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sabato 7 febbraio 2015

Il mondo com'è (204)

astolfo

Bolscevismo - Nessun comunista ha mai perso una guerra, è vero: Lenin, Stalin, Mao, la Corea, Ho Chi-min, Castro. Eccetto quella per il comunismo.
 
Gesuiti – Sono stati per oltre un secolo, tra Sei e Settecento, monopolisti della cultura. In quanto artisti, scienziati e scrittori, e in quanto censori. Scorrendo la stessa “Enciclopedia”, bastione del laicismo, molte voci si leggono scritte da gesuiti. Mentre altre contestavano fino alla censura.

Luigi XIV – Detto Luigi il Grande o anche, amabilmente, il Re Sole. Ma non è certo che negli oltre settant’anni di regno, da quando aveva cinque anni, la Francia si cresciuta e non si sia invece  depauperata, benché il re fosse affiancato da politici di prima qualità, Mazzarino, Colbert, Vauban. Inoculandosi i bacilli che ne avrebbe determinato la vergogna del 1870. e dopo: cortigianeria, orgoglio, beghismo, anche in forma laica, superficialità.
Tutto quello che ha fatto e per cui è celebrato contiene ance i semi della disgrazia. La Francia “pré carré””, necessariamente in lite sempre coi vicini orientali non delimitati da montagne. La rigida etichetta di corte. Che non fu quella che ridusse alla ragione la riottosa nobiltà, fu quella che la spense, a differenza dell’Inghilterra – come rileverà Tocqueville (la nobiltà favorì e finanziò la rivoluzione industriale, i mercati finanziari, l’economia della sviluppo). Non fece bene ma complessivamente male alla chiesa stessa, combattendo per i gesuiti le guerre contro i protestanti e contro il giansenismo – che ricchezza, anche materiale, ne sarebbe potuta derivare. Ereditò il Gran Secolo e semmai lo spense: è suo, data la lunghezza del regno, il glorioso Seicento francese, il Gran Secolo così pieno, di Molière, Racine, Corneille, Bossuet, Boileau, Lully, Le Brun, Le Nôtre, che però fu l’esito di altri precedenti sviluppi, di libertà, di fronda, che lui sterilizzò. Abolì con la Fronda ogni dissenso, ogni autonomia dei parlamenti locali, per esempio di Aix, e anche la libertà di pensiero, e la stessa creatività. Benemerito senz’altro della leggende dei tre moschettieri – ma D’Artagnan fu quello che arrestò il superintendente fiscale Fouquet, l’uomo più ricco del reame, quando il re decise di prendere con Colbert il potere assoluto. Gallicano e beghino. Subì da ultimo una serie di rovesci militari.
Sarebbe stata la Francia e non la Germania al centro dell’Europa quando il rumore delle armi si fosse spento? È probabile. Certamente ha regalato alla Germania un milione di uomini industriosi e inventivi, con la revoca dell’editto di Nantes e della tolleranza religiosa.

Monarca assoluto di diritto divino, fu all’origine del deficit demografico che ha afflitto la Francia per due secoli. Avendo costretto all’emigrazione almeno un milione di protestanti. Altri ne liquidò in massa nelle Cévennes, avendo provocato con la revoca la rivolta dei camisard. Non prevenne e non seppe affrontare due tremende carestie al vertice del suo lungo regno, nel 1693 e nel 1709, che fecero due milioni di morti. Trascurò l’igiene al punto che tutti i suoi famigliari gli antemorirono – suo erede sarà un bisnipote di cinque anni. 

Reintrodusse dopo tre secoli e mezzo (la servitù era stata abolita nel 1315) con Colbert la schiavitù in Francia nel 1685, con il “Codice Nero”: nelle Antille francesi, e poi nella Guyana, alla Réunion e in Luisiana. Autorizzando il commercio degli schiavi, e anzi in almeno un caso armando personalmente un brigantino per fare razzia di schiavi in Africa. Per sviluppare la coltivazione della canna da zucchero. Un codice che resterà in funzione in Francia fino al 1848, anche se la tratta dei negri verrà abolita prima, nel 1815, alla caduta di Napoleone.
In un primo tempo, è vero, Luigi XIV aveva tentato il popolamento delle colonie nei Caraibi con l’invio di varie ondate di filles du roi, ragazze che volontariamente emigravano per accrescere la fertilità dei bianchi che vi risiedevano. Ma non bastarono.
Il Codice Nero faceva obbligo ai padroni della sussistenza, e dava loro diritto di vita e di morte. Non potevano torturare gli schiavi ma erano giudici in proprio, e potevano decidere le pene in caso di trasgressione agli obblighi. Comprese le mutilazioni, la segnatura a fuoco, e la pena di morte. A loro insindacabile giudizio potevano incatenali e farli frustare, con le verghe o le corde. Lo schiavo fuggitivo doveva avere, dopo un mese, le orecchie tagliate e un fiordaliso marchiato a fuoco. In caso di recidiva doveva avere tagliati i garretti. In caso di seconda recidiva andava condannato a morte. Le stesse pene, dicono i commentatori, che si comminavano in Francia all’epoca, ma in Francia non c’erano schiavi.

Rivoluzione - I rivoluzionari dell’‘89 per prima cosa frantumarono i vetri e ruppero i fanali. Anche se ci volevano appendere i nobili: “Ah, ça ira, ça ira, ça i-ra,\les aristocrates à la lanterne”. Lo stesso fecero a Roma un secolo dopo i disoccupati: razziarono i negozi e distrussero l’illuminazione pubblica. Anche in Germania i rivoluzionari si limitarono a rompere i vetri alle finestre, nella Novemberrevolution del 1918 che durò sette mesi. “Nell’assenza di scopo sta la grandezza dello spettacolo”, disse a novembre in Germania il sovversivo Spengler.
La rivoluzione viene meglio al buio - lo specchio nero usavano i paesaggisti per semplificare l’immagine. Ma i lampioni distrussero anche i generali austriaci a Napoli, dopo aver soffocato la rivoluzione. Potenza delle tenebre.

Anche la musica è nemica, al pari della luce. A Parigi distrussero coi fanali le arpe – non c’erano arpe a Roma nel 1889, né prima. Così fu pure nell’ultima guerra, quando gli ottimi soldati tedeschi, Jünger nota, nei saccheggi risparmiavano gli specchi e distruggevano gli strumenti musicali.
In precedenza Parigi s’era colorata di sangue nerastro, per i corpi interi e a pezzi appesi ai lampioni e alle porte della città. Fu quando i macellai di Saint-Jacques-la-Boucherie e di Sainte-Geneviève, di Parigi quartieri venerandi, riva destra, occuparono la città, fra il 1411 e il 1413, con corteo di servi, abbattitori, scorticatori, trippai, fecero macello di signori e passanti, e presero anch’essi la Bastiglia, col berretto bianco della democrazia, che imposero al re. Nulla poterono però contro il grande scialacquatore, il duca di Berry, e i fratelli Limbourg che con una schiera di poeti e coloristi gli miniaturavano Les Très Riches Heures, con effetti straordinari di luce. Era la rivoluzione degli Scorticatori o Testoni, da Simon “Caboche”, il Testone, al secolo Simone il Coltellaio, per conto di Giovanni senza Paura, il re che disonorò la Borgogna donando Parigi agli inglesi.

Roma – “Una città di Marte”. così la vedeva Fellini appestandosi a girare “Satyricon”, “come un film di marziani”. Lo stesso sarà per “Roma”, seppure in abiti moderni. Ma così è per tutti i film di Fellini, molti dei quali hanno a che fare con Roma, dall’episodio rosselliniano de “L’amore”, il secondo, “Il miracolo”, di sua invenzione, e dallo “Sceicco bianco” in qua. Compresi quelli della memoria romagnola, tutti e in tutto “visti da Roma”.  Una città “di marziani”, cioè di comportamenti singolari e sorprendenti.
Il Colosseo, che Roma da qualche tempo ha eletto a simbolo della città, Fellini vedeva come “orrenda lunare catastrofe di pietra, questo immenso teschio mangiato dal tempo e arenato in mezzo alla città”. Per non far capo simbolicamente a San Pietro, pure altrettanto solenne e tanto più ricco e suggestivo. Meglio marziani che cristiani.

Soluzione finale – Ha un precedente già nell’impero romano contro i cristiani, come dimenticarlo: nella Grande Persecuzione decretata e organizzata, minuziosamente, per decenni, da Diocleziano e Galerio, a partire dal 303. Ci fu anche allora un “incendio del Reichstag”: dopo il primo editto contro i cristiani per due volte in pochi giorni ci fu un incendio nel palazzo dell’imperatore.
Usa ora dire il cristianesimo un impero romano architettato da san Paolo, o viceversa, ma il contrario è stato vero per oltre tre secoli.
Le stesse leggi razziali del 1938 sembrano ricalcate sul primo editto anticristiano della tetrarchia che governava con Diocleziano, quello del 24 febbraio 303: 1) proibizione e rogo dei libri di culto, confisca dei beni; 2) divieto di associazione; 3) perdita di ogni carica e posizione pubblica, esclusione dagli impieghi; 4) arresti.
Ma non è il solo precedente: è connaturata all’Occidente, alla “ragione” occidentale a bassa intensità. Per la quale la società bene ordinata è eguale e egualitaria: il progetto di ordine sociale è sempre omogeneo e strutturato, mediante eliminazione di ogni scoria o differenza.

astolfo@antiit.eu

Gli emblemi dei gesuiti

È la seconda tappa – con questo titolo, “Studi sul concettismo”, pubblicata a Firenze nel 1946 – di una passione a lungo coltivata. Con una prima edizione nel 1939. E con un seguito nel 1975, una pubblicazione inglese, per le Edizioni di Storia e Letteratura, arricchita da 400 pagine di bibliografia multilingue degli Emblem-Books, approntata durate la guerra e pubblicata nel 1947 dal Warburg Institute. Maniacale, da collezionista di “divise”, “emblemi”, “armi”, etc. ma non solo. Lo specialista è formidabile scrittore, che sa far parlare anche le “cose rimorte” – come lui stesso confida della sua passione: una voga del Cinque-Seicento, seppellita nella biblioteche, per lo più ecclesiastiche.
Il genere per eccellenza, lo vuole Praz, dell’“oraziano utile dulci, la base teoretica di tutta la letteratura fino ai giorni nostri”. Ma con un fine molto pratico, seppure indiretto, pedagogico. Le immagini “sostengono la tecnica ignaziana di applicare i sensi per aiutare l’immaginazione a raffigurarsi in minuti dettagli il trasporto religioso, l’orrore del peccato e il tormento dell’inferno, le delizie di una vita pia. Esse rendevano accessibile a tutti il soprannaturale materializzandolo”. Etc., etc.:, non un progetto da poco: “Invece di mortificare i sensi per concentrare tutte le energie in una tensione ineffabile dello spirito, alla maniera passiva (“purgativa”) dei mistici, i gesuiti volevano tutti  al limite della capacità, in modo da convergere insieme a creare uno stato psicologico di disponibilità all’ordine di Dio. La fissità dell’immagine emblematica era infinitamente suggestiva”.
Mario Praz, Studi sul concettismo, Abscondita, pp. 235 ill. € 22

venerdì 6 febbraio 2015

Ombre - 254

“Studio del Pentagono: Putin soffre di autismo”. Cioè, uno che si butta la zappa tra i piedi?
O non soffre di autismo il Pentagono, che ci butta Putin e la zappa tra i piedi nostri?

Teste mozzate, giapponesi o inglesi, cristiani massacrati o espulsi in massa, anche i curdi, che non sono arabi, e niente. Non s’inneggia al califfato, ma nel cuore sì. L’esecuzione di un giordano invece scuote il mondo arabo, piazze e governi, crociate, cioè jihad, si mobilitano. Le guerre di civiltà esistono.

Renzi che si fa fotografare in libreria, e poi twitta “La politica nell’era dello storytelling”, del cantastorie, è più fico o più culto della personalità?

Soprattutto l’indomani, quando i grandi del giornalismo si sono precipitati a interpellarne l’autore, Christian Salmon. Che ne penserà Salmon di Renzi?

Non si trattiene Renzi dal dare una pacca sul braccio a Mattarella che prende possesso del Quirinale. Lo fa con tutti, come già Letta – col papa, con Obama, con Angela Merkel (a lei dopo i baci e abbracci).  Il buon democristiano si distingue in questo: è soprattutto pieno, sinceramente, di se stesso, non inferiore al papa, e a Obama.

È come voler parlare in inglese, che si mastica male, al pubblico di Davos, anglofono e anglomane, invece che un buon italiano. La cosa più rivoltante del democristianesimo, eversiva, distruttiva , di ogni dignità, e soprattutto dell’Italia, che è molto più moderna e sa stare al mondo, è questo inguaribile provincialismo.

Si esibisce a Roma, a Santa Cecilia, il batterista austriaco Grubinger, strumentista di musica seria contemporanea. Giocoliere e mattatore. Il “Corriere della sera” ne fa una pagina per annunciare una sua prossima esibizione alla Scala. Altra provincia, Milano.

Angelino Alfano alza il mento, e declama: “Se qualcuno di noi se ne vuole andare, io non tratterrò nessuno”. Un vero leader. Tutti li trova Berlusconi – questo Alfano non è nemmeno dell’Azione Cattolica.

Si arrestano un paio di dozzine di impiegati comunali ricattatori – su licenze, certificazioni, etc.. Il generale Cantore, Guardia di Finanza, dice: “Gli imprenditori sono stufi di queste angherie e cominciano a denunciare”. Ma no, hanno sempre denunciato. Tutti abbiamo denunciato le mille angherie per la più piccola pratica urbanistica. Ora invece li arrestano.

Dopo aver perso due volte di seguito 7-0 con l’Inter, l’ultima tre mesi fa, il Sassuolo gliene rifila tre – 3-1, è vero, ma pur sempre una batosta. Che calcio è?

“Un paese dove il recupero dei crediti richiede fino a quindici anni”, dice Panetta scandalizzato, il vicedirettore della Banca d’Italia, a Fubini su “Repubblica”, e intende: che paese è? Che non se ne sia accorta anche la Banca d’Italia? Quello che tutti sanno da molti anni: che fino a 200 mila euro è meglio non fare causa, bisogna accontentarsi del poco che entra.
La giustizia è a favore del malaffare, ma non si può dire – beh, diciamo a favore degli avvocati.

Odiosissima querelle sull’eredità Hack tra l’amica e badate Tatjana Gjengo e gli enti animalisti. La badante meritava tutto e non ha ricevuto nulla, mentre i giornali conformi ne fanno un’approfittatrice  di due poveri (scemi?) vecchi, Hack e marito, per dare ragione alle animaliste. Che esibiscono grugni bestiali.

“Si” dichiarano morti Forza Italia e il partito di Alfano il giorno in cui Passera lancia il suo partito. “Si”, cioè “Il Sole 24 Ore”, il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “la Stampa”. Che naturalmente hanno opinioni autonome, non legate a Passera. Una volta tifavano anzi Montezemolo, tutt’e quattro.

Peter Greenway dubita che il suo film “Eisenstein in Guanajuato”, sul regista “comunista, ebreo e omosessuale”, sarà visto in Russia. “Ci sono due Russie: il paese in quanto tale e la Russia di Putin, diventata omofoba”, che non vorrà vedere il film, dice: “Ma alla fine di quest’anno realizzerò un secondo film su Eisenstein, finanziato dalla Russia”. Di Putin?

La ministra Boschi viene presentata a Rosy Bindi alla Camera nel dopo-Mattarella. Gliela presenta il vice di Renzi al partito, Lorenzo Guerini. Non si erano mai incontrate prima? Al partito? In Toscana? “Non si conoscevano”? Boschi irrompe giuliva nel crocchio di Bindi e Guerini, ma la Bindi si volta dall’altra parte. Usavano così le signore. Guerini al solito ci mette una pezza.

Non è vero che il rosso sia scomparso dalla politica. Molte capigliature lampeggiavano di rosso nelle file Pd all’applauso per Mattarella. Anche la vice-presidente del Senato Fedeli, che alla destra della presidente della Camera raccoglieva le schede, vecchia, si fa per dire, combattente Cgil.

I tiggì Rai si sbracciano a dire l’applauso a Matterella presidente unanime tra i grandi elettori. Mentre si vedono interi settori con le braccia conserte. Per pochi attimi, è vero. E poi no si rivedono più.

Piero Ostellino lascia con gennaio il “Corriere della sera”, lamentando un trattamento “ultimativo, volgare e offensivo”. Ma c’era ancora un liberale al “Corriere della sera”?

Si chiama(va) “Il dubbio” la rubrica di Ostellino. Ma lui evidentemente non dubitava, se non se n’è accorto fino ad ora: che tagli e tagli sono la sola ricetta Rizzoli-Corriere della sera, ai giornalisti e alla distribuzione. Non fa che tagliarseli, da vent’anni, l’Azienda Perfetta si può dire di questo mercato: di azionisti pieni di sé in salotto malgrado il tanfo di chiuso, e manager che rubano anche più del dovuto.

Si fa merito al Presidente Mattarella di essersi dimesso contro la legge Mammì che rompeva il monopolio tv della Rai. È un titolo di merito?
Mattarella non era un giudice costituzionale? Forse della costituzione dei monopoli – forse per questo molti arricciano il naso.
.
In realtà Mattarella si dimise, con altri quattro ministri della sinistra Dc , su ordine di De Mita, su richiesta di De Benedetti. Andreotti, che presiedeva il governo, andò avanti come se nulla fosse.

Il prezzo del petrolio torna verso livelli normali, il petrolio da scisti diventa naturalmente antieconomico, imprese falliscono in Nord America, i licenziamenti si moltiplicano, e i verdi cominciano a protestare. Protestano contro  disastri della produzione da scisti, in terra e nell’aria. Non prima, ora. Ora che l’industria degli scisti non paga più?

Berlusconi sbiancato - 16

Astenendosi su Mattarella, Berlusconi consente a Renzi di ricompattare il Pd. È quello che voleva? Berlusconi ruota di scorta di Renzi, è tutto qui? Il giaguaro non si vuole sgonfiato, ma sbiancato sì. Si può metterla così, il risultato non cambia: con i Fitto in politica, e i cinesi per il Milan, Berlusconi non è più lui. 
 “Questo atteggiamento non trova riscontro nel comportamento di qualsiasi altro grande popolo verso uno statista di questa grandezza”, così Max Weber apre “Parlamento e governo”: “In nessun altro luogo del mondo la stessa ammirazione più  sconfinata per la personalità di un uomo politico ha indotto una nazione orgogliosa a sacrificargli così interamente le proprie reali convinzioni”. Poi lo statista cadde, continua Weber, e “che cosa sperimentò?” Coloro “che lui aveva sollevati dal nulla, che cosa fecero costoro? Continuarono a sedere ai loro posti”. E “quale discorso di commiato” gli rivolsero? “Essi non dissero una parola”.
Weber parlava di Bismarck, e Berlusconi non è Bismarck. Ma la sua caduta lascia lo stesso ammutoliti. Ammutoliti i suoi, che fanno come se nulla fosse. Berlusconi non è Bismarck anche perché non ha “Memorie” da scrivere. Perché, mentre Bismarck passò gli ultimi anni a fustigare i suoi conservatori, inetti e rapaci, cosa potrebbe scrivere Berlusconi se non rimproverarsi le sue scelte quasi sempre infelici – con l’eccezione di Confalonieri, Gianni Letta e, finora, Dell’Utri, sempre? Di mediocri perlopiù. E di gente che ci ha mangiato e poi gli ha fatto la guerra. Peccato capitale, questa scelta degli uomini, tutti traditori, da parte di uno che si picca di essere il miglior manager, oltre che padrone.
Tutti traditori e ingrati, oltre che più spesso incompetenti : nessuno che abbia in curriculum un’idea, nella lunga lista dei suoi protetti, da Fini a Fitto, una proposta, una buona azione. Quando gliene è capitato uno competente e riguardoso, Tremonti, l’ha osteggiato in tutti i modi - uno che gli ha consentito di aumentare le pensioni minime a 500 euro, di distribuire la social card, di togliere l’Imu sulla prima casa, senza aumentare di un centesimo le tasse. lui l’ha sacrificato a Fini e Casini, da ultimo a Alfano, altro colosso (a Fini e Casini, e da ultimo Alfano, che lo guatavano - guatavano lui, Berlusconi, che morisse, o per fargli comunque le scarpe).
Non un’aquila insomma. Anche come padrone del Milan non ne azzecca una, si sfoga licenziando allenatori. Uno che si fa rappresentare da Lotito, il calcio asservendo alla comune passione democritistiana. Ed è ora “sul mercato”, come dice lui, a cercare qualche “filippino” che ci metta un euro - e magari azzecchi un allenatore. Sarà ricordato, azzardiamo, per l’italianizzazione che ha fatto della televisione. Azzardiamo, non sarà facile: il concetto è “scorretto” – ancora vent’anni fa, a giugno del 1995, il Pci-Pds promuoveva referendum contro le tv di Berlusconi (che regolarmente perdeva: il Pci ha sempre perso i referendum, il divorzio, la scala mobile). Anche perché la tv non si pensa – si pensa come a un water, a un padella da cucina. La vulgata lo vuole l’americanizzatore della tv. Lui invece l’ha  italianizzata. Provincializzata anche, con la pubblicità alla portata di tutti. E italianizzata, in due maniere: il riflesso del paese-che-non-c’era, e la liberazione dei linguaggi, dal “Drive in” di Italia 1, o Carlo Freccero, a “Striscia la notizia” di Canale 5, allo stesso Tg 5 di Mentana, o delle “figlie”. . Due rivoluzioni semplici semplici, di cui si comprende la portata innovativa comparativamente, col persistente paese di gesso e col collo torto del nazionalpopolare Rai. Fuori della tv i flop si accumulano.
I successi del Milan di sua proprietà sono roba dell’ottimo Sacchi, uno che si è fatto da sé, e del trio olandese delle meraviglie, con Franco Baresi, l’altra mezza squadra insieme con Paolo Maldini, entrambi obliterati. “Berlusconi detta la linea da seguire”, ha stabilito Galliani dieci anni fa: “Il Milan è nato per giocare con quattro difensori, una mezza punta e due punte. È stato così fin dagli anni Sessanta, quando in campo andavano Rivera, Sormani e Prati. Chiarita la linea editoriale, l’allenatore può confezionare il prodotto a suo piacimento”. Ridicolo, oltre che eretico. Berlusconi è del resto quello che dopo l’ottimo Europeo del 2000, fece questo commento contro l’allenatore Zoff: “Nella finale di ieri è stato indegno: si è comportato come l’ultimo dei dilettanti. Mi sono indignato. Si poteva e bisognava vincere. I problemi riguardano la conduzione della squadra: non si può lasciare la fonte del gioco avversario, Zidane, sempre libero. Era una cosa che anche un dilettante avrebbe visto”. Un’idiozia - poi si smentì, come suole.
Anche questa del qui l’ho detto e qui lo nego indigna molti. Diciamo tutti gli italiani, suoi elettori compresi. E questo è lo statista Berlusconi: uno che occupa uno spazio, a malgrado delle sue indegnità. Che si diverte in compagnia di Apicella, Ruby e Luther Blissett, oltre che dell’incredibile D’Addario. Col fiuto degli affari, meglio di De Benedetti, per dire, molto meglio, e di tanti altri avventurosi capitani di ventura. Su questo è abile. E più potrebbe esserlo se manderà in porto il suo disegno non tanto nascosto: salvare il “Corriere della sera” dal fallimento, o comunque la casa editrice, con un aiuto indiretto al giornalone, e agganciare la tv ai telefoni. Magari attraverso Telecom. O attraverso Rai Way, perché no. Nellera Renzi l'uomo potrebbe essersi già rannicchiato come già nellera Craxi, ad accumulare affari - anche in politica c’è l’uscita dal campo, come la discesa o salita. Su questo si può capirlo: libri e cellulari sono banche, si incassa a ciclo continuo, ma per questo bisogna essere bne armati, per contenere la politica famelica.
Le sue condanne non fanno testo, a partire da quella per sfruttamento della prostituzione, giù giù fino al lodo Mondadori e alla Sme - in cui è stato processato per non dover condannare i colpevoli. Roba milanese. Di una città che, si sa, è la città degli untori. E degli affaristi, non per nulla anche lui è milanese. E come se lo è. Non untore, ma della parrocchietta. Quella raccolta attorno al potere. Lui in special modo, essendo un baüscia, un mediatore d’affari, e quindi un arrivista. Noi siamo abituati, come lettori, all’aristocrazia che accetta gabellieri e straccivendoli, quantomeno ci parla, ma bisogna leggere i francesi, per sapere che la borghesia non li accetta e anzi li jugula: il borghese è classista - proponete a un borghese una nuora operaia o commessa, impazzirà, o un genero carpentiere. Milano è arrivista, e quindi non ama gli arrivisti. Il discorso della giustizia nasce e finisce qui
Del baüscia ha la volgarità, a tasso incommensurabile. Con un minimo di sobrietà avrebbe fatto sfracelli. Ognuno inorridisce alla volgarità del suo modo di vivere.. Le dodici o quindici ville. Il mancato ritiro dagli affari - che non sarebbe costato niente, se non un grado meno di avidità. I ritiri ad Arcore, o a palazzo Grazioli, invece di un sobrio ufficio, come un buon imprenditore dovrebbe. Le macchinone indefettibilmente tedesche. Mogli e fidanzate garrule, da avanspettacolo. Ma il più pulito lassù ha la rogna. Questo problema è di Milano, non il suo proprio. Il suo è un altro.
La riforma liberale occupata
Spadolini e Gianni Agnelli dicevano a Urbani: “Giuliano, ma come fai a pensare che uno come Berlusconi realizzerà la riforma liberale?” Era vero, lo sapevano tutti: Berlusconi è sempre stato un democristiano in pelli laiche. Liberale, repubblicano, socialista, di quel tanto che gli consentiva il pluralismo tv invece del solido monopolio confessionale Rai, con una tv solo lievemente più sbiadita. All’epoca anche usava, la doppia tessera, dei dc che si dicevano liberali, repubblicani e socialdemocratici, per aggirare qualche posizione del loro monolito originario. Lui non ne avrebbe avuto bisogno, essendo una brutta copia di Gianni Letta. Col quale faceva periodicamente il giro delle sette chiese - che poi erano una: andare da De Mita, cioè da Mastella, che ne era il giovane tuttofare (e poi si divertiva a mimarlo ai cronisti) - a promettere e piatire. Ma voleva già allora essere ecumenico.
Questo è il fatto. Lo storico – se si farà ancora storia – dirà in poche righe che in Italia, nel 1994, a seguito di una serie di soprusi dei giudici del Msi e del Pci, erano rimasti in attività due soli partiti, l’Msi e il Pci. Il Pci, molto più grande e meglio organizzato, si apprestava a conquistare i tre quarti del Parlamento. Berlusconi scese allora in politica, o in campo, come dice lui, e vinse lui le elezioni. Fu l’inizio di una serie di ricatti del Pci al presidente della Repubblica Scalfaro, e di una serie interminabile di processi dei giudici del Pci – l’Msi momentaneamente l’aveva recuperato - a Berlusconi, che, dopo vent’anni, lo portarono a una (prima) condanna. Nel mentre che il Pci, scheletro e polpa, si dissolveva – oggi si dice si liquefaceva – nella pancia della balena bianca. 
Senza residui? Beh, Berlusconi ha dato lavoro ai comici, anche loro del Pci, che altra materia non avevano. Vent’anni di lavoro ai comici può essere un buon merito. Ma. Non solo non ha fatto la riforma liberale di Agnelli, Spadolini e Urbani, ma il sovietismo non l’ha nemmeno intaccato. L’Italia dopo tanto Berlusconi si può dire il solo paese in Europa dove il Muro ancora non è crollato: comandano sempre “loro”. Sì, ha ripulito Napoli della spazzatura. Sì, è stato bravo a dare voce ai commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, alla “gente che lavora”. E a vincere quattro elezioni – compresa quella del 1996, che perse con un milione di voti in più di Prodi – e a perderne una, contro tutti i sondaggisti che lo davano per spacciato, per poche migliaia di voti. Ma irresoluto e inetto nella conduzione dei governi, come ora del partito – che pure è suo da tutti i punti di vista, sigla, cassa e voti. A suo merito anche l’aver addomesticato due partiti eversivi, la Lega e il Msi, ma “troppo buono” per liberarsi dei loro infausti leader: le crisi di governo che si è fatto imporre da Bossi, Casini e Fini sono raccapriccianti. La sinistra lo ha promosso e lo tiene in rispetto Grande Corruttore, Moghul dei Media, Mussolini, mentre era ed è un personaggio minore di Gadda, un piccolo provinciale lombardo.
Non è stato protagonista, se non elettorale, da abile venditore, e sempre ruota di scorta in realtà. Ben prima di Renzi, da sempre: del nebuloso, immarcescibile, corrotto conglomerato che è il potere in Italia. All’altezza solo qualche volta degli altri potentati che tengono l’Italia in soggezione, come e più di lui opachi e ignobili, dalla Procura di Milano alle “sinistre”. Un fantasma politico. La sua inadeguatezza dà la misura dell’indigenza della sinistra, contro la quale l’Italia ha così a lungo dovuto cercare rifugio in lui.

Grand Hotel Fellini

Un’autobiografia, seppure sghemba, confidata a pezzi a Kezich, Siciliano, Valerio Riva, Ignazio Maiore, Renzo Renzi. Nella forma di una formidabile narrazione, tesa, a ogni riga. In ogni accenno – la memoria si dipana lungo i film che ha realizzato – è una visione e un’impressione che lasciano il segno. Alcuni produttori, “il regista”, Rossellini, Anna Magnani, la Cardinale, Roma, la classicità, il film e il libro, il colore, la televisione, Giulietta, e Totò. Di uno che si conosce bene, anche molto, e altrettanto è solido, arguto e approfondito nei giudizi, non nevrotico e tantomeno psicotico, malgrado le fumisterie di cui si ammantava, psico e parapsicologiche – “La tappezzeria umana di un mio film è il mezzo più sicuro, l’elemento più preciso per penetrare il senso del film stesso”. Il “narratore nato”, anche nelle virgole, e uno che sa quello che sta facendo con la cinepresa, a differenza di altri registi scrittori, Pasolini per esempio, lo stesso Eisenstein.
Una figura di creatore, umano-disumano, che trova bizzarra conferma nelle confessioni a futura memoria di Anita Ekberg, una delle sue donne-dee: “Era molto esigente quando dirigeva, incline a improvvisi attacchi d’ira. Sul set era un padrone assoluto, d’altronde lui stesso lo diceva che fuori dal set si sentiva vuoto. Apparentemente gentile, in realtà un despota” – “In privato era un disastro, non aveva rispetto delle donne”, etc. Una figura eroicomica qui Fellini vuole “il regista” (Blasetti, Lattuada) come lo vedeva da fuori, quando faceva il giornalista. Ma di più lo fu personalmente, poiché – è una delle sue narrazioni ritornanti in questa raccolta – non può vedere il film che in immagini, cioè facendolo.
Non esistono biografie di Fellini, che pure fu personaggio molto pubblico, quasi dispersivo nella socialità. Ma lui non mente di se stesso – anche nelle turpitudini che Anita Ekberg gli rimprovererà: l’egotismo incontrollato, la dipendenza dai maghi, l’invidia dei colleghi, l’appropriazione delle idee altrui. È come se fosse il regista di se stesso, bello e brutto: è lui stesso il Grand Hotel di cui fantasticava da bambino a Rimini. Sincero e insincero: “A conti fatti, l’accusa di grande mistificatore lanciatami anni fa può sembrare vera” – sembrare. Mentre spiega che lui di circo e guitti non sa niente – ma in questo modo: “Mi sento l’ultimo al mondo a poterne parlare con conoscenza di storia, di fatti, di notizie”. Consolandosi con l’invenzione di un autorevolissimo chi l’ha detto che ha fatto subito testo: “L’unico e vero realista è il visionario”.
A proposito di idee altrui uno degli aneddoti qui più gustosi è come Magnani e Rossellini si appropriarono senza dargliene credito de “Il miracolo”, dopo averlo tempestato per avere un secondo episodio con cui rimpolpare “La voce umana” (i due episodi uscirono col titolo “L’amore”. Da ultimo si confessa splendidamente a Liliana Berti, spiegando “Casanova”: tre anni di lavorazione per svuotarlo, “un film astratto e informale sulla «non vita», la sua. Una storia che culmina in un sogno di cinematografari, sguaiati e veridici, con una bambina emersa dal nulla che gli chiede: “Ma tu Fellini non cambierai mai?”, e lui ci prova, prova a risponderle: “Ci proverò”. 
Federico Fellini, Fare un film

giovedì 5 febbraio 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (234)

Giuseppe Leuzzi

Arriva da Palermo Pignatone e a Roma sbarca Majorana, dopo la mafia. Che altro manca, il Gattopardo?

Il greco Tsipras si aggira sobrio per l’Europa. Ma a Bruxelles baci e abbracci gli impone il segaligno lussemburghese Juncker. Anche Angela Merkel va in giro imponendo baci e abbracci. Si sono invertite le usanze. O questa Europa – di Merkel, Juncker – è infida?

Mattarella presidente della Repubblica, Grasso del Senato, è la rivincita della Sicilia? Ininfluente, di legulei.

La “coesione territoriale” del ministero del’Economia – i vecchi piani di aiuti al Sud – taglia 7,4 miliardi di cofinanziamenti a progetti europei in Campania, Calabria e Sicilia tra il 2014 e il 2020. Senza i quali cofinanziamenti i progetti europei non si possono fare.
Niente male, come incentivo alla ripresa. Nel mutismo delle regioni tagliate. Per obbedienza di partito, al Pd, all’Ncd? Perche non  sanno nemmeno di che si tratta?

L’occhio della legge, vago
“Abbiamo fatto un fallimento da un miliardo” registrava, fra i tanti aneddoti di perversa soddisfazione,  “Fuori l’Italia dal Sud” nel 1992. Una pratica non eccezionale: ordinare merce, vendersela, e non pagarla. E notoria non solo in Calabria, come lì si raccontava, ma pure ai commercialisti, fiscalisti e recupero crediti delle ditte fornitrici, a Milano e dintorni. Che fino ai 200 milioni consigliavano anche di non fare causa, di accontentarsi del poco che veniva saldato.
Ora la cosa dev’essere giunta alle orecchie della Banca d’Italia. “Un paese dove il recupero dei crediti richiede fino a quindici anni”, dice Panetta, il vicedirettore della Banca d’Italia, scandalizzato a Fubini su “Repubblica”, e intende: che paese è?
La giustizia è a favore del malaffare, ma non si può dire.

A Mantova si indaga per mafia non il sindaco che ha autorizzato una lottizzazione irregolare e forse illecita, ma il suo secondo successore, che con quella lottizzazione non ha avuto a che fare. Anche perché l’operazione è stata cassata dai tribunali amministrativi. Due sindaci e due giunte comunali hanno autorizzato negli anni Duemila una megalottizzazione in prossimità del centro storico che snaturavano la fisionomia della città: 200 villette a schiera e un grande albergo. Con l’assenso, forse, delle Belle Arti dell’epoca.  Il costruttore, Antonio Muto, avviò i lavori.
Le proteste hanno costretto le Belle Arti, dove intanto erano cambiati i funzionari, e il secondo dei sindaci autorizzatori a bloccare successivamente la concessione. Il costruttore ricorse al Tar, senza esito. Ricorso allora al Consiglio di Stato, senza esito. È a questo punto che la vicenda segna il secolare predominio della sinistra a Mantova, e alle ultime elezioni vince Sodano, un architetto del restauro dei beni culturali, berlusconiano. Al quale il costruttore Muto minaccia una richiesta milionaria in giudizio per danni, per i lavori già effettuati.
Che cosa succede? Niente. Non s’indaga prima, e non s’indaga dopo. Ora invece, dopo il ribaltone epocale, la Procura Antimafia decide che Muto è mafioso e Sodano è suo complice. Come non si sa. Il perché sì, riguarda la lottizzazione fallita.
Ci sono state polemiche. La Procura Antimafia non ha chiarito. E dunque stiamo ai fatti che si sanno.  Si indaga il sindaco Sodano perché è del Pdl, mentre quelli dell’autorizzazione erano del Pd? È possibile, è la prassi. La Procura prepara le elezioni di maggio? Idem. O il costruttore Muto è improvvisamente ‘ndranghetista perché dà fastidio ad altri costruttori? Anche questo è possibile. Negli anni 1980 furono smantellate le grandi imprese edili dei Cavalieri di Catania, di rilievo internazionale, proprio perché davano fastidio al Nord. La cosa è facile: in una di queste imprese lavorerà sicuramente un parente di un mafioso, o un “sangiovanni”, vicino o lontano non importa.
Ma più probabile è che Sodano  sia indagato perché è di origine calabrese - così come il costruttore implicato. Ora, è possibile che sia Muto che Sodano siano ‘ndranghetisti, anche se la Procura Antimafia non ci dice come. Ma Sodano ha una storia che va raccontata. È nato e cresciuto a Crotone, finché la famiglia non dovette emigrare per sfuggire a una storia di violenza e di mafia. “Quando vivevo a Crotone la malavita bruciò il negozio di mia zia e poi per due volte l’officina meccanica di un altro zio”, ha spiegato Sodano in lacrime a un tv.  Allora il padre del sindaco, ferroviere, si caricò la famiglia e la portò al Nord.
Non un caso isolato. Nel caso di Sodano non è possibile dire, ma personalmente conosciamo tre casi di imprese familiari che hanno dovuto chiudere l’attività in Calabria perché scacciati dalla mafia (con rapimenti di persona, distruzione di macchinari e immobili, ricatti, e anche un assassinio, più uno mancato), spostandosi a Roma e Bologna. Per poi, dopo venti o trent’anni,  quando si erano rimessi in piedi, essere accusati di mafia. I Carabinieri non perdonano.
Nel luogo d’origine altre imprese (si tratta di imprese edili) ne hanno rilevato le attività, senza danni.
L’esperienza di Sodano bambino è comunque quella di tutti: i Carabinieri in questi casi non ci sono.  
Si fanno grosse carriere su queste ‘ndranghete onnipossenti. Senza rischiare nulla.

Diritto d’immagine
“Sono gli interessi (materiali e ideali), e non le idee, a dominare immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le «immagini del mondo» create dalle «idee», hanno molto spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso l’agire”. Nella sua contestabile sociologia delle religioni, Max Weber ha questa fulminea percezione della verità delle cose (intr. a “L’etica economica delle religioni mondiali”, vol. II della raccolta “Sociologia delle religioni”).
È il problema del Sud, che non tanto è, quanto è rappresentato. Cioè, ora è anche un problema: diverso sviluppo e diversa capacità di sviluppo, con molti caratteri retrogradi e repressivi. Ma questa dicotomia, tra sviluppo e stagnazione, s’innesta, anzi si radica, in una rappresentazione. Che non tanto è imposta, si può convenire, quanto introiettata. Perché le “immagini” (rappresentazioni, discorso su) sono potenti.
“Turpe, infausto Mediterraneo”, Guido Ceronetti ha un attimo di malumore, nel suo aforismario ultimo “L’occhio del barbagianni”, ma non infondato: “Da aurorale, epico, filosofico, a turpe su tutte le sponde, portatore di sventura dovunque vi si affaccino esseri, nazioni umane”. Non è così, ma è così che appare.

L’odio-di-sé
Ricordando la morte di Alistair Crowley, mago, poeta, romanziere, scalatore, l’1 dicembre 1947, un giorno d’inverno dunque, nella sua nordica Inghilterra, Ceronetti cita l’infermiera che lo assisteva, secondo la quale avrebbe detto queste ultime parole”: “A volte odio me stesso”, I hate myself: “L’odio-di-sé, I hate, in una parola estrema”, commenta Ceronetti, “evoca le Tenebre”. Si può vivere per distruggersi, contro la vita – gli istinti vitali rovesciando.
Crowley ha fondato nel 1920 una Abbey Theleme, una comunità religiosa, a Cefalù – da cui Mussolini dovette espellerlo tre anni dopo, dopo una serie di articoli scandalistici sui giornali inglesi. Per la singolare magia del luogo, peraltro non infetto dal turismo, più o meno culturale, di Taormina o Siracusa. A Cefalù ancora negli anni 1950 il Club Mediterranée apriva il suo primo villaggio, come in una terra vergine, per una vacanza senza gli ingombri dei doveri sociali, e della curiosità malsana. Trent’anni dopo Cefalù era impraticabile, senza spiaggia, senza mare e senza costa: tutto divorato da costruzioni impietose, servito con alterigia senza più nessuna grazia – chi va più a Cefalù?

L’aggressione all’ambiente, se buono e bello, è anche questa una forma di odio-di-sé, che al Sud è molto praticata. Per motivi sociali (tutti hanno diritto alla casa), economici (tutti hanno diritto  sfruttare l’ambiente), di giustizia, di eguaglianza, le giustificazioni non mancano. Ma intelligenti?

leuzzi@antiit.eu

Le prime gioie della bicicletta a Roma

“Di fatto Roma non è mai stata tanto Roma, mai ha espresso il suo pieno significato, come oggi” – a fine Ottocento-primi Novecento, ma non solo: “Il cambiamento e la dissacrazione, questa intrusione della modernità, semplicemente completano la sua eternità”. Un omaggio a Roma, dove Violet Paget-Vernon Lee è cresciuta adolescente, ma anche un’autoanalisi felice, un ritrovamento di se stessa. Effetto dei monumenti, dell’aria, e delle persone – tra esse Pascarella, il poeta. Vagabondando a piedi e in bicicletta, più spesso, benché andasse per i cinquanta, e il papa ne avesse condannato la utilizzazione da parte delle donne (un papa non malvagio, Pio X), su e giù per i colli, per la campagna romana, e fino a Subiaco, lungo la valle dell’Aniene fiorita. Come anche oggi lo è, se nella stagione giusta, che Vernon Lee sceglieva ogni paio d’anni accuratamente, sempre di marzo-aprile.
Tradotto solo di recente, a cura di Attili Brilli e Simonetta Neri, cultori della scrittrice, è un testo di note di diario, che copre un decennio, 1895-1905. Non sistematico ma approntato per la pubblicazione, che si fece cinque anni dopo, in un volumetto Tauchnitz, insieme con le riflessioni su bellezza, la musica, la Toscana (“L’arte e il paese”), la salute, i piaceri, raccolte sotto il titolo “Laurus nobilis”. Per una sorta di identificazione, la scelta di una patria: “Sono cresciuta a Roma, dai dodici ai diciassette anni, ma non ci sono tornata per molti anni. L’ho scoperta di nuovo da sola, benché ne conoscessi tutti  luoghi e i dettagli; ho scoperto, cioè, il suo significato per i miei pensieri e sentimenti. Da qui, in tutte le mie impressioni, un misto di familiarità e meraviglia; un senso, forse rispondente alla realtà, che Roma – sembra una banalità – è radicalmente differente da tutto il resto, e che perciò siamo in rapporti differenti con essa”.
Un’autrice fatta per la misura e l’introversione toscane, che Roma vede come teatro e rappresentazione, e tuttavia di fascino irresistibile. In mezzo al continuo sorprendersi, felice e non, interrogarsi, riscoprirsi, se stessa fuori di se stessa: “Ieri mattina, mentre scorrevo, per copiarle, le note romane degli ultimo diciotto anni, ho sentito, stranamente vividi, i vari me stessa che soffrivano e speravano mentre le scrivevo”, con le presenze dei beneamati che peraltro “sono tutti cambiati: alcuni sono morti, altri non vivevano di fatto”.
Sotto forma di annotazioni quasi tutte di visite, e quindi una guida personale, piena di novità però ancora oggi. Di Roma, dei quartieri, dei monumenti - con un occhio sempre a San Pietro, lo vede ovunque. E dei dintorni, da Palo a Mondragone, Civita Castellana, Valmontone, Olevano. Tra le solite tempeste improvvise di gradine.
Impressioni, vaghe anche, e tuttavia un omaggio a Roma più sorprendente di quanti se ne possono leggere. I giardini privati, di palazzi e conventi. Villa Adriana, “ giardini di Armida per un Rinaldo-Faust”. Gli allievi del Collegio Germanico che sciamano nel chiostro a San Saba per la loro ricreazione settimanale, in tonaca geranio - alcuni raccolti sotto una colonna a cantare… la “Lorelei”. A San Saba dove si reca in bicicletta per scambiare col giardiniere semi inglesi con piantine di garofani di campo. Gli itinerari sono molti in così poche pagine, di questa prima felicità in bicicletta.
Mario Praz, che ha dedicato tre saggi a Vernon Lee (l’unico, avendola frequentata a Firenze quand’era ragazzo), conclude con quanti la consideravano perenta dopo morta: “Una cerebrale, dallo stile tutt’altro che esemplare”. E invece no, Vernon Lee si fa leggere, anche se a circolazione limitata, proprio per quello stile: sempre giusto, anche se volutamente evocativo. In questi appunti di viaggio, evidentemente, come nei racconti “supernaturali” che ancora si ripubblicano.
Vernon Lee, Lo spirito di Roma, f.c. Banca dell’Etruria e del Lazio, ill., f.c.
The spirit of Rome, free online

mercoledì 4 febbraio 2015

Recessione - 32

È deflazione – l’economia mangia se stessa: mai i prezzi erano scesi così tanto, come a dicembre (ma il trend è proseguito a gennaio), con l’eccezione di un settembre 1959, a fine boom. Si attribuisce il calo dei prezzi al calo petrolio, ma l’effetto in Italia è limitato si soli carburanti, la benzina e il gasolio, e quindi contenuto (i prezzi dell’elettricità e del gas, purtroppo, benché legati al petrolio e teoricamente in mercato libero, non scendono mai).

Non c’è cassonetto della spazzatura che non venga revisionato la mattina presto dai rom e altri mendicanti.

Si vendono in farmacia le medicine a basso prezzo senza scontrino – se le vendono le farmaciste, le dottoresse.

Sempre medo edicolanti pagano i distributori.

Ventimila milanesi in coda domenica ai musei, all’ingresso gratuito offerto dal Ministero.

Duecentomila persone a Roma mangiano una volta ogni due giorni, secondo  le Acli. La cifra può essere approssimata per eccesso, ma è vero che alla comunità di sant’Egidio a Trastevere stanno in coda per un pasto persone di quartieri anche remoti, Magliana, Ostia, Torrevecchia, Ottavia, italiani.

Ogni 100 vetture nuove se ne sono vendute 175 usate nel 2014. Le radiazioni (rottamazione del veicolo e restituzione della targa) sono diminuite del 13 per cento nel corso del 2014. Letà media dei veicoli circolanti è passata in due anni da 6,5 a 7,5 anni. Nei passaggi di proprietà nel corso del 2014 le auto con più di 10 anni di vita sono passata da una a quattro a una a tre. 

La forza del debito

Rabelais,  ha al“Terzo Libro”, capp. III e IV,dopo quello del vino e altro, un “Elogio dei debiti”. Panurgo, a cui Pantagruele rimprovera di avergli mangiato il grado in germoglio, si difende con l’elogio.
“Quando vi libererete dai debiti?” chiede Pantagruele.
“Alle Calende Greche”, è la risposta: “Quanto tutto il mondo sarà contento, e voi sarete erede di voi stesso. Dio mi guardi dal liberarmene. Non troverei più chi mi prestasse un soldo. Chi la sera non lascia lievito, non farà poi la mattina crescere la pasta. Dobbiate sempre a qualcuno. Da costi sarà Dio continuamente pregato di darvi buona, lunga e felice vita; temendo di perdete il suo credito, sempre dirà bene di voi in ogi compagnia: sempre nuovi creditori vi procurerà, in modo che vi indebitiate per pagare il debito con lui.
“A dire la verità, per questo solo mi reputerei augusto, rispettabile e temibile, che contro l’opinione dei filosofi (i quali dicono che niente è fato di niente), non possedendo niente. Né materia prima, sono stato fattore e creatore. Ho creato. Che? Tanti belli e buoni creditori. I creditori sono (lo affermo fino soltanto alla prova del fuoco) creature belle e buone. Chi non presta, è creatura brutta e cattiva: creatura del gran brutto diavolo dell’inferno. E così sia. Che? Debiti. O cosa rara e antica…
“Giuro su san Bubbolino, il buon santo, che tuta la mia vita ho stimato il debito come una corrispondenza e un legame tra i Cieli e la Terra, un modo unico di conservare l’umano lignaggio; senza il quale, dico, gli umani perirebbero… Un mondo senza debiti? Tra gli astri non ci sarà più corso regolare. Tutti si muoveranno in disordine…  
La terra non produrrà ch mostri, Titani, Aloadi, Giganti. Non pioverà pioggia, non lucerà luce, non venterà vento, non ci sarà estate né autunno…. Questo mondo che non presta non sarà che un canaio. Tra gli umani nessuno salverà l’altro: uno potrà ben gridare «aiuto, al fuoco, all’acqua, all’assassino», nessuno andrà in aiuto. Perché? Non aveva prestato nulla, non gli si doveva nulla…
“In breve, da questo mondo saranno bandite la fede, la speranza e la carità. Perché gli uomini sono nati per il soccorso degli uomini. Al loro posto ci saranno sfiducia, disprezzo, risentimento…
Al contrario, rappresentatevi un mondo altro, in cui ognuno presta, e ciascuno debba, tutti siano debitori, tutti siano creditori. O che armonia sarà allora tra i moti regolari del cielo. Mi sa che lo sento così bene come già Platone: che simpatia tra gli elementi… Tra gli umani pace, amore, dilettazione, fedeltà, riposo, banchetti, festini, gioia, letizia, oro, argento, spiccioli, bracciali, anelli, beni di ogni sorta trotteranno di mano in mano. Nessun processo, nessuna guerra, nessuna discussione: nessuno sarà più usuraio, nessuno avido, nessuno avaro. Com’è vero Dio, non sarà questa l’età dell’oro, il regno di Saturno?”

Quando il giornalismo era l’Enciclopedia

Non un’enciclopedia di idee forti – per lo più anzi discutibili. Ma una sorta di selfie in molti scatti, rapidi, ripetuti. E la testimonianza di una forma elevata di giornalismo, più che di filosofia quale si presuppone: di riflessione sugli eventi.
L’“Enciclopedia” fu un successo commerciale: passò dalle mille sottoscrizioni benevole raccolte dagli editori sul progetto a oltre quattromila appena il primo volume fu pubblicato. Ma alla fine sarà opera di Diderot, diciassette grossi tomi. Ci lavorò praticamente da solo nei primi otto anni, da fine 1749, scontati quattro mesi di prigione per aver pubblicato la “Lettera sui ciechi”, al 1757. E da solo successivamente, essendo stata l’impresa abbandonata, per le polemiche al Parlamento di Parigi, e le minacce di interdizione, da D’Alembert, divenuto accademico, Rousseau, Voltaire, Turgot e molti altri collaboratori – quasi tutti peraltro a titolo gratuito. Ne scrisse personalmente almeno 1.700 voci, e ne editò (commissionò, revisionò) almeno seimila.
Non se ne è mai fatta un’edizione delle sue voci, perché molte non le siglò a un certo punto più nemmeno col noto asterisco. In italiano c’è solo la vecchia antologia Utet di Furio Diaz, , degli “scritti politici”, comprese le voci dell’“Enciclopedia”.Qui ne sono raccolte cinquanta di sicura attribuzione, Sugli argomenti più diversi. Di suo interesse: storia, storia, naturale, filosofia, religione, mitologia, grammatica. E non: il curatore dell’antologia, M. Jérôme Vérin, ne ha rintracciato sulla geografia, il diritto, la botanica, la chimica, il commercio, la marineria, l’arte militare, la calzoleria, la falconeria, la pasticceria e l’arte dei parrucchieri. C’è anche, in dettaglio, il “clavicembalo oculare”, il pianoforte dei colori, con toni, semitoni, eccetera, del gesuita Castel – che poi non riuscì a realizzarlo. Ma le più lunghe e argomentate sono qui sugli interessi ben diderotiani. Le voci “Autorità, potere, potenza, impero”, “Locke”, “Filosofi” – la voce più lunga sarebbe stata “Bellezza”, ma più lunga forse del volumetto.
Anche più incisive? No, è divulgazione: molto attualizzata, e selettiva, per una lettura sempre breve e conclusa. Benché con punte notevoli, anticipatrici: sulla vita (anima) animale, la vita prenatale, in gestazione, la puericultura (Montessori e il dottor Spock insieme). Nella scelta dell’antologia un pre-darwinismo risalta molto marcato. Sulla traccia di Bouffon ma con l’assertività della divulgazione, Negli articoli “Affezione”, “Bestia animale, bruto”, “Innato”, “Intelletto”, “Filosofia di Locke”, contesta le frontiere tra regni minerale, vegetale, animale e umano, e afferma, attribuendo l’opinione a Locke, di non vedere “alcuna impossibilità che la materia pensi”.
Diderot fu impegnato nell’impresa come redattore più che come pensatore, perché sapeva l’inglese – il primo progetto dell’opera era una traduzione di due opere inglesi, la “Ciclopoedia” di Chambers, e il “Lexicon Technologicum” di John Harris. Molto c’è di inutile e insignificante anche in questa piccola antologia. E tuttavia impressiona il grado elevato di comunicazione: precisione, correttezza, rispetto per i fatti e le idee non condivise, per esempio per la religione.
Denis Diderot, L’Encyclopédie. Articles fondamentaux, Mille et une nuits, pp. 148 € 4,50

martedì 3 febbraio 2015

“Fatemi le elezioni”, vuole dire Renzi

Calendario alle calende greche e sberle a Berlusconi e Alfano. E se non avessero inteso, ancora altre sberle. Renzi si vuole far fare le elezioni dai due sottopancia per inanellare il terzo definitivo suggello, dopo le europee e le presidenziali: le elezioni politiche.  Lasciando a mezzo, cioè non facendole, le riforme del famoso calendario.
Se è vero sarebbe male: che statista è questo, bisognerebbe chiedersi. Si cita il precedente di Fanfani, altro toscano umorale intransigente. Ma Fanfani è stato Napoleone al confronto – la lista delle sue opere è impressionante. Si danno le riforme politiche e istituzionali per acquisite, lui stesso ci bara, e invece non è vero niente: le riforme sono in fieri, si fanno solo con i voti di Alfano e Berlusconi, e se si vota decadono con la legislatura, bisognerà ricominciare daccapo. Se non vuole le elezioni, Renzi con gli sberleffi si mostra per quello che è: è solo uno sciocchino, direbbero a Firenze.
Può darsi che Alfano e Berlusconi abbiano anche loro interesse alle elezioni. Per salvare in qualche modo la faccia. Perché, male che vada alle politiche, per loro sarà senz’altro peggio senza. A maggio ci sono comunque le regionali in Veneto e Campania, oltre che nelle regioni già di sinistra Puglia, Liguria, Toscana, Umbria, Marche. Perdendo le quali i due s’inabisserebbero – governerebbero solo la Lombardia, e ancora per poco.

Il grande rimosso Fanfani

Anche lui stava sereno: “Affrontiamo l’austerità con animo sereno” disse nel 1974, nella prima grande crisi del dopoguerra. Ma per il resto era diverso.
È il grande rimosso della storia della Repubblica. Perché è quello che ha fatto di più – praticamente tutte le cose su cui la Repubblica ancora si regge”, argomentava questo sito due anni fa più o meno in questi giorni:
“Fanfani è all’origine di tutto ciò che si è fatto nell’Italia repubblicana: la riforma agraria, il piano casa, la liberazione delle campagne dalla mezzadria, i piani verdi, che finanziano l’agricoltura con risultati ottimi, i rimboschimenti, le autostrade, la Rai, gli Enti economici (ora “campioni nazionali”, n.d.r.), l’edilizia popolare, la scuola media unificata, superba istituzione, coi libri gratis, il doposcuola e gli edifici scolastici, di cui metà degli ottomila Comuni d’Italia non disponeva, si andava a scuola dove capitava, il centrosinistra, il centrodestra, il quoziente minimo d’intelligenza per i diplomatici, che ne erano privi, la moratoria nucleare, la nazionalizzazione dell’elettricità, seppure a caro prezzo, le regioni, idem, la direttissima Roma-Firenze, col treno veloce, il referendum popolare, gli opposti estremismi, e i dossier, di cui montò il primo, lo scandalo Montesi, contro il venerabile Piccioni. Infine l’austerità, che dal 1974 ci governa, prontamente adottata da Berlinguer, e dal papa Paolo VI alla finestra”.

Il fantasma

A volte le cose si vedono in sogno. Non c’era un palazzo, era un’aula sorda e grigia, un emiciclo s’indovinava, tuttavia senza cielo e senza fondo, nel quale un’assemblea era convenuta, di personaggi senza volto e indistinguibili sulle ombre, di cu il brusio si avvertiva muto, gli occhi senza luce, il respiro senza vento. Lo stesso oratore alla cui allocuzione l’assemblea si disponeva attenta era diafano. Ma nei torni grigio-argento di un antico signore  in polpe. Non dettagliabile e tuttavia presente. Parlava anche come Enrico IV di Francia al Parlamento che si era riunito dopo l’editto di Nantes, col quale aveva post fine alla guerra di religione: “I miei predecessori vi hanno dato parole condite di apparato, in abito regale, con cappa e spada. Io con la mia giacchetta grigia vi darò dei fatti: sono grigio fuori ma tutto oro dentro”. Lo diceva senza dirlo, e il tutto svaniva nella dissolvenza.

Il terrore che (ancora) non si può dire

Settant’anni fa tra quattro giorni, il 7 febbraio 1945, i partigiani comunisti attiravano in un tranello i partigiani bianchi, una ventina, tra essi il fratello minore di Pier Paolo Paolini, Guido, e li trucidavano a tradimento. La strage di Porzus. Per la quale non si poté nemmeno fare un processo vero, una volta conclusa la guerra civile. Non fu un episodio isolato: insieme con le foibe, la lotta ai partigiani italiani, complici i partigiani della Garibaldi, fu l’attività deliberata della Ozna, la polizia segreta di Tito. In Istria e fin sul Carso, e nelle repubbliche della federazione jugoslava. Un’altra storia nota e tuttavia da trascurare – non c’è una censura, ma così è di fatto.William Klinger, lo storico fiumano che ora è stato ucciso a New York, era andato due anni a fondo nella questione. Ma per vedersi isolato: il suo libro, documentato, non è distribuito - al punto che poco prima di morire aveva deciso di metterlo in  rete.
Non è una storia italo-jugoslava sul finire della guerra. Manca la parte croata negli eventi. Soprattutto in quelli concernenti la Resistenza italiana, l’eccidio di Porzus, le foibe, l’espulsione di fatto degli italiani. L’opera di Klinger è una storia del Partito comunista serbo-jugoslavo. Che ha avuto due facce: era spesso rimproverato di isolazionismo e arrendevolezza dalla Terza Internazionale, cioè da Stalin, negli anni anteguerra, fu irriducibile, faziosissimo e crudele nell’ultima fase della guerra, sotto l’occupazione italo-tedesca. Fece piazza pulita di ogni altra forma di resistenza: i monarchici, gli autonomisti di Fiume, i nazionalisti serbi di Mihailovic, i cetnici, che Churchill sosteneva. L’obiettivo era lo stesso che negli anni anteguerra: tenere la Jugoslavia lontana da Mosca e da Stalin. Ma il “socialismo dal volto umano” che l’Occidente privilegiò aveva le mani insanguinate. Oltre a rivelarsi inconsistente: leggendo Klinger la dissoluzione della Jugoslavia sembra solo inevtabile.
Wiliam Klinger, Il terrore del popolo. Storia dell’Ozna, la polizia politica di Tito, Italo Svevo ed., pp. 175 € 18
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L’euromania degli eurosciocchi

 “Euroscettici crescono”: in Francia con le prime elezioni dopo i massacri, in Grecia naturaliter, e in Inghilterra, in Spagna, in Germania – e in Italia no, se è vera l’ascesa di Salvini che il pensieri unico volenteroso sostiene? Ma solo Bruno Caizzi se ne accorge, da Bruxelles Che il “Corriere della sera” confina al supplemento “Economia”, taglio basso.
E questo è tutto. Possibile che non si possa sapere cosa succede, cosa succede di fatto, a Bruxelles e Francoforte? E a Berlino? I giornali e i telegiornali hanno tutti “ottimi corrispondenti”, come si dice, in quelle capitali, e allora? Sono i giornali che non ne vogliono sapere? Sono i corrispondenti che si fanno stregare? Da portavoce con la forfora e la pancetta, a briefing monotoni quotidiani? O peggio da Angela Merkel? Da Juncker, Dio ne salvi?
Di Draghi si può capire, è una “bandiera”, benché mal posta. Ma riferire i pareri e i sottopareri di questo o quell’eurocrate come vangeli, con piena presunzione di bontà e verità, mentre sono tutti figli e esiti di orrende manovre di potere. Cioè no, normali - manovre normali. E poi, solo in Italia? Solo in Italia ce le danno da bere. Da fresconi a fresconi. 

lunedì 2 febbraio 2015

Mps e dintorni, Panetta accusa Francoforte

“Il disegno dello stress test europeo aveva caratteristiche che svantaggiavano le banche italiane. Lo abbiamo messo agli atti in Bce durante la preparazione dell’esercizio”. Lo riconosce infine il vicedirettore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, con Federico Fubini su “Repubblica”. Non è un fatto grave, anzi gravissimo?
Non è il solo: “Non si può pensare di risolvere i problemi aumentando in modo continuo, indiscriminato ed eccessivo i requisiti di capitale, frenando ancora l’offerta di credito”. Tenendo le banche cioè, alcune banche, le banche italiane, sempre sulla corda, magari col solito ritornello delle “riforme”.
“Indiscriminato” ed “eccessivo” sono parole forti, ma ancora non dicono tutto. E cioè che non si tratta di un errore di analisi o di giudizio, ma di uno strumento di attacco alle banche italiane. Per il business  delle merger & acquisitions probabilmente, non per altro. Profumo e Viola non erano ancora tornati da Francoforte a Siena, e non avevano riferito in consiglio e al management Mps, che “Londra” sapeva già tutto e apprestava l’attacco alla banca.
Panetta è l’unico della Banca d’Italia che osa parlare. Aveva parlato anche alla vigilia dello stress test. Ma anche lui non ci dice tutto: è nel consiglio della vigilanza bancaria europea, e quindi sa chi e come fa carne di porco. E poi: “mettere agli atti” che senso ha, a futura memoria, “in caso di”?

La Bundesbank ne sa più della Banca d’Italia

Visco non parla, Panetta sì, ma solo da un paio di mesi. E poi è solo vicedirettore generale. E dice poco o niente al confronto con la Bundesbank del fiammeggiante Weidmann. Del presidente della Bundesbank, non di uno che parla in nome proprio, da intellettuale, da economista. Il quale dardeggia a giorni alterni contro l’Italia. Di preferenza, ma non solo: contro ogni altro paese che dia fastidio alla Germania.
Differenza di psicologia, forse – il tedesco ha sempre un problema di disinvoltura. O di educazione. Anche di formazione, perché no – Weidmann è solo un giovanotto della segreteria Merkel proiettato alla presidenza della Bundesbank, senza titoli, giusto un diploma triennale, senza anzianità. Differenza di peso certo, la Germania è più ricca e grande dell’Italia. Ma di più la differenza è di capacità politica, e di capacità tout court.
Weidmann da solo, con argomenti pretestuosi e anche ridicoli, e solo parlando, col suo presenzialismo battagliero, ha avvantaggiato il suo paese enormemente rispetto a, e a carico di, altri paesi dell’Unione Europea, l’Italia per prima. E poi, l’Unione non è egualitaria, perché l’Italia dovrebbe contare meno che la Germania, o la Banca d’Italia meno che la Bundesbank?