria. Ma il peggio è quello che verrà: il Csm sanzionerà la dottoressa, blandamente, e tutto continuerà come prima, la giustizia la faranno le Procure. Contenti Napolitano, Vietti e ogni altro tutore della democrazia. Perché la democrazia italiana è autoritaria. Si dice bloccata ma è autoritaria.
L’autoritarismo è una categoria precisa (insomma) della sociologia politica, da cui l’Italia è sicuramente protetta dalla sua Costituzione, ben democratica. Ma è un miraggio, la realtà della vita quotidiana – anche a voler rifiutare la nozione di costituzione materiale, che pure è ben reale – è autoritaria. La Costituzione è ben salda in Italia e anzi non si riesce nemmeno ad ammodernarla, per come necessiterebbe. Ma è inapplicata. In ogni suo capitolo e si può dire in ogni suo articolo: sulla presidenza della Repubblica, il federalismo, il sindacalismo, la libertà d’opinione, il diritto al lavoro, la protezione delle minoranze e dei deboli, la giustizia, naturalmente, ancora iperfascista. E il governo: l’invenzione del governo tecnico, che non esiste in nessun posto se non negli interessi costituiti, è solo una stravaganza nell’anticostituzionalità ordinaria.
Un semplice elenco dei fronti autoritari è già una spiegazione, tanto l’antidemocrazia vi è manifesta.
L’informazione non ha alcuna deontologia se non quella dei suoi padroni – Rai compresa.
Tutti i corpi separati dello stato.
Compresa la corte Costituzionale – non ha mai protetto il cittadino.
Il Csm, le Procure, i Tribunali.
Le Poste.
Il fisco.
Le Autorità. L’illegalità di fatto le Autorità costituire da Prodi nel 1997 a protezione dei clienti e degli utenti non hanno fatto che aggravare, al costo di qualche miliardo per il loro lussuoso mantenimento.
La proliferazione normativa.
La mutevolezza delle norme: ciò che è valido il mese scorso non è valido ora, e tra sei mesi sarà ancora diverso. In un’elezione si anni fa a Roma si è votato con cinque sistemi elettorali diversi – o erano sei?
La proliferazione: ci sono un centinaio di termini e prescrizioni diverse, per le multe stradali, i ricorsi, gli accertamenti fiscali, diversi di anno in anno. Perfino per il finanziamento pubblico dei partiti, che un certo anno è perseguibile, quando un certo partito che ci è antipatico si può accusare di finanziamento illegale, ma l’anno dopo no, se un altro partito che ci è simpatico si è finanziato illegalmente.
Un’Italia si può dire, in fatto di leggi e applicazione della legge, fortemente autoritaria. Con la giustizia ridotta a intercettazioni e dossier, con fortissime discriminazione fra i potentati e anche fra i comuni. Oberati da una microlegislazione proteiforme e inaccessibile, che cambia le regole, le procedure, i termini ogni paio di mesi, e i nuovi termini rinchiude in sigle di una riga incomprensibili eccetto che ad avvocati e commercialisti da pagare profumatamente, Dpr, Dprm, etc. Una legislazione che ha sostituito l’imposta bruta del sale, ma ha lo stesso scopo, ed è molto, infinitamente più, onerosa.
Il fatto principale, che mai si mette in rilievo, e anzi si annega sulla società che è peggiore dei politici, è che l’Italia è impropriamente una democrazia. Cosa che tutti sanno, eccetto gli studiosi. La Costituzione è democratica ma lo Stato è sempre quello umbertino\fascista, ribattezzato etico dagli stessi fascisti, e cioè autoritario. La Resistenza non ha debellato quello Stato, non ci ha nemmeno tentato. Il Sessantotto l’ha sfidato e in parte vinto, ma l’impianto resta autoritario, e le aree autoritarie sono più di quelle democratiche.
Enorme è l’autoritarismo che il politico mantiene, non più controllato, da una quindicina d’anni, dalla dialettica politica: sanità, fisco, giustizia, amministrazione urbana, informazione, le funzioni pubbliche principali dipendono dalla mediazione politica – la raccomandazione, la lottizzazione. E persino i minuti adempimenti della vita quotidiana: l’iscrizione alla scuola, la pulizia delle strada, l’equità del servizio pubblico, considerato anche il tempo e la fatica delle code. Tariffa.
Si è cancellata con i socialisti la funzione di controllo del potere politico. O delle due subculture dominanti, la cattolica e la comunista, apparentate negli anni 1970 da Berlinguer nel compromesso storico, e quindi nella gestione della specifica questione morale che lo stesso leader comunista imponeva. La libertà è come non mai intesa come sottogoverno, affiliazione alle due culture dominanti, faziosamente discriminatorie.

Venezia cupa, all’ora della Lega

“In un paese nel quale un giudice poteva mettere a verbale che la mafia italiana e il governo italiano erano la stessa cosa, non c’era più niente e nessuno che fosse da consederarsi sacro”. Ma Dibdin non fa le barricate per il sacro, vuol solo dire che il suo Aurelio Zen, il commissario veneziano, non è uno scemo, considerando l’equiparazione una stupidaggine e forse una furbata. Mani Pulite del resto, sono gli stessi anni, è un modo per ogni imprenditore di “mettere nei guai due o tre concorrenti”. Come se che accusare gli altri lavasse le colpe.
Questo scrittore inglese di gialli sarà il miglior testimone dell’Italia nell’ultimo ventennio del Novecento. Qui il veneziano Zen, trapiantato a Roma con la mammetta, scandaglia la sua Venezia negli anni del trionfo della Lega – che ci furono: la città forse se ne vergogna, ma qui la Lega trionfa (e in “Aprile”, il film di Moretti). Un luogo arcigno, quale è per i suoi residenti nei giorni vuoti dal turismo, e anche per effetto del turismo. Dove il freddo è insopportabile la notte, e di giorno c’è la nebbia spessa, la neve ghiacciata, o il fango puzzolente, pieno di topi, della bassa marea. Nella Laguna Morta propriamente detta, a nord della città, luogo di desolate paludi e saline, ossari di morti e sabbie mobili. E in periferia, le isole, dove si abita in palazzoni a sei piani. Un cupo scenario per un’Italia senza rimedio: la soluzione in questi gialli italiani è impossibile, ma il racconto di come e perché lo è, quello è appassionante nelle mani in un inglese.
Michael Dibdin, Laguna morta

lunedì 2 gennaio 2012

Don Verzé è morto quando disse no a Bazoli

È una storia molto milanese, quella di don Verzé, bella e bruttissima. Approdato a quarant’anni dal Veneto a Milano, ha potuto fondare il san Raffaele, aveva l’idea e l’energia buone, e ha trovato i soldi. Ma l’affare, arrivando ai novant’anni, doveva cedere ad altri interessi, si è rifiutato, e la storia si è fatta improvvisamente sordida, di minacce e ricatti: “Milano” l’ha fulminato, la congerie di interessi che controlla la capitale lombarda e domina l’Italia.
Tutto andava bene fino a un anno fa. Poi l’amministratore delegato di Intesa Passera, l’attuale superministro, gli ha intimato di rientrare dei debiti. Mentre un compratore si faceva avanti, Rotelli. E la curia milanese di Tettamanzi gli si ergeva di nuovo contro: in passato lo aveva fatto, con violenza, anche Montini, da vesocovo di Milano e poi da pontefice – il rapporto con la curia fu ricucito da don Verzé sotto la prelatura Martini. Il Vaticano di Bertone era allora intervenuto a difendere don Verzé. Ma Passera aveva già passato le carte alla Procura di Milano.
Una serie obbrobriosa di accuse è stata quindi, improvvisamente e poi con continuità, diffusa sui giornali, contro un personaggio e un’istituzione fino a qualche giorno prima osannati. Senza un’imputazione: don Verzé è morto senza imputazioni. Mentre è stato dato a credere che fosse un bancarottiere, un megalomane, che viveva nel lusso, un affarista, un ladro, un criminale (associazione a delinquere), un corruttore (fondi neri). Gli fu imputato il suicidio del suo direttore generale Cal, che invece non aveva retto all’ondata calunniosa. Si tentò pure l’improbabile pista godereccia, col supporto di una sua fotografia in costume da bagno.
Don Verzé doveva dare il suo gruppo in dote al neo guelfismo milanese. S’è rifiutato. Gli hanno preso tutto. Allo stato degli atti è questa la sola verità. Né ce ne può essere un’altra, è già stato fatto l’infattibile, in termini di calunnie disintegratrici, sia pure sotto forma di indiscrezioni e “indagini” della Procura di Milano. Ora il suo gruppo è valutato 300 milioni dal compratore rifiutato della primavera scorsa. Mentre vale quattro-cinque volte tanto – e i 300 milioni sono una valutazione, non una somma reale (Milano ha una lunga storia di società pagate con niente: Montecatini, Rizzoli-Corriere della sera, le banche d’interesse nazionale, la Sme di De Benedetti sono i casi maggiori di una lunga serie).
Il fallimento di un gruppo è sempre opinabile: non c’è un criterio astratto o una norma che sancisca il limite. I parametri del codice civile sono flessibili, tanto più che la presunzione è più che mai a “innocentare” gli affari: mantenere il più a lungo possibile la produzione, l’occupazione, il reddito. Il gruppo san Raffaele aveva debiti per un miliardo, ma pagava alle scadenze. È diventato insolvibile al momento in cui Passera gli ha ingiunto il rientro: il fallimento è stato voluto da Banca Intesa, cioè dal maggior creditore – un caso più unico che raro. La banca di cui è patron Giovanni Bazoli, che domina la finanza, l’editoria, la curia milanese, e ora anche il governo (Monti, Passera, Fornero, Profumo, Ornaghi).
La miniera sanità
La sanità resta sempre, malgrado la concorrenza dell’“energia verde”, il settore economico di maggior “potere” politico - foraggiamento del sottogoverno. Rotelli è anche il primo azionista della Rcs, la casa editrice del “Corriere della sera”, con una quota non dichiarata del 15 per cento – quella dichiarata ammonta a poco più dell’11 per cento. E anche questo è una parte importante della vicenda, del suo lato obbrobrioso.
Rotelli è stato a lungo un politico della sinistra di Base Dc, collaboratore a Milano di Piero Bassetti, ex presidente della Regione Lombardia. Manager del policlinico San Donato Milanese nel 1980, ha organizzato, in qualità di consulente di Bassetti, il piano sanitario della Regione Lombardia, e ha assunto varie consulenze nazionali, sempre nella stessa area Dc, sempre nella miniera sanità. Ha poi capitalizzato la rete di relazioni investendo in proprio, a partire dalla seconda metà degli anni 1980: in in un decennio è diventato padrone di diciotto ospedali, di cui diciassette in Lombardia e uno nella finitima Piacenza.
Rcs è la sola diversificazione di Rotelli. Di Rcs Rotelli è socio ingombrante ma non contestato. Non è entrato nel patto di sindacato, ma siede in consiglio d’amministrazione. Un’ascesa avvenuta con la cauzione di Intesa. E per l’interesse prevalente, si ritiene pacificamente, del gruppo bancario: Rotelli rappresenterebbe in Rcs, direttamente e indirettamente, Giovanni Bazoli.

Il mondo com'è - 79

astolfo

Giustizia – Quella politica è per antonomasia fascista, assolutista. In Italia è invece da vent’anni di sinistra. Ambisce cioè a essere democratica. È una storia inedita e una brutta storia. È un cascame del sovietismo, una forma di assolutismo, per molti aspetti anche fascista, che s’è impadronito dell’Italia dopo la sua caduta nell’Unione Sovietica

Immunità parlamentare – Si vuole una protezione, è una tagliola: è la giustizia politica per definizione. Il parlamentare contro il quale le Camere, per motivi politici, spiccano l’autorizzazione a procedere è già condannato. In camera, senza dibattimento, senza prove. L’autorizzazione a procedere è una condanna. Dichiaratamente politica, non ammantata della sacralità di cui si ammanta la giustizia.
Il caso di Papa, parlamentare magistrato inviso ad altri magistrati, in una faida dichiarata, nella stessa città (Napoli) e nello stesso ufficio (Procura) che ne hanno voluto l’incrminazione (e che per questo sarà assolto quando si farà un vero giudizio in un dibattimento pubblico, non quelli falsi di gip, gup e riesami), è per questo aspetto evidente: Papa è stato già condannato con l’autorizzazione a procedere. Ha fatto già il carcere. E ha finito di vivere la sua vita. Senza l’autorizzazione, sarebbe un giudice in lite con altri giudici.

Islam – Più di ogni altra cultura politica resiste al modulo occidentale. Dell’uguaglianza, della libertà di opinione, dell’autonomia reciproca tra politica e religione (laicismo), del voto politico periodico e plurale, del rispetto delle minoranze. È per questo forse il mondo su cui l’Occidente ha concentrato la sua forza militare, con numerose guerre “umanitarie” o “per i diritti civili”.
Ma l’Occidente alterna la guerra con fantastiche illusioni di “primavere democratiche” in quello stesso mondo. A opera delle forze più dichiaratamente islamiche. L’Occidente pensa cioè di utilizzare l’islam per una democratizzazione delle masse islamiche. Sembra un proposito nobile, ma è (è stato finora e ha tutta l’aria di volerlo essere) un artificio per indebolire e disperdere le forze della modernizzazione, già all’opera con ottimi risultati nello stesso mondo islamico, sotto l’effetto massa.
L’islam era un fattore politico residuale in tutto il mondo arabo, nel subcontinente indiano e in Indonesia negli anni 1970. Gli Usa ne hanno fatto un fattore principale in Pakistan, negli anni della tentata sovietizzazione dell’Afghanistan, quindi in Iran, e in rapida successione poi ovunque se ne è presentata l’occasione, fino alla Turchia.

Italia – È un esercizio in masochismo, blando. Anche quando vince la Nazionale, è sempre per caso – mentre gli ultimi avversari ai grandi trofei, Francia e Germania, ancora si leccano le ferite. C’è una ragione? Evidentemente sì.
Galli della Loggia, “L’Italia contemporanea 1945-1975”, a cura di V.Castronovo, 1976, afferma alla p. 427: “Il nuovo e «moderno» universo antropologico dei ceti medi non ha alle sue spalle, riposto cioè nella società civile, alcun patrimonio di cultura, di tradizioni di libertà e di individualità che possa dirsi geneticamente capitalistico”. È possibile.
Il patrimonio c’è, ovviamente. Si può dirlo allora insufficiente. Ma non più vasto, a un censimento pro capite, è questo patrimonio nei feudi della democrazia, la Svizzera, gli Usa, la Gran Bretagna. Quello che alla borghesia manca in Italia è l’affermazione della sua superiorità etica, di fronte al populismo forte delle cosiddette subculture post-risorgimentali, la liberale, la cattolica, la socialista, la fascista, la comunista. Già Leopardi, nel Discorso” ha in più punti il tema, ripreso più volte, della “società stretta”, che manca all’Italia.

Ma lo stesso Galli della Loggia mostra di ricredersi. L’individualismo (borghesia, capitalismo) c’è. È un vizio? Resiste, nota Ernesto Galli della Loggia nel sorprendente “L’identità italiana”, il saggio con cui ha aperto la serie del Mulino dallo stesso nome, per “il formidabile potenziale individualizzante costituito dall’essere stata (l’Italia) a suo tempo la culla della latinità e dall'essere la sede storica del cristianesimo cattolico”.
Nonché dell’urbanizzazione. L’Italia è un paese di città. C'erano 7.721 comuni in Italia al momento dell’unità nel 1861, contro i 1.307 della Francia, che ha una superficie di poco inferiore al doppio dell'Italia. Un terzo dei centri urbani risale a epoca pre-medievale. Il ruolo della Chiesa è tipicamente “italiano”, notava Leopardi nello “Zibaldone”, per la parte che vi hanno uomini e lingua della penisola. E anche, aggiunge Galli Della Loggia, perché “è nella forma che esso prende in Italia che il cristianesimo sembra attingere un'irrepetibile quintessenzialità”. La città, centro unificante e stimolo della collettività, della società “civile”, è morta con lo Stato lontano e ingombrante, sbirresco.
Il familismo? Colpisce molto i sociologi anglo-sassoni - gli stessi che fra due ragazzi che procedevano sottobraccio vedevano turpi sodomie. Antropologi stanchi, poiché l’Italia non è latitudini inarrivabili, e non è incomunicabile. Anche Galli della Loggia ci crede, temperandolo con la propensione oligarchico-corporativa e l’individualismo radicato nell’ultra-bimillenario localismo.

Il libro italiano per eccellenza, “Cuore”, scritto da un socialista, magnifica e propone a esempio tute le tare del costume italiano prefascista, o protofascista. L’Italia continua a scrivere il libro “Cuore”, anche se non lo legge più: la Rai, tutta la tv, i giornali, i rotocalchi. Col risentimento. Quello della “Genealogia della morale” di Nietzsche, che è la bontà dei signori: la superiorità morale, e anche la magnanimità. Contro gli Usa, contro Berlusconi, contro i comunisti, e contro gli italiani.
“Ciò che è misantropico è falso”, scriveva il filosofo Alain a Simone Weil a proposito del suo saggio “Oppression et liberté”. Questa Italia che si nega è sempre la borghesia che si nega.
Sabino Cassese, in una presentazione del libro di Bidussa, “Siamo italiani” all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, a fine novembre 2007 si soffermava su questa caratteristica: non c’è sfiducia “del Paese reale nel Paese legale, ma piuttosto l’inverso, sfiducia del Paese legale nel Paese reale, delle classi dirigenti verso la società”.
Un’osservazione cui bisogna fare una premessa: che in Italia da troppo tempo tutto è politica, e questa sfiducia è essa stessa causa del suo malessere. Il blateramento vuoto di una presunta classe dirigente, di tecnici e specialisti.
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Settanta – Sono il manierismo degli anni Sessanta. Artificiosi cioè. E oltranzisti. Sono la decade della droga, della violenza sessuale, etero e omosessuale, dell’oltranzismo verbale, della vilificazione di ogni conquista economica e sociale negli sterili “diritti”.

Tecnici – Una specialità italiana, della Repubblica. L’Italia non ha mai amato i partiti politici, ma più nella Repubblica. Sempre a opera degli stessi, i liberali, che al fondo sono anarchici – talvolta “repubblicani”, cioè del Pri, un partito, a volte radicali, da ultimo, come sembra, Democratici. I liberali “non esistono” in Italia, ma per questo si vogliono radicali: non si è mai abbastanza liberali né liberi. Da qui l’invocazione del tecnico della politica. Un equivoco, che si trasforma in fucina dell’antipartito, dell’antipolitica, dell’antidemocrazia.
È lo stesso equivoco della “società civile”, quella dell’“Italia paese di merda”. Che non ha alcun titolo per dirlo, volendosi essa ammanicata e superiore. Avida, in piccolo certo.
Il tecnico è la personificazione del governo platonico degli intellettuali. E dell’insofferenza di una storia senza stacchi. Senza cambiamento. Senza nemmeno processi o tagli netti nella guerra civile che pure c’è stata, solo vendette. Del trasformismo fin dall’inizio con Rattazzi. Di una liberazione che fu solo militare, opera degli Alleati. Di una Resistenza che politica e non militare, un adattamento alla sconfitta e all’8 settembre, e anzi accentuò i caratteri perversi, la vendetta, la faida, la violenza sregolata.

astolfo@antiit.eu