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sabato 28 novembre 2009

Spatuzza santo subito

Tardi ma Gaspare Spatuzza si è pentito in piena regola. Dal confessore oltre che dal magistrato. Con la dovuta crisi mistica. E una preparazione in teologia che gli ha consentito di superare ben sei esami universitari in materia in un anno. Un miracolo. Se c’è ancora bisogno di un miracolo per riconoscere la santità, per Spatuzza è fatta. È vero che dovrebbe prima morire. Ma la chiesa è come si sa in aggiornamento, e poi il miracolo è veramente di tutto rispetto, la teologia è roba indigesta, frati e suore l’hanno accudito amorevolmente. Tutto è possibile. C’è solo da aspettare una settimana, quando Spatuzza avrà operato il miracolo maggiore, far cadere il governo, novello Sansone. A Torino, dove la Corte d’Assise d’Appello di Palermo eccezionalmente e in pompa si trasferirà, in devoto pellegrinaggio al nuovo taumaturgo.
In fatto di miracoli il santo Spatuzza è peraltro prolifico. Si ricorda come e quando, dopo quindici anni, o Giuseppe o Filippo Graviano gli dissero che Berlusconi e Dell’Utri erano nella loro manica. Non proprio Berlusconi e Dell’Utri, ma qualcosa (“quello di Canale 5”, “un paesano”) che consente ai giudici di risalire ai due. E di stendere lunghi verbali, per riempire i giornali altrimenti vuoti.
Un altro miracolo ancora è che né Giuseppe né Filippo Graviano ce l’hanno con lui. Spatuzza, il pentito principe della cosca Graviano, è infatti riuscito a evitare di aggravare la loro posizione giudiziale. Da uomo pio, quindi obbediente, dice quello che i procuratori vogliono sentirsi dire, la giustizia è sacra.
L’unico problema è che, tra Spatuzza, Di Carlo (quello della cocaina), e altri pentiti eccellenti, tutti attendibili per i giudici e tutti pensionati di Stato, Berlusconi e Dell’Utri il padreterno li mandi per risarcimento in paradiso. Che sono due mafiosi veri, non di quelli caricatura di cui si vanta la Sicilia, sulle piazze e nelle Procure. Questa sarebbe una beffa, e Dio non tollera gli scherzi.

Napolitano solo contro il partito dei giudici

Si dovrebbe dire che Napolitano ha preso partito contro il “partito” dei giudici, ma non è così: la verità è che il presidente della Repubblica si sente solo contro il partito dei giudici. Senza sostegni validi, cioè, e anche, va detto, senza argomenti. Perché il capo dello Stato non ha bisogno di sostegni quando deve affrontare i giudici, è lui che incarna l’autonomia e l’indipendenza dei giudici. Ma questo si può solo recriminare. Il fatto è che Napolitano, avendo abdicato come Ciampi i poteri di controllo sull’operato dei giudici, si deve appellare a noi, agli elettori, uomini della strada, i nessuno della politica, che tuttavia impersoniamo il common sense: liberatemi voi, è come se avesse detto.
A ventiquattro ore dal suo drammatico appello, “senza precedenti”, “irrituale”, “fuori programma”, questo è il solo significato dell’appello che Napolitano ha dettato al Quirinale ai cronisti appositamente convocati, di mattino, con le redazioni ancora sobrie, dall’esordio drammatico: “Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento”. Il significato è quello che Vincino ha disegnato oggi per il “Corriere della sera”: un appello a Berlusconi perché governi. Più chiaro del resto il presidente della Repubblica non poteva essere: “Nulla può abbattere un governo che abbia la maggioranza in Parlamento”. Nulla.
Napolitano ha vissuto drammaticamente, anche da presidente della Camera dei deputati, gli scioglimenti arbitrari del Parlamento perpetrati da Scalfaro nel 1994 e nel 1996. Drammaticamente, cioè da uomo laico e onesto. E non vuole ripetere l’esperienza: non vuole restare prigioniero degli avventurieri della politica, procuratori della Repubblica, editori, monsignori, che vent’anni fa si divertirono a disintegrare la politica e le istituzioni – compresa inevitabilmente la stessa presidenza della Repubblica, ricattata o altrimenti collusa. Napolitano ha già dovuto provvedere a uno scioglimento anticipato delle Camere, per obiettiva mancanza di una maggioranza in Parlamento, e sa quanto ciò costi alla necessaria Auctoritas dei pubblici poteri.
Napolitano è anche un uomo di principi, e non cede agli umori. Specie nella fattispecie. Svillaneggiato da Berlusconi quale ispiratore della Corte costituzionale contro il lodo Alfano, ha scelto di attenersi alle cose. E le cose sono che ha un Parlamento eletto appena diciotto mesi fa, con una maggioranza solida, e che non si possono fare colpi di stato giudiziari. Basandosi su un pentito (uno solo, un mafioso che fa il teologo, dopo quindici anni…). Berlusconi d’altra parte sarà pure in paranoia, specie dopo la macelleria processuale dei suoi averi e della famiglia scelta dalla pia donna di sua moglie, ma in queste cose ci azzecca. Lui sapeva già sei mesi fa che si preparava il pentito Spatuzza, a Palermo e a Firenze. Non poteva prevedere il rigetto senza appello del lodo Alfano della Corte costituzionale, dopo quello condizionato di cinque anni fa. Né che il Csm discutesse di acquisire i verbali delle riunioni del suo partito…

giovedì 26 novembre 2009

Bersani e il Pd di Berlinguer, 1975-2008

Ha cercato il low profile, Bersani, nella nuova squadra dirigente del Pd, e una partenza lenta, che se non altro mantiene vivo l’auspicio. L’auspicio è che Bersani si lasci dietro in questo 2009, seppure dopo una strascicata elezione, gli oltre trent’anni di compromesso storico, che hanno portato sotto il trenta per cento una sinistra che è sempre stata in Italia maggioritaria. Ma ci sono già segnali negativi.
Il primo è sempre l’ipotesi di base del mancato decollo del partito Democratico. L’ipotesi è che esso non “morda” perché è la riedizione del compromesso storico. Limitato e minoritario, e shrinking, ma sempre esclusivo: una dottrina del potere. A partire dal centralismo democratico di quello che pure sembrava il meno berlingueriano dei continuatori, Veltroni. Durissimo peraltro e perfino fazioso nella gestione del collateralismo, Rai, giornali, giustizia, Cgil.
Le analisi dei flussi alle passate elezioni concordano, e tra essi spicca l’Istituto Cattaneo già di Arturo Parisi: che il Pd ha ricompattato nel momento elettorale il voto ex Pci, ma non ha catturato le classi di voto nuove e ha perduto buon parte dei voti ex democristiani. L’insuccesso del Pd viene confrontato peraltro col successo di un fronte che non brilla per iniziativa e compattezza. Nel quale la Lega, reduce dalla caduta verticale di consensi nel 2001, quando fu salvata in Parlamento dall’apparentamento con Forza Italia e An, fa figura di gigante politico, come antiglobal e antimmigrati. Ma sempre amorfo nella forza di maggioranza, l’ex F.I., e inerte nell’ex An, partito di signorini che non hanno idee né più radicamento, avendo abbandonato la componente mussoliniana per un liberalismo dubbio, o l’andreottismo.
Altri segnali negativi vengono per Bersani dai flussi regionali di voto alle primarie, in percentuale di partecipanti rispetto ai votanti delle politiche 2008. Nelle sei regioni del Nord ha partecipato meno del 5 per cento. Un risultato pareggiato dalle regioni meridionali già “bianche”, e quindi berlusconiane, Sicilia, Abruzzi e la stessa Puglia, dove per più segnali Vendola è stato un miracolo. Il Pd quindi non incide ancora nelle aree che fondano il centro-destra.
Segnali negativi – negativi per Bersani – vengono però anche dalla regioni “democratiche”. Al centro la partecipazione è stata elevata nelle regioni ex Pci, Toscana (9,6), Umbria (10,9), Emilia Romagna (11,6). Ma è stata mediocre nelle regioni miste, bianco-rosse, attorno al 7 per cento: Liguria, Marche, Lazio, Campania, Molise: significa che gli ex compagni non amano gli ex amici, e i due gruppi stanno a guardare. Ed è stata elevata nelle regioni a prevalenza ex Dc, Calabria (9,1), Basilicata (13,3), e Sardegna (7,7). Bersani avrà problemi a compattare unitariamente il partito, e a mobilitarlo.
È una veduta malinconica che il neo segretario del Pd presenta, indipendentemente dalla sua faccia bonaria. È l’unica vera figura politica nel teatrino impiantato da Mani Pulite. Tra Berlusconi che ogni giorno s’inventa, seppure con i canoni noti della commedia dell’arte, la sua speculare opposizione, la nota macchietta molisana, Casini che raccoglie i voti di Cuffaro, Rutelli ex bello guaglione, gli orfani ormai invecchiati di Berlinguer, e alcune dolenti donne di chiesa sopravvissute all’aggiornamento delle sacrestie. Più che a una rifondazione del Pd dovrebbe mettere mano a una rifondazione della politica, e questo certo è pretendere troppo. Essere nato, nato alla politica, nel triste monopolio milanese della politica post-1992 (leghista, berlusconiano, morattiano), è un destino che richiederebbe una rivoluzione.

Ombre - 35

Ultima spiaggia, Danzica, ultima chiamata per la democrazia, per la sostituzione di Paolo Ruffini a Rai Tre con Antonio Di Bella. Ruffini? Un martire, anche se non si sa di chi – Berlusconi non c’entra. Lo stesso che quindici anni fa, chiamato dal povero Enzo Siciliano alla direzione dei giornali radio, fu contestato con più asprezza di ogni altro: molti giornalisti Rai fecero valere in infuocate assemblee che, “a pari livello”, c’erano già in azienda “molte professionalità”. Molte dicerie vennero diffuse sull’allora vicedirettore del “Messaggero”, anche da Concita De Gregorio e “Repubblica”, che ora chiamano alla resistenza per Ruffini. Tra esse una sua speciale perizia tricologica, per avere fatto il parrucchiere. Che è falso: Ruffini è laureato in legge.

Dei sessanta minuti di Sky Tg “1 ora” alle ventuno, i primi venti sono dedicati alle incriminazioni di esponenti berlusconiani per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Grazie a pentiti dell’ultima ora, ma non si dice. Contro uno di loro Schifani si querela, ma neanche questo si dice. Dov’è la mafia? Essere accusati in televisione di mafia è terribile.

Sky oscura il calcio Rai per i suoi abbonati: possono vedere i telegiornali e gli sceneggiati Rai, ma se vogliono sapere delle partite debbono pagare il canone supplementare Sky. Una vendetta contro la Rai, forse. Ma anche una meschina torchiatura dei propri abbonati, che già pagano 500 euro l’anno di abbonamento. È la concorrenza del democratico Murdoch.

Unicredit emette una sfilza di decreti ingiuntivi contro i Sensi, e contro l’As Roma, la squadra di calcio di loro proprietà. Il giudice li rigetta, ma non importa, i Sensi devono a Unicredit poco meno di 400 milioni, e Profumo è in dovere di tutelarsi. Tutto normale, fin qui. Ma la questione è agitata, giornalmente e con toni “da curva”, dal “Messaggero” di Francesco Gaetano Caltagirone, dall’edizione romana del quotidiano milanese “Corriere della sera”, e dalla milanesissima “Gazzetta dello Sport”. Rinfocolando uno scandalo che tiene piazza a Roma da un triennio: che i Sensi debbano cedere la Roma “a gratis”. Libertà di critica?
Unicredit, Profumo, il “Corriere della sera”, la “Gazzetta dello Sport”: è Milano contro Roma, perfino la Rometta dà fastidio. Caltagirone è un progetto immobiliare alternativo a quello dei Sensi per lo stadio societario.

Non contenta di avere avvelenato un paese, Rignano Flaminio, e marchiato a vita una generazione d’innocenti, la Procura di Tivoli ha cacciato di casa quattrocento famiglie di Riano per abusivismo. Anche se le case sono costruite secondo le regole, entro un piano regolatore, e acquistate con tutti gli adempimenti di legge.
Sarà per questo che Berlusconi è popolare: dove non c’è la mafia, ci sono i giudici, mentre la società non sopporta l’eversione senza fine, e senza pena.
Non tutti gli acquirenti delle case contestate sono stati sfrattati, alcuni.

Finisce con la baronessa Ashton alla Difesa dell’Europa, e la cosa si commenta da sola. Ma il fallimento della candidatura, tra le altre, di D’Alema, era presagito da un concerto non si sa se più stupido o ignorante. Sarà silurato da Schulz, scrivevano gli antiberlusconiani - il socialista tedesco che Berlusconi qualificò di kapò. Squalificando i socialisti, e lo stesso Schulz. “La Stampa” è andata oltre: il direttore Calabresi ha ipotizzato che siccome l’Italia, Berlusconi, l’Eni sono filorussi, Obama avrebbe mobilitato contro il candidato italiano il “partito americano” in Europa. Triplice ignoranza: dei rapporti italo-russi, di Obama, dell’Unione europea (le decisioni europee prese a Varsavia? a Praga?). O era una provocazione? Sulla “Stampa”? O “La Stampa” non è più della Fiat e imita “Il Manifesto”?

È invecchiato il giudice di Milano Fabio De Pasquale che protesta in aula contro i rinvii di Berlusconi al processo Mills. Ma è lo stesso, dopo quasi vent’anni, che anticipò le sue vcacanze, due mesi, per non ascoltare Gabriele Cagliari, da lui arrestato, che poi si suicidò.

Si compra di tutto, alle aste dei beni di Michael Jackson, compresi i calzini e i fazzoletti da naso. Feticismo? Mercato della memoria? È diverso dal vecchio mercato del legno e dei chiodi della Passione, e delle altre reliquie? È la stessa cosa, ma induce a peggiori considerazioni per le reliquie.

Morire per i sindaci?

Si stringono le redini in tutta Europa alla fiscalità locale. Nella riforma liberale delle tasse in Germania, l’alleggerimento si fa a spese degli enti locali, di cui ormai è verità comune, a destra e a sinistra, che spendono troppo – tassano troppo. Si ricorda perfino, senza superficialità e non per ridere, che anche l’allegra finanza locale degli anni Trenta (Adenauer, sindaco di Colonia, si costruiva il circuito del Nürbrurgring) favorì Hitler. In Francia Sarkozy ha impegnato il governo, e la possibile rielezione fra due anni, nell’abolizione dell’Irap locale, la taxe professionnelle. È andato per questo in minoranza al Senato, e per uscirne dovrà probabilmente accollare allo Stato il mancato gettito dell’imposta – che copre la metà delle entrate locali. Se l’abolizione della taxe professionnelle non ridurrà la spesa, abolirà tuttavia un’ingiustizia fiscale e, soprattutto, ridarà poteri di controllo allo Stato sulle uscite locali. Per il 2011 Parigi trasferirà ai Comuni il mancato gettito della tassa abolita a piè di lista, poi vorrà vedere i conti.
Ovunque il decentramento ha avuto sbocchi lassisti, con sprechi evidenti di risorse. Non è solo una questione di richiami storici, come può essere il caso in Germania. In parte gli sprechi sono attribuiti alle politiche d’immagine e alla cura del voto, com’è normale e scontato per cariche elettive. Ma in parte più sostanziosa sono dovuti a incapacità di amministrare, quando non a avidità e malaffare: rifiuti, acqua, trasporti, opere pubbliche. Il ritorno a una politica dei trasferimenti dovrebbe avere un effetto dissuasivo sul piano psicologico, e introdurre anche forme di controllo meno formali di quelle praticate dalla corte dei Conti.
La stretta è palese, seppure non dichiarata, anche in Italia. Anche se la Lega obbliga a un federalismo fiscale e amministrativo che in parte la annulla. È cominciata con la sanità, la maggiore voce di spesa. È continuata con l’abolizione dell’Ici prima casa, la maggiore fonte di entrata. E, seppure con cautela, continuerà con la riduzione dell’Irap. In entrambi i casi l’Italia ha delineato il modello che Sarkozy si appresta a adottare: meglio i trasferimenti governativi che la libera tassazione locale. Il federalismo della Lega accresce i costi, introducendo nuovi centri decisionali – per di più elettivi, quindi portati ai compromessi e ai rinvii. Poiché la tendenza è alla stretta, mentre il federalismo leghista amplia le spese e i poteri d’imposizione, se non le entrate, sarà probabilmente questo il collo di bottiglia del governo Berlusconi.

Gli Elkann si assolvono con la Juventus

Gli amministratore della Juventus sono stati assolti perché il fatto non sussiste dall’accusa di avere truccato i bilanci. Ma la proprietà insisteva per patteggiare, assumendosi gli oneri di un’ammenda. Follia? Incapacità degli avvocati? Può darsi, tutti sanno come vanno le cose in tribunale, gli orientamenti dei giudici non sono arcani, un avvocato anche di media capacità lo sa. Ma non è la prima volta che la proprietà della Juventus scantona a scapito della società e della squadra, la famiglia Agnelli cioè nella nuova versione Elkann. È negli annali la richiesta del loro avvocato, al processo sportivo, di retrocedere e penalizzare la squadra. Non è un caso, quindi, e non è inavvertenza.
Ben altra capacità di difesa manifestano peraltro gli Agnelli-Elkann sui fronti che li vedono personalmente sotto tiro. I fondi neri di cui sospetta Margherita Agnelli. Il riacquisto della Fiat contro le regole di Borsa. Anche i dossier aperti col governo per i trasferimenti pubblici al gruppo. Le disavventure di Lapo. Le fidanzate e le cognate. Si direbbe che usano la Juventus come un cache-sex, una mostra d’ingenuità e insieme di debolezza. Per una petizione di benevolenza: siamo ricchi e potenti ma non siamo cattivi, anzi un po’ coglioni.

lunedì 23 novembre 2009

Il mondo com'è - 27

astolfo

Bestemmia - È La migliore preghiera, se la via privilegiata al paradiso è il martirio. Bartolomeo, Lorenzo, Sebastiano, Agnese, Lucia, le agonie dei martiri sono lente, con sofferenze sempre acute. Nel Vecchio testamento il sacrificio non richiedeva sofferenza: una pugnalata e via, una bastonata, un colpo di netto. I Vangeli inaugurano il martirio con l’agonia di Gesù, anche anch’egli bestemmia.

Cooperazione - La benevolenza conta più del rispetto? Con i forti sì. Con i deboli irrita. Con i deboli che vogliono rafforzarsi. L’africano che gli italiani trattano a tarallucci e vino gradisce di più – ne beneficia – l’altezzosità francese e la freddezza germanica, al punto da considerare migliore la loro cooperazione per lo sviluppo. Il debole vuol essere dominato.

Giovanna d’Arco – Bruciare una signora come eretica e strega, e poi santificarla: si introduce nel dogma una dose intollerabile di anarchia. Il cristianesimo (cattolicesimo) è più dogmatico o anarchico? Una chiesa monocratica (perfettamente monocratica: non c’è nemmeno l’incubo della discendenza, a una scelta democratica pilotata dalla politica subentra lo Spirito Santo) per un’ecclesia ugualitaria? Ugualitaria e libertaria, come gli è venuto in mente.

Grecia – La Grecia antica ha una cultura “realista”. Oscar Wilde, “De Profundis”, 126: “La nostra arte è come la luna, scherza con le ombre, mentre l’arte greca è come ilsole e trattacon le cose direttamente”. Wilde dà alcuni esempi di questo atteggiamento, per ultimo le ghirlande di cui si adornavano l’artista e l’atleta, “i due esemplari tipici che la Grecia ci ha dato”: erano “ghirlande di lauro amaro e di petrosella, che non sarebbero stati altrimenti di nessuna utilità per l’uomo”. Ecco perché Omero ha difficoltà a dire i colori, compreso quello del mare: forse perché era cieco, ma anche perché i greci non discettavano sulla luce, cioè sulle ombre, bensì sull’uso di ogni cosa. Il resto è mitologia.

Lavoro – L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, dice la Costituzione, e uno penserebbe che i cavalieri del Lavoro, nominati dal capo dello Stato, massimo tutore della Costituzione, ogni anno nel giorno della festa della Repubblica, siano dei lavoratori. E invece no, sono dei pensionati. Ma non di quelli a basso reddito, anche qui bisogna distinguere. Sono quelli che non hanno più bisogni, e quindi non più stimoli al lavoro, perché hanno avuto fortuna nella vita, o hanno ereditato, e ora si godono in riposo i benefici.

Militarismo – Ripugna perché è egualitario? Il mondo militare, così strettamente gerarchico, è egualitario: è fatto di organizzazione e non di iniziativa, impone il gruppo, lavora per e in fronte alla morte, massima egualizzatrice. L’eroe guerriero è fermo a Napoleone, poi è venuto il milite ignoto.

Occidente – È la paura dell’Oriente. Una barriera, eretta per prima dai romani, fino a Costantino, al cristianesimo di Costantino. Al di qua è l’Occidente, cioè l’ordine e l’accumulazione.
L’Occidente ha tentato episodicamente di attaccare l’Oriente, frammentariamente: Alessandro, Crociate, Napoleone, regina Vittoria. L’Oriente ha tentato più volte di prendersi anche il piccolo Occidente: le invasioni sono sempre da Est a Ovest, in massa, schiaccianti. Ma ora l’Occidente potrebbe avere trovato l’arma assoluta: la civiltà dei consumi, il benessere individuale.

L’Oriente è una costruzione dell’Occidente. L’Occidente pure.
Sarebbe interessante una storia. Ma soprattutto sapere perché l’Occidente ha bisogno di queste categorie. L’Occidente c’era nella divisione dai barbari, ma non è la stessa cosa. Si afferma nelle guerre turche? Nelle Crociate? Nelle invasioni barbariche? Sono tutte occasioni che darebbero rispettabilità al termine. O si afferma con lo schiavismo e l’imperialismo?

È un privilegio: libertà, lavoro (libertà dal bisogno), cultura, sviluppo (tecnica). È stato costruito, e si costruisce, con fatica, con scetticismo, con crisi anche terribili. Ma ora l’accumulo è tale da farne un privilegio: ne beneficia anche chi non ci crede, o rema contro. Il “complesso” dell’Occidente è il risentimento contro il privilegio più che contro il suo “imperialismo”. O l’imperialismo è nei fatti, nel privilegio, anche se esso non si esercita attivamente, con le armi o il denaro? In questo caso si assolverebbe.

Sessantotto – Le sue celebrazioni – del Sessantotto come del Settantasette, dei sessantenni – sono amarcord, piene di buoni sentimenti: l’amicizia, gli amori, il calore, l’entusiasmo, la spontaneità, la spensieratezza dei vent’anni. Molto leografiche: come genere, sono harmony, sentimentale. I vent’anni di Paul Nizan? Le violenze, private e pubbliche? L’arroganza perdurante?

Togliatti – Più che un ideologo è stato un pedagogo: del disinteresse personale, dell’onestà, dell’ordine. Con Berlinguer invece, che professava di voler abbattere l’ideologia, il settarismo ha prevalso e perdura.

Turismo – Incattivisce. Oggi potremmo sopportarci anche senza privacy alla seggetta comune del bagno pubblico romano, ma non alla Rocca di San Marino o al Mont Saint Michel. È uno spreco: tanti soldi e fatica per un divertimento impossibile, tanto interesse forzato per la noia.

astolfo@antiit.eu

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (48)

Giuseppe Leuzzi

Napoli
Napoli, il Merditerraneo di Mozart. Avrebbe potuto essere una capitale della cultura, chissà della musica, ancora adesso in Cina e Giappone si commuovono alle romanze napoletane, ma le piace farla in pubblico. Di sotto e di sopra, guaisce e lacrima come piscia.

Nel 1820, dice Stendhal nella “Vita di Rossini”, per procurare una vera gioia agli abitanti di Napoli, non è tanto la costituzione di Spagna che si dovrebbe dargli quanto togliergli d’attorno la signorina Colbrand. Non è snobismo: la futura signora Rossini, ormai in perdita di voce ma stabilmente primadonna al San Carlo, era un vero tormento per i napoletani.
Che forse sono superficiali, ma non sono mutati.

Sicilia
Nel racconto “Filologia” (ne “Il mare colore del vino”), Sciascia fa dire al mafioso intelligente - curiosa personificazione un mafioso, seppure colto, per l’autore. “Questa è una terra… in cui nella stessa faccia… un occhio odia l’altro occhio”.
Non è sbagliato. Ma giusto se gli Sciascia sono coinvolti, i siciliani spregiatori della Sicilia. Non odiatori forse, ma capaci per una battuta di dire puttana la propria madre. La lezione del”Gattopardo” è esemplare a questo proposito: non è un principe decaduto e un memorialista disincantato, incapace, cinico, nulla di parodistico nella sua filosofia della storia, è la verità incontestata, che si narra come tale e anzi si celebra ed è celebrata. È Epimenide cretese che si diverte a sostenere come tutti i cretesi sono bugiardi.

Nel primo anno di applicazione della legge Cossiga sui pentiti e sul fermo di polizia (il decreto legge 15 dicembre 1979, convertito in legge il 6 febbraio 1980), ci fu un solo fermo a Palermo, contro 115 a Brescia – Palermo era città di 650 mila abitanti, Brescia di 190 mila.

“Muto e silenzioso\il cuor mio si rinvigorì”, è il motto del paese di Sciascia, Racalmuto. È virtù romana ma potrebbe essere il motto della mafia. Nel 1979, quando Sciascia si candidò alla Camera, a Racalmuto raccolte 636 voti, su oltre seimila votanti.

Si sono fatte nell’antichità numerose rivolte di schiavi in Sicilia. Ma perché l’isola era piena di schiavi.

È il sicilianissimo Empedocle a spiegare che il falso è straordinariamente congiunto al vero.

Nella “Guerra del Peloponneso” Alcibiade spiega agli ateniesi perché la Sicilia non è “una grande potenza”: non ha “il culto della patria”, è un miscuglio di varie razze, è facile per loro cambiare cittadinanza. Oggi si direbbe: non ha identità. Ma non senza conseguenze, dice sempre Tucidide-Alcibiade: “Ognuno si preoccupa di procurarsi a spese dell’erario, o con la facondia, o con la politica, ciò che ritiene sufficiente per poter, in caso d’insuccesso, garantirsi comunque un futuro. Né c’è da pensare che questa accozzaglia si metta insieme sotto un capo, con unità di intenti. Ben presto si allineeranno con noi”, con i vincitori.
E tuttavia la Sicilia, più di Sparta, fiaccò Atene. Tucidide è ateniese perfido e può aver esagerato, ma non inventato: la spedizione contro la Sicilia, scrive, “rimase famosa non meno per la meravigliosa baldanza dei suoi componenti e lo splendido spettacolo offerto, che per la superiorità d’armamento su nemici che si accingevano ad attaccare”.

Quella fu l’ultima vittoria dei siciliani, 2.400 anni fa dunque. Anche con argomenti speciali: Segesta si propose di confondere gli osservatori ateniesi sfoggiando grandi ricchezze, e ci riuscì. Banchetti a ripetizione dove le stoviglie si moltiplicano girando, e lo sterminato tesoro di Afrodite Ericina, di poco valore ma molto luccicante.

Che la Sicilia sia sottosviluppata è stupefacente. Ha probabilmente la più alta concentrazione al mondo di beni culturali, la più diversificata, la meglio intrattenuta. È stata regno e vice-regno, e ha una “classe dirigente” – che negli anni 1950-60 era anche probabilmente la più cosmopolita d’Italia, anzi la sola. Ha avuto un’agricoltura europea, di grano, agrumi e vini, ben prima delle riforme di Cavour in Piemonte, e ce l’ha tuttora, con l’aggiunta degli ortaggi e delle primizie, nella zona – Vittoria-Comiso - forse più desertica d’Italia. È vero che la parte pubblica è dolente e in regresso: sanità, scuola, giustizia. È questo il punto debole dell’Italia, specialmente nel Sud - in Sicilia è attenuato localmente, per i beni culturali, superprotetti e superaccuditi, e la sanità. Il ritardo è dovuto proprio a quella parte pubblica che, in teoria, nella Repubblica, ha fatto del Sud il suo punto di riferimento politico.

Il discredito della Sicilia è applicazione costante dei siciliani, anche dei sicilianisti. Si parla di abusivismo edilizio? Il siciliano non porterà mai ad esempio Genova ma Agrigento. Di abusivismo che deturpa le coste? Il siciliano non porterà mai ad esempio Santa Margherita Ligure ma Cefalù, che è invece un gioiello. Di abusivismo contro i beni culturali? Di nuovo Agrigento, la cui zona archeologica è la meglio preservata al mondo, e non Aquileia. Di autostrade che deturpano l’ambiente? Di nuovo i due o tre viadotti delle due o tre, brevi, autostrade siciliane. Magari solo per voglia di protagonismo.

leuzzi@antiit.eu

domenica 22 novembre 2009

Berlusconi 3 - manzoniano

Finge che niente stia succedendo, Silvio Berlusconi, ma un po’ come don Abbondio si tirava fuori dagli eventi: non vede, non sente, parla di altro, continua il suo tran-tran di statista controvoglia come se nulla fosse. La moglie Medea? La figlia cocalide? Fini Bruto? Gianburrasca Tremonti? Un terzo capitoletto andrebbe aggiunto al personaggio Berlusconi (per chi volesse documentarsi, i precedenti nel sito sono a http://www.antiit.com/2009/05/berlusconi-2-non-ce-altro.html e http://www.antiit.com/2007/11/il-mondo-com-2.html), quello del lombardo emerito manzoniano. Che fa del bene, a Montanelli, Santoro, Guzzanti, Fiorello, Mentana, Carelli, e mal gliene incoglie (per quanto, voleva fare del bene anche a Moana...). Senza uscire dalla Commedia dell’arte, i cui personaggi e canoni sono sempre vincenti in questa scena politica plebiscitaria.
Berlusconi è più manzoniano per gli Azzeccagarbugli, per la verità, che per il parroco. Non ci sono nel catalogo ormai spesso della berlusconeide, ma quella degli avvocati è la storia forse più significativa a questo punto del personaggio, oltre che avvincente. L’avvocato Dotti, con le sorelle “Omega”, Cesare Previti, Pecorella, Ghedini. Che si sono fatti una fortuna con Berlusconi, con le sue innumerevoli carte – mai azienda è stata tanto avvocatesca come la sua, ancora prima della persecuzione ambrosiana. Poi ne sono stati premiati con la toga senatoriale, qualche presidenza, qualche ministero. E alla fine gli possono fare la fronda, nei talk show e sui giornali dei suoi nemici. Solo Previti è finito male, ma era di Reggio Calabria – la manzoneide è ovviamente milanese.
Ma poi non c’è niente nella sua storia recente, dopo la “discesa in campo”, che non rientri nel copione dei “Promessi sposi”. Berlusconi è un po’ pollo tramaglinesco, un po’ don Rodrigo, un cattivo inetto. Sempre tra i preti, senza costrutto. E vittima dei bravi, di cui la sua Milano torna ad abbondare, maschi e femmine come vuole il diritto repubblicano, seppure “napoletani”: guardie di Finanza, procuratori della Repubblica, giornalisti, cronisti giudiziari, e gli abominevoli pentiti – specialisti della suppressio veri come suggestio falsi.
La D’Addario ci voleva, chi l'ha inventata è andato sul sicuro. L'arricchito milanese Berlusconi che si fa principe a Roma, con tanto di palazzo, deve sottostare a tutte le miserie del ruolo, la cupidigia delle cameriere, la perfidia del cuoco, lo spionaggio del portiere, e alle vanterie di tutte le cortigiane d’Italia, alle gelosie della moglie, incapace di vivere la politica, all'immaturità dei figli – senza magari essersi divertito. C’era tutto ciò per i principi Savoia, e per i figli e i generi del Duce, e ci sono per lui. In questo, è vero, l’Italia è rimasta indietro, ai fasti del ventennio. Berlusconi, we si fa fare sondaggi ogni giorno, doveva sapere che in Italia trombare è peccato. Lo rimproverano pure a Cossiga, con ignota interpreta irlandese (e Cossiga lo rimprovera a Moro, di cui dice che nella cattività scrivesse lettere appassionate a una formosa cantante pop). Ma questo, il gossip, non è l’Italia: è merda. Che ogni paese produce – l’Italia ne produce giusto per sessanta milioni di residenti.
Altrimenti non si esce dall'ordinario, che è cupo. Chi legge “la Repubblica” sa che vive in un paese in cui al governo sono dei criminali, sostenuti dalla mafia e dai razzisti, che in Italia sono la maggioranza, stupratori delle minorenni, conculcatori della rinomata libertà della Rai, intercettatori e assassini dei giudici e i giornalisti non ossequenti. È un sapere sprecato. Ma non senza effetto: è il modello sovietico sovrimposto – inconsciamente? peggio – al paese, che l’ideologia impegnava a odiare. Si vede che l’ideologia non è morta: Berlusconi è l’evidenza di un Muro che non è caduto, o se sì non è stato spazzato via, non in Italia, è una cartina di tornasole della malafede. Peggio ancora chi legge Asor Rosa e dice che vive nel fascismo. Che è un modo di dire pasoliniano, vetusto quindi se non preistorico. Per di più da proscritti a Capalbio, se non nella cinta senese, coi maiali carissimi. C'è bisogno insomma di un aggiornamento. Non senza un appello alla vigilanza antifascista, che sempre ci vuole.
Il topos è vecchio di almeno trent’anni (Pasolini), se non di cinquanta (Malaparte). Era fascista Craxi. Era fascista la Dc. A partire da de Gasperi, nel 1947, nel 1952. Prima cioè che lo diventasse conquistando con Berlinguer tutto il potere. Una sorta di “normalità” fascista ricorrente, che ha bisogno di una parentesi. Usa dire che il fascismo fu popolare (De Felice), fu l’espressione dei ceti medi, della piccola borghesia (Salvatorelli, Gramsci, e i tantissimi altri, per esempio Asor Rosa ultimamente). Sono connotazioni che sono anche un critica della democrazia di massa. Sì.
Nella democrazia di massa, a suffragio universale, a partecipazione diretta, è inevitabile che i partiti e le politiche vincenti siano di massa, o comunque maggioritari, e per ciò stesso rispecchino anche larghe fette di ceti popolari Ma, eticamente, una colpa si può loro addebitare solo se si identificano con gli atti perversi di un regime, non se ne sono traditi, o ne sono divenuti ostaggio. Politicamente, è insensato scindere, come usa nei film e romanzi su Pinochet o l’apartheid, la massa piccolo borghese dalla grande borghesia di censo, cultura, nascita. La prima facinorosa la seconda tollerante e illuminata. È certo vero che ci sono più torturatori fra i piccoli che fra i grandi borghesi, ma è un fatto statistico. Mentre non c’è regime che si sia affermato contro le classi dirigenti. Anche il khomeinismo: l’ayatollah fu l’uomo della grande borghesia, intellettuale, finanziaria, militare perfino, laica. Ugualmente è proporzionata secondo statistica la disillusione. Con una differenza: quella dei ricchi e colti è più visibile, sa farsi meglio valere.
C’è un curioso ergersi di spirito aristocratico nella critica al fascismo (nazismo, peronismo, razzismo, khomeinismo e integralismo, bonapartismo arabo e sudamericano) come fenomeno popolare. Curioso perché scinde la colpa e in sostanza assolve i ricchi e i potenti, anche se dichiara il contrario. È questa un’operazione di destra, anche se non rozza come il fascismo, con le armi della critica democratica. Diverso sarebbe criticare i meccanismi della democrazia popolare: la formazione-manipolazione dell’opinione pubblica, il ruolo inattendibile (strumentale) dei media, i limiti del voto. De Felice non è criticabile perché fa opera di storico: dice che il fascismo fu popolare quando lo fu, e i motivi per cui lo fu – e che fu anche impopolare. Diverso è il giudizio a carattere politico – della sociologia politica da Salvatorelli a Asor Rosa – che attacca la democrazia popolare senza criterio: senza rispondenza ai mutevoli fatti storici, e senza un quadro generale delle cause e degli esiti.
Chiusa la parentesi, resta vero che bisogna sempre essere vigili contro il fascismo. Anche di chi ha distrutto la sua università per creare un posto a sua moglie. E di chi, sia esso un giudice o un grande giornale, squalifica proditoriamente l'avversario anche se senza l'olio di ricino, con dossier prefabbricati, con servizi deviati, con le intercettazioni e gli Zappadu (chi è Zappadu?), e con le accuse facili e il tintinnar di manette. Questo lo facevano i gerarchi. Mentre questo non si può dire di Berlusconi. Che sarà, come oggi appare, un pallone gonfiato. Uno per cui il culto di se stesso non è più azione politica, ma un Ersatz della propria incapacità come politico: come uono di governo (lo hanno messo sotto personaggi del calibro di Bossi, Fini, Casini, Follini, ora di nuovo Fini), promotore di buone leggi, addomesticatore del Parlamento riottoso, promotore di energie (in due elezioni presidenziali e in innumerevoli elezioni a sindaco che avrebbe potuto vincere a man bassa, a Napoli, Roma, Firenze, Torino, Venezia, le città emiliane, le stesse città toscane, non ha saputo esprimere candidati validi, talvolta ha vinto per caso). Ma non è arrivato con squadracce di arditi, di cui la sinistra ancora si para nelle piazze, di questo non gli si può fare colpa, o con tintinnare di manette: è arrivato da signore liberale, con corteo di miti intellettuali, molto pacifici, Urbani, Marzano, Colletti, Vertone, Ferrara, Pera. Fu così che arrivò al 1994, un atto di sediziosa liberazione, se non si vuole usare la parola rivoluzione, che avrebbe dovuto spazzare via cinquant'anni di vecchia politica.
Una ragione ragionevole alla separatezza, se non all’odio, in realtà c’è, ma sottile. Se un alto livello di considerazione fosse consentito, Berlusconi potrebbe ritenersi un esempio del “populismo autoritario” codificato da Stuart Hall, studioso britannico delle culture, contro Margaret Thatcher. Con tutte le differenze, caratteriali, di storia personale, di asset e tradizione politica, di tradizione e struttura decisionale nazionale, di strumentazione dell’opinione pubblica, di ideologia – il thatcherismo è la liberalizzazione spinta, il berlusconismo i consumi. Che fanno Berlusconi più umano, e anzi banale, rispetto al primo ministro britannico, che in pochi anni ha rovesciato quattro secoli di sedimentazioni storiche. Berlusconi si può dire (suo malgrado?) il capo e il terminale del circuito casa >> musica pop, fiction, spot tv >> casa, con la scuola inerte sullo sfondo. Che esaurisce la vita sociale, ma è il motore, eh sì, della cultura di massa.
Il “popolare” è la “cultura di massa”. Non ce n’è altro: la campagna? la magia? la taranta? i dannati della terra? Retorica, neppure più bene intenzionata. E le masse (della cultura, della comunicazione) sono sempre quell’agglomerato amorfo e contraddittorio che le forze egemoni informano. Questo è scuola di Francoforte, invecchiata quanto si voglia e altezzosa, ma è la verità. Tutto è già del resto nelle “Mitologie” di Barthes, che sono vecchie di quasi sessant’anni. O nella “Società dello spettacolo”, dieci anni dopo. Gramsci, che nella subalternità prefigurava, o forse solo auspicava, forme di resistenza alle culture (interessi) dominanti, non avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Come chiunque viva nel mondo nel suo tempo. E del resto l’antiberlusconismo questo è: un adattamento volgare della stessa scuola, gli occhi chiusi davanti di fronte alla realtà. Creandosi un paese deluso, o confuso, o narcotizzato, o farfallone, o corrotto. Una professione di aristocraticismo che avrebbe fatto inorridire Horkheimer e Adorno, plebeo ritenendo anche il “che fare?”, un po’ d’impegno politico. Mentre volgare è questo inarcare le ciglia, da vecchia zia offesa. Il paese restando la sola cosa solida di questo interminabile post-sovietismo-cum-Dc, arguto, rapido, agile, anche se non lo facciamo parlare, giusto il piagnisteo, o linguaggio Rai, e quindi si concentra sul voto. Quanta vitalità non deve avere il paese per sopravvivere in tanta dolente ipocrisia?
Ancora prima, volendo essere troppo seri, unificava la città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè secondo impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità. Al tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi di comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in una specie di «senso comune»”, come scriveva Barthes quarant’anni fa, “un purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare. Ora comunque, la semiologa Kristeva l’ha accertato, “la comunicazione è una merce”, fatta apposta insomma per Berlusconi, il Grande Venditore.
Di questa cultura di massa Berlusconi è il sintomo e non la causa. Non ha creato un linguaggio, lo ha sfruttato. Non ha creato il circo mediatico, ci si è inserito. Non ha creato il teatrino politico, ci si è inserito al meglio. È il segno (questa gli piacerebbe…) non la malattia. Ha saputo sfruttare la sovversione perché meglio degli altri ha letto il senso dell’antipolitica, della rivolta contro i partiti. Con la “discesa in campo”, “forza Italia”, il “partito della libertà”, a tratti perfino dell’“amore”- sa anche che il messaggio dev’essere semplice. Da sempre ci se ne attende la fine, prima con la Boccassini, la paladina di De Benedetti nell’affare Sme, poi con Bossi, col cancro, con l’incapacità di governo, con la moglie, con Fini. Ha resistito perché ha interpretato meglio degli avversari il senso delle cose: il successo di Berlusconi, che se anche finirà fra tre anni avrà improntato venti anni di storia, non è quello del tiranno, o del moghul dei media. È lo specchio dell’opposizione, una lettura della realtà molto più efficace di quella dei suoi supponenti nemici. Qui si può innescare il discorso del paese confuso, o narcotizzato, ma dopo aver capito la propria pochezza, si nobiliti pure con Proust o le zie, e il naso arricciato per lo sdegno. "La doxa, l'opinione pubblica, costitutiva delle nostre società democratiche, potentemente aiutata dale comunicazioni di massa, non è definita dai suoi limiti, dalla sua energia di esclusione, dalla sua censura"? Questo sapeva Barthes già quarant'anni fa - ma è meglio non esagerare.
La cultura non è divisa, è unita. Non c’è una cultura borghese e una cultura popolare, opposta o diversa. Il linguaggio è peraltro mediamente comune, abbastanza equalizzato tra il movimento ascensionale della scolarizzazione e quello restrittivo della comunicazione di massa, la programmazione per vasti strati, con l’appiattimento e la semplificazione dei significati. Nella televisione di Bernabei, cinquant’anni fa, la metà delle parole non erano capite da tre quarti degli ascoltatori, oggi tre quarti delle parole sono “capite”, anche male, da tre quarti degli spettatori, quindi da borghesi e non insieme. Sempre il linguaggio popolare si modella su quello borghese, con rari innesti in senso inverso – anche nel “Simplicissimus” e nella lingua furbesca. La cultura di massa, se vogliamo, li unifica su basi eguali, il linguaggio non è più classista nella civiltà dei consumi – l’Inghilterra è simbolicamente crollata per prima, la roccaforte del classismo linguistico, col no bras e i Beatles (ma il grande mulino democratico sono gli Usa). Ma è anche fatale che in questa democrazia vincano i Berlusconi, sempre vince il voto l’interprete del senso comune.
Il terzo capitolo che ora si apre promette qualche novità: quello della monaca di Monza, nelle vesti della moglie. Una storia non altrettanto cruenta, ma non meno efferata: potrebbe essere la fine di tutto ciò che Berlusconi ha costruito. Del lodo Mondadori, e non esclusa Mediaset e tutta la Fininvest. L’aria da pugile suonato che Berlusconi ha avuto per qualche settimana non dipendeva da Fini né tanto meno da Tremonti, ma dalla decisione della moglie di sfidarlo in tribunale. Pensava di cavarsela con le ville, compresa quella svizzera della “mammetta”, e con i miliardi, mentre sua moglie vuole distruggerlo, lui e anche suoi figli, i figli di lei, niente di meno. L’azienda è tutto Berlusconi, la voglia dissolutrice della moglie di Berlusconi ne ha trovato il vero punto debole, dopo aver vagato con le veline.
Ma non si può dire, l'uomo è sempre stato fortunato - sarà la Provvidenza? E anche, a un secondo vedere, in questa storia di guaglione: le signorine del Sud hanno scacciato gli altri ben più solidi fantasmi, quelli del conflitto d’interessi, dal calcio alla giustizia.
La ragione semplice del successo di Berlusconi, che non è naturalmente il fascismo, categoria screditatissima, anche tra i fascisti, è sempre valida. È la fiducia che vuole trasmettere, e malgrado i suoi tanti difetti evidentemente ci riesce. O, più che la fiducia in Berlusconi stesso, la ripulsa del grigio vittimismo di questa sinistra, cattocomunista – che, certo, non è cattolica e non è comunista, è solo un coagulo di potere, di quelli che si sono eretti a società “civile”. La ripulsa della nozione stessa di "crisi", anche qaundo la crisi c'è, perché questa sinistra che non sa altro che godere minacciando crisi ha stufato: il paese vuole essere governato. Quest’uomo che fa ridere il mondo intero si può allora immaginarlo in negativo. Come riflesso di una situazione evidentemente ancora più ridicola. Se non del comico, come a lui piace, del santo, dell'eccesso. Non è un mistero, il suo perdurante successo è l'effetto di un'opposizione che più demente non si può.
Berlusconi si è messo lì, ed è stato messo lì, dai politici in rotta e dal partito dei padroni, per contrastare il cattocomunismo. Ma poi non ha avuto bisogno di fare nulla, giusto capitalizzare sulla serie infinita di regali della sinistra, di cui è perfino difficile assommare le stupidaggini. Che ora lavora con personaggi screditatissimi e infidi, Spatuzza, Ciancimino, per farlo passare per mafioso. E fa una battaglia di libertà sulle intercettazioni. A favore. Lo scandalo delle intercettazioni, la criminalità comune di giudici, polizie giudiziarie e croniste, difeso come lotta di libertà è solo delirante – un referendum contro le intercettazioni passerebbe col novanta per cento, se non il cento per cento, dei voti. I giudici manolesta e le polizie giudiziarie ricattano queste sinistre? Ma l’elenco delle scemenze è interminabile.
In questo senso, con questi eccezionalissimi favori, è anche l'uomo della provvidenza manzoniana. Tra collaboratori inetti, specie i ministri, che gli accozzagliano leggi wsempre sbagliate. E alleati politici tanto presuntuosi quanto vuoti di idee e di principi, quali Bossi e Fini. Uno che ogni giorno tiene a bada Bossi e Fini fa certamente una buona azione politica. Di politica gretta. Ma questa è la politica che ci ha imposto e ci impone il giustizialismo da venti anni, l'allegro golpismo dei gidici.
Ma poi è pure vero che Berlusconi non si saprebbe immaginarlo altrimenti. Con dei talk show non pregiudizialmente sfavorevoli, se non favorevoli, analoghi ai cinque-sei ostili della Rai, tutti fatti con lo stampo, stile sovietico, che giornalmente lo deridono. O come il "Corriere della sera", "la Repubblica", "la Stampa", "Il Sole 24 Ore", "Il Messaggero", i cosiddeti “giornali d’opinione”. Non si saprebbe immaginarlo altro che come il Nemico. Una figura che in astratto non è pagante.Ma al confronto con questa sinistra evidentemente sì. Perché una delle ragioni, se non la più importante, è che il paese vuole liberarsi di questa sinistra. E quando non vota Berlusconi o Bossi vota Di Pietro, Grillo, chiunque. Si fa troppo facile ironia sul cattocomunismo, che sarebbe inesistente – ma non per chi lo ha sperimentato personalmente, a “Repubblica”, alla Rizzoli Corriere, e non per chi opera tra i dipendenti pubblici, nella sanità, nella scuola, all’università, alla Rai, nei giornali, faziosissimo, durissimo.
Se si vuole, si può anche dire come si dice, che Berlusconi non ha inventato nulla: s’è solo appropriato delle turpitudini del golpe milanese sulla politica. Si prenda il capitolo Rai. Berlusconi è tristemente famoso per l’editto bulgaro, a carico di tre oppositori suoi della Rai che sono tutti noi, benché conformisti, Fazio, Santoro e Travaglio. Ma aveva dato asilo a Santoro al tempo dell’editto dei professori di Prodi di cui non si parla, molto di stagione, il bocconiano Demattè, Zaccaria e altrettali – alla Rai è difficile inventare qualcosa, ogni turpitudine è già stata sperimentata. I professori di Prodi avevano bulgarizzato anche Vespa, altra liquidazione omessa dalle cronache ma considerevole nella storia. Con l’ausilio dell’ottimo capo del Personale Pierluigi Celli, che per questo diventerà poi direttore generale – dove si segnalerà subito per l’estromissione dalla Rai di Giovanni Minoli, altro indigesto a Prodi, o a D’Alema, suo dichiarato patron politico, patron di Celli. Anche le stelline, più meno virtuose, in scoperto flirt coi vertici Rai non sono una novità di Berlusconi ma dei prodi professori. Uno di essi, il valorosissimo professor Zaccaria, di cui ancora Firenze fatica a capire il peso culturale o politico (l’uomo pensò di potersi candidare a presidente del consiglio... ), lasciò addirittura per esse la moglie e i figli benché buon cattolico. L’unica differenza con Saccà (e Berlusconi) è che Zaccaria le stelline se le faceva per davvero – peccato non averlo intercettato.
L’ambizione unica di Berlusconi è di essere accettato, e uno scandalo in più non è dirimente. Ha preso il centro-destra, qualificandosi per liberale, perché era la posizione libera, dopo il dissolvimento dei socialisti e della Dc moderata a opera dei catto-comunisti, ma non per riformare l’Italia. Era nel craxismo perché il Psi di Craxi, a sua volta tenuto a distanza dall’establishment bancario e confindustriale, promuoveva gli outsider. Ma la sua ambizione è entrare nell’establishment. Ostenta Bmw e Audi dal culo largo dopo lo sfortunato approccio all’Avvocato della Fiat (“ne tengo il ritratto sul comodino”), finito con Ruggiero ministro degli Esteri e il dialogo con i black block culminato nel G8di Genova, snobbato e anzi irriso dai nipoti dell’Avvocato, anche se entrambi non sembrano del tutto commendevoli.

Decisione a tre, Roma cerca contromosse

Decisione in comitato ristretto per la combinata al vertice della Ue. Sul nome di van Rompuy un po’ di coordinamento c’è stato, anche la Farnesina ne aveva sentito parlare. Sul nome della Ashton invece il suggerimento di Brown è stato comunicato unicamente a Sarkozy e Angela Merkel, che hanno risposto: “Fai tu”. Pur di non avere un presidente che governa, quale sarebbe stato Tony Blair, il presidente francese e la cancelliera tedesca hanno delegato la scelta del ministro degli Esteri e della difesa a Brown. E fra i tre la scelta è stata concordata, gli altri ventiquattro membri dell’Ue, compresa la presidenza di turno svedese, si sono trovati il nome pronto senza discussione.
La Farnesina dissimula, come tutti gli altri membri dell’Unione, ma c’è sconcerto più che sarcasmo per la scelta di Brown. Cioè per la delega che il premier britannico ha avuto da Parigi e Berlino. Berlusconi ha finto di benedire la scelta, ma è uscito dal vertice frastornato e anche furibondo. E una reazione si prepara, anche se non si sa ancora come e dove. Da un certo punto di vista, del funzionamento dell’Unione, non c’è fretta: non cambia nulla, l’Ue va avanti come prima. Ma per altri aspetti Roma ha bisogno di sapere, e anche di contare. Se il modello Rompuy-Ashton dovesse passare incontestato, l’Italia si troverebbe tagliata fuori da molti scacchieri nei quali ha, fra i paesi dell’Ue, un interesse prevalente o di primo piano: in Libano, in Afghanistan, in Iran, nell’Iraq dopo il ritiro americano, e nelle intese con la Russia e la Turchia per il gas.