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sabato 14 maggio 2016

Il percepito degli immigrati

Non ci sono più profughi e migranti oggi di quanti ce ne fossero negli anni passati. È solo cresciuto – “esploso” è la parola giusta – l’attraversamento del Mediterraneo, dal 2014 in poi. Su mezzi di fortuna, con un numero conseguentemente elevato di morti, vicino ai duemila nel 2014 e ai quattromila nel 2015.
L’emigrazione è robusta ma non una novità né un’eccezione. L’Atlante Onu della popolazione quantifica nel 2015 i nati all’estero nei vari paesi in 244 milioni. Il 3,3 per cento della popolazione mondiale, 7,35 miliardi. Con una crescita di circa il 10 per cento rispetto al 2010, da 222 a 244 milioni – ma appena dal 3,2 al 3,3 della popolazione mondiale. La crescita è stata minore nel quinquennio, del 6 per cento, nei paesi Ocse, o “sviluppati”. Che nel 2015 ne contavano 141 milioni. Molto maggiore è stata invece nei paesi “in via di sviluppo”, del 16 per cento, per un totale nel 2015 di 103 milioni.
Il fenomeno è più percepito nei paesi ricchi perché la popolazione immigrata cresce in rapporto al totale, per effetto della denatalità. La popolazione totale in questi paesi è rimasta quasi inalterata, era di 1,23 miliardi, è di 1,25. Gli immigrati quindi nel quinquennio passano dal 10,7 all’11,2 per cento della popolazione totale. Nei paesi in via di sviluppo, invece, pur crescendo sensibilmente, l’incidenza degli immigrati è minima, l’1,7 per cento, lo stock demografico essendo molto più elevato e in crescita, da 5,7 a 6,1 miliardi.
In Europa l’incidenza media dell’immigrazione sulla popolazione è sull’11 per cento. Cioè elevata. Ma questo per effetto della denatalità: la popolazione europea è da tempo stabilizzata, sui 550 milioni – Russia e Ucraina escluse. Ma la nuova immigrazione nel quinquennio è stata solo di quattro milioni, da 56 a 60.
Ieri il presidente Mattarella ha scoperto – e con lui i giornali – che il Libano ospita più sfollati siriani che l’Europa intera. Cosa che tutti sanno, chi conosce ancora un po’ di geografia, ma rimuovono, per appendersi al “dibbattito” del giorno. Che è appunto l’immigrazione come assedio, invasione, orrore. Le cifre danno la misura dell’indigenza dell’Europa più di quanto il presidente abbia potuto dire ieri.

Firenze al trancio senza’anima

Firenze, quando Elena Stancanelli era piccola, era grande. C’è questa dimensione, perduta, in filigrana sulla memoria. Aveva il doppio degli abitanti, e tra essi anche gente d’ingegno. Ora, non è che i fiorentini d’ingegno siano tutti tra quelli che hanno abbandonato la città, ma è come se così fosse avvenuto. Senza contare che la demografia conta: il dimezzamento della popolazione è un trauma, e l’assottigliamento continua. A vederla dall’esterno Firenze sembra una città abitata solo da turisti, serviti dai nordafricani del mercato di san Lorenzo, e di molto piccolo e medio commercio. Un mondo rispettabile, ma come un gigantesco Tivoli, seppure in solida pietra, un parco del Rinascimento.
Firenze è sempre Firenze, non è stata distrutta, ma è come disabitata, disanimata. È questo che turba la scrittrice quando ci torna, come spesso fa: l’incapacità della città di vivere, se non per vendere ricordini e pizza al taglio, senza nemmeno tanta fantasia. Tornare a Firenze e non trovarci l’anima è vecchio topos. “Ho molti amici a Firenze, ci torno spesso”, scherzava Luca Pavolini, “ma sono tutti vecchi, del Quattro-Cinquecento, qualcuno del Trecento, anche del Duecento”. Si assottigliano anche le migliori rendite, è inevitabile. E quando inglesi e francesi non saranno più incantati dal Rinascimento? Già gli studi italiani latitano da molti decenni, e anche i tedeschi si defilano..
I giapponesi facevano la scuola a Firenze, ancora negli anni 1960, fotografando le vetrine per copiarle, le scenografie delle vetrine, nell’insieme e in dettaglio, e gli oggetti d’uso, golosi, insaziabili, i disegni, i colori. Oggi risparmierebbero la pellicola, se ancora fosse in uso. .
Si fa presto a sparire. Una volta gli asiatici sbarcavano in Europa a Napoli, da qui la popolarità delle romanze napoletane in Cina e Giappone. Ma ora Napoli non esiste più. Tutto il mondo va a Firenze a vedere il Davide, ma potrebbe un giorno decidere che Santa Sofia a Istanbul è meglio, la moschea, o una guglia gotica a Gotheim. O una partita di baseball. È successo, succederà. Roma è già semisparita: la romanità, prima che a Mussolini, si dovette al culto assiduo dei sassoni, e dell’Ottantanove, ma la Rivoluzione è finita, gli inglesi impoveriti, i tedeschi distratti. La romanità, benché tarda, di lois Riegl e Franz Wickhoff è sparita con la memoria dei viennesi. E potrebbe essere negata da un qualche movimento per il retaggio degli unni. L’età di mezzo, Comuni e Rinascimento, e lo stesso Umanesimo devono molto a svizzeri, francesi e americani. Ma gli svizzeri più non se ne occupano, e l’America è sempre meno il New England europeo, latinista. Rimangono i cattedratici, pochi, di Francia e Inghilterra, ma fino a quando?
Non scompaiono i manufatti ma i loro significati. L’Italia, per esempio, il paese che possiede più monumenti al mondo nelle classifiche dell’Unesco, non è un nome per i quattro quinti degli americani del Nord, per tutta l’Africa, Libia eccettuata, con l’Eritrea e la Somalia, e per l’Asia chissà. L’italiano, che era parlato in tutta Europa, fra coloro che sapevano leggere, ancora nel Settecento, resiste solo in Italia, e vi è poco conosciuto. Ma, certo, umorista è nel “Bertoldo” chi è afflitto da umor malinconico
Elena Stancanelli, Firenze da piccola, Laterza, pp. 161 € 9

venerdì 13 maggio 2016

Il mondo com'è (261)

astolfo

Eugenio Colorni – Si moltiplicano i riferimenti al Manifesto Europeo di Ventotene, forse per la bassa fortuna oggi dell’dea di Europa unita, ma limitandone la paternità a Spinelli e Ernesto Rossi, omettendo Colorni. Che invece ne fu parte, per più aspetti anche determinante.
Filosofo e militate politico, socialista, Colorni era stato confinato a Ventotene, dove rimase dal gennaio 1939 all’ottobre 1941. Quando, per l’intervento di Gentile, ottenne di tramutare il confino a Melfi. Nell’isola pontina ebbe compagni di confino Manlio Rossi Doria, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. Le discussioni politiche con i quali ricorderà nei postumi “Dialoghi di Commodo”, scritti insieme con Spinelli – che alla morte di Colorni ne sposerà la vedova, Ursula Hirschmann, anch’essa accreditata coautrice del “Manifesto”. Con Rossi e Spinelli, Colorni maturò l’adesione al federalismo europeo. E con loro discusse quello che sarà il “Manifesto di Ventotene”, la pietra di fondazione dell’Unione Europea, redatto nel 1941, da lui stesso pubblicato a Roma. Dove riuscirà a passare, in clandestinità, protetto dall’embrione di Resistenza, ancora prima della caduta del fascismo, il 6 maggio 1943.
A Roma Colorni fu uno degli organizzatori della Resistenza, col Partito Socialista di Unità Proletaria, Psiup, che creò fondendo il partito Socialista col movimento giovanile Movimento di Unità Proletaria, A fine agosto 1943 era a Milano, dove il 27-28 agosto fu tra i promotori di una nuova formazione, il Movimento Federalista Europeo. Dopo l’8 settembre tornò a Roma, nella direzione del Psiup, e fu attivissimo nella Resistenza, con la ricostruzione della Federazione Giovanile Socialista e la creazione della Brigata Matteotti. Sarà medaglia d’oro al valor militare, alla memoria. Il 28 maggio, poco prima della liberazione della capitale, fu infatti fermato casualmente, sotto le generalità di Franco Tanzi, da militi fascisti della brigata Koch. Tentò di fuggire, ma nell’inseguimento restò ferito e dopo due giorni mori, all’ospedale di San Giovanni, sempre sotto false generalità.
Il “Manifesto di Ventotene” Colorni aveva intanto diffuso a Roma, ciclostilato e a stampa, clandestinamente. Articolato all’origine in quattro capitoli, Colorni nel 1944 ne curò la redazione nei tre canonici: “La crisi della civiltà moderna”, “Compiti del dopoguerra. L’unità europea”, “Compiti del dopoguerra. La riforma della società”.
Si cancella Colorni perché era socialista? È probabile, storia e informazione sono sempre nel compromesso storico.

Destra-sinistra - L’indistinzione nei settori dell’informazione e della politica è clamorosa in campo giudiziario: molti giudici di estrema sinistra potrebbero essere di estrema destra – sono culturalmente di estrema destra ma hanno scelto di militare a sinistra. E viceversa.  Il giudice Piergiorgio Morosini, quello del baraccone Stato-Mafia, con trasferte scenografiche e testimoni d’accusa mafiosi in spe, ha attaccato Renzi, dopo Napolitano. Poi ha detto che non lo ha attaccato.  Cioè non lo ha carcerato – “attaccare” in siciliano è carcerare? Non ha detto: “Renzi fa fermato”, come ha sintetizzato il “Foglio”, ma lo ha detto, con una frase più lunga. Da sinistra, dice lui: Morosini è approdato al Csm, dove può anche stare in piazza tutto il giorno, non ha l’obbligo della firma, per conto della “corrente” sindacale di Area, di sinistra estrema, dopo essere stato segretario di Magistratura Democratica.

Caselli, sinistra classica, ex Pci puro e duro, difende non richiesto Davigo  destra dichiarata e anzi fascista, para, quella di Fini e Bongiorno per intendersi, con Liana Milella di “Repubblica”: “Piercamillo Davigo ha voluto dire che la questione morale non è un reperto archeologico”. Mentre Davigo ha detto ben altro, non si nasconde – Caselli lo difende al suo solito debolmente, ma questo è caratteriale. .
                                          
Fa male al Pd da qualche tempo la “giustizia politica”. Che era all’origine di destra, in tutta la storia della Prima Repubblica fino a Di Pietro e Davigo, ma si era persa per strada. E a questo punto è giustizia tout court – vedete che siamo equanimi.
La giustizia politica fa male adesso anche ai 5 Stelle, ma per loro è costitutivo – non hanno altro dna.

Islam – Compra molto,. Di tutto, anche le squadre di calcio, e più spesso nella cosiddetta “eccellenza”, ma non investe. L’eccellenza intendendo come un dato di fatto, e non un’attività, un’idea vincente, un programma. Non nell’industria – tecnologia, lavoro, reddito. Non nella ricerca, scientifica o anche applicata: zero totale, se si eccettua il nucleare a fini militari. Ma anche qui compra più che investire, e ancora limitatamente a due o tre paesi, Pakistan, Iran. Più in generale, è da cinque secoli che non investe. Dopo aver primeggiato nelle scienze, se non nella tecnologia, specie nel calcolo, algebra, astronomia, e nella medicina. Poi più nulla. Perché aveva esaurito la riserva preislamica, persiana greca, latina?.

Di fronte ai muri si ergono difensori cristiani dell’islam – Franco Cardini non è solo. È privilegio della cristianità, se non dell’Occidente, la pace nell’eguaglianza, si argomenta. Un po’ come per il pacifismo, come essere contro? Passando sopra il fatto, vecchio di più strati e secoli, che sono due mondi irriducibili. Uno attivo, se non costruttivo, l’altro compradore, da secoli. Uno egualitario, l’altro molto selettivo, per genere e per fortuna – è vecchia cognizione che l’islam non ha nemmeno la parola per repubblica, e per libertà. E anche nella decadenza, che i due mondi sperimentano da un mezzo secolo: quello cristiano-occidentale si distingue per dibattersi, per tentare nuove soluzioni, quello islamico si adagia nella sharia.

Nazismo – Ci ha salvati Hitler, da se stesso? Se il suo armamentario ideologico è ben ancora in vita. Si pensi la vita sotto Hitler e Mussolini, che nel 1941 controllavano l’Europa, tra sabati fascisti, adunate e delatori. Con l’atomica nazista. E i capi caseggiato. Con Ciano e le barzellette, e i balilla. Sempre richiamati per una guerra. E con Stalin, il passo dell’oca, i pionieri, denunciando i padri. Sempre in divisa. Mentre siamo diventati ricchi e vivremo prevedibilmente in pace, nessuno ha mai vissuto una vita senza guerra.
Se Hitler non avesse attaccato l’Urss e sterminato gli ebrei avrebbe vinto - l’odio è suicida: Hitler avrebbe rafforzato l’antisemitismo se solo avesse espulso gli ebrei. L storia non si fa con i se, ma questo è: l’abbiamo scampata per un errore, due.

Nuovi proletari – Sono i digitali, i riconvertiti e i nativi: gli esperti informatici. Non sono i nuovi poveri, perché in qualche modo se la cavano, e comunque non se ne curano, vince la passione, ma sono i non garantiti, in nessuna forma.
La rivoluzione informatica ha prodotto pochi ricchissimi, oltre ogni esperienza storica, quelli che accumulano montagne in poche settimane o mesi. E masse sterminate di precari: i manovali dell’elettronica. In Italia sono almeno mezzo milione secondo l’Istat gli occupati nel settore Ict, 558 mila. Tutti istruiti, sempre online, week-end e vacanze comprese, pagati poco e occasionalmente. Aris Accornero, il sociologo del lavoro, ha cambiato la tipologia del precario borderline della disoccupazione: da laureata meridionale, nubile, etc., all’informatico, giovane, poliglotta e con plurime specializzazioni: “La vera anomalia italiana è la concentrazione dei lavori precari tra i giovani, più istruiti”.

astolfo@antiit.eu

Il matrimonio di tenerezza e pazienza

Due mondi diversi e remoti, a leggere questa “esortazione postsinodale” del papa il giorno in cui la chiesa italiana prende il lutto per la legge sulle unioni civili. Contro una legge modesta, fatta in punta di piedi per non dispiacere ai vescovi, al punto di evitare la parola matrimonio. Il mondo del papa, che lo intitolava “Amoris laetitia”, figurarsi, un papa, è più articolato, molto, per non dire veritiero: ha la parola giusta per molte cose, soprattutto al centrale Cap. 4, “L’amore nel matrimonio”. 
La logica della scoperta scientifica nella fede
Il magistero è ricerca, è l’esordio – l’amore lo è, il matrimonio: un’opera in progress. Ma dopo due sinodi convocati sullo stato della famiglia oggi, il papa vuole fare il punto. Senza rinunciare alle sue prerogative: integrando, premette, il contributo dei vescovi con “altre considerazione che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi”. La fede si aggancia alla logica della scoperta scientifica. Della kantiana religione nei limiti della sola ragione.
Meno semplicista del solito, i “valori del matrimonio e della famiglia” papa Bergoglio subito individua in “generosità, impegno, fedeltà e pazienza” – la pazienza: non bisognerebbe metterla tra le virtù cardinali (a essa il papa dedica più in là un paio di paragrafi)? Dopodiché parte dall’ovvio: le famiglie “non sono un problema, sono principalmente un’opportunità”. Incontestabile: come potrebbe essere altrimenti, una libera scelta una condanna? La famiglia riesce a trovarla pure in Dio: è la coppia la sua vera creazione. E l’amore migliore nel “Cantico dei cantici”: “Il mio amato è mio, e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio”. Del resto “la Chiesa è famiglia di famiglie”. In tutta la Bibbia ritrovando, nei Vangeli e nei Padri della chiesa l’amore, l’abbraccio, e “anche un’altra virtù”, la tenerezza.
Il vincolo è dellamicizia
È la traccia che il papa segue: niente catene. Il sacramento c’è, indissolubile, ma in poche righe, molto altro gli preme di dire. Il matrimonio è la “più grande amicizia” di Tommaso d’Aquino: “È un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza che si va costruendo con la vita condivisa”. La pastorale è semplice, e per ogni aspetto veritiera: “Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo”.
Sembra La Palisse, ma ce n’è bisogno - le porte girevoli sono illusorie ma non lo sembrano. Anche per i non credenti: il matrimonio non sarà “un’alleanza davanti a Dio”, ma “esige fedeltà”. Sull’amicizia insiste, da psicoterapeuta pratico. “L’amore di amicizia unifica tutti gli aspetti della vita matrimoniale e aiuta i membri della famiglia ad andare avanti in tutte le sue fasi”. In “un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio è chiamata da una costante maturazione”. Etc. etc.. “Non fanno bene alcune fantasie  su un amore idilliaco e perfetto”. Non fanno bene anche perché lo privano “in tal modo di ogni stimolo a crescere: un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto”. O: “Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro”. E, beninteso: “Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano «passioni», occupano un posto importante nel matrimonio”. Fino a un apposito cap., “La dimensione erotica dell’amore”: “Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le creature”. Con l’accortezza di san Giovanni Paolo II, che “l’uomo e la donna sono «minacciati dall’insaziabilità»”. Ma rimettendo al suo posto san Paolo, quello della “sottomissione” richiesta alle donne. E con un avviso ai celibi: “Il celibato corre il rischio di essere una comoda solitudine”, per il vizio dell’individualismo – cambiare, spendere, rifiutare ogni responsabilità.
Le passioni del papa
Il seguito, invece, va dichiaratamente bene per tutti: “Il matrimonio è un’amicizia che comprende le note proprie della passione”. Il papa, dunque, e la passione, carnale. E così il seguito: “Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione”. Mentre “la bellezza - «l’alto valore» (Tommaso d’Aquino, n.d.r.) dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche  - ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla”. Gustare, possedere, il papa parla chiaro.
Non ha senso farne una parafrasi, questo capitolo si legge senza saltare. Poi c’è molto altro, l’esortazione è lunga – ha scelto un genere, il papa, che gli permette di dire tutto quello che intende, senza sottostare ai vincoli dell’enciclica, dell’ortodossia ferrea quanto inafferrabile.E senza più battute, Bergoglio qui si è messo al lavoro, sistematico. Nella continuità, soprattutto con i predecessori che ha personalmente frequentato, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, ai quali il richiamo è costante.
Ha perfino consigli pratici. Come sulla decisione di convivere, che troppo spesso “si affretta, per diverse ragioni”, e proprio mentre “la maturazione dei giovani si è ritardata”. O all’opposto sul rischio dell’abitudine: “Ricordo un ritornello che diceva che l’acqua stagnante si corrompe, si guasta. È quanto accade quando la vita dell’amore nei primi anni del matrimonio ristagna, smette di essere in movimento, cessa di avere quella sana inquietudine” – “Ogni matrimonio è una «storia di salvezza»”: “La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza”.
In mezza pagina dice tutto sulla denatalità, rifacendosi ai vescovi del primo sinodo, 14 ottobre 2014. La mentalità antinatalista, le politiche mondiali di salute riproduttiva, la società dello svago e dei consumi, l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici “non solo determina(no) una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire: La paura economica genera la crisi dell’economia… Non la chiama un peccato, ed è un peccato – questo papa giustifica sempre. Anche perché è all’origine dell’immigrazione massiccia che si risente come un’invasione.
Viene poi la famiglia. “Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico, delle città e dei villaggi”. Obiezioni?
Tanto più stride l’“Esortazione” con la reazione alle unioni civili in quanto il “matrimonio solo civile” e “la semplice convivenza” sono avallati dal sinodo. E l’omosessualità perdonata dal papa. Nella “strada”, come conclude Francesco, “dal concilio di Gerusalemme in poi”, che “è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione”.
Un magistero che ritorna a Kant, più che al febbrile santo Francesco che il nome papale evoca. Alla religione come condivisione: “Il cristianesimo, oltre al grande rispetto che infonde irresistibilmente la santità delle sue leggi, ha in sé anche qualcosa di amabile”. Qualcosa di “amabile”. Più che autorevole (autoritaria), la buona religione dev’essere amorevole: “È una contraddizione comandare a qualcuno non solo di fare qualcosa, ma anche comandargli di farlo volentieri”. 
Francesco, Amoris laetitia, Paoline, pp. 264 € 2,20

giovedì 12 maggio 2016

Problemi di base stellari - 276

spock

Perché si gonfiano i sondaggi per i 5 Stelle?

Perché i 5 Stelle si lasciano gonfiare i sondaggi?

I 5 Stelle (non) sono quello che sembrano?

L’onorevole Di Maio non sarà l’onorevole Bocchino abbronzato?

Chi è l’onorevole Bocchino? (era: il Primo Apparitore della passata legislatura
Televisiva)

E di chi è la controfigura l’onorevole Di Battista – questo è più difficile?

Il campione dei sondaggi (non) sarà sempre lo stesso?

E Grillo col suo spettacolo, fa campagna elettorale o promozionale?

spock@antiit.eu

Recessione – 48

9,1 per cento il calo del pil dal 2008 a oggi.

Secondo la Confindustria, la metà della riduzione del pil ha carattere permanente e non ciclico: una capacità produttiva perduta.

58,9 miliardi nel 2015, il 36 per cento del pil, le rate di mutui e prestiti, e le bollette di luce, gas e telefono in morosità. In calo come numero rispetto al 2014, del 6 per cento, ma in aumento del 5 per cento come ammontare - del 37 per cento rispetto al 2012. 
Rate e bollette non pagate sono state il doppio che nel 2007.

Prezzi sempre in calo, dello 0,4 per cento ad aprile, dopo lo 0,2 di marzo.

Cinquantamila bancari, su 350 mila, si sono prepensionati. Altri 20 mila sono in lista.

Lavoro e ripresa: il 70 per cento non ci cede, al sondaggio Demos-Coop per i Primo maggio.

Crede che il futuro resta incerto oggi il 66 per cento del campione Demos-Coop, contro il 54 per cento del 2008 e il 59 per cento de 2012

La disoccupazione, scesa “a sorpresa” a marzo all’11,4 per cento in Italia e al 10,2 nell’eurozona, ha in realtà beneficiato di dati stagionali, e resta quasi il doppio di quella degli Usa.

Gli investimenti sono in calo in Germania e i consumi ristagnano  Oggi come dall’inizio della crisi.

Le esportazioni tedesche aumentano grazie alla compressione salariale. 

Simenon riscritto da Walser

Tre brevi testi dispersi, fogliettoni per giornali disparati, tipo “Sport im Bild”. Legati dalla francofilia, che Walser professava, originario e a lungo residente di Bienne, mezza tedesca e mezza francese. “Il francese trascina, seduce”, scriveva delle sue letture di Balzac, protestando di non poterlo leggere che in francese. Qui sintetizza e riracconta testi “alti” e “bassi”, mescolando sornione Balzac, Brantôme, Racine con Toudouze, Georges Sim, Peyre, Pertuis, Suzanne Moureau…, peraltro probabili pseudonimi. Sono gli anni di Berna, dove Walser vivacchiava, e i libri se li faceva prestare, in proprio limitandosi a quelli pochi centesimi dozzinali da stazione, dei quali ghiotto.
Queste letture veloci fa però eatrali, come rappresentazioni: Walser dialoga con gli autori che rilegge e rimpolpa. Nell’amato Balzac trova molti soggetti triti – l’amante abbandonata, etc.. Ma in questa operazione, che oggi si direbbe di decostruzione,  trova anche un tesoro: “Nell’arte, un materiale triviale può divenire un gioiello se appena prende una forma viva”. Caratteristicamente: Walser racconta e si racconta con tutto ciò che lo attornia, comprese le letture. L’autore avrebbe voluto a un certo punto come una Società Anonima – un po’ come fanno i Wu Ming. E nell’impossibilità se l’è fatta da sé, moltiplicandosi. Col “metodo del lapis”, a partire dal 1924, gli anni di queste prose: le 526 micrografie, racconti in grafia minima a matita, per fare più veloce.
Walser si può dire, sulla base della sintesi che ne dà Marion Graf, un mini-Eco in anticipo: “Annuncia i procedimenti dell’estetica postmoderna: ricicla dei testi; li giustappone senza rispetto per la cronologia e senza gerarchia; moltiplica gli elementi parodistici e ironici per metterli, senza alcuna derisione, al servizio di una riflessione sulla lettura e la creazione”. Un mini-Eco senza la scienza, e con in più “la dimensione autoriflessiva”” – che è ciò che fa delle sue divagazioni dei “racconti e pezzi di letteratura”.
Un racconto a parte è l’introduzione di Marion Graf, traduttrice e curatrice di Walser in francese, che prende due terzi delle pagine,sulle abitudini di lettura del suo scrittore, molto al gusto dei romanzetti di costume francesi, o d’appendice, e sull’editoria francese d’appendice di quegli anni. Con un editore specializzato in romanzi d’amore, quelli preferiti da Walser (Ferenczi), uno in romanzi d’avventura (Fayard), e uno del filone storico (Tallandier), per mezzo secolo abbondante, fino agli ani 1950. Con testi brevi, veloci, e quasi tutti non firmati, o pseudonimi.
Le Petit Livre di Ferenczi si è avvalso della collaborazione di Simenon agli esordi. A partire dal 1924 e fino al 1931, quando adottò il nome con cui è famoso, pubblicò sotto 17 pseudonimi più di 200 romanzi, di cui 22, Graf li ha contati, nella collezione a pochi centesimi che Walser negli stessi anni prediligeva. Di “Le Semeur de Larmes” di “George Sim” rifà qui il racconto. I due testi Marion Graf si diverte a comparare: ugualmente critiche le due scritture, ma sintetica quella di Walser, prolissa quella di Simenon, e gonfia di saggezza borghese – “kitsch paternalista” dice Graf.
Marion Graf, Robert Walser lecteur de petits romans sentimentaux français, Zoe Mini, pp. 59 € 4,50

mercoledì 11 maggio 2016

Letture - 257

letterautore

Céline – Il “Viaggio” vuole “lirico”. Delle critiche che seguirono la pubblicazione nel 1932, entusiaste o irritate, scrisse a Erika Irrgang: “I francesi non sono lirici”. Non sono musicali cioè. Scriveva e riscriveva come un compositore, per temi, movimenti, intervalli, toni, semitoni.

Amato da molte donne. Da Evelyne Pollet, per esempio, scrittrice belga molto per bene, sposata con prole. Autrice della recensione del “Viaggio” che più gli era piaciuta, fu la corrispondente con la quale Céline ebbe più incontri, dieci censiti tra il 1933 e il 1941. Subito dopo, 1941-1942, Pollet ne aveva scritto il romanzo, “Rencontres”, poi pubblicato come “Escaliers” – avrebbe dovuto pubblicarlo Denoël, l’editore di Céline, nel 1943, ma come al solito non lo fece (lo pubblicherà La Renaissance du Livre, Bruxelles, nel 1956). A Céline sembrava chiedere solo appoggio editoriale per i suoi romanzi, e invece ne fu molto innamorata. Morta centenaria nel 2005, nel 1958 gli dedicava una dichiarazione d’amore in versi, modesti – anche di cattivo augurio – ma inequivocabili, che farà pubblicare nel 1987 nel volume “Tout Céline, 4”, a Liegi. Le prime strofe:
“Eccoti vecchio. E io non ti ho detto che ti amavo.
Non ti ho detto nulla, nulla ho detto di strano,
Né allora né più tardi. Mai non confessavo….

Stai per morire, e non sarò al tuo capezzale,
A spiare il tuo ultimo sguardo di umano
I tuoi occhi di morto aprirsi al soprannaturale…”

È “celiniano” (maledetto) anche per la corrispondenza. Che ebbe copiosa ma non si raccoglie e si pubblica criticamente, solo per segmenti. Il primo e più famoso dei quali è quello alle amiche di letto. Sconveniente con quasi tutte, anzi oltraggiosamente - benché sempre con dedizione e ascolto. Le quali però le hanno pubblicate. Le hanno conservate, e va bene, Céline era già scrittore di successo. Ma poi le hanno pubblicate, dopo lo scandalo del collaborazionismo. Non per vendetta. Come se volessero dargli ragione, nella sua furia contro la condizione umana.- il “popò” era la sola alterativa alla disperazione.
 .
Ha molti fan e pochi studiosi. Anche la biografia, che pure è pubblica, una sorta di quaderno squadernato, per la fitta corrispondenza, i numerosi interventi, i tanti testimoni ancora disponibili qualche decennio fa, e familiari non simpatetici, è carente. Forse per il peso della stessa biografia – il peso eccessivo sull’opera. Che però è abbastanza lineare. Più probabilmente per l’indicibile, Céline essendo parte di tanta storia che ancora non si fa, non spassionata: l’antisemitismo (di uno che amava e commiserava gli ebrei che conosceva), il nazismo (di uno che ha sempre temuto Hitler, non amava la Germania, e se fu qualcosa fu nazionalista), il pacifismo (di uno che ha combattuto la prima e a suo modo anche la seconda guerra).

Classifiche – Non è raro, anche da lettori onnivori, non trovare nessun interesse nelle classifiche dei libri più venduti. Non solo di quelli pratici, di cucina, bellezza, salute, fitness, viaggi, ma anche di  saggistica e di narrativa. O c’è da meravigliarsi che saggistica e narrativa tengano ancora qualche posizione nella hit parade?

A che serve la classifica dei libri più venduti? A che serve pubblicarla con risalto ogni giorno o settimana? Quasi ovunque in sostituzione delle recensione, le critiche, le opinioni argomentate.
Tanto più che il libro si può dire “venduto” con mille artifici, di comunicazione (“tre edizioni in un giorno” etc.) e anche contabili – quasi sempre il più venduto è quello che l’editore ha deciso che sia il più venduto, i rendiconti delle vendite sono sempre molto più sottili, come inevitabilmente scopriranno gli autori. Ma come tecnica di vendita non è un harakiri, poiché esclude i tanti altri prodotti che gli stessi editori pur si devono o vogliono  ingegnare di produrre?

Editoria  - Sempre più si riduce a moltiplicare gli echi degli echi, anche quella libraria. La sua natura di mediatrice avvoltola ora nella melassa della “rete”, anonima e approssimata. Magari eretta a nuova “saggezza popolare”, con tutti i vizi di quella, e nessuna delle virtù, durata, costanza, mitologia, psicologia collettiva.
L’editoria è un tipico mercato (industria) dell’intermediazione. Ma dal piccolo (riflettuto, forbito, concentrato) al grande (approssimato o generico, e coloristico). Se copia il grande, l’indistinto, si dissolve: non ha più una funzione. Si può anche dirla un mercato anomalo: nessun altro “settore” si caratterizza a tale grado d’intermediazione. Ma con una funzione ormai millenaria, risalendo a  ben prima della stampa.
La natura anomala e di mercato dell’intermediazione amplifica e dissolve: il libro e il giornale fai-da-te a questo punto hanno solo un problema commerciale, di accesso o sbocco, ma come prodotti sono già sostitutivi, dei buoni surrogati – visto anche il livello scadente al quale giornali e libri si vogliono proporre.

Hitler – Si direbbe più vivo che mai. Esecrato naturalmente, ma non accantonato. Si fanno pellegrinaggi ora alla casa natale. Si riedita “Mein Kampf” - non a larga diffusione, si dice, ma per studiarlo, e non è peggio, cioè un di più? E Cattelan ci fa la quotazione record, che d’un colpo raddoppia: il suo “prezzo massimo” precedente era di otto milioni di dollari, per un proprio busto, con “Him” ha totalizzato più del doppio, 17 milioni: un Hitler in ginocchio che prega, lo sguardo al cielo, gli occhi umidi – mancano solo le mani giunte. In cinque minuti. Ribaltando un’asta intitolata “Bound to fail”, destinata a fallire. Inquietante, dice l’artista: il suo manichino visto da dietro è un bambino, la faccia invece è di Hitler.

Letteratura – Non una bella parola – in -ura non lo sono, quando sono verbali: sanno di verbo deteriorato, e ciò vale pure per lettura e per scrittura. Ma ha da fare di più con la lettura o con le lettere (la scrittura)? Essendo (volendosi) preziosa, oggi che tutti scriviamo dovrebbe connettersi più con la lettura – il pregio va con la scarsità, meglio con la rarità.

Shakespeare – È celebrato in musica in Italia. E in Italia soprattutto da Verdi – per la ricorrenza da Muti a Chicago. Con le tre grandi opere, “Macbeth”, “Otello” e “Falstaff” (“Le allegre comari di Windsor”, musicate da Verdi dopo Salieri). Dopo Rossini, che fece “Otello” nel 1816, subito dopo “Il barbiere di Siviglia”, Mercadante, “Amleto”, Bellini, “I Capuleti e i Montecchi”, 1830.
Il debutto di Shakespeare in musica avvenne con Purcell, “The fairy Queen”, l’opera tratta dal “Sogno di una notte di mezza estate”. Ma senza seguito. La riscoperta avvenne con il Romanticismo. In Germania, sempre col “Sogno”, “Ein Sommernachtstraum”, di Mendelssohn-Bartholdy. E soprattutto in Italia. Dove già prima aveva dato la traccia a molte composizione, tra esse un “Amleto” di Domenico Scarlatti, 1715. L’influenza romantica perdurò, almeno in Italia, fino a Malipiero: “Giulio Cesare” (1936), “Antonio e Cleopatra” (1938).
Altrove ha ispirato musiche sparse: di Liszt, Gounod, la sinfonia drammatica di Berlioz, il poema sinfonico di Chaikovsky, e il balletto di Prokofiev, oltre a numerose ouvertures intitolate a sue opere, specie “Romeo e Giulietta”, “Amleto” e  “la Tempesta”. Di Elgar, Sullivan, Castelnuovo-Tedesco, Schumann (“Giulio Cesare”), Dvorak (“Otello”), Debussy, Fauré, Smetana, Sibelius, Honegger, Zafred, Shostakovic, Milhaud, Henze. Nonché alcui Lieder di Richard Strauss.

Non ha ispirato canzonette, e questo è strano – la musica leggera è cannibalica. Ma sì molto jazz. Non molto, ma raffinato. Duke Ellington, per esempio, “Timon of Athens”, e anche la suite “Such Sweet Thunder”.Nel film “All Night Long” di Basil Dearden, 1962, ispirato all’“Otello”, si esibivano Charlie Mingus e Dave Brubeck..

Viaggio – Si viaggia, nei libri, verso Sud. Da Oltralpe verso l’Italia, o la Grecia, la Tunisia, l’Egitto…. E non viceversa. E all’interno dell’Italia sempre a Sud. Stranieri e polentoni viaggiano al Sud d’Italia, i terroni non viaggiano al Nord, né gli italiani viaggiano Oltralpe, ne scrivono cioè. È il libro di viaggio opera nordista? È il Sud il luogo del colore e del folklore? Forse non lo è, anzi non può esserlo, ma è come se: il Sud non fuoriesce dal colore e il folklore.

letterautore@antiit.eu 

La meraviglia è donna

Divagazioni sulla seduzione, un gioco che a Walser piaceva molto, del 1926, cui il suo compagno di passeggiate e mentore Carl Seelig diede il titolo “Diario (sulle donne)”, rimaste inedite e recuperate da Sebald. Le donne lo lusingavano, sia pure per uno sguardo fugace nelle passeggiate o al caffè, la civetteria lo seduceva, inducendolo a riflessioni amabili e scorrevoli. Parte di una sorta di romanzo selfie, si direbbe oggi, che è la sua narrativa – da lui sintetizzata in “«libro dell’Io» a più frasi o frammenti”.
Elaborate come appunti istantanei, o micrografie, brevi note su foglietti volanti. Castigate, per lo più immaginarie, e tuttavia di sottile effetto erotico. Forse perché ordinarie – ci si innamora pure della kellerina, di un vago profilo, di un sorriso che forse non c’è stato.  
Robert Walser, Sulle donne, Adelphi, pp.70 € 10

martedì 10 maggio 2016

La deflazione è orfana dell’inflazione

La deflazione è irredimibile per aver cancellato l’inflazione? D’arbitrio, statisticamente. È la ragione più appropriata.
C’è una ragione se le politiche monetarie sono d’improvviso inerti. Incide l’obsolescenza della “curva di Philips”, che lega l’inflazione alla riduzione della disoccupazione: l’occupazione cresce un po’ ovunque, i consumi e i prezzi no. Ma se uno dei canoni della politica monetaria non funziona più è perché l’effetto reddito della maggiore occupazione è stato anch’esso abolito, insieme con l’inflazione.
La deflazione è indomabile perché l’inflazione è stata abolita. Da quasi un quarto di secolo. Statisticamente. In parallelo con la liberalizzazione del lavoro e la compressione dei salti, del reddito disponibile. Mentre la stabilizzazione monetaria introdotta dall’euro ha agito a doppio taglio: alla riduzione dei tassi passivi, importante soprattutto per il debito pubblico, ha accoppiato la stabilizzazione del debito privato nel senso di un onere sempre pesante, a fronte della compressione del reddito  per il blocco e anzi la riduzione salariale, e per il precariato diffuso – l’onerosità del mutuo si alleggeriva dopo quattro-cinque anni, ora è un cappio a vita, a vita del mutuo.
L’inflazione è stata abolita peraltro soprattutto statisticamente. Con l’euro i prezzi sono raddoppiati, ma non l’abbiamo sputo. Il petrolio è salito a 100 e più dollari, per cinque e più anni, ma Eurostat ha fatto finta di nulla: nessun effetto sui prezzi, sui prezzi rilevati. Questa cancellazione si vuole virtuosa, come avven to della stabilità, ma ha eroso tutti i margini reali - reali in termini economici - e ora l’economia è inerte. Dopo che anche le banche, col credito, si sono assottigliate.
Si capisce che gli sforzi della Bce siano a effetto nullo: c’è da smaltire un arretrato pesante. La situazione era stata anticipata dal Giappone, da un quarto di secolo ormai in deflazione. La Banca del Giappone ha fatto tutto quello che la Bce sta facendo, per prima e con continuità, ma senza effetti appezzabili. Il quantitative easing, la moltiplicazione della moneta, dal 2001. L’acquisto massiccio dei titoli pubblici pure. Al 2012 ne possedeva il 35 per cento come quota del pil, contro il 25 per cento massimo delle altre banche centrali. Dopo il 2013 ha raddoppiato la quota, al 77 per cento – il debito pubblico giapponese è il 250 del pil. Ma con esiti modesti o nulli – prezzi positivi, nei mesi buoni, dello 0,1-0,2 per cento. È che prima il Giappone pure aveva cancellato l’inflazione, statisticamente, e col lavoro e il salario non più protetti si è inabissato nella stagnazione economica, alimentata dalla deflazione: il cavallo non beve.
Se il mercato non fosse una ideologia, saprebbe che la stabilità non si impone, e come cura può essere perniciosa.

L’Europa è democristiana

Ma, sia pure con la disattenzione italiana, della “classe politica”, italiana di stampo confessionale, l’Unione Europea è ben democristiana: è nata su impulso di tre grandi cristiano-democratici, Adenauer, De Gasperi e Schumann, Jean Monnet compreso, artefice del “piano Schumann”, con un deciso supporto eurovaticano, e ha sempre avuto a protagonisti i grandi politici di quell’area più che i socialisti o i liberali. L’impatto dei liberali e dei socialisti, a parte Delors, sulla vita comunitaria è stato minimo, e quasi solo d’opinione, Spinelli incluso – quello del radicalsocialista Mendès-France anzi negativo, su un fatto, la difesa comune, che avrebbe creato l’Unione già mezzo secolo fa.
Non è stata uno spettacolo fuori norma l’altra settimana l’Unione Europea assemblata in Vaticano attorno al papa. L’Europa rinnega le sue radici cristiane, sia nel progetto di Costituzione sia nelle varie prolegomeni di principio alle sue politiche. Ma questa Europa, l’Unione Europea, è figlia della Democrazia Cristiana, dei governi che presero il continente dopo la guerra – e ancora, in nome proprio o mutuato da comprimari, per esempio in Italia, la gestiscono.

Perché non dimissionare Boeri?

Si dimissiona Diuma, eroina della resistenza ai golpisti, e perché non Boeri? Un terrorista in servizio permanente effettivo, e anzi golpista, recidivo, assordante? Manda lettere minatorie che colora di arancione (se arancione il colore della libertà… un non colore). Pretende di togliere la pensione a chi ce l’ha, e di non darla a chi se la sta sudando. Mentre accusa gli onesti lavoratori di rubare al “suo” Stato.  Lui il Supereroe Supertecnico - un residuato farebbe, malinconico, di “Amici miei”, non fosse il ras delle pensioni mefistofelico. Un untore della peggiore sfiducia. Un demolitore, altro che rottamatore. Il peggiore attentato alla fiducia è sulle pensioni, e lui ci va sopra come un bulldozer, mai una proposta giusta – sensata, misurata.
È il nostro agente delle banche e le assicurazioni – i monatti del mercato hanno tutti interessi privati e privatissimi nella gestione della cosa pubblica? Ci paghi almeno le tasse. E come può cumulare? Restituisca subito il superstipendio di Stato che ruba. Anzi, bisogna  chiedergli i danni: parla Boeri e lo spread sale di dieci punti, l’indice del consumo arretra di uno – sarà uno speculatore? Senza contare l’Inps, che ha ridotto a un simulacro: non  manda più neppure il Cud, neppure online che non costa nulla, e per scaricarlo impone un corso d’informatica - un appaltino all’ingegnoso softwarista di tanta procedura? nessuna indagine in merito, nessuna intercettazione?

Céline tanto buono da essere doppio

Due volti di Céline, benché sullo stesso fondo, di cupa disperazione, come un hangover dopo il successo inebriante del “Viaggio al temine della notte” - le lettere coprono singolarmente gli anni dal 1932 in poi. Sempre attento, anche se in rapporti plurigamici, e compassionevole - paterno lo dice un suo affettuoso critico, il diplomatico Paul Del Perugia, in un vecchio saggio quarant’anni fa, quando una parte di queste lettere fu pubblicata nei Cahiers de l’Herne. Ma è uno con le corrispondenti ebree, Erika Irrgang, N. - alle quali pure non risparmia gli oltraggi sessuali, ma senza cattiveria, è la sua maniera di essere a letto. E presto, robustamente, antihitleriano, senza mai far caso dell’ebraismo, se non appunto per deprecare l’antisemitismo. A esse presenta perfino le “Bagattelle” senza vergogna. Convincente, tanto che entrambe ne hanno conservato le lettere, e per prime le hanno rese pubbliche, senza vergogna, come omaggio all’autore dopo l’epurazione e l’ostracismo. È un altro con le corrispondenti “bianche”, con Karen Marie Jensen, e anche con Evelyne Pollet: con esse schiera le “Bagattelle”, e si schiera apertamente, nell’antisemitismo. Praticamente in contemporanea. Nel mezzo la breve intensa corrispondenza con la giovanissima pianista Lucienne Delforge, come fu intensa la relazione: lo stesso Céline vi misura, nelle poche lettere rimaste, che Delforge rimpolpa con una precisa testimonianza a uno dei due curatori della raccolta, l’abisso che separa l’innocenza di Lucienne - l’avvenire incontaminato, l’applicazione, l’entusiasmo - col suo cinismo di “vecchio”, a quarant’anni, refoulé.
Lettere ripetitive, come è normale nelle corrispondenze continutive. Di lettura atroce in questa edizione, con le note in fondo al libro. Anche se, come tutto di Céline, si leggono di corsa. Una serie di selfie rivelatori. Atteggiati ma veritieri. “In realtà sono un malato cronico”, ottobre 1932. Con “un passato di problemi tremendi, d’animale braccato”. E “ho voglia di morire più che di vivere”. Disamorato  - a N., con cui è andato a letto e che continua a corteggiare: “Sono andato a letto con quasi tutte le donne attraenti che conosco. E lei, modestamente, lo sa bene. È per me solo una conversazione un po’ più sincera delle altre, una conversazione sui popo”. Al debutto, trionfale, col  “Viaggio” è già nauseato: “Il mio disprezzo della letteratura è grande”.
Poiché non è posa, questa insistenza pone un problema biografico grosso, che le grosse biografie hanno trascurato, anche se la raccolta, a cura di Colin W. Nettelbeck e Henri Thyssens, è del 1979. La corrispondenza in genere di Céline è trascurata, benché fosse un epistolografo: quella con Milton Hindus,  quella con alcuni camerati di gavetta, quella arrabbiata degli anni di proscrizione in Danimarca, ma non una raccolta ragionata. C’è qui molto il culto della bellezza del corpo, altro fattore unificante, céliniano, col maledettismo. C’è la forte carica di empatia dello scrittore già affermato con conoscenze occasionali o remote, come di un lupo solitario. E c’è, appunto, questa doppia personalità. Che non è furbizia di seduttore, e allora tanto più è da indagare.
Lo stesso per l’antisemitismo. Scrive sempre preoccupato contro Hitler, e l’insorgente fascismo in Francia. Già teme la censura. Anzi la lamenta per il “Viaggio” in Germania. A N. nella primavera del 1935 lamenta “un mondo atroce e pieno di minacce” - nel quale “cretini e dementi che hanno passato la quarantina” sono “indotti ad andare a passo di marcia”. A Erika Irrgang il consiglio è di “continuare a perseverare come un’Ebrea  con ogni mezzo per assicurarsi una vita agiata”. Quest’amicizia, scrive anche, considera speciale “per via credo del tanto che abbiamo in comune. Solo che lei è più giovane (per fortuna!) e farà più strada – se si mantiene ferma nel suo proposito, come un’ebrea”. Nell’ottobre 1936, di ritorno dalla Russia, scrive a N., austriaca, ebrea, che ha dovuto riparare a Londra per sfuggire al razzismo: “Ti avrei volentieri anche sposata, N., se fossi stato ricco”. Ma ha già “scoperto”, a Mosca, la “giudeocrazia”.
L’ultima lettera a N:, 21 febbraio 1939, è un concentrato della sua dissociazione. Depreca le “atrocità” di cui N. è vittima, e nello stesso tempo lamenta di aver perso tutti gli incarichi pubblici e di essere sottoposto a processo “in conseguenza dei mio atteggiamento antisemtita” – aggiungendo lieve: “Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo!”. Due anni prima scherzava, ma non del tutto, sulle sue ambivalenze: “Non sarò mai veramente mostruoso come Wagner, di cui recentemente leggevo la Storia clinica. Ma comincio a dubitare di me. Voglio continuare a essere orribile per quanto mi consentono i miei modesti doni – in modo limitato cioè”.
N., che non ha voluto dire il suo nome, ha conservato e pubblicato le lettere di Céline, nonché il taccuino dei loro incontri parigini nel 1932, e ne ha scritto bene dopo morto, nel 1975, sulla “Nouvelle Revue Française”, affettuosa malgrado tutto. Dopo il primo a Parigi, hanno avuto altri incontri, a Vienna, la sua città, ancora nel 1932, poi nel 1933, e due volte nel 1935, a Innsbruck e Salisburgo. Alla fine del 1938 ha appreso dei libri antisemiti di Céline – gliene sc rive lui stesso. Dopo che suo marito è morto a Dachau, e lei stessa è in fuga dall’Austria, con un figlio.

Dirlo schizoide non si può, è ben Céline. Lui si vuole qui spesso “depresso”, e “stanco”. Ma depresso nemmeno si può: scriveva molto, molto bene, curato sempre, anche nelle lettere. Lucienne Delforge se ne allontanò impaurita dall’ipocondria, in forme paranoiche, anche aggressive. Che altro? La svolta viene con la guerra. Che qui antivede con esattezza: la “prossima guerra” annuncia già a giugno 1933, dopo l’avvento di Hitler, e sei mesi dopo specifica che “l’unione europea si farà nel sangue”, esattamente “fra cinque o sei anni”, 1939-1940.
Céline, Lettere alle amiche, Adelphi pp. 257 € 18

lunedì 9 maggio 2016

È proprio (vecchia) Dc

C’è qualcosa che non convince nella politica estera di Renzi, di cui pure tanto si occupa. E ora si sa, dopo il richiamo di Calenda da Bruxelles: è l’urgenza della politica domestica, il gioco del potere, vecchia arena democristiana. .
Altri sono tornati famosamente a Roma per questioni analoghe. Non solo i Buttiglione, anche un presidente di Commissione, Franco Maria Malfatti, si dimise per fare le elezioni in Italia – dopo appena quindici mesi a Bruxelles, nel 1972. Lo stesso si può dire di Prodi, che non volle un reincarico a Bruxelles a fine 2004. È sempre stato così nel vecchio regime, veterodemocristiano: la politica estera non porta voti e quindi non interessa, se ne parla così per dire. E per i viaggi di rappresentanza – ma anche questi di malavoglia e nell’ignoranza: seguire Moro, Andreotti, Cossiga, De Mita in giro per il mondo era esperienza raccapricciante.  
Si capisce anche che l’Italia sia debole a Bruxelles: il più delle volte non sa nemmeno cosa sta votando. Renzi non ha saputo dirimere la contesa fra i suoi propri galli, i galli del suo proprio pollaio, per il posto di ministro dello Sviluppo, e ha chiamato in corner Calenda. Che aveva mandato a Bruxelles come ambasciatore straordinario, passando sopra ai diplomatici di professione, come l’uomo forte, per dirimere e proteggere gli interessi italiani, solo qualche settimana fa.
È così che l’Italia non sa nulla di Bruxelles, se non per le polemiche spicciole. Nulla delle politiche per l’immigrazione. O se e perché deve dare un miliardo alla Turchia, gratis. Se e perché la Germania può comprarsi tutto il gas russo che vuole, di cui poi farsi rivenditrice, e l’Italia no. Etc. Renzi e Padoan si sono fatti fare il bail-in bancario come se non sapessero nulla, in forza del quale quattro banche sono fallite, con casini vari, mentre risulta che hanno partecipato a negoziati laboriosi per il regolamento – in teoria hanno partecipato.
È il gene Dc – che pure è quella che ha voluto e fondato l’Ue. Della Dc italiana. Gli unici italiani che hanno preso sul serio il loro ruolo a Bruxelles, dove hanno bene e anche molto bene, Monti e Bonino, vi sono stati mandati da Berlusconi quando era liberale, prima del morso leghista e neofascista.

Secondi pensieri - 261

zeulig

Adorno - È bizzarro che, nella disillusione e la rilettura di Heidegger alla luce dei “Quaderni Neri”, il suo nome non venga nemmeno menzionato. Che pure aveva anticipato queste riletture, già negli anni 1930, cioè subito, poi nella “Dialettica dell’illuminismo”, nei “Minima moralia” e nel “Gergo dell’autenticità”.

Deismo – È la fede (teoria) del signor Kirillov, “ingegnere costruttore dei più insigni”, nei “Demoni” di Dostoevskij, che al posto di Dio mette l’uomo.

Heidegger – “Cosa aveva il nazismo per attrarre uomini come Heidegger?”, la domanda di Remo Bodei (“Segni di distinzione”, introduzione a Adorno, “Gergo dell’autenticità”, 1998) è sempre inevasa. Ma ingenua: perché Hitler non avrebbe dovuto attrarre Heidegger?
L’osservazione di Adorno, “Il gergo dell’autenticità”, p. 8, è pertinente: “Il fascismo non fu semplicemente quella congiura che pure fu, ma sorse entro una forte tendenza di sviluppo sociale. Il linguaggio gli concede asilo; in esso la sventura, che ancora cova sotto le ceneri, si manifesta come se fosse la salvezza”. Le parate sono di parata, la guerra – il linguaggio – è il suo essere.

Una filosofia che si salva perché inafferrabile, ma molto sa di strapaese. “C’è storia quando l’aereo porta Hitler da Mussolini”, insegnava. Non quando Hitler incontra Mussolini, quando l’aereo ce lo porta – invece che il treno, o la carrozza a cavalli? Le sue stupidaggini in materia di “tecnica” sono innumerevoli perché radicate in un’ideologia della tecnica buona, che è quella della “vicinanza”, delle “origini”, del luogo natio e solitario, la Heimat (piccola patria, quasi domestica) e la Hütte (capanno, rifugio), con annesso agrarismo e montanarismo. Del piccolo nazionalismo, meglio se aggressivo: compatto, radicale, alla morte. Troppo spesso Heidegger evoca lo “Strapaese” parafascista, non solo nei discorsi d’occasione o giornalistici. Complicandolo ma al fondo sempre petty nazionalista: risentito

Indoeuropeo – La parola che il dottor Thomas Young, funzionario coloniale, partorì  e tenne a battesimo piacque perché dava l’idea della purezza bianca anche nella lingua? Dare un’idea di purezza alla “razza” in Europa, che è un trivio - sempre stata, non solo ora con l’immigrazione di massa. Una parola evocativa, come aria, ariano. Indoeuropeo mescola geografia e cultura, e lascia fuori metà del mondo nel quale la sua trama s’intesseva: Sumer, Accad, Babilonia, Ur, da dove viene Abramo, gli etruschi e i fenici, da cui i greci ebbero l’alfabeto. Ma piacque.

NazismoGeist (spirito), Volk (popolo tedesco), Schicksal (destino), e se non c’è più il Blut (sangue) c’è sempre il Boden, che in Heidegger è ben più che il sacro suolo della patria, è il Grund, il fondamento. Molto nazismo ancora è vivo: ha perso la guerra ma non tutte le convinzioni.  

Fu terribile, ma ha tematiche da strapaese, accanto agli esoterismi. Nelle sue manifestazioni più elevate, come gli scritti di Heidegger. Molto provinciale più che imperiale. O allora di imperialismo provinciale, angusto – e per questo terribile, perché limitato?

Si leggono i “Quaderni neri” nella lettura che ne fa da un anno Donatella Di Cesare, di un razzista a tutto tondo – dopo peraltro essere stata al vertice della Fondazione Heidegger quando l’adesione di Heidegger al nazismo, e anche il suo antisemitismo fossero da tempo acclarati, nemmeno tanto dissimulati. Ma forse – bisognerà pure poterli leggere, questi “Quaderni”, per la parte incriminata - Heidegger non era antisemita. Nazista, e per questo antisemita, ma non di sentimenti personali. L’ultima riflessione sulla sua opera, malgrado lo scandalo già avvenuto, di Richard Wolin, “Heidegger’s Children”, i figli di Heidegger, è un riesame di quattro filosofi ebrei, Arendt, Löwith, Jonas e Marcuse.

Novecento - Si è esaurito nell’umanismo, come vogliono i critici della “tecnica”? O anche: il Novecento, assumendo l’umanismo integrale (la “tecnica”) ne ha messo in mostra i limiti? Sul piano politico sì: una dialettica esasperata fra fascismo e comunismo da una parte, l’umanismo integrale e il liberalismo dall’altra - la versione debole – occupano e svuotano il secolo. Scalzati in fine dal ritorno imperioso della teologia politica – vero e proprio refugium peccatorum. Ma senza esito. Non teorico e neppure – a giudicare dalla crisi cronica che ha investito anche il Millennio  politico.

Radici – Tornate in auge nel sentito comune per un paio di generazioni, si stanno rapidamente dissolvendo. Non in favore del cosmopolitismo o apolidismo, ma nel nazionalismo. Per una bizzarria (contraddizione) solo apparente: si agita un nazionalismo scomposto, in forma di difesa, per evitare l’inevitabile pluralità di innesti che si accompagna alle radici. Che raramente sono – non possono esserlo logicamente – monoculturali.  
Il loro maggiore teorico si può dire Heidegger, l’uomo delle (piccole) patrie, e anzi del focolare, tribale e paesano. Non familiare, curiosamente. Per la sua vicenda personale forse, di un matrimonio subito aperto e con figli non propri. O per una preclusione personale di cui la vicenda familiare sarebbe stata l’esito - per inarrestabile narcisismo. Nel panorama desolato che introduce la tecnica, di una spersonalizzazione che passa antitutto dallo spaesamento. La “luce”, l’“illuminazione”, verrà, dopo la sconfitta del Terzo Reich, dalla Selva Nera, dalla terra alemanno-sveva natale. Ma sapendo che la tecnica (modernità) ne sradicherà le radici. “La questione della tecnica”, 1954, è piena di presagi pessimistici in questo senso: elettronica, trasporti veloci, comunicazioni di massa mutano la percezione del tempo e dello spazio, favoriscono l’ibridazione delle culture, anche non volenti, movimentano masse umane in forma più o meno coatta – fino alla “fine del pensiero nella forma della filosofia”. I calcolatori trasformano “la tradizione in bisogno d’informazione”.
I mutamenti Heidegger vede soprattutto nell’ottica dello spaesamento. Qui, e ancora di più nell’“Abbandono” cinque anni dopo, 1959, vede segni e presagi di spaesamento – limitatamente alla Germania: il suo “planetarismo” è grossdeutsch, tutto tedesco.  Profughi del Grossreich, gli immigrati-emigrati dell’interno, la mobilità, o sradicamento, la diaspora campagna-città, la stessa curiosità o voracità d’informazione, tutto concorre a una generale erranza o apolidismo. Che Heidegger condanna ma vede inevitabile. Questo è l’“Abbandono”, in un orizzonte solo tedesco: “Molti sono i tedeschi che non hanno più una patria, che anzi hanno dovuto abbandonare i loro villaggi e le loro città, che vagano profughi lontano dalla terra che li ha generati. Innumerevoli altri sono quelli che, pur avendo una patria, sono costretti ugualmente a emigrare, finiscono nell’ingranaggio delle grandi città, debbono stabilirsi negli squallidi suburbi industriali, sono ormai diventati estranei alla terra che li ha generati. E questi tedeschi che ci vivono ancora? Spesso sono da essa ancora più lontani di coloro che l’hanno lasciata. Ogni ora, ogni giorno seguono incantati le trasmissioni della radio e della televisione…”.
La radio-tv mezzo di disintegrazione e non di integrazione fa parte dell’arsenale di Heidegger contro l’opinione pubblica, veicolo e forma della massificazione. Ma è come dire che lo sradicamento è radicale, poiché si è arrivati a uno scambio dei ruoli tra vicinanza e lontananza, a un’insignificanza degli stessi ruoli nel generale spaesamento.

zeulig@antiit.eu 

La semplicità del Gattopardo

Va ormai per i sessant’anni questo ricordo senza rughe – ripubblicato nel 1996, fu scritto nel 1963. Lampedusa è Tomasi, l’autore del “Gattopardo”. Che negli stessi anni in cui scriveva e pubblicava il romanzo intratteneva amichevolmente in lezioni private al suo domicilio un gruppo di giovani, tra cui Orlando, di letteratura francese e inglese. Tra essi Orlando, che il padre destinava all’avvocatura e invece sarà francesista e “teorico della letteratura”, alla Normale di Pisa.  
Un’altra Sicilia, un altro mondo. L’affabilità. La generosità. La cultura – a casa del principe Orlando scopriva vantaggiosamente anche la psicoanalisi, nella persona della principessa, Alessandra Wolff Stomersee. La semplicità.
“Nel modo chiaro e concreto di conversare, nella lucidità semplificatrice, nell’arte di lusingare deliziosamente quando voleva o di pungere altrettanto espertamente, nell’attitudine a divertire gli interlocutori, nella facilità a risolvere i piccoli imbarazzi che punteggiano ogni rapporto umano non confidenziale”, di questa esperienza eccezionale da ogni punto di vista “la risultante”, dice Orlando, non si potrebbe definire meglio che “semplicità”. L’intelligenza è semplice – la nobiltà?
Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa

domenica 8 maggio 2016

Il banchiere che promuove l’industria

Draghi avrà realizzato quello che tutti i governatori della Banca d’Italia prima di lui, Carli, Baffi, Ciampi e o stesso Fazio, hanno predicato – per non dire Menichella, grande artefice della ricostruzione postbellica: una politica monetaria al servizio dell’economia. Della produzione. Del lavoro. Del reddito. Non, o prima che, delle banche. È questo il fondo del suo dissidio oggi col governo tedesco.
Le Germania è fuori dal ciclo europeo. Ha – ha innescato con la liberalizzazione del lavoro e le esportazioni – da almeno tre anni la ripresa. Ha un ciclo suo proprio, abbastanza indipendente dal ciclo europeo, che invece ristagna. E critica la Bce dei tassi negativi (in realtà non sono negativi, sono azzerati, e in termini reali ancora positivi) perché riduce i rendimenti delle banche. Ma la Bce si è assunta il compito, oltre che di stabilizzare le banche e l’euro, di favorire la ripresa – che invece, si può aggiungere, Berlino contrasta, con le politiche di rigore fiscale e col dumping sociale all’export.

L’austerità colpisce il risparmio in Germania

Può essere vero che, come questo sito sostiene, c’è un fondo politico nelle critiche tedesche alla Bce, per indebolire la Bce nella persona del suo presidente Draghi, e per indebolire l’Italia segnatamente. Ed è certamente irrituale e colpevole la critica costante alla Bce e all’Italia da parte del governo di Berlino e della Bundesbank. È come ha detto Draghi dopo l’ultimo attacco di Schaüble: “Ogni volta che la credibilità della Bce si percepisce messa in discussione, l’esito è un ritardo nell’acquisizione dei suoi obiettivi e quindi la necessità di una politica più espansiva”.
Ma c’è un fondo di verità nelle polemiche tedesche: il debito tedesco non paga più. Evidentemente, per primi, i risparmiatori tedeschi, i primi risparmiatori. Il Global Financial Stability Report del Fondo Monetario calcola che tre quarti dei titoli del debito tedesco siano a tassi negativi, contro il 55 per cento della Francia, il 28 per cento dell’Italia e il 23 della Spagna. Dato che la stampa ha volgarizzato con calcoli miliardari. La “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, il giornale più influente, calcola la perdita per i risparmiatori in 260 miliardi tra il 2010 e il 2015, e in almeno 82 miliardi nel 2016.
Il calcolo è fantasioso. Come si fa a stabilire l’interesse attivo giusto, a confronto del quale calcolare la perdita coi tassi negativi? E del resto, se i risparmiatori hanno “perduto” 260 miliardi, è lo Stato tedesco che li ha guadagnati, come risparmio sul costo del debito.
La cosa inoltre vale per la Germania come per l’Italia: il debito non rende più. Si ricorderà il cinico Carli che il debito celebrava come la ricchezza degli italiani. Da alcuni anni non più: risparmiare non rende. Il risparmio anzi impoverisce, l’effetto patrimoniale non compensando il mancato effetto reddito (si può avere un bene, anche cospicuo, che non rende e anzi costa).  
Più in generale, si dovrebbe dire che è la Germania stessa vittima (e beneficiaria…) delle politiche di austerità che impone ai suoi vicini: per ogni crisi del debito, dalla Grecia all’Italia, i tassi sui Bund si fanno sempre più negativi. Ma il fatto c’è, la percezione in Germania che il risparmiatore ci rimette.

Ombre - 315

Roma si ferma sabato. Per una manifestazione contro il Ttip. Che non si sa cos’è – è un trattato di libero scambio che l’Ue negozia con gli Usa.  Guida la manifestazione la Cgil, una parte almeno della confederazione. Per non contestare le cose solide, per esempio le pensioni, i salari, la dequalificazione del pubblico impiego, le addizionali sulla casa?

Fulcro della contestazione al Ttip sono i “pendolari” della manifestazione, così si chiamano. Una specie di masse di pronto intervento. Che non solo i week-end, anche i giorni lavorativi manifestano: un giorno all’Expo, uno in Val di Susa, uno al Brennero, uno per le case occupate e uno per i teatri occupati. Sarà la sindrome di Napoli, dei disoccupati organizzati. Ma a che fine, Renzi cosa ha da dargli?

Deutsche Bank , a freddo, attacca l’Italia e Draghi sul “Financial Times”. Federico Fubini sul “Corriere della sera” dice che non è successo nulla: “Italiani e tedeschi non sono tutti così”. Certo, c’è a chi piace essere buggerato.

Il governo francese finanzia Électricité de France per tre miliardi, e Areva, che fabbrica i reattori nucleari per Edf, per cinque miliardi. Il “Corriere della sera” spiega non richiesto che non è aiuto di Stato: “La Commissione di Bruxelles ritiene che non vi sia aiuto di Stato là dove un investimento pubblico viene fornito alle stesse condizioni di mercato che verrebbero offerte a un investitore privato”. Un mercato delle centrali nucleari? Sublime europeismo, cieco – oppure no?

Vince nei sondaggi la candidata al Campidoglio di Grillo, un’avvocatessa senza passato che promette una teleferica, e la canna libera. Ora, come può essere? I romani vogliono adeguarsi all’immagine deteriore della città? I sondaggi sono falsi – sono fatti per portare gli astenuti al voto? O tanto peggio tanto meglio – per chi?

Scalpita per candidarsi a Roma anche Beatrice Lorenzin. Che non solo non ha voti, ma non sa che una buona metà dei romani, ai quali ha letteralmente tolto la sanità, la lincerebbe senza giudizio. Ma scalpita, Lorenzin, perché vuole suo fratello assolutamente presidente di un municipio. Vero.

La liberazione di Palmira non c’è un Prokofiev a celebrarla, ma ci ha pensato Putin: ottocento ettari bonificati dalle mine, e una concerto per ristabilire i valori. “Un gesto di gratitudine, memoria e speranza per tutte le vittime del terrorismo in qualsiasi parte del mondo”, recita il Piccolo Padre. E non possiamo contestarlo: ci siamo persi pure le messinscene, Hollywood è a Mosca.

C’è un boicottaggio della Siria, oltre che della Russia: non vogliamo vedere né sapere. Da quando la Siria si è liberata grazie alla Russia. Facciamo come lo struzzo, non vogliamo vedere? Volevamo la Siria liberata a opera dei predoni e per questo siamo arrabbiati?

Non ci sono più i valorosi inviati che rischiavano la vita in Siria con – per mano di - gli amici democratici dell’Occidente. Se non si rischia niente democrazia e niente informazione? La libertà come masochismo non è male.

I nostri liberatori sono i Poroshenko. Le Al Qaeda e gli Is prima che si rivoltino. E i gloriosi combattenti anonimi per la libertà che ovunque, dal Kossovo a Kiev e al Curdistan, lottano, anch’essi per mettere fieno in cascina. I nostri nemici siamo noi.

“Quando uno specchio riflette un bubbone si tira al solito una scarpa contro lo specchio per romperlo”, dichiara il giudice Caselli a Liana Milella di “Repubblica”. Lui usa così?

Fanno male ora le intercettazioni – ora che non c’è più prudenza negli intercettatori. Il sindaco di Lodi veniva registrato senza nessuna ipotesi di reato. Lo stesso il giornalista di Partinico, benché (piccolo) ricattatore.

Grillo prima faceva congressi per cacciare questo e quello che era andato in televisione. Ora li promuove, a sindaci, presidenti del consiglio, e chissà, con gli anni, presidenti della Repubblica solo perché sono telegenici, vengono bene in televisione.

Non si capisce più nemmeno chi è chi. Gli amici degli amici sono malfidi, e anche gli amici. Mentre gli ex avversari politici, esecrati, si ritrovano ruote di scorta. Con compagni e compagne di questo e di quello, ex amanti insomma, questo si capisce, ma si vorrebbero presumere remoti anche se sono genitori dei propri figli. 

Le meraviglie di Gadda

Gadda era anche semplice. E quasi un giornalista, seppure placido – ma obbediva alle esigenze redazionali – e geniale. Anche queste prose d’occasione fa stupefacenti. Sotto questo titolo è ripreso il volume Einaudi 1964, confezionato in fretta per sfruttare il successo di pubblico del “Pasticciaccio” con due vecchie raccolte di prose di viaggio, “Le meraviglie d’Italia” e “Gli anni”.
Una raccolta con questo titolo era già stata pubblicata in edizione limitata da Ricciardi nel 1961. Evocando insieme “Il Petrarca a Milano”, presso la Certosa di Garegnano, e l’ultimo “rifugio”, il Cimitero Maggiore di Milano. C’è molta Lombardia, ma anche molto Abruzzo, straordinariamente simpatetico, e il Sudamerica vero dell’Ingegnere, non quello sbertucciato della “Cognizione del dolore”. Sempre lamentando alla riedizione 1961, nella dedica a Raffaele Mattioli, il banchiere mecenate, fatiche e dolori, ma rivendicando l’impegno: “Rapide e poi quasi a caso recuperate immagini d’una annotazione che fu attenta negli anni e comunque veridica, ma soverchiata dalla fatica e dal dolore”. In realtà si diverte e diverte.
È nella nota bibliografica all’edizione Einaudi che Gadda esponeva le vere piccole miserie del Grande Autore. Il libro è composti di articoli per “quotidiani, riviste, almanacchi”. Quindici già  ristampati, con un breve inedito, da Parenti a Firenze nel 1939, “tiratura 405 copie”. Otto, con un altro inedito, col titolo “Gli anni”, sempre da Parenti: “tiratura 200 copie”.  Quattro, insieme ad altri di queste due raccolte, in “Verso la Certosa”, Ricciardi, 1961. Le raccolte sono variate a ogni edizione, ma l’essenziale viene in fine: “L’autore contribuì alle spese di stampa delle edizioni Parenti de «Le Meraviglie d’Italia» e de «Gli Anni», come già a quelle delle edizioni solariane de «La Madonna dei Filosofi» e del «Castello di Udine»”. La raccolta del 1939, “Le Meraviglie d’Italia” aveva pubblicato con una dedica alla madre. Una ferrea costanza, malgrado la fatica – e un figlio anche amoroso, malgrado i dolori.
Carlo Emilio Gadda, Verso la Certosa, Adelphi, pp. 249 € 19