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sabato 14 luglio 2012

Perché non possiamo dirci comunisti

Berlinguer o perché non possiamo dirci comunisti. Esemplare d’indigenza politica, inverosimile. Dopo “La questione morale”, e in una “Piccola collana morale”, un altro volumetto del segretario del Pci al suo massimo fulgore che riuscì a sconfiggere il favore popolare. Due conferenze del 1977, tre anni dopo l’austerità inventata da Fanfani, che le Edizioni dell’Asino ripropongono per un Nuovo Modello di Sviluppo. Forse satiricamente? L’asino in questione è la storica rivista satirica e non il quadrupede. Anche se, bisogna riconoscerlo, per una volta il Pci arrivava solo tre anni dopo la Dc.
Possibile che il Pci non fosse altro che questo? Il “nuovo modello” si vorrebbe in linea con l’economia verde o ecologia, che però è una scienza e una politica del lusso.
Enrico Berlinguer, La via dell’austerità, Edizioni dell’Asino, pp. 74 € 10

Il complotto c’è ma è il mercato

Il complotto c’è ma è, again, il mercato. Questo mercato. Gestito senza smagliature da Wall Street e Londra – con abilità anche, se i suoi portavoce, l’“Economist” e il “Financial Times”, fanno autorità morale in Italia. L’accordo sul Libor, il tasso interbancario che si definisce a Londra (London Interbank Offered Rate), tra le grandi banche anglosassoni, con la cooptazione di Deutsche Bank e di un paio di banche svizzere, era esteso alla Bank of England e alla Federal Reserve. Era cioè - è - sistemico. Anche se, per qualche concorrente più piccolo o meno abile, omertoso.
Che i titoli del debito italiano siano spazzatura nessuno può crederlo. Ma Moody’s lo sostiene con un fine preciso e anche, a suo modo, dichiarato: tenere l’euro terremotato. E lo ottiene: il declassamento del debito impone ai grandi investitori, banche e fondi, di disfarsi dei titoli italiani, in automatico. Dopo la Grecia ci voleva un altro “pig”, un cinghiale da puntare. Doveva essere la Spagna. Ma lo spirito di nazione in Spagna resta forte. L’attacco è quindi partito, con costanza da quasi un anno ormai, contro l’Italia, frammentata e instabile – la “sindrome milanese”, ormai ventennale. Con la “complicità” della autorità tedesche, coè con la loro stupidità. Sotto forma di rigidezza, di moralità, di ordine, tutto quello che si vuole, ma stupida: finanziariamente, economicamente e politicamente.
Wall Street e Londra non hanno un pregiudizio contro l’euro, non che si veda. Ma poiché l’euro è debole e mal fatto, trovano comodo lavorarci contro. Sullo sfondo peraltro di una solida sintonia politica, questa sì molto anglosassone, tra Washington e Londra contro l’Unione Europea e la “fortezza Europa”: l’Unione andava bene fino alla caduta del Muro, in funzione antisovietica, ma successivamente, e in coincidenza con la creazione dell’euro, l’Europa è diventata un incomodo. Non temuto – sono gli organi della City a spiegarlo - poiché ha pretese superiori alle sue realtà. E quindi di agevole contrasto, se non di assalto o rapina.

venerdì 13 luglio 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (135)

Giuseppe Leuzzi

L’Antimafia indaga Carrara. Carrara in Toscana, la città dei marmi. Indaga le vendite dei blocchi di marmo. Alla mafia? No, a operatori cinesi, indiani e altri asiatici. Sulla base di un’interrogazione parlamentare dello stesso vice-presidente dell’Antimafia, Granata. Che è siciliano. Per allontanare i sospetti dalla Sicilia?

Delenda Gioia Tauro
Francesco Forgione fa di Gioia Tauro il porto della ‘ndrangheta. Pubblica a Milano da editore volenteroso quattrocento pagine al termine della quale il “delenda Gioia Tauro” insorge incontenibile. Studioso, dice lui, nonché ex parlamentare di Rifondazione e presidente della Commissione parlamentare antimafia, niente di meno, si è fatto executioner. Involontario?
Il porto di Gioia dava fastidio perché era il più grande del Mediterraneo. Ora potrebbe non esserlo più, per la concorrenza di Porto Said, che le fonti di Forgione non cessano di celebrare con gusto, dove la manodopera costa un decimo che a Gioia Tauro, e si spera anche di Tangeri. Ma ugualmente dà fastidio. Bisogna costruire un terminale che lo spossessi completamente a Vado Ligure, da cinque miliardi, tutti pagati dallo stato. Lì non c’è la mafia.

“Miracolo a Gioia Tauro”, titola il “Corriere della sera” in prima pagina ieri, “l’assenteismo crolla del 70 per cento. E la ripresa produttiva è stata tale che il porto calabrese ha fatto il record. Tre mega-navi portacontainer movimentate contemporaneamente”. Nel paginone dello specialista Gian Antonio Stella non c’è spazio per il fattore determinante del record: le nuove gru che la società concessionaria ha impiantato, coi soldi della Regione, in aggiunta a quelle già esistenti. Quanto all’assenteismo, il calo è di un anno fa: tra l’1 agosto 2010 e il 31 luglio 2011, date fatidiche, è sceso dal 15 al 5 per cento.
Nello sdegno della stellato “Corriere” ha grande ruolo la Maersk, colosso del traffico container, che un anno fa abbandonò lo scalo a sua volta sdegnata – e non perché le hanno promesso uno scalo tutto suo in Liguria, cui è propedeutico il fallimento di Gioia Tauro. Anche la Maersk, essendo danese, è nordica, e lo sdegno ha grande ruolo al Nord.
Tra i difetti di Gioia Tauro Stella mette con insistenza la Salerno-Reggio Calabria: i tir non possono trasportarvi i container. Ma Gioia Tauro è un porto di trasbordo, da una nave più grande a una più piccola. È così che viaggia il traffico container. Quanti tir-container avrà contato questo Stella sulla Milano-Serravalle, per esempio – che non contengano tangenti?

Milano
Non è vero che non c’è un colpevole per la strage di Brescia. Almeno uno c’è, senza ombra di dubbio, stabilisce con argomentazioni solide la sentenza d’Appello: è il pentito Digilio. Ora morto, Digilio ha deviato per vent’anni le indagini della Procura di Milano. Senza collusioni.

La Lombardia fornisce indubbiamente il servizio sanitario migliore d’Italia. Ai
prezzi più bassi. Ma si può fare campagna contro di essa, contro i concorrenti di un certo Rotelli. Che è il grande azionista del “Corriere della sera” per conto di Bazoli. Senza vergogna. E anche questa è Milano.

La Cina si offende e allora Pisapia cancella la cittadinanza onoraria al Dalai Lama. Perché l’aveva proposta allora? Per ipocrisia.

Si è sempre colpiti, dovendo viaggiare a Milano, dal senso di abbandono che regna in quella città così ricca. Anche nelle strade e le piazze più ricche e coltivate. Non c’è qualità nelle merci e nel servizio – c’è supponenza e prezzi esorbitanti. Non c’è gusto né cura per l’ambiente, l’estetica, l’atmosfera. Rovine, ancora della guerra. Alberi tagliati e abbandonati, Scavi mai ricoperti. Di opere forse abbandonate, forse no. In evidente crisi con se stessa, la città è però feroce col mondo.

Al mare in Versilia avviene di dover frequentare due bagni che hanno clientele diverse, uno toscana l’altro padana – di emiliani e lombardi per lo più. In uno si conversa coi vicini d’ombrellone e al bar, seppure infine bloccati dalla gnagnera e dal roboante toscano. Nell’altro no. A volte non c’è nemmeno risposta al “buongiorno”. Parlano solo al telefonino.

Si può prendere Minale a Milano come una jattura per la città, uno dei tanti giudici napoletani che l’affliggono. Minale, che si dice furioso perché il processo Mills è andato in prescrizione, è lo stesso che impiantò i processi a Sofri in modo che fosse condannato, pur sapendolo innocente, dentro il processo e fuori del processo Per un tal giudice la prescrizione non esiste, e nemmeno la giustizia: la giustizia è lui.

Ma si ritrovano solo per caso tutti questi giudici napoletani a Milano? Ilda Boccassini, per esempio, che vuole Lele Mora in isolamento, da un anno o due ormai, per odio – l’uomo non è un criminale (per odio a Berlsuconi)? Quando cominciò a fare la Boccassini a Caltanissetta, nelle indagini sulla strage contro Falcone, la allontanarono. A Milano.

Il Procuratore Generale di Milano, Manlio Minale, può dire impunito il falso, volendosi martire di Berlusconi. Che le indagini sul caso Mills durarono solo diciotto mesi. Come se diciotto mesi fossero niente. Ma tutti sanno che le indagini durarono anni, e furono riaperte, con almeno un supplemento d istruttoria.

Condannare qualcuno attraverso la prescrizione è ormai procedura ambrosiana acclarata. Seppure a opera di giurisperiti partenopei. E si applica non solo a Berlusconi, in questa singolare Milan-Inter. È l’etica lombarda – ce n’è una.

Miracoli a Milano
Finito Valentino è finito “Valentino”, il marchio. L’emiro del Qatar se lo compra ma per portarlo fuori, a Parigi o New York, sedi ben più glamour e trendy, come è successo per Gucci.
La moda a Milano è in effetti uno dei tanti miracoli di cui la città beneficia per la sua potenza finanziaria. Fu inventata indirettamente dall’Eni nel 1973 con la mostra del design italiano al Moma di New York, e la “salita” di Giorgio Armani a Milano con la sua idea dell’alta moda pronta. Stilisti milanesi e di fuori vi si sono innestati, Versace, Missoni, Trussardi, Prada, Valentino, Ferrè, e i tanti successivi. Il tempo di vita dello stilista creativo.
La città non è attraente né suggestiva. Chi ha talento, fra gli stilisti non imprenditori, sceglie Parigi o New York.

leuzzi@antiit.eu

La lingua angelica delle cose

Nel Novecento da riscrivere rientra certamente Arturo Onofri, per amanti di Positano e non – questa mini riproposta delle edizioni Via del Vento venticinque anni fa non ha avuto seguito, Onofri resta fermo alla riedizione Neri Pozza, 1959, ma non è detto. La materia c’è. Onofri ha avuto peso negli anni 1930, non senza ragione. Anticipatore della “poesia della cose” di Savinio, e insieme teorico e illustratore, col “frammentismo”, di quella che sarà la scrittura d’arte, rondista, e anche ermetica. “Scolpite d’argento le case a sbalzo, sotto la luna nel massiccio del monte, ascoltano attonite il mare che adesso rifiata dalla fatica dei suoi mezzogiorni”, anche per chi non è stato a Positano una notte di luna la cosa c’è. “L’umanizzazione degli oggetti”, la chiama Mada Vigilante che ha curato questo inedito del 1925, una appendice alle “Orchestrine” del 1917. Che più tardi Bachelard dirà “la poetica della rêverie” – dallo stesso Onofri peraltro anticipata in “Nuovo Rinascimentocome arte dell’io”, 1925. Del linguaggio da mirare a “una lingua angelica… nella quale il parlare è un accordare il mondo con se stesso”.
Arturo Onofri, Quaderno di Positano

giovedì 12 luglio 2012

Secondi pensieri - 107

zeulig

Amore – Nella magia bianca è sempre femminile. Sortilegi, amuleti, formule, malocchi, maledizioni, ogni incantesimo è divisato per le ragazze, per catturare l’uomo dei loro sogni, sul quale hanno messo gli occhi. Dell’uomo innamorato si dice che è la donna ad affascinarlo, ad averlo catturato con un incantesimo – il fascino è femminile, l’attrazione per sortilegio.

Intellettuale - L’orgoglio, il primo dei vizi, è solo intellettuale.

San Tommaso, che gli angeli dice intellectuales, riconosce loro un “motus cognitionis angelicae”, dei colpi d’ala. Una sorta di natura angelica intellettuale.

Il silenzio che avvolgeva a Mosca al tempo del sovietismo era detto “il linguaggio degli intellettuali”. Era una barzelletta di regime, ma di che parla l’intellettuale, quando parla?

Si può essere intellettuali disonesti, passando alla politica, e nulla di male: la politica si propone dei fini, che possono essere onesti. Un intellettuale che non sa liberarsi dell’onestà è destinato alla delusione, e i peggiori esiti diventano possibili, il tradimento, il rancore, la perdita di se stessi, come narrano già in antico le mitologie

Pregiudizio – Non ha contravveleni, essendo impermeabile alla ragione. E non il ridicolo, una forma di debasement: il pregiudizio è la cristallizzazione dell’orgoglio cieco, e senza fagle.
Si giustifica come una forma di difesa, per esempio di fronte al “diverso” (il meridionale, il nomade, l’immigrato, come già l’ebreo), o al “politicamente corretto” (i diritti delle minoranze), ma è al fondo solo l’esercizio di un piccolo potere.

Il “politicamente corretto” agisce nei due sensi, del giudizio e del pregiudizio. Quando l’accesso all’uguaglianza, che pure è un diritto, si prende per dovuto e non da conquistare (meritare).

Storia - La storia è la norma. Oppure un gioco, quello di Huizinga, che giocato una volta permane nel ricordo, è tramandato e può essere ripetuto. È un insieme di forme ideali in atto, forme di vita. È teatro, una bella rappresentazione, su fondale di sgargiante fantasia – era il piumaggio cangiante del pavone in Scoto Eriugena. O messa in scena strana e costosa per Mario Luzi. È una fantasista tra le più gaie per l’autore delle “Demi-vierges” - le vergini, per il resto, rotte a tutto. Le opinioni sono divise. Maschia però per Luciano, un atleta robusto e duro come un alce. Oppure no, è adattabile e ha struttura cartilaginosa: non è, ma non si può dire che non sia. E consola ruffiana.
Per alcuni è un vulcano. Per altri è roccia. O fiume. Un fiume che non conosce ritorno, aggiunge Sklovskij. È un pipistrello, cieco, incestuoso e ermafrodito, assicura Borges: quello che diciamo storia sono menzogne, visioni di oggi. È invece un angelo per Benjamin, Arendt e Scholem, che potrebbero, dovrebbero, dubitarne. Alcuni vogliono che sia Dio. In via d’inarrestabile regresso. Deformata e deformante per Ernst Bloch. Traditrice per Marc Bloch, a volte. Lo stesso che per Manzoni, quand’era sincero. “La nostra storia”, dice Musil, “apparirà all’occhio divenuto sensibile poco diversa da un recinto fra quattro mura, dove il gregge umano ondeggia smarrito di qua e di là”.

È anzitutto un fatto di cronologia, assicura Duby. In quanto gioco propone alternanze, trasforma le certezze, sposta le frontiere tra zone del sapere, le supera, spiega Redondi, lo storico di Galileo, rinnova la teoria. E pure la pratica. È padrona, e servile. O è un fardello. “Non sono arrivato alla mia età per occuparmi della storia universale, la cosa più assurda che ci sia: mi è indifferente che muoia questo o quel personaggio, che sparisca questo o quel popolo, sarei pazzo se me ne inquietassi”, Goethe vecchio e vile disse al cavaliere de Müller, ma bisogna sopravvivere. “La storia universale è la corte di giustizia del mondo”, insegna invece Schiller. Da cui la nota formula di Hegel: “La giustizia è immanente nella storia”. E che altro vi è immanente? la caccia, la ragione, il tempo perduto? Lì si va sul sicuro, se “una lunga durata”, come Kant aveva stabilito, “è sublime, e se puntata sul passato è nobile”. La storia è fatta di noia per Longanesi. Di rovine per Lucentini. E di eterne differenze per Foucault. Fu ascesi ed eroismo nei secoli bui, è sempre istruttiva per Adam Smith, ma resta imprevedibile per Bobbio.

La storia era Dio fino a Hegel, quindi Provvidenza, Saggezza e Ragione. Provvidenza dell’Evo Medio che era la Fortuna dell’Evo antico, e legge razionale in Tucidide. “Storia di un uomo solo”, la dice Borges, che prima o poi ritorna: “La storia è indistruttibile”. È un’esercitazione del mito ancora per Lévi-Strauss. Ma già non è più vero: la storia non ha dei, ha scoperto Camus. O Nietzsche: muore con Dio il passato, se concepito come entità rispetto alla quale l’uomo non può nulla. E Céline: i ricordi imputridiscono come mele. Ma questo è negato pure a Dio, ha ragione il tragediografo Agatone che Aristotele cita: cancellare il passato, gli eventi. La storia è persistente, e collosa, e rimbalza. Non è possibile evitarla, assicura Braudel, e tutte le storie ci appartengono.

Tutto il reale, certo, è storia, riconosce Jaspers – e il reale che cos’è? In questo senso è la profetessa della verità, o la sacerdotessa, secondo volevano Diodoro e Dionigi, e ovviamente Cicerone.

zeulig@antiit.eu

La Cina è lontana, il letterato è leghista di ritorno

Luzi e Sereni soffrono i galli, che sentono cantare all’alba vicino all’albergo. E non mangiano, soffrono la cucina cinese. Malerba tace e non vede, non che si veda. Arbasino minaccia sempre di pagarsi il viaggio da sé. Tutt’e quattro però si sorbettano ogni giorno estenuanti sedute con delegazioni di letterati cinesi, ai qual rappresentano lo stato delle lettere in Italia e dai quali si fanno rappresentare lo stato delle lettere in Cina. Dopo un preambolo di invettive contro la Banda dei Quattro. L’evento si produce durante il processo alla Banda, col trionfo di Deng, il padre della nuova Cina.
La Cina è anch’essa remota. I cinesi sono molto interessati e non la smettono mai. Loro conoscono soprattutto “Spartaco” di Giovagnoli (Raffaello, garibaldino). C sono ancora i negozi dell’Amicizia, per straniera, in valuta, dove poter comprare qualche ricordino. Gli alberghi si chiamano della Serenità. I letterati sono tutti per il bene del popolo e il progresso. Con comitati dì accoglienza, fiori, delegazioni, eccetera. E si firmano protocolli: per gli scambi culturali, per il progresso delle arti e le scienze, eccetera.
Periodicamente i letterati italiani erano convitati fino al 1980 a visitare la Cina. Il primo viaggio fu nel 1955, la delegazione fu la più nutrita. L’ultimo è questo del 1980. Dopo ogni viaggio, singolo o in delegazione, che durava una o due settimane, anche tre, i viaggiatori scrivevano libri. Una sorta di genere, dell’improntitudine. I primi si leggono con raccapriccio, Banfi, Fortini, Macciocchi, dal 1956 in poi. Quelli del 1983-84, sul viaggio del sindacato nazionale scrittori del 1980, si può dire che coronano un ciclo. Volponi e Calvino, anche loro invitati, si defilarono, ma non si può dire a loro lode, lo fecero per ortodossia di partito, il Pci era con l’Urss contro la Cina. Mario Luzi coronò il viaggio nel 1984, dopo riflessione, con un “Taccuino di viaggio in Cina” cui premise un commosso poemetto, “Reportage”. Malerba si produsse nel 1985 in uno scarno libretto “Cina, Cina”, di frasi fatte. Vittorio Sereni lasciò inedite le note di “Viaggio in Cina”, Solo Arbasino, che aveva viaggiato a lungo in Asia prima che in Cina, scrisse qualcosa di meno approssimato, in “Trans-Pacific Express”: i “segni sono tutti diversi, le forme non coincidono, i nostri strumenti non funzionano né combaciano”. Ma, alla rilettura, anch’egli eccezionalmente noioso (ripetitivo): sembra che anticipi l linguaggio leghista, un provincialismo di ritorno in quegli anni cosmopoliti. Sereni è valetudinario. E, per così dire, ingenuo – “Canton mi ricorda molto Tashkent”. A un certo punto ha “il sospetto” che il processo alla Banda dei Quattro “sia manovrato”. Sereni e Luzi non sopportano Arbasino – sarà la parte più vivace dei loro ricordi.

mercoledì 11 luglio 2012

La banche tedesche fuori dalla vigilanza Bce

In sintesi, la Germania vuole: salvare le banche, ma non sottoporre alla vigilanza della Bce le Landesbanken, le grandi casse tedesche del sottogoverno. Com’è possibile? È quello che il governo tedesco e la Bundesbank vogliono. Costituire un fondo europeo di garanzie per le banche, che assicuri i risparmiatori contro eventuali fallimenti, e quindi cerare, com’è la regola, una vigilanza bancaria europea, che non può che farsi in senso alla Bce. Ma non per le Landesbanken, che pure sono banche grandi e grandissime – le maggiori banche tedesche, a parte la Deutsche Bank, sono di questo tipo, sorte di grandi casse di risparmio regionali.
Non senza un motivo, naturalmente. Il motivo è che queste banche sono territoriali, e quindi stanno fuori degli accordi nazionali interstatali su cui si regge l’Unione Europea. Come se la Cariplo, quando esisteva, non avesse dovuto rispondere alla vigilanza della Banca d’Italia, ma del Comune di Milano o del vescovato, che erano i suoi “azionisti”. L’argomento è peregrino, ma non c’è dubbio che la Germania otterrà quanto vuole. Tra i tanti precedenti, uno fu macroscopico come questo, e fu gestito in perdita da Mario Monti, da commissario europeo alla concorrenza: il governo tedesco riuscì a finanziare la Volkswagen senza far passare il suo intervento come indebito aiuto di Stato, giacché l’azionista pubblico del gruppo automobilistico erano la città di Stoccarda e il suo Land.

Le forche si biforcano a Palermo, poi si ricompattano

Scalfari che polemizza con Messineo e Ingroia, chi sono costoro?, riempiendo il giornale da lui fondato, è uno spettacolino non male, anche se per patiti. A colpi di pandette! Scalfari è laureato in legge pure lui, con 100 e lode. Ma la fattispecie non è da ridere, e bisogna farci un pensierino.
La fattispecie è l’intercettazione del Quirinale, nelle persone del consigliere giuridico del presidente della Repubblica e dello stesso presidente, al telefono con Mancino e col Procuratore Generale della Cassazione. Un fatto subito sembrato grave ai più – le intercettazioni e la loro divulgazione, non le eventuali telefonate - ma non al partito dei forcaioli.
Le intercettazioni non si potevano fare, e comunque andavano distrutte e non passate ai giornali. Ma erano a carico di Mancino, della trattativa Stato-mafia, il monumento che i finti ingenui di Palermo stanno erigendo alla mafia, nelle persone di Brusca, Spatuzza e Ciancimino jr., due bruti e un signorino, e Scalfari non se l’è sentita di scendere in campo. Questo in un primo momento. Poi, invitato dal presidente della Repubblica a Castelporziano e ricevuto in pompa, si è schierato con lui. Ma con giudizio.
L’ex don Chisciotte del giornalismo tramutato in Sancio Panza non ha criticato il giudice Ingroia, che ha disposto le intercettazioni e se le “vende” ai giornali. Ha attaccato il giudice Messineo, che figurativamente è il capo di Ingroia. Figurativamente: Messineo è il classico leguleio che non capisce bene di che si sta parlando. Sparando sul falso scopo Messineo, però, la battaglia si è risolta classicamente tra Scalfari e Ingroia, quando gli eserciti erano figurine, senza danni reciproci: ora la trattativa Stato-mafia può ripartire, senza Napolitano.

Rodari alla macchia, col “Sole 24 Ore”

Le prime favolette di Rodari, piene dell’humour rovesciato che tanto piace ai bambini: bizzarro, sovvertitore, negli abiti della normalità – che di più normale di un bambino? Materiali recuperati dalla moglie e la figlia, che non hanno trovato editore, benché Rodari sia uno che vende. Lo pubblica il giornale dei ragionieri, a prezzo d’affezione, un dono di leggerezza, comprese le illustrazioni altrettanto lievi di Sophie Fatus. Una storia che prolunga il piacere della lettura – Rodari non l’ha scritta perché la pensava impensabile?
Gianni Rodari, Fiabe lunghe un sorriso, suppl. “Il Sole 24 Ore”, pp. 164 € 3,90

Letture - 102

letterautore

Borghese - È scomparso dalla letteratura nel momento del trionfo. Piaceva – ha una funzione letteraria – quando era in crisi? Il borghese vuole essere minacciato, Mandel’stam lo sapeva nel 1930 (“Quarta prosa”): “Il borghese è di sicuro più ingenuo del proletario, più prossimo al mondo uterino, alla condizione del neonato, del gattino, dell’angelo, del cherubino”. Facendolo – facendosi – padrone, anche cattivo, si dava dunque sicurezza.
Mandel’stam lo voleva comunque protetto: “Bisogna serbare la borghesia nella sua candida parvenza, divertirla con intrattenimenti improvvisati, cullarla…”. Sottintendendo, naturalmente, che chi deve cullarla è la borghesia stessa: l’effetto si raggiunge meglio deprecandosi, purché si conduca il gioco.

Camilleri - “Il Sole 24 Ore” pubblica due domeniche di seguito lo stesso “Posacenere”, la rubrica di Andrea Camilleri, ma nessuno se ne accorge – nemmeno il giornale. Quanti dei milioni di acquirenti dei “Montalbano” leggono l’ostico personale dialetto dello scrittore, benché stilizzato-ripetitivo?

Dante – “Mi sono smarrito nel cielo… Che fare?” Così Mandel’štam, dantista emerito, rivive il poeta nel suo proprio esilio a Voronež, In una composizione modesta (ora nella raccolta “La conchiglia”) ma con la stessa disperazione di esule in patria, reale e figurato - Mandel’štam è confinato, non ostracizzato, ma presagisce la sua morte, di lì a pochi mesi, in un gulag nella remota Vladivostok.

Gattopardo – Si può anche dire realistico, ma sempre nel quadro dei romanzi “cavallereschi” alla Cervantes. La sua aristocrazia – di questo parla il romanzo – è plebea. Ciò corrisponde alla realtà: l’aristocrazia siciliana è di affari, non politica, né di guerra o di saperi. Di nessuna qualità, salvo l’aver ammucchiato un tempo la roba. E alla terza o quarta generazione si è dissolta, il tempo per i nipoti di farsi poeti o l'amante a Parigi: il tipo che si mangia il capitale (“la rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale”). Senza spessore, senza consistenza. E quindi, da incapace, tournée fatalista. Ma, presumibilmente, nemmeno tanto povera, di spirito e di soldi, sia i giovani (Tancredi) che i vecchi (il Principone), come il “Gattopardo” la rappresenta. Nel palazzo sulla Conca d’Oro, a Donnafugata, al ballo.
Gioacchino Lanza Tomasi spiega nel saggio, a lungo meditato, con cui ha presentato l’ultima riedizione del romanzo, che Tancredi fu disegnato sulla sua figura fisica e il modo di fare, il Principe Salina sul bisnonno di Lampedusa. Ma il lettore non può non collegarlo alla figura stessa di Lampedusa, e ai suoi modi di essere.

Intellettuale – È figura del passato, in rapida obsolescenza – “il digital divide riguarda anche l’intellettualismo”, argomenta Rina Brundu, editore-direttore di “Rosebud”, il giornale online. In termini di mercato è come se l’intellettualità – intellighencija nelle sue forme di potere – avesse avuto finora una struttura oligopolistica, con le tipiche strozzature all’accesso e nella selezione (cooptazione, cordate, verticismo), che i blog liberi e i social network hanno sbloccato.
Non è un prospettiva nuova. Se ne discusse prima della guerra a proposito della “cultura di massa”, a opera della Scuola di Francoforte, e in Italia negli anni 1960. Allora il primato fu agevolmente ricostituito attorno alla cultura “alta”, malgrado la messa in guardia che già cinquant’anni fa circolava a opera di Marshall McLuhan (“il mezzo è il messaggio”, l’immagine, l’informazione immediata, plurima), col passaggio dei poteri dalla Scuola di Francoforte alla Nuova Retorica francese. Di fronte al fenomeno Rete le schiere tardano ora a ricostituirsi.

Parole composte – Molte sono di uso comune e ormai indistinte (madreperla, pescecane, salvagente, etc.). Quelle divise pur essendo composte le usava il greco antico e le usa il tedesco moderno. Ma con effetto antitetico. Allusiva, armoniosa, sempre cantabile è la parola composta in greco, ferrigna in tedesco, piatta, freddamente significante più che evocativa, e non unitaria. Un sintagma senza il verbo, che specifica ma non incarna il senso, composita e non unitaria.
Perché il greco usa parole composte aggettivali, il tedesco sostantivali? Perché il tedesco è lingua tecnica e filosofica, il linguaggio ha disperso nella sua misterica meditazione – non fantastica: grave, e inconcludente.

Sovietismo – Il discredito è stato totale e radicale. Di una cultura pure imponente, e con effetti duraturi, quasi incancellabili. Nessuna vindicatio, neppure una memoria. Anzi, a un quarto di secolo dalla sua caduta, non se ne recupera niente. Giusto la pittura, ma allora in spirito eretico. Con pregiudizio di autori e idee di spessore, nella poesia, nel cinema, nelle arti grafiche.

Storia – “Tutto passa e tutto resta,/ però il nostro è passare,/ passare facendo sentieri,/ sentieri sul mare” – oggi si direbbe “liquidi”. È in questi versi di Machado il fluire della storia, la più vera delle sue verità.

La storia è tragica, trova Raymond Aron. Un gran bollito secondo Gadda. Era cieca e irrevocabile per Valla, Poliziano e Telesio. Commedia e dramma. E in essa non c’è rimedio, se la fantasia non la completa, questo era già vero per Bouvard e Pécuchet. La storia ha avuto sempre un gran richiamo sui letterati. È l’incubo da cui Joyce tentava di ridestarsi. È nozione borghese e romantica. La storia è mania borghese anche secondo Aragon, il con d’Irène, e gli altri derivati del Pcus. Essendo tutta un pettegolezzo tra Oriente e Occidente, ammicca Del Buono da “Linus” Il metodo storico è dell’Ottocento, secolo borghese e occidentale, dopo la Rivoluzione. Confuso tra odio e favore di parte, il racconto della storia è sconveniente, diceva già Schiller nel “Wallenstein”.
La storia parte da un principio esattamente opposto a quello che regge la vita – checché volesse dire Schiller (o non sarà Camus: “La storia annienta l’uomo”?). “Lu munnu va n’arreri!” è scoperta del poeta Domenico Tempio, il mondo va in culo. La fisica la fa finire in un buco nero. Anche figurativamente, per la cecità della storia.

Tribù – Sirieni, oppure udmurti, le note esplicative assicurano che sono popolazioni reali, Mandel’stam ci ricama sopra nelle sue memorie di Pietroburgo (“Il rumore del tempo”). G.Grass fa molto caso dei casciubi, la sua tribù a Danzica. Herta Müller dei suoi sassoni del Banato. Magris dei bisiachi. Poi ci sono gli ingusci, i loro nemici gli osseti, e una diecina di altre nazionalità nella minuscola Ossezia del Sud, di cui mai si è parlato come oggi, che contano pochi effettivi.
La tribù piace ai letterati. In ribasso presso antropologi e folkloristi, viene bene per sorprendere il lettore con le sue virtù speciali. Anche se solo per effetto dell’inbreeding, fisiologico e sociale. Questo avvertibile e avvertito in Germania alla rinazionalizzazione, dopo la riunificazione, delle tribù etniche sparse da secoli per il mondo: gli hütterer dell’est Europa e del Nord America, i sassoni di Romania, le colonie dimenticate del Volga e del Paraguay. Ma più le tribù piacciono per essere morte, o moribonde - un po' alla manmiera come si leggevano in Margaret Mead, reali e remote, se non estinte. A questo fine servono meglio le tribù disseminate nel vasto mondo slavo. Quelle dell’Africa, dove hanno ben più solida consistenza, invece, non attraggono. Bisogna anche dire che le tribù vive africane hanno più vizi che virtù – non se ne conoscono. E fanno paura.

letterautore@antiit.eu

martedì 10 luglio 2012

Informazione e indignazione

Lo scandalo più grosso è senz’altro legato agli appalti (v. blog precedente). Ma sui giornali, e sui banchi in libreria, gli appalti non esistono. Più pagine e più libri indignati sono dedicati, nell’ordine, a: 1) Berlusconi, 2) le mafie, 3) la politica, 4) la giustizia. Una classifica immutata da una dozzina d’anni, anche ora che Berlusconi non è più al governo. In edizione sono una sessantina di libri contro Berlusconi, una quarantina sulle mafie (e più sulla più grigia di esse, la ‘ndrangheta), una dozzina sulla “casta”, una mezza dozzina sulla malagiustizia. Ma è come se l’indignazione scacciasse l’informazione, la corretta valutazione delle cose. In troppi casi e con troppa costanza per farlo ingenuamente.
L’opinione pubblica è fenomeno complesso. È solitamente accrescitiva, tende ad ampliare i fenomeni che le si impongono giorno per giorno: questo o quel paese canaglia, l’evasore fiscale, il cardinale Bertone, la malasanità (sempre pubblica). Ma in questo tradisce la sua funzione, se essa dev’essere critica e non commerciale. E finisce parte dell’ingranaggio (il potere) che essa è nata invece per decrittare: capire, scegliere, decidere.

Fisco, appalti, abusi - 7

Prendendo per buono il Piano delle infrastrutture strategiche di Passera, 234 miliardi da spendere in tre anni, 2013-2015, la taglia per corruzione sarà di 93 miliardi e mezzo. Prendendo per buona la percentuale della Corte dei Conti, il 40 per cento del valore delle opere, conservativa (gli appalti solitamente raddoppiano e triplicano di costo in corso d’opera).

Più l’Iva aumenta meno incassi fa fare allo Stato. Viene detto un paradosso, ma è noto principio di Scienza delle finanze: dimenticato. Il ritardo dell’Italia è soprattutto culturale.

La Toscana ha il record egli autovelox installati, Firenze in testa, seguita da Pistoia, e dalla provincia di Grosseto lungo l’Aurelia. Non a fini dissuasivi ma fiscali: nascosti per lo più dietro pilastri o siepi, dopo segnali che riducono fortemente la velocità. Le multe sui transiti sono le secondo e terze voci di entrata di molti piccoli Comuni toscani.

La Firenze-Pisa-Livorno è da vent’anni, o sono trenta?, ottanta chilometri pieni di buche mortali, che non si riparano. La sicurezza è garantita da una ventina di autovelox occultati a ridosso di limiti di velocità mutevolissimi. Ogni comune attraversato ne ha un paio.
Lo stesso l’autostrada Firenze-Siena, che è però solo 50 km. di buche. Qui solo Firenze occulta gli autovelox.

Facendo il bagno nell’alta Toscana, dalla Versilia a Castiglioncello, l’inquinamento è visibile e anche annusabile. Ma l’Arpat, l’agenzia regionale per l’ambiente Toscana, “garantisce” la balneazione in acque pulite: lo sporco è superficiale.
Sotto Castiglioncello l’apparenza è da spiaggia dei Caraibi: spiaggia candidissima e acque cilestrine. Ma sono “Caraibi chimici”, titola “Il Tirreno, “più banchi del sole”. Sono solventi e polveri della Solvay.

Com’è possibile che una fornitura allo Stato sia pagata dopo mille giorni? Perché il prezzo della fornitura era gonfiato.

Vittima due volte della rivoluzione sovietica

Mandel’stam sa far parlare le cose: gli insetti, i materiali, i segni grafici, la luce nelle sue infinite varietà. Da antologia qui la pagina sull’eloquenza della partitura musica, o del balletto, la mezza pagina sulle note di lettura a margine, o sulla vita dello “scandalo”. Ma è singolarmente afono nel testo che si vuole il più interessante di questa raccolta, quello del titolo. Si voleva ancora nel 1980, quando Einaudi ne produsse la prima edizione italiana, ora rivista da Daniela Rizzi, con brio - e con l’aggiunta della “Quarta prosa”, l’autodifesa di Mandel’stam dall’accusa di plagio nella traduzione di “Till Eulenspiegel”, pubblicata infine nel 1988, cinquant’anni dopo la morte. La vita sociale e politica a Pietroburgo nel primo decennio del Novecento, gli anni dell’adolescenza di Mandel’stam, si deve leggere con centinaia di fastidiose e insignificanti note.
Non si sopportano più i microcosmi politici che animavano la città - gli –ismi del sovietismo si estendono qui al bazarovismo (dal protagonista di “Padri e figli”, il romando di Turgenev, a sua volta positivista, nichilista) e al manilovismo (dal Manilov delle “Anime morte”). Per il rifiuto della politica che va con quest’epoca, forse. O per la “inutilità” di tanta passione democratica, inconsistente, incapace – il fatto ormai è incontestabile che la sola politica è quella che “parla alle masse”.
E dire che Mandel’stam non è un trinariciuto. Quando non stringe il cuore, rivoluzionario prima del tempo, a ragion veduta, e deluso già nel 1923: “«Per me, per me, per me», dice la rivoluzione. «Ciascuno per sé», replica in risposta il mondo”. Vittima doppia, si può dire, della rivoluzione sovietica, poiché finirà, dopo vari confini, in un gulag nel 1938. Venendo da una normalità che gli fu peraltro sempre impossibile, con una famiglia ma senza una casa: partendo per la villeggiatura i genitori lasciavano i mobili in deposito, e in autunno li montavano nel nuovo appartamento in affitto. Nomade a Pietroburgo, dunque.
Qui Mandel’stam non ha lo scatto che lo fa amare in altre prose. “Quando è rovesciato sul dorso e si accinge al salto, l’elaterio piega all’indietro testa e torace, di modo che l’apofisi pettorale, sporgendo all’esterno, si trova all’estremità della propria guaina. Durante il processo di curvatura all’indietro, per effetto dei muscoli, l’apofisi si piega a somiglianza di una molla”. Pochi sapranno cosa l’elaterio sia, né è chiara - chiaro? - l’apofisi, ma lo scatto c’è tutto. Qui, tuffato fra le persone e i ricordi invece che sulle amate “cose”, lo scatto manca. Ma la solitudine è sempre forte, irrimediabile malgrado la qualità dell’uomo, che sa dire di no, e del critico, che lo fa amare. “Una parabola assurda”, scrive nel “Francobollo egiziano”, la terza prosa della raccolta, chiamandosi Parnok, “congiungeva Parnok alle sfarzose fughe di stanze della storia e della musica”.
Osip Mandel’stam, Il rumore del tempo, Adelphi, pp. 209 € 19

domenica 8 luglio 2012

La veritàaaa sullo spread

Ferruccio de Bortoli si fa infine dire dal governatore della Banca d’Italia Visco le tre verità della crisi. Lo spread esagerato è “come se la Germania ricevesse un sussidio dagli investitori internazionali”. Logico che non se ne privi. Ma “ciò crea una grave forza centrifuga nell’area dell’euro”: più spread più spread, è un circolo vizioso, il fenomeno si autoalimenta, la Germania gongola, e non ringrazia. Il secondo punto è che se lo Scudo anti-spread “fosse dotato di capacità d’intervento adeguata la sua stessa esistenza aiuterebbe a non usarlo”. È la virtù degli accordi di stabilizzazione: essere convincenti. La stessa che poteva avere, e non ha avuto grazie alla Germania (la cancelliera ripetutamente, la Bundesbank solennemente), il Fondo o Meccanismo di stabilizzazione. C’è infine “un altro luogo comune da sfatare, che sia la Germania a pagare per tutti. Un falso”. Il prudentissimo Visco non può qui usare mezzi termini: A fine anno saranno stati versati dall’Italia (per i salvataggi) circa 45 miliardi di euro, e non ci si è agitati tanto. La Finlandia, che pesa per meno del 2 per cento, si è fatta sentire di più”.
Non fosse un dramma, si sarebbe tentati dall’urlo di Zavattini: “la veritàaaa”. Infine. Su cose che tutti sanno, e in privato si dicono. Resta da sapere perché in Italia questi argomenti non hanno corso corrente. Per fede europeista? Non ci crede più nessuno. Per ignoranza? Impossibile. Per sudditanza? Solo psicologica? È possibile: la psicologia sociale è uno zoccolo duro, durissimo nei pregiudizi, e il Nord è giusto e saggio, oltre che buono-e-bello, e imbattibile.

Una posa lunga una vita

Un D’Annunzio in posa. Inevitabile forse, è un libro di fotografie, come se ne fanno di ogni artista, ma qui tutto di pose: primi piani del Comandante, che non muta espressione per tutta la vita, intervallati dai primi piani delle belle donne di cui si compiaceva. A corredo di un testo che si segnala nell’agiografia, un manuale del genere. Anche nell’assenza della firma – forse voluta: le vite degli uomini eccezionali si vogliono anonime, vox populi. E il lato peggiore è che a D’Annunzio sarebbe piaciuta.
Trascurato all’uscita nel 2004, meriterebbe la collezione in uno scaffale del cattivo gusto, inappellabile.
Gabriele D’Annunzio. Una vita d’eccezione, Skira, pp. 106 € 9

ll mondo com'è - 101

astolfo

Capitale - Il capitale è il credito, oltre che la proprietà. E tecnicamente è cristiano - anche ebreo, ma in ambito cristiano – e quindi fino a un certo punto solo cattolico. San Paolo s’infastidì presto dei cristiani pauperisti e irenici, e lanciò il famoso: “Siate fanciulli nel cuore, non nella mente”. Ci volle tempo. Nella storia il capitale emerge in epoca moderna, coi Medici, Chigi, Fugger, Duché, agli ebrei si lascia il prestito ai cristiani poveri. Ma la simonia nasce col cristianesimo, fino alle indulgenze, il più geniale colossale mercato dei consumi mai ideato: come indurre bisogni urgenti d’un bene inesistente. E quando il capitale è voluto diventare virtuoso, a gloria di Dio, la chiesa l’ha santificato, prima il lavoro, poi le opere tutte.

Il capitale è brutta bestia, è la materia in azione. Talora si dichiara, con le sorprendenti definizioni del denaro, sempre s’infiltra con inarrestabile magnetismo. Lievita pervasivo sul pecus inerte, della materia dei fantasmi ma solido. È la più aggressiva manifestazione del diavolo, la lussuria è al confronto piccola cosa, se non per la sua forza angelica. Max Weber avrà avuto il merito, con Gotheim e Sombart, di studiare i fattori religiosi, oltre che sociali, del capitalismo – e Fanfani dopo di loro, il senatore, i cui tomi gli Usa studiano più di Weber. Napoli, la maggiore area capitalistica, d’imprenditoria capillare e caparbia, che si nega per meglio non pagare i tributi, sforzo sovrumano raddoppiato dalla leadership costantemente rinnovata nel contrabbando e l’industria dei falsi, dove la concorrenza è aspra, è religiosa fino alla superstizione, fedele a san Gennaro e ai morti. Se la santità c’entra in queste cose, san Gennaro è altrettanto spietato che Calvino e gli altri numi riformati, o i santi Borromeo tra i pii lombardi - quel che è certo del capitale è che vuole pelo sullo stomaco. Weber non poteva saperlo, a Napoli ci andava in vacanza, reputando anch’egli i napoletani fannulloni, mentre sono ingegnosi e applicati. E, avendo penetrato la natura della ricchezza, vanitosi e spendaccioni.

Federico Il Grande 2 - Anche Stendhal, che passò la vita a scrivere, odiava il padre. E aveva lo stesso bisogno d’isolamento, che espresse in pseudonimi e criptogrammi, le frasi cifrate. Ma Federico non lasciò traccia, malgrado l’impegno d’una vita, nelle lettere. Né nella vita: i calci e le frustate del padre lo resero incapace di copulare, secondo Voltaire, anche con gli efebi di cui giornalmente rinnovava i ranghi. È dunque dubbio, per l’autorità di Voltaire, che si sia sverginato a Dresda, come narra la sorella margravia. “Che c’è in Germania degno di nota”, scriveva il Campano agli amici in Italia? “Soprattutto il fatto che i morti vivono”, mortui vivant.

Federico sarà Grande per le imprese fortunate, ma era mingherlino, e quando morì si trovò che entrava in una bara da bambino. La sua poesia sono le sue imprese, ha detto Goethe, “il primo vero, alto e autentico contenuto vitale” della poesia tedesca. Ma questo monumento è un problema.
Aveva fede negli spiriti e amore per i cani. Degli uomini diffidava, le donne non le frequentò mai.
La sorella ne ricorda un attentato alla verginità in occasione di una visita che il padre l’aveva costretta a rendere al re di Sassonia, accompagnata dal fratello. Augusto il Forte deve l’appellativo ai figli, ne generava una diecina l’anno. Nulla al confronto di Salomone, che ebbe settecento mogli e trecento concubine, ma quando Augusto morì si calcolò che avesse fatto 354 figli. Qualcuno con la contessa Orczelska. Che era figlia sua, e di una francese con negozio a Varsavia. Il conte Rodofski, di cui la contessa era sorellastra e amante, la presentò a corte, dove divenne l’amante del re suo padre, che ne fu geloso. Quando i principini di Prussia giunsero in visita e il futuro Federico II s’infatuò della contessa, l’elettore montò un colpo di teatro: dopo i brindisi fece trovare al principe sedicenne dietro una tenda, in una stanza ben calda nel gelo di gennaio, addobbata di rosa e vermiglio, al centro di un cerchio di candele sfavillanti, “una ragazza nello stato dei nostri primi antenati, un corpo d’avorio più bianco della neve e più formoso della Venere dei Medici”, notò nel diario la sorella di Federico. Per un convegno, se non è fantasia sororale, dal quale il futuro re uscì senza più fregola: Voltaire, che sarà suo intimo, lo attesta “insensibile alle donne”.
Federico si vendicherà di Augusto, invadendo la Sassonia. Alla sorella Guglielmina, margravia di Bayreuth, donerà autobiografici doppieri di Dresda, con un pastore incipriato intento a scrivere lettere incompiute.
Il re Augusto di Sassonia, cui Bach intonò interminabili odi, si godeva con la stessa voracità la musica – andò fino a Venezia per ascoltare Vivaldi – e le porcellane, e si divertiva alla passione di Federico Guglielmo, il padre del futuro Federico il Grande, per gli heiduk, i soldati di almeno un metro e ottanta - nel 1717 inviò a Federico Guglielmo seicento soldati giganti in cambio di centocinquanta pezzi cinesi, barchette blu e bianche, quattro soldati per ogni battellino. Ma trattava Bach da organista, e non gli diede mai le sue spettanze, nemmeno quando il musicista gli fece causa. Miglior sorte Bach sembrò avere a Berlino, in una breve visita su invito di Federico. Che si avrà dal maestro l’“Offerta musicale” in omaggio, ironico, per essersi il re dimenticato di ripagarne il lungo viaggio. Secondo Kant il sublime dei tedeschi è la magnificenza.
Miglior sorte ebbe con Federico Algarotti. Instancabile collettore di codici e opera d’arte per il re di Prussia, dopo averlo fatto per i due Augusto di Sassonia e la loro famosa galleria, avrà il suo mausoleo al Monumentale di Pisa pagato da Federico II.

Intellettuali - Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito.
L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante. Garboli, bello e ricco di suo, e ospitale, che l’intellettuale voleva proletario, ha ragione: più proletarie di tutte sono le attività intellettuali, lavoro non pagato, una schiavitù, seppure volontaria. Pensare o scrivere non sono un lavoro nel vocabolario e l’opinione, sono ritenuti e si vogliono uno svago, roba da dilettanti. Mentre sono l’occupazione più assidua, minuto per minuto, giorno per giorno, senza soste né vacanze, vengono idee pure la notte, sia la scrittura creativa, poesia, filosofia, o politica, d’occasione, di scopo, più spesso senza retribuzione, nel più puro stile stakhanoviano, volontaristico. C’è piacere evidentemente in questa professione, all’opposto che nel puttanesimo, ma allora sorge il problema: perché? per cosa perdersi?

È per il borghese che lo depreca un declassato in cerca di rivincita, che non sa andare oltre la nostalgia di quand’era un notabile. Ma allora è anche il borghese tipo, il parassita.
I conservatori dicono gli intellettuali élites mascherate, oggi anzi disoneste, che si fanno scudo dell’uguaglianza. E il numero certo conta: “La nostra Europa affonderà con la «democrazia» dal basso, di fronte a un alto che non ha con sé il numero”, si può convenire col Burckhardt di un secolo e mezzo fa. Ma è affondata anche dall’alto, a opera di regimi e élites.

Oskar Pastior, lo scrittore rumeno di lingua tedesca che nel 1945 fu deportato a diciannove anni tra i primi in un campo sovietico di lavori forzati, testimonierà: “Gli intellettuali nel campo hanno abbandonato per primi la loro moralità, molto prima della gente priva d’istruzione”. La quale aveva chiaro in testa: “Questo non si fa”.

Totalitarismo – Intacca le coscienze. Sarà stato questo il suo dato caratteristico. Sia nel primo Novecento (fascismo) che nel secondo (sovietismo). Senza redenzione. Chi lo ha subito, nel senso che successivamente, mutata la storia, ha fatto un’altra scelta, semplicemente lo rimuove. Non lo spiega, non ne fa un caso di ricerca, che implicherebbe esporsi. Semplicemente non ne parla, e non vuole che se ne parli. È stato il caso per cinquant’anni di G.Grass, che pure è uno che espone tutto di sé, che ama raccontarsi. E all’Est dei tanti scrittori che erano stati stalinisti o spie: ora la Szymborska, in passato Kundera o Christa Wolf – che Grass ha difeso strenuamente, prima di decidere di testimoniare da sé il passato nazista (ma sempre senza elaborazione storica o socio-psicologica: semplicemente per vendere più copie delle memorie). O, in Italia, Giacomo Debenedetti e i tanti altri che poi “saltarono” da Mussolini al Pci.
È raro che un’esperienza personale non venga rielaborata da uno scrittore, narratore o critico che sia. Tanto più una così coinvolgente quale si vuole un regime totalitario. Ma di fronte a esso c’è o l’eja, eja, alalà, o la saracinesca.

astolfo@antiit.eu