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sabato 20 febbraio 2010

Anche Cicerone intercettava escort

C’erano anche delle mulierculae publicanae, stando all’enciclopedico atto d’accusa di Cicerone “Contro Verre” nel 70 a.C., delle donne cioè che acquisivano gli appalti pubblici a letto. E fu, quello di Cicerone, il periodo di massima propagazione della categoria. O almeno così si direbbe stando al gran numero di deprecazioni che essa suscitava: esattori sopratutto del fisco, i pubblicani non erano fatti per essere popolari. Ma dureranno ancora a lungo, e sempre più prosperi.
La questione morale non salvò la repubblica romana. Anzi, esercitata come fu, anche da Cicerone, contro i nemici politici e a favore degli amici, ne affrettò la caduta: l’etica ridotta a fine particolare è la fine dell’etica, e quindi della politica. Mentre i pubblicani tornarono attivi e potenti, seppure avevano avuto realmente un momento di crisi.
I pubblicani erano a Roma i percettori di pecunia publica ex aerario erogata, di denaro dello Stato erogato come appalto di opere. Compreso il servizio di riscossione delle imposte, per il quale veniva corrisposto un aggio, in genere sotto forma d’interesse fisso. In cambio l’appaltatore doveva fornire un’opera o un servizio, definito da un apposito contratto – il capitolato. Stava quindi alla sua abilità risparmiare sulle opere da realizzare, oppure farsi corrispondere le imposte, impresa universalmente avversata.
Il compito degli esattori era particolarmente difficile perché le tasse le pagavano le province, i territori cioè della repubblica, e poi dell’impero, al di fuori della penisola italiana. In linea di diritto questi territori erano proprietà dello stato romano, praedium populi romani (dove il praedium evoca un qualsiasi terreno in proprietà), di cui gli abitanti, i provinciali, avevano soltanto l’usufrutto. Da qui la base giuridica dei numerosi tributi di cui erano gravati. Tutte le province pagavano un tributo fisso, stipendium. Ma c’erano anche tasse sulla produzione, cioè sul reddito, molto articolate: sul grano, sull’olio, sui profumi, sui trasporti marittimi, eccetera. Quelle sul pascolo si chiamavano scriptura.
Il diritto discendeva dalla ragione vera dell’espansione di Roma, lo sfruttamento delle regioni conquistate. Il dominio romano apportò ovunque grandi benefici, per la pacificazione degli stessi territori annessi, e per il loro sviluppo, grazie alle comunicazioni e altri lavori pubblici, ai commerci, al miglioramento dell’agricoltura, alla cultura in generale. Era anche flessibile, poiché veniva adattato alle condizioni di ogni regione, e regolato da un sistema giudiziario abbastanza efficiente. Ma gli abusi erano frequenti, e quelli di Verre, il governatore della Sicilia, rientravano fra i tanti. Del resto, era un sistema di dominio. E il vincolo tributario, la sua cinghia di trasmissione normale, fu esercitato sempre con durezza.
Negli anni del processo a Verre le esazioni fiscali furono tali in Sicilia da espellere dalla terra tanti piccoli coltivatori - i loro prezzi non erano più concorrenziali con quelli dei produttori africani - che una buona metà delle superfici coltivabili fu abbandonata: la Sicilia cessò di essere il granaio d’Italia, e si posero le condizioni per la sua piaga bimillenaria, il latifondo. Gabellotto, voce analoga a gabelliere, o esattore, sarà chiamato in Sicilia dopo il Medioevo chi gestisce il latifondo subaffittando ai coltivatori contro un canone fisso.
La riscossione delle imposte aveva un posto centrale nel sistema di dominio romano, anche se veniva relegata tra le funzioni di diritto privato, e appaltata a privati cittadini. Richiedeva inoltre capitali ingenti, a garanzia contro i rischi dell’esazione. Si costituirono quindi delle società finanziarie, che furono anche il terreno e lo strumento per l’ascesa di una nuova classe, quella dei cavalieri, poiché gli affari non erano consentiti ai senatori, la forza politica della repubblica. Ogni appalto dava luogo alla costituzione di un apposito ufficio locale, retto da un vice-direttore, pro magistro, sotto un direttore, magister, che invece risiedeva a Roma, dov’era il potere politico. Gli appaltatori si costituirono inoltre in un albo, ordo publicanorum, che ne rappresentava gli interessi.
L’ascesa degli imprenditori-cavalieri si accompagnò alla decadenza della repubblica. Ebbero fama di disonesti e esosi - e non occasionalmente, per trovarsi in combutta con questo o quel governatore avido. Erano la parte visibile del potere, nient’affatto eroica, anzi vischiosa e ingiusta, e presto ne furono lo strumento principale, insieme con i pretoriani dell’imperatore. Erano gli homines novi, oggi si direbbe la borghesia, che prosperavano non sul sangue o sulle armi ma sull’ingegno e sul lavoro. Il loro ruolo politico è riconosciuto nelle orazioni “Contro Verre” dallo stesso Cicerone, che nella sua tormentata politica ebbe come costante il riconoscimento della potenza finanziaria dell’ordine equestre, e del suo peso crescente nella vita pubblica - il processo a Verre sostenne in favore di Pompeo, e della classe equestre che lo appoggiava, dei pubblicani cioè - seppure attento a non inimicarsi il Senato.
La dislocazione dell’impero, e il sospetto in cui la Chiesa tenne a lungo il pagamento degli interessi provocarono una lunga eclisse della categoria. La funzione naturalmente non andò perduta: frantumato lo stato, ognuno era padrone, e il più forte imponeva i suoi tributi, anche i più stravaganti, comprese le prestazioni sessuali, esigendoli da se stesso. Ma i soggetti subirono un’eclisse di circa un millennio. Tanto ci impiegò la chiesa a riconoscere la liceità dell’economia monetaria. Il ripensamento fu facilitato dopo il Duecento, dopo cioè l’invenzione del Purgatorio, con la possibilità della redenzione dal peccato. Ma si dovette ricorrere all’arabo per introdurre il concetto di esattore, ora chiamato gabelliere.
La diffidenza della chiesa è ben espressa da san Girolamo, autore della traduzione vulgata dei vangeli in latino, al quale si deve l’ignominia in cui il pubblicano venne a cadere. La categoria era temuta e disprezzata in Israele come altrove. Ma fu nella trasposizione latina del vangelo che la parola divenne sinonimo di vituperio, di solito in abbinamento con le meretrici. Pubblicani saranno anche degli eretici manichei, confusi con gli albigesi, così denominati perché plebei, appartenenti agli strati infimi della società.
Ma le vie del Signore essendo infinite, si deve al Gesù dei Vangeli uno dei rovesciamenti più vertiginosi della realtà, nella parabola del fariseo e pubblicano che ripone le ragioni dell’etica nel profondo dell’animo. Il fariseo era l’interprete purista della Legge. Gesù così immagina i due al tempio: “Il fariseo, ritto in piedi, prega dentro di sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come tutti gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano». Il pubblicano, in disparte, senza ardire di levare gli occhi al cielo, si percuote invece il petto dicendo: «O Dio, sii propizio verso di me che sono un peccatore»”. Per dire di qualcuno che è pieno di se stesso e ipocrita, si dice adesso fariseo. Gesù non preferiva i peccatori, evidentemente, ma diffidava di chi accusa gli altri e si assolve.

Non ci resta che la Chiesa, contro l'antipolitica

Un saggio pieno di fermenti - contro le intenzioni degli editori? Un saggio del 1923 (già tradotto nel 1986, da Edizioni Giuffré) che segna il ruolo della Chiesa in Europa e nell’Occidente che ora si nega: la perpetuazione dell’Auctoritas, o senso dello Stato (su cui molto scriveranno in questo dopoguerra Chabod, Alessandro Passerin d’Entrèves e Hannah Arendt), la derivazione di tutti i diritti individuali o di libertà (di coscienza, associazione, congregazione, stampa) dalla religione o libertà di culto, la difesa della persona e del mondo contro l’interesse economico e la sua razionalità a basso voltaggio. Per la speciale complexio oppositorum che Schmitt deriva da Cusano, la “forma politica” della Chiesa – che fonda anche la critica più insidiosa alla Chiesa romana, oggi detta del relativismo (“l’opportunismo senza limiti”): assolutista e democratica, dogmatica e misericordiosa, di “virile resistenza” e “femminea arrendevolezza”, patriarcale e patriarcale. In questa complexio la Chiesa evita "La politicizzazione totale della vita dell'uomo", come definirà il totalitarismo un altro pensatore a essa vicino, Augusto Del Noce. Il suo segreto, dice Schmitt, è “di rimanere dentro l’esistenza concreta, di essere piena di vita e tuttavia razionale nel grado più alto”, una peculiarità basata “sulla rigorosa attuazione del principio di rappresentazione”. La Chiesa è l’ultima delle “figure rappresentative”, unificanti, l’imperatore, il cavaliere, l’eremita (mistico, monaco): “Tanto sola che chi vi vede soltanto forma esteriore può dire, con motto epigrammatico, che essa rappresenta soltanto la rappresentazione” (p. 39). Ma questa è la sua forza, “la forza della rappresentazione”: la Chiesa è, si vuole, “la concreta rappresentazione personale di una personalità concreta” (p. 37). Come ora Ratzinger, cent’anni fa Schmitt ridava alla Chiesa la ragione: ci vogliono dunque i tedeschi per riportare la ragione a Roma. Il curatore Carlo Galli, che pure è stato tra i primi a riproporre l’eretico Schmitt trent’anni fa, dà invece del trattatello una traduzione svogliata, e l’autore relega nella postfazione all'opportunismo, all’antisemitismo, al nazismo, all’antiliberalismo, e insomma alla reazione, con Donoso Cortès, de Maistre, Bloy, Maurras. Senza darne peraltro i motivi, che non possono esserci se dopo novant’anni il saggio è solo vero. Non mancano i consueti lampi di Schmitt. Sull’anticapitalismo di Paolo VI e Giovanni Paolo II: “Il razionalismo economico è tanto lontano da quello cattolico che può suscitare, contro di sé, una paura specificamente cattolica” (p. 30). Sull’intellettuale: “L’intellettuale fu rappresentativo soltanto in un’epoca di transizione, cioè durante la lotta contro la Chiesa”. Sull’opinione pubblica. “Ci si aspetta che la vita pubblica si governi da sé”, attraverso l’opinione pubblica, la quale però è dominata dai media di privatissima proprietà: “In questo sistema nulla è rappresentativo e tutto è affare privato”. Anche il politico, il politico dell’economico. Un saggio pieno di speranza. La più grossa sorpresa è l’evidenza di oggi, l’antipolitica, che non è un fenomeno italiano, e non di oggi: l’economico esclude il politico (p. 35 e il par. successivo: “È impossibile una riunificazione fra la chiesa cattolica e l’odierna forma del capitalismo industrialistico”). Non è, non più episodica, sul genere dell'Uomo Qualunque, roba da mariuoli e capipopolo, ma il dominio dell'interesse e il potere del denaro, nello spettro che va dall'"arricchitevi", magari facendo l'elemosina, alla corruzione. 
Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Il Mulino, pp. 96, € 10

giovedì 18 febbraio 2010

L'Italia sotto scacco

Lo scandalo di Firenze ha spostato il quadro della speculazione. Già pronte all’attacco della Spagna, dopo la Grecia, le grandi banche guardano ora con avidità all’Italia che il “partito di Milano” sta tentando di disintegrare. Col supporto di Robert Mundell, premio Nobel per l’economia, noto consulente di hedge fund. Era una delle opzioni aperte da tempo, come questo sito aveva segnalato (http://www.antiit.com/2010/02/il-fallimento-sarebbe-piu-sano.html
http://www.antiit.com/2010/01/nessuno-candida-draghi-forse-come-vice.html,
che ora, con l’offensiva che si apre contro Mario Draghi, fa le prove per diventare il nuovo fronte d’attacco dopo la Grecia. Sotto accusa i derivati che le stesse banche hanno imposto come controassicurazioni sui titoli pubblici italiani.
Così semplificato, sembra un raggiro. E lo è. Sembra anche un’offensiva che parte perdente, poiché se c’è stato un momento nella storia recente in cui il debito italiano appare solido è proprio questo. Ma lo strapotere delle banche d’affari angloamericane, con la leva disintegrante degli hedge gund, può essere devastante, la spettacolarità odierna dell’Italia a pezzi sarà niente rispetto a quanto si prepara per l’Italia. A meno di una contromanovra che lo disinneschi, e che al momento non si vede. Essa competerebbe infatti all’Eurogruppo e alla Bce. L’Eurogruppo ha dimostrato l’altro ieri, purriunendosi a Bruxelles e rappresentando l’Europa continentale e dell’euro, di essere adagiato sulla City. Mentre la Banca centrale europea è il vero bersaglio della speculazione. Un bersaglio facile, poiché lavora di rimessa, come quella “che paga il conto” - la Grecia dovrà tagliare la spesa, e poi la Spagna o l’Italia, ma l’hedging è tutto sull’euro, al ribasso, e finora ha ampiamente pagato.

Letture - 26

letterautore

Agiografia – Semplifica ma è semplice. E dunque veritiera. Non mitizza ma aneddotizza. Col vantaggio quindi della narrazione, ma con lo stile “fratto”, del realismo.

Arte – Fa gli artisti, li illumina, li nobilita, li salva. Il viceversa non è vero: un artista bello e nobile non necessariamente fa arte.

Negli esteti è esercizio di eccellenza, di superiorità. È in questo tipo di estetica che si trovano le peggiori devianze: se Dorian Gray è inoffensivo, Hitler non lo è più – il nazismo come esercizio di potenza estetizzante non è esercizio vacuo.

È lì per farci durare, il sogno dell’eternità nella posterità. La vita è il fare, artigianale o cumulativo, sentimenti compresi. O il non fare.

Biblioteca – È un mito. Il luogo ordinato della mente, o anima. È un mito povero, benché Borges lo abbellisca, non animativo.
Quella di Ecateo-Diodoro in realtà non c’è. Ecateo non la trovò a Tebe, non Diodoro a Alessandria. Si disse che era bruciata, nei secoli più volte, ma non bruciava, non essendoci. Quella di Efeso, che è rimasta, era un monumento funebre. E quella di Pergamo, con la quale siamo già nella logica autonoma della biblioteca, in questo caso il mercato della linea: classico-antico-autorevole. Di essa è collaterale il fuoco, che accentua la rarità.
Al mercato si collega l’autenticità: è succedaneo del fuoco per corroborare l’esclusivo possesso. E per moltiplicare la biblioteca: Didimo fu autore di quattromila volumi di sintesi e di commento. Che non può essere vero, a un volume a settimana ci vogliono 77 anni di vita attiva. Ma è “vero”: la biblioteca è un organismo di superfetazione, che s’impone agli autori, e tanto più a quelli remoti, i classici – quali testi, quali righe, quali significati. È un animale a sé. Solo apparentemente è un animale inoffensivo.

Birignao – Da Manzoni a Feltrinelli e agli alternativi surgelati Einaudi, solo frasi costruite: forme vuote, niente storie, niente personaggi, niente sentimenti. Le ire di Gadda si devono camuffare di convolvoli. Al meglio si sceglie la marginalità – Landolfi: quasi il silenzio. Prima, ancora nel Seicento, nel Settecento, dentro la forma involuta ci sono storie, novità, sorprese, fratture, sberleffi.
Poi, nell’Otto-Novecento, che il mondo hanno arricchito di fantastica poesia e di romanzi, la piattezza precotta, predigerita. Con un piacere del testo ridotto all’ammicco al critico formalista, unico lettore, con un occhio alla classificazione delle storie letterarie.
È la letteratura di una borghesia cava, vuota, che ritiene di avere qualche principio da sostenere ma non mette forza nelle mani, nessuna energia, nessun sudore – tra colonnati di tufo, di cartapesta, il teatro della letteratura e non della vita o della storia. È la letteratura fatta a Milano, genere lombardo dunque. Dice: è la letteratura industriale. No, anche i prosciutti sono industriali, anche i vini,ma sono saporiti. È il conformismo del denaro, del potere.

Borges – Amabile illusionista, della parola unica, della biblioteca, del labirinto, delle ombre viventi, o dei sogni, della reincarnazione, dell’impossibile naturalità, delle origini. Tutta roba inerte, residuata dal decadentismo, bric-à-brac. Ma quanto potente la sua capacità di montarvi illusioni!

Giallo - Sulla deduzione Achille Campanile ha un racconto-saggio illuminante in “Manuale di conversazione”: il “sistema deduttivo” è autoreferente, non porta a nulla.

L’indagine a partire dai particolari è dell’attribuzionista Giovanni Morelli, il deputato e senatore di Bergamo, che molto guadagnò comprando a poco e vendendo a molto, anche lui medico di formazione come Conan Doyle. A fine Ottocento il metodo di Morelli, che fece molti discepoli, era praticato e noto in tutta Europa.

Letteratura della Repubblica 2 – “La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé… Se ci si limita a manipolare langua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei manipolatori”, Ingeborg Bachmann, “Letteratura come utopia”, pp. 23-24. Le fragilità delle avanguardie milanesi di plastica degli anni 1950-1960 sono talmente evidenti che si fatica a credere abbiano potuto governare l’Italia delle lettere. Anche se qualcuno, Eco, Arbasino, faceva il contrario di quello che diceva - volevano “partecipare”, e si sono costretti per questo alla mediocrità (sì, middlebrow, midcult, mezza calzetta…).
Bachmann lo diceva in anticipo, alle pp. 22-23: “Tutte le opere veramente grandi di questi ultimi cinquant’anni, quelle che hanno reso visibile una nuova letteratura, non sono nate dalla volontà di sperimentare nuovi stili, né dal tentativo di esprimersi ora in un modo ora in un altro, né dal desiderio di essere moderni, esse sono nate sempre laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso, cioè dove, prima ancora di ogni formulabile etica, la spinta morale è stata abbastanza grande da concepire e progettare una nuova possibile etica”.

Massa - La cultura di massa è soffocante perché cultura di epigoni, ripetitiva. Le masse nella cultura potrebbero produrre sfracelli, anche gratificanti. Ma la cultura di massa è il supermercato, come si dice, dove scaffali uguali propongono prodotti indistinti.

Proust - “Ho pensato ai nomi leggendo Proust”, dice Ingeborg Bachman in una delle conferenze di Francoforte nell’inverno del 1959, a proposito dei nomi in letteratura. Quelli di Proust, se non sono a chiave, e per il lettore in libreria non possono, sono inconsistenti. Molto scritti, minuziosi, pignoleschi, da vendetta molto mirata, e molto inconsistenti: Marcellino li gonfia e poi li cancella, li trascura - “gusci vuoti” li direbbe Bachmann. Ha consistenza solo Albertine, ma sotto mentite spoglie, poiché era un signore baffuto. I duchi resistono, ma in quanto duchi.

Romantico – Riccioli, barbe, sciarpe colorate, occhi lucidi, pessimismo coltivato, paure: è il somatismo del deluso dall’amore, di chi ne ha paura. Diventa sentimentale perché deluso in una sua fantasia. Da qui il senso di morboso.
Il romanticismo è l’orrore dell’amore, della natura? Sì, è un dilettarsi che nasconde un’avversione, un intimismo che è un piacere sadico.

Sciascia – Il libro che (non) ha scritto su Manzoni. Una forma di autoritratto. Del Manzoni noto come poeta, alto, di odi, tragedie, inni, in realtà tormentato dalla storia – al tempo di Sciascia si diceva dalla passione civile: la rivoluzione dell’‘89, il Risorgimento, i Longobardi, il Seicento a Milano (che secolo!). Che esplode inatteso – Goethe-Eckermann – nel romanzo storico.

letterautore@antiit.eu

mercoledì 17 febbraio 2010

L'antipolitica del "Corriere"

Si leggono con sgomento, a giorni alterni, le quattro, sei, otto pagine del “Corriere della sera” sul nulla dell’inchiesta di Firenze. Roba da depressione. Non per le frivolezze delle intercettazioni, a chi interessano la psicologia e la filologia da caserma?, ma che il più grande e qualificato giornale d’Italia ce le contrabbandi per prova di chissaché. Con contorno di intellettuali proni al ricamo virtuoso, pur di "uscire" sul “Corriere”. Mentre qualsiasi pettegolezzo di “Novella” ha più sostanza. C’è la corruzione in Italia, oh se c’è, a Milano poi non ne parliamo. Ma quello che si legge sul “Corriere della sera” è tutta un’altra cosa: pranzi, massaggi, amicizie, raccomandazioni.
È lo sconforto totale, roba da vomito. Non per la caserma, sia chiaro, dalla quale non ci si aspetta più di tanto, quanto per il nobile e stimato giornale. Che non è un giornale scandalistico. Né fa controinformazione, non è il “Manifesto” del 2010. Ma conferma in tutto e ancora una volta di essere “Milano”. La Milano che ci governa con l’antipolitica. Da vent’anni ormai. Per coprire la grande corruzione che da Milano ci divora. Con la scusa della corruzione, che questa “Milano” non combatte e anzi alimenta. In realtà per impedire un governo, un qualsiasi governo, che solo può combattere la corruzione, certamente non le note di servizio, le foto rubate, gli scampoli di conversazioni montati da filologi in divisa: con la furbizia, con la superbia (si veda Maierato che spazio ha in quel giornale, un sesto di pagina, San Fratello neanche quello), con l'ipocrisia. Ora, per esempio, che prepara il terreno per l'offensiva delle banche angloamericane e degli hedge fundscontro la Bce e l'euro per il debito italiano, messo in cascina il bottino dell'operazione Grecia. In una con la gloiosa armata del "Financial Times", l'"Economist" e il "Wall Street Journal" che da tempo affilano le armi e scompaginano il vocabolario, dilatanto i Pigs (porci, per Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) in Piigs, aggiungendoci la I dell'Italia. Senza disdegnare la violenza.
Successe nel 1994, quando il “Corriere della sera” liquidò il governo Berlusconi appena eletto col falso avviso di garanzia. L’estate scorsa, quando azzoppò il governo, ancora una volta Berlusconi, con le testimonianze a caro prezzo di Bari, anche allora in esclusiva. Ora con l’attacco a una cosa che indiscutibilmente funziona, la Protezione Civile, senza alcuna vera ragione. Con la benedizione sempre degli arcivescovi, che a Milano sono con l’ex Opera delle chiese un centro di corruzione, uno dei tanti. Con le banche, la Borsa, la Procura, i giornali, e il calcio.
La vera questione morale è la questione morale stessa che questa Milano agita. La prova è nell’esclusiva. Le carte che il “Corriere della sera” pubblica non sono procurate, non c’è giornalismo investigativo sulle trascrizioni delle intercettazioni, quelle carte sono “date”. Da una fonte istituzionale, cioè un giudice o uno degli investigatori, di cui il giornale possa fidarsi. Si dice, o meglio si lascia intendere, che sono fornite dalle Procure, di Firenze, di Bari, eccetera. In realtà non si dice, perché una Procura non può fornire alcunché, può solo promuovere atti giudiziari. Di cui tutti siano a conoscenza. Le note, inoltre, sono fornite “montate”, cioè trascritte, tagliate e cucite. Ogni volta con un oggetto preciso di scandalo. Un giorno le donne, un giorno gli appalti, un giorno le nomine, un giorno le raccomandazioni, magari a un amico d’infanzia. Abbiamo dunque un pubblico ufficiale fellone. E il più grande giornale nazionale che fa da grancassa alle veline di fonti segrete.
Velinisti di poteri oscuri (ma non tanto)
La controprova è la scarsa attenzione che Milano dà, per primo in Procura, alla corruzione. Alla corruzione di chi conta, Milano è severamente classista. La lista degli evasori fiscali in Lussemburgo, procurata dalla polizia tedesca, è rifiutata dalla Procura di Milano perché solo l’acquisizione di notizie con le prescritte rogatorie sono utilizzabili penalmente. Mentre i piccoli esportatori di capitali di Lugano, farmacisti, grossisti, trasportatori, battilamiera, che si affidano agli spalloni con i bigliettoni in tasca, sono perseguibili senza alcuna rogatoria. Non sono perseguibili i Moratti per il collocamento in Borsa della Saras. Come non sono perseguibili Telecom, Pirelli e Tronchetti Provera, che hanno fatto spiare i dipendenti e mezza Italia. O la Rizzoli Corriere della sera, dove 1.300 miliardi sono spariti quindici anni fa, e tutti rubavano, si pagavano in nero in Svizzera, pagavano i partiti, come risultò da prove acquisite dai revisori contabili, ma non per la Procura. O prima per la vera storia della Sme, un colosso da cinquemila miliardi ceduto nel 1986 da Prodi a Carlo De Benedetti per niente, anzi dotato di trenta miliardi di credito pubblico gratuito. Si punge Berlusconi, per infrazioni anche molto minori rispetto a queste, ma solo perché si è prefisso di governare l’Italia: questo è dichiarato, dal giudice Borrelli, quello dell’avviso di garanzia del 1994, e da altri.
Si deduce da tutto questo, ma poi si sa, che il “Corriere della sera” non è solo. C’è un apparato giudiziario e investigativo feroce sotto il suo ombrello. Con una protezione politica oggi individuabile in D’Alema, su cui gli apparati investigativi da tempo hanno puntato. Anche scopertamente. Per la carriera. E per l’impunità? Si sa che c’è un buco nero nella storia dell’Italia, dalle bombe alla Fiera di Milano e poi da Piazza Fontana, su cui non è possibile fare chiarezza – le bombe impunite, sui treni, i ponti, le piazze, sono un paio di migliaia. Ma le bombe sono come la mafia: più spesso non si può provare nulla, ma sempre si sa chi e che cosa ha fatto. Il buco nero è comunque a Milano, su questo non c’è dubbio. E il riflesso è anch’esso palese sul suo maggior giornale: le carte sovversive sono fornite in esclusiva al “Corriere della sera” per la certezza che il giornale dà che verranno utilizzate tal quale, allo scopo che chi lo fornisce si prefigge. Che può essere giusto infangare Bertolaso, o Berlusconi, senza mai una prova di un crimine, che sarebbe risolutiva. Insomma, d’impedire un governo e indebolire la politica. È la controprova della “manovra”, di un’informazione spionistica più che giudiziaria: sono carte di chi si vuole appunto sovversivo, non risolutivo.

L'utopia dell'Io fa la letteratura asfittica

Cinque lezioni di poetica all’università Johann Wolfgang di Francoforte nell’inverno del 1959, e un contributo a delineare Ingeborg Bachmann: un’intelligenza, in più della sensibilità, da vera “poetessa pensante”, e una formazione critica che non si adattano alla mediocrità delle esperienze che vive, a Amburgo e Berlino, ma sapendo di non potersi ribellare – è qui la scelta di Roma, dove Ingeborg morirà accidentalmente nel 1973, come un rifugio, dove è presente e assente, in compagnia di altri insoddisfatti, Frisch prima, poi Henze, confuso e amaro l’uno, in creativo recupero il secondo. È sperimentatrice con strumentazione molto solida: “Tutte le opere veramente grandi di questi ultimi cinquant’anni, quelle che hanno reso visibile una nuova letteratura, non sono nate dalla volontà di sperimentare nuovi stili, né dal tentativo di esprimersi ora in un modo ora in un altro, né dal desiderio di essere moderni, esse sono nate sempre laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso, cioè dove, prima ancora di ogni formulabile etica, la spinta morale è stata abbastanza grande da concepire e progettare una nuova possibile etica” (pp.22-23). E tuttavia, o per questo, già di sensibilità retrò: “La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé… Se ci si limita a manipolare langua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei manipolatori”. Stanca evidentemente di sperimentalismi fini a se stessi.
E tuttavia, o per questo, sono saggi svogliati. Con pagine buone, per esempio su Svevo. Belle intuizioni, anche perfide: “Ho pensato ai nomi leggendo Proust”. La nostalgia non è celata, anche se Ingeborg non sa di che. Perplessa tratta pure dell’io in letteratura, in un'epoca, il Novecento, quando non c’è altra letteratura nel Novecento, prima della conferenza e soprattutto durante e dopo, e nelle sue stesse opere narrative. Commesso con la deiezione del secolo: degli anni delle conferenze sono le “aletterature” parigine. Ma qualche volta no, l’io è impositivo, di Proust, Musil stesso. Un Io che ne fa un secolo asfittico. La “letteratura come utopia” è titolo di Musil, di alcune note dei “Diari”.
Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia

Max-Ingeborg, infelice l'amore, e il libro

Un narratore fastidiosamente moltiplicato, bino o trino. Per associazione d’idee, il genere Bloom-Flower dell’“Ulisse” - ma già di Pirandello, si sa: “Ogni io che si esprime è una parte che si recita”, a p. 45, potrebbe essere di Pirandello. Con la stessa ironia ma senza la passione del gioco di parole. E per diacronia, il genere “L’urlo e il furore”, quando già il cinema ha popolarizzato e reso innocuo il flashbackf, l’avanti-indietro. Il narratore, la cui identità resta celata al lettore, un caso quindi dell’Io che si raddoppia infinitamente col suo Io segreto, è stato abbandonato da una donna molto amata. All’apparenza. La rottura è l’occasione per prospettare varie possibilità della rottura stessa. Non “vista dall’uno, vista dall’altro”, come si è già fatto. Prospettate dallo stesso trino protagonista: “Io mi provo addosso le storie come abiti”, è la frase del libro più famosa. Sulla base dell’acutismo: “Un uomo ha avuto un’esperienza, ora cerca la storia che le si attaglia”. Facendosene anche giudice, in quanto si propone egli stesso al lettore come caso di lettura multipla – una sorta di narrazione alla terza potenza, a tre livelli.
Insomma, il racconto come ipotesi, o popperiana falsificazione. Che poi è l’Ermes multiplo greco-latino, dice lo stesso Gantenbein. O la vecchia coscienza di Kant. La quale, diceva il filosofo, “è un’altra persona, in tribunale sarebbe il giudice”. Un’altra persona nel senso di un altro da sé, “una persona ideale, che la ragione si procura da se stessa”. O il successivo due in uno, di Nietzsche et al.. Una novantina di take, o scene, sono poi montate dallo stesso scrittore. Che così, negandosi, si ripropone Artefice Massimo. Tre anni prima, nel 1961, Raymond Queneau e Marc Saporta proponevano esempi ancora meno-ma-più autoriali di letteratura combinatoria, con i "Cent mille milliards de poèmes" e “Composizione n.1”, fornendo i testi su supporti intercambiabili, di cui lasciavano al lettore il montaggio, come con le carte da smazzare. Il risultato è alterno: il racconto ogni tanto è scorrevole (nelle parti che non riguardano l’assunto), ogni tanto no. Con qualche caduta: "Ibiza non è più quella", già cinquant'anni fa. La lettura è scorrevole doprattutto nella vena di Ippolito Pizzetti: il “pollice verde” ingentilisce molto nella traduzione l’irsuta prosa di Frisch. Di successo malgrado tutto, la traduzione italiana è alla quarta o quinta edizione, segno che la letteratura ha lettori.
L’amore a Roma
“Gantenbein” è famoso soprattutto per adombrare la relazione di Frisch, scanzonato ma non tanto, con Ingeborg Bachmann, che si consumò, letteralmente, a Roma, tra il 1958, l’anno in cui Frisch ebbe il premio Büchner, massimo riconoscimento tedesco, e il 1963. Anche se non si vede come: l’indecifrabile Lilla, l’unico personaggio femminile della triplice storia, potrà avere qualcosa in comune con Ingeborg, ma allora di molto intimo, che non si decifra. O Ingeborg andò in depressione perché Max era Gantenbein, tutto e niente. Lila, certo, ha “bellissimi occhi azzurri spalancati”. E Gantenbein, un marito che si finge cieco, la sospetta di tutto, anche di farsela una volta con “un pescatore italiano”. Nonché, nella vita reale, con Werner Henze, dirà il compositore, benché gay dichiarato. Insomma, Max-Gantenbein accecato dalla gelosia...
Certo, la relazione non era stata felice, Inge Feltrinelli ha in proposito note succose in un testo scritto per “Quel che ho visto e udito a Roma”, la raccolta delle corrispondenze giornalistiche di Ingeborg Bachmann a metà degli anni 1950. Inge Feltrinelli nei primi anni 1960 era spesso a Roma per lavoro, e abitava con Giangiacomo sullo stesso pianerottolo. Frisch si accompagnava volentieri a lei la mattina per il caffé. E si lamentata invariabilmente di Ingeborg: “Sono troppo svizzero, ma non riesco a capire perché non si alzi mai prima delle due del pomeriggio, perché non legga mai la sua posta e i cassetti della scrivania trabocchino di lettere ancora chiuse. Cosa posso fare? Viviamo nella città più bella del mondo, ma faccio fatica a capire l'italiano e lei”. A cena i Feltrinelli incontravano talvolta tutt’e due: “Ingeborg era triste, malinconica, vestiva solo di grigio scuro; ho sempre avuto l’impressione che fosse totalmente sottomessa a Max Frisch. La sua ipersensibilità si avvertiva in ogni gesto. Soffriva. I due erano troppo diversi”. Nel 1963 ci fu la separazione. Ingeborg fu per qualche tempo a Milano ospite dei Feltrinelli, i pomeriggi e la sera passando con Nani Filippini nei bar a bere. Quindi si trasferì a Berlino. “Nel dicembre 1963 ci ha scritto”, ricorda Inge Feltrinelli: «Sono stati molto malata per lungo tempo e solo in questi giorni ricomin¬cio a scrivere lettere, a lavorare e a vivere un po'». L'ho ritrovata pochi anni dopo a Roma: era stupenda, con la minigonna, una bellissima camicia dorata, i capelli corti, biondi alla Marilyn. E senza Max Frisch. Sembrava felice”. Nel 1964 il premio Büchner era toccato a lei.
Prima ancora che il romanzo uscisse, Günter Grass e Uwe Johnson, allertati da chi?, si lamentarono che Frisch trattasse male Ingeborg. Frisch negò. In una lettera all’amico pittore Aerni Victor (pubblicata su “Repubblica”, 7 maggio 2002), prima delle polemiche, indirettamente si giustifica: “Ingeborg l’ha letto per intero e mi ha comunicato le sue impressioni: che abbia fatto questo dopo che ci siamo lasciati, è ammirevole da parte sua e di grande aiuto per me”. Aggiungendo premuroso: “L’inverno è stato molto difficile per lei. Non potevamo più aiutarci vicendevolmente. Quante altre sconfitte sarò capace di subire, non so. Per me è una sconfitta, anche se sono stato io a lasciarla”. In una lettera successiva allo stesso Victor, dopo le critiche, è invece indignato: “Ingeborg, sento, sta di nuovo meglio in salute. Grazie al cielo. Il resto sono chiacchiere da salotto senza misura, Grass e Johnson ed altri si atteggiano a suoi consiglieri e giudici sul mio conto senza sapere le cose, un mito basato su pure menzogne, che a volte mi rendono difficile tacere; ogni cane, quando passa, ci piscia sopra: tutto è pubblico, poco chiaro, una giungla di mezze verità, e anche se cerco di starne lontano, mi raggiunge. La povera Ingeborg, o meglio Solveig, che aspettava solo che la sposassi, e quasi tutti ne sanno più di quanto sapessi e tacessi io allora, quando tu eri a Roma. E tuttavia, la povera Ingeborg mi fa pure pena; tutto questo non è divertente”. Frisch veva ragione: in “Gantenbein” mostra solo di avere perduto il piacere di raccontare. A furia di guardarsi: come Gantenbein un po’ beone e truffaldino, come Enderlin curato e elegante com’era sempre stato, come Svoboda evanescente.
Max Frisch, Il mio nome sia Gantenbein

martedì 16 febbraio 2010

Ombre - 41

È il sesto giorno dello scandalo Bertolaso. Al terzo giorno è sparita “Francesca”. Oggi è sparita “Monica”. Ma dove le mette il “Corriere della sera”? Non avrà un casino segreto, come i mafiosi di San Luca?

Muore Gaetano Caltagirone, a Cap Ferrat, dove si era chiuso in silenzio da venti o trenta anni. Nei quali era stato dichiarato fallito d'autorità, imputato di ogni sorta di reati connessi con la corruzione, e privato del cavalierato del Lavoro. Per poi essere assolto, in tutti i gradi di giudizio, reintegrato nelle aziende, risarcito (anche se non c'è risarcimento al fallimento), e perfino ricavalierato, da Napolitano. Nei commenti tutto questo si dice, ma in realtà non si dice: l’uomo è sempre il palazzinaro, lo speculatore, il corrotto, il corruttore.
È una conferma che la vera questione morale è la questione morale stessa. Di un certo affarismo, di giornali e giudici, che si fa forte del moralismo, delle note riservate dei carabinieri, del pettegolezzo. Un inferno che fosse decretato dai diavoli.

Il coltissimo assessore siciliano Mario Centorrino propone di accantonare per un po’ Tomasi e Sciascia. Non ne può più di linea della palma e gattopardi. Come tutti, del resto: la Sicilia è un po’ troppo vampirizzata – e Sciascia e Tomasi non sono vampiri, non è possibile.
Da Milano rimproverano il filologo Centorrino con asprezza: non si mette in castigo la letteratura. Non hanno capito. O hanno capito benissimo. Anche se quelli che lo rimproverano sono milanesi di Sicilia, Collura, Di Stefano.
Se ne discute però tra espatriati, in Sicilia la “provocazione” è caduta nel nulla.

Come un personaggio di Thomas Bernhard, Claudio Magris si propone lunedì sul “Corriere della sera” di rileggere “qualche giornale del mese scorso”. S’imbatte così, “a caso”, nella nota dell’“Economist” del 7 gennaio su Craxi, “Shameful Honour”. La stiracchia per tre-quattro volte la superficie originaria, e la ingravida di intenzioni: “Ciò che preoccupa l’“Economist” è l’implicito discredito che l’iniziativa in onore di Craxi getta sulla magistratura, che lo ha condannato, con sentenze passate in giudicato, a undici anni di reclusione”. Leggendo nella breve corrispondenza “lo sdegno, composto ma duro,… per l’improvvida iniziativa”.
Bizzarro inutile commento. In realtà, la nota del settimanale inglese è di rara indigenza (http://www.antiit.com/2010/01/ombre-39.html), non meritava una rilettura. E Magris salta l’essenziale. Che non è se Craxi ha avuto più meriti o più demeriti. Ma, detto da chi craxiano non è mai stato e non è, se la magistratura può fare le parti, distinguere tra chi poteva non sapere e chi invece doveva: la giustizia di solito non è uguale per tutti? Questo è basilare per ognuno che voglia essere bello-e-buono.

“Quel signore piccolo piccolo” dice l’allenatore Mourinho del presidente del Napoli De Laurentiis, senza nominarlo, con disprezzo. Chissà come si parla in portoghese. A Londra Mourinho non avrebbe potuto dirlo di un qualsiasi presidente. A Milano invece sì, nessuno glielo rimprovera, perché De Laurentiis è napoletano.

Nel giorno della rivolta degli immigrati di Milano contro Milano, Sveva Casati Modigliani è angosciata perché sul suo tram l’annuncio registrato della fermata suona “Padova-Loredo”. E ne fa partecipe un giornalista del "Corriere della sera": “Proprio così, «Loredo». S’immagini per un milanese sentire storpiare il nome di piazzale Loreto!”. Il nome della scrittrice è pseudonimo. Ma Milano si nasconde male.
Via Padova, luogo della rivolta, è peraltro presidiata: vigili, carabinieri, poliziotti, in assetto di guerra, controllano alla fermata del tram che chi scende abbia pagato il biglietto.

Robert Harris, grande scrittore inglese, autore d’imperituri romanzi su Pompei, Cicerone e Hitler, coscienza critica del “Sunday Times” di Murdoch, lamenta che il suo editore italiano Berlusconi venda molte copie dei suoi libri. “Non si sa se è corruzione”, dice. Ma lui perché si fa corrompere? Non da Murdoch, da Berlusconi?

Il vescovo Polacco Pieronek, presidente o ex presidente dei vescovi polacchi, dice l’ovvio, che l’Olocausto non fu solo ebraico. Il “Corriere della sera” gli fa dire che l’Olocausto è un’invenzione degli ebrei. Dopodichè pubblica quattro righe di precisazione, tra le lettere in basso, tre settimane dopo.

Sette feriti a Udine prima di Udinese-Napoli, dieci napoletani fermati. Dopo la partita l’allenatore del Napoli Mazzarri dichiara a tutti: “Era scritto nelle stelle che dovevamo perdere, avremmo meritato di vincere”. Al ritorno, un’altra dozzina di napoletani sono fermati, per devastazioni nelle stazioni di servizio. E Mazzarri?

Quattro pagine untuose di “Repubblica", cinque con la prima, da fedeli devoti, attristati dal lerciume del Vaticano, dal veleno dei cardinali, dai “complotti degni di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia”. Introdotte dal teologo Mancuso, il bello dei talk show, asciutto, freddo, ironico il giusto per incenerire col solo accenno di un ghigno qualsiasi interlocutore. Il papa è un vecchio imbelle, i cardinali si spiano e si mandano i dossier, anche i giornalisti puzzano in Vaticano. Ma non si dice perché. Perché? Mancuso, ancora uno sforzo!
C’è molto di beghinaggio, in questa pagine irrespirabili, di un giornale malgrado tutto sempre laico. È proprio vero che il beghinaggio è lo stesso, in sacrestia e attorno ai roghi?

Giuliano Ferrara, sul “Panorama” del “Complotto D’Addario”, scrive, compassionevole verso D’Alema, che accettare la presidenza del Copasir è “garanzia di sconfitte future nella società di sinistra, che non ama gli inguacchi con il nemico, detesta i servizi segreti....”
Ma alla sinistra restano solo i servizi segreti, le intercettazioni. E D’Alema non ha accettato ma ne ha brigato la presidenza. Dal momento in cui doveva rimediare agli scandali di Bari, di Roma, di Bologna. Perché sottovalutare D’Alema?la

La scomparsa del Sud irridente

Sono storie di furbizia mansueta, comprese quelle cruente. Per l’imprevedibilità mansueta dell’asino - la raccolta s’intitola anche “dell’asino”: lo scarto della fantasia con l’irresponsabilità del folle-giovane. Scoperte e raccolte da Pitré in Sicilia un secolo fa, sono state presto ricoperte. Scomparese con la scomparsa del Sud, con tutto il folklore. Il personaggio, senza età, è presumibilmente giovane, anzi adolescente – sventato come un adolescente: è scomparsa anche l’adolescenza.
Sono storie del Sud, giocate sul paradosso fine a se stesso: l’uomo del Sud è Giufà, irridente e perduto. L'arabismo prevalente nell'accademia siciliana lo vuole arabo, un derivato di un Giuhà protagonista si storielle nel Maghreb. Se non è l'inverso. E' una figura comune nel Mediterraneo: Giufà è Karayozi in greco, Karaguz per i turchi jonici.
Corrao Francesco Maria, Giufà

lunedì 15 febbraio 2010

Firenze e l'accordo D'Alema-Corriere

Che squallore la lettura delle intercettazioni dei carabinieri su Bertolaso e dintorni. Che squallore la lettura delle intercettazioni su un solo giornale, il “Corriere della sera”, a cui evidentemente sono state “vendute”, non sono atti dell’inchiesta, non le hanno “Repubblica”, “La Stampa”, “Il Messaggero”. Che squallore che il “Corriere della sera” titoli “Ecco le carte”, e poi produca paginate di niente, qualsiasi telefonata di de Bortoli con la proprietà del giornale sarebbe più alluring. Giocando di furbizia, grande abilità retorica certo, tra “carte” e “prove”: la carte non sono prove, sono le carte del giudice Lupo, ma chi legge non fa certo il filologo. Carte sovrastate dall’occhiello: “Anche i nomi di Matteoli, Verdini, Pepe e Viceconte nelle telefonate”, e uno finisce per chiedersi: solo quelli? Siamo ridotti a questo. Una uscita non casuale, non dovuta alla fortuna o al fiuto di un reperter, vi è impegnata una squadra, con i migliori cronisti, Bianconi, Sarzanini, un’operazione programmata.
È inomma uno scandalismo da non sottovalutare. La Protezione Civile che sa fare i miracoli e lo stesso Bertolaso ne usciranno, se le carte dopo una settimana sono queste. Ma l’accordo D’Alema-Corriere della sera, patrocinato da Bazoli, che ha già prodotto la D’Addario e ora Francesca-Monica, porterà altri danni. Non scandali veri, come sarebbe opportuno, qualche volta. Si sa che tutti rubano negli appalti, ma si sa anche che nessuno vuole andare a fondo, non D’Alema che sarebbe il primo a rimetterci, lui che aveva fatto di palazzo Chigi una finanziaria. L’etica viene limitata agli schizzi di fango, quanto basta per l’orgasmo dell’uomo della strada. E su questa strada D’Alema può fare molto male: non mandare dentro qualche corrotto, ma impedire al governo di governare, questo sì. Tutto questo è “Milano” e D’Alema ha da tempo riposto ogni ambizione da statista, si accontenta di galleggiare, di servire come non questa Milano dalla quale un anno fa esattamente è stato rimesso in carreggiata.
D’Alema non controlla solo Bari e Firenze, controlla Bologna e Venezia, e soprattutto Napoli. Dove il suo candidato non ha avuto concorrenti, si è semplicemente imposto alla sinsitra per le regionali, mentre la Procura sollecita caricava di avvisi di garanzia i bianchi del Pd, gli ex popolari e gli ex democratici di Prodi-1999. Inoltre è da un anno, da quando Rutelli ha scartato nel Pd, in pectore e poi di fatto a capo dei servizi segreti. “Controlla” cioè i carabinieri. Le indagini non indagini della polizia giudiziaria nel caso Bertolaso non hanno altra spiegazione: è roba da spioni. Chiedere il cognome di “Francesca” per esempio, la data di nascita, la professione. O di “Monica”. Non ci voleva molto, e invece le carte del dottor Lupo non arrivano nemmeno a questo. Sono roba di bassa lega, da servizio scorte, ambìto per gli straordinari, ma per il quale bastano due metri di niente. In grado tuttavia di fare molto male. Così come l'industria delle intercettazioni, che come le scorte non ha da faticare. Di fare male non a Bertolaso naturalmente, povera stella, né a Berlusconi, chi è Berluconi, se poi vince col Milan, ma che il governo non si permetta di governare.

Com'è triste la corruzione a Firenze

Com’è triste Firenze. Di notte buia, muta, desolata. Di giorno tutta una panineria-pizza-al-taglio per i turisti che ancora vi si avventurano. Una città perduta, soprattutto per chi ama la cultura. Niente più musica, in una città a lungo nota per le tante feste e il gusto di cantare, niente più mostre, niente più l’editoria che tra le due guerre vi ha fatto il Novecento italiano. La città, la pietra, sarebbe riposante. Classica, come una delle città antiche quali le vediamo dopo millenni, ma spoglie della vita vissuta, nell’essenzialità dell’architettura. E oggi con sempre maggiore difficoltà. Sono ricordi sbiaditi non solo le feste della primavera tradizionali ma, di appena ieri, il Maggio musicale, il Festival dei popoli, le mostre dei Medici, che aprirono tre dei maggiori filoni dell’industria culturale. E le Cascine, un parco storico, un parco bello, l’unico della città – si può distruggere un parco oggi? a Firenze sì. O la Biblioteca Nazionale, che nel 1966 mosse e commosse i giovani di tutta Europa e ora è una specie di hangar semi-abbandonato.
Era molte cose di molta qualità. La capitale dell’editoria e delle lettere. Dell’architettura anche. La scuola del restauro. Un centro fertile della musica. Il riferimento del Terzo mondo. La capitale dell’artigianato, che il senatore Fanfani alla Costituente giustamente magnificava come made in Italy anticipato. Da ultimo anche la grande moda all’uso francese, e perfino la moda pronta, Germana Marucelli, Roberto Capucci, Emilio Pucci, i Gucci. Non è più niente. Turisti scappa e fuggi. Vecchi e inospitali alberghi e pensioni, nessuno più ci risiede, ambisce risiedervi, come ancora pochi anni fa tutti gli artisti, scrittori e ricconi dell’Europa e delle Americhe ambivano. Non si fanno più sudi, convegni, manifestazioni culturali. Se non – rare: il pubblico è ridotto - presso le università americane che vi hanno sede distaccata. 
Una città sovietica, anche ora che il sovietismo è morto da un ventennio. Una città dell’Est, Lipsia, Dresda, prima del disgelo. Uscendo la sera da casa, dall’albergo, s’incontrano in questa città soltanto tenebre. Non è la notte urbana, rischiarata dalle luci delle insegne, dai visi ilari delle persone, ma un’ombra fredda, un cielo crudele, cupo. Il passo rimbomba pauroso, per via Cavour, per piazza della Signoria, via Cerretani, piazza della Repubblica, dopo avere attraversato il Duomo come un paesaggio ostile, guardandosi alle spalle. È l’unica città italiana con la popolazione in calo, di quasi un quarto negli ultimi venti anni. È la città con l’età media più alta della popolazione, dopo Trieste e Venezia.
Firenze non ha mai avuto buona stampa con i fiorentini colti. Basti citare l'“Almanacco purgativo 1914”, compilato da Papini e Soffici coi lacerbiani e i futuristi per l’esposizione di pittura Futurista a Firenze dal novembre 1913 al gennaio 1914: “È Firenze quella cosa\ dove tutto sa di muffa\ tutto vive sulla truffa,\ “Movimento forestier”. Si vuole fiorentino lo spiritaccio. Ma anche quello è sparito, insieme con gli spiriti colti, che ancora pochi decenni fa facevano la lingua e la letteratura italiana, forti della convivialità, dei punti di incontro letterari giustamente famosi e anzi mitici, e delle case editrici dal fiuto fine. Ma non ci sono più gli editori, e nemmeno i caffè. 
“La questione è se la città esista ancora se non come chimera”, notava lo svedese Hallberg al tempo del Mondiale 1990 – ricordando perfido che Goethe la lasciò dopo tre ore, “segno di uno stupefacente intuito storico”. Ha ancora i colleges delle università americane. Ne ha perfino un gran numero, trentotto, ma giusto perché gli affitti costano poco. Con queste istituzioni, con i giovani che le frequentano, e con i loro tutor, la città non riesce peraltro ad avere alcun dialogo, muta e sorda. Li accetta perché ci vengono, ma non sa che farsene. Salvo celebrare il passato granducale, quando c’erano gli anglofiorentini, quelli sì ricchi e nobili e colti. Insomma, la memoria dei vecchi, selettiva e inutile. Ha ancora i nomi celebri ma sono facciate – come un tempo all’Est si ricostruivano le città con la cartapesta colorata: brand di interessi remoti. Gucci, Pucci, Pineider, Manetti & Robert’s, Richard Ginori, Bertolli, Carapelli, lo stesso Chianti “supertuscan” e la Fondiaria. La popolazione di più antica democrazia è ridotta alla barzelletta di se stessa, cullata nell’idea di sfottere il mondo. Mentre è tenuta senz’aria, ai margini. Senza idee, senza progetto, senza più orgoglio in realtà.
La città ha perduto, con gli stranieri colti, anche le attività tradizionali, le vigne, gli olivi la finanza, la moda (tessile, pelletteria, paglia, bigiotteria), l’arredamento, gli studi, e non se ne è dati di nuovi, è solo un cimitero di dipendenti pubblici. Il centro urbano, che a Firenze è in realtà la città, è abbandonato anch’esso. Le librerie storiche hanno chiuso per inattività, prima che per la speculazione sui suoli, Seeber e Marzocco. E le moderne sono prossime a chiudere, Martelli e Edison – perfino Feltrinelli a Firenze non si trova bene, che nella città aveva sperimentato favorevolmente cinquant’anni fa la sua rivoluzione, i libri a portata del lettore. I residenti sono pochi e sparsi. In alcune parti il centro urbano è perfino degradato, stabilmente, dai fatidici quarant'anni. Parti anche monumentali: su tutte la piazza Santa Maria Novella, luogo a lungo dello spaccio libero cittadino di ogni tipo di droga, e l’area intorno, tra la Stazione e via Tornabuoni, la strada delle boutiques, col borgo Ognissanti, parte nevralgica della geografia mentale dei fiorentini, e la piazza Santa Croce, nuovo centro dello spaccio libero, la piazza antistante la basilica delle memorie nazionali.
Non ci sono cinema, più, in città, non ci sono più teatri - perfino La Pergola, teatro storico, è minacciato di chiusura. I prezzi sono depressi, fuori dalla aree turistiche: ipermercati e supermercati attorno a Firenze praticano i prezzi più bassi di tutt’Italia, estremo Sud compreso. C’è una moltiplicazione abnorme di piccoli e piccolissimi esercizi commerciali. Molti scrostati, ingialliti, invecchiati, per una redditività evidentemente insufficiente. Mentre non ci sono più i negozi con una qualità e una storia, della casa, l’arredamento, l’abbigliamento, le posaterie, le porcellane e le ceramiche. Da tempo aveva perso, già negli anni 1960, l’arte contemporanea, ora non ha quasi più antiquari, che per oltre un secolo ne hanno costituito l’ossatura e il richiamo di un turismo facoltoso. Non ha più gli anglo-fiorentini ricchi di un tempo, naturalmente. Nessuna innovazione urbanistica, architettonica, di servizio più da molti anni, in questa città dell’architettura, se non distruttiva. Nessun investimento. Firenze ha semplicemente perduto la moda e il design, quando sono diventati business, senza nemmeno tentare una resistenza, un rilancio.
Capitale di una regione, peraltro, che da gentile è diventata arcigna, sotto la stessa bandiera culturale e politica, la politica degli affari. Con una banca plurisecolare, il Monte dei Paschi di Siena, portata rapidamente dalla politica affaristica al quasi fallimento. Dopo la secolare Fondiaria a Firenze. Con una fiscalità indiretta da levare il respiro. Specie per i forestieri, multati e tartassati con protervia. Sempre per la fame di denaro dei celebrati enti locali. Anche con semafori taroccati e falsi autovelox, camuffati, abusivi a pochi metri da repentine riduzioni della velocità, le nuove specialità toscane. Dove le celebrate gallerie, accademie e istituzioni museali non aprono la sera, e nemmeno i giorni di festa, per la tutela che si vorrebbe del sindacato. E gli ospedali respingono i non residenti peggio che nella esecrata America - prima di Obama. Perfino morire non conviene a Firenze, le incinerazioni dei non residenti sono tassate.
La città monumentale, che è nei sogni di tutti gli italiani e di mezzo mondo, è stata ridotta a un’isola pedonale enorme, che ha portato alla chiusura dell’artigianato, a un terziario dubbio, e a un’impressione indelebile di sporcizia. Il turista vi è portato infatti al disordine e all’irrispetto. Scrive sui muri dell'Accademia e dei portici degli Uffizi nelle lunghe code, si stravacca su ogni superficie piana a pancia in genere nuda, sporca ogni zoccolo o scalinata di marmo o pietra serena di coca-cola e pizza unta. Il netturbino non fa in tempo a passare col suo carretto che la piazza tra il Duomo e il Battistero è di nuovo ingombra. Il commercio ambulante di collanine, cotonine e “false” borse è invasivo, non un metro quadro è lasciato libero. In gestione ai nordafricani, insieme con alimentari e macellerie, in attesa che arrivino i cinesi?, senza più carattere. In un quadro che si vuole d’indulgenza e libertà per tutti ed è invece di piccola, micragnosa, corruzione. Se uno prova a immaginarsi i mercati africani quando arrivavano i coloni coi vetri e le cotonine, questo è ora, a parti rovesciate, Firenze.
Un giro del famoso mercatino di San Lorenzo, il prototipo di questa grande invenzione italiana, leva il respiro per la mediocrità dei prodotti. Di questo ch’era il mercato popolare della moda, subito adattata nei colori, i materiali, le forme. Tenuto ora dai soliti nordafricani senza carattere, con merci presumibilmente cinesi di Prato. A profitto, certo, degli immobiliaristi dei piani terra e seminterrati, di chi ha comprato a prezzo vile. Ma in un disegno generale di depressione imposta. Il cui quadro sono le cronache cittadine, le cronache dei giornali, dove c’è il vuoto. Nulla, a parte la Fiorentina, la squadra di calcio, e la cronica questione Isozaki-porta degli Uffizi, o l’archivio Zeffirelli. Potrebbero essere i giornali di una città fantasma.
È una città che non ha un’anima. Non ha gioventù. Non ha un ruolo né un’idea: si è eletto il sindaco più giovane d’Italia, che però non sa altro che interpretare il suo ruolo. In continuazione viaggia come ambasciatore di un nome glorioso, a cui nessuno rifiuta un’udienza, sia pure fuggevole. Per tenersi forse lontano dagli affari che scottano: non è facile per un democristiano recuperarne la gestione dopo quarant'anni di sovietismo, seppure mascherato. Mentre le strade sembrano bombardate, da tanto non si rifanno. I conti lasciando aggravarsi in meno di un anno di una sessantina di milioni.
Perfino gli Uffizi si visitano sempre meno, in proporzione ai turisti che girano l’Italia. Se non fosse anzi per le scolaresche, che hanno l’obbligo di visitarla, la superba Galleria sarebbe tra le meno frequentate d'Italia. La città non ha più cucina: ha i ristoranti con le stelle ma non ha più la cucina che ne faceva l’eccellenza in tutta Italia fino a quarant’anni fa, anche trenta - non ci sono più i grandi ristoranti fiorentini alla moda a Roma, a Milano. E il centro ha ristrutturato per i grandi interessi, pochi solitari milionari. Pur votando al 50 e passa per cento l’ex Pci, da quasi quarant’anni, pronubo Fabiani, il sindaco della riconciliazione nel dopoguerra - all'insegna, è vero, del Grande Silenzio. E non smette, malgrado tutto: ha tentato di scrollarselo di dosso votando Renzi un anno fa, come un tempo votava La Pira, ma senza effetto. E questa è la ragione dello squallore, la principale e anche l’unica. Corredata, certo, da una corruzione da far accapponare la pelle, anche per gli standard italiani.
Corruzione
Una città che non tassa solo il respiro. Senza che si sappia dove i soldi vadano. O meglio si sa, ma non si dice: in una burocrazia pletorica, quasi tutta incompetente, per il quaranta per cento assenteista. Due impiegati su cinque sono pagati per non andare. Si assumono spudoratamente le figlie e le amanti. Basta passare sempre dal Partito. In nessun’altra città la pratica, ogni pratica, è un giro dell’oca come a Firenze. Di rapido ci sono, al Comune e alla Regione, solo le pratiche edilizie. Fatte dove si deve, al Partito, come si deve. Nella città forse più regolamentata al mondo, dove vi contestano pure l’ombra di verde alla persiana, c’è un catalogo dei verdi alle persiane, si può costruire impunemente dove e come si vuole. Si costruisce ovunque, anche tagliando le colline. Anche tagliando le Cascine. E comunemente triplicando le volumetrie, cambiando a piacimento le destinazioni d’uso. Quante ville non sono diventate condomini o residences (Rta) o multiproprietà, con estensioni di garages, cantine, soffitte.
Sotto l’ala di una Procura della Repubblica, quella del mostro di Firenze, che non smette di stupire. Terribilista con chi non c’entra. Tanto quanto è accomodante con gli amici dei compagni. Per troppi casi ormai giudicati, in cui chi doveva non è stato perseguito e il suo nemico sì. La Procura di Firenze controlla tutti i telefoni e poi colpevolizza chi vuole. In una regione dove non si costruisce solo sulla Torre Pendente, per la statica che non lo consente. Neanche sul campanile di Giotto, è vero. Ma san Domenico si, il posto del Beato Angelico: la collina da millenni immutata si può sventrare per un complesso sanitario alberghiero in verticale della ditta Bigazzi-Reali, sanità privata umbra e industria della paglia di prato, establishment laico, ex repubblico-comunista, concordato col sindaco compagno Domenici e non discusso dal sindaco amico Renzi, le vie del popolare sono lastricate di peccati, miliardi di metri cubi, senza comprendere la aree di servizio.
L’ordine impera a Firenze, incluso per i fratelli veri e anticomunisti, si pensi a Denis Verdini, città a ferreo controllo laico e massonico, perché “loro fanno”. Quando si è raggiunto l’accordo in federazione si è certi che non ci sarà giornale o giudice che ficchi il naso negli affari. Tagliare le Cascine con un’autostrada urbana, spaventosa di fumi e di rumori, o costruire intensivamente Bellosguardo, San Domenico, Trespiano, che ovunque in Italia, e anche in Africa, sarebbe ritenuto indecente e anzi illegale, in aree così iperprotette, a Firenze si può. Con tutti i crismi, di commissioni ambiente, autorità di controllo, assessorati, e anzi con rapidità, basta essere passati prima alla sede del Partito. A fini sociali certo, è ingiusto che Bellosguardo e San Domenico possano abitarli solo i ricchi – a Bellosguardo, per esempio, l’affitto nei palazzoni sarà calmierato, per quattro anni….
Si può dire Firenze la città politicamente più conformista d’Italia. Non solo al voto, sempre plebiscitario per il Partito signore della città, ma nell’organizzazione della cultura e nell’opinione. Si leggono "la Nazione", il “Corriere fiorentino” e “Repubblica Firenze” con la morte nel cuore: la società civile fiorentina, che si rappresenta nei suoi grandi quotidiani, è borghese fino all’estenuazione, di frasi fatte e stereotipi. A Firenze due elettori su tre votano “pe’ Ippartito”, non ci sono paragoni possibili di conformità – forse la mitica Bulgaria. Si porta ora Firenze a modello per la sanità, come quaranta o cinquant'anni fa si portava Bologna a modello per la gestione sociale e del territorio. Ma sono residui del vecchio linguaggio sovietico, i modelli sono roba da Comintern.
La verità è che Firenze è, dopo Bologna, la città italiana peggio governata, basta uscire dalle rispettive stazioni: le squadre di calcio fallite, in entrambe le città, che solo imprenditori e avventurieri forestieri tengono in vita, a Bologna anche il basket, reddito medio stagnante, cioè in forte calo in termini reali, ruolo di attrazione azzerato, perfino rispetto alle province di appartenenza. Firenze si governa con troppe tasse (comunali, provinciali, rionali, tarsu o tia, acqua, tariffe da cravattari sull’occupazione del suolo per ristrutturazioni, traslochi, parcheggi) strutturate contro l’universo dei cittadini, e quindi contro i meno abbienti. Con servizi non molto migliori rispetto a Enna o Reggio Calabria. Ma con la pretesa di essere una sorta di capitale morale della sinistra, coi no global , i writers e gli ambulanti. Come se la corruzione fosse connaturata alla sinistra, a certa sinistra. on le squadre di calcio fallite, in entrambe le città, che solo imprenditori e avventurieri forestieri tengono in vita, a Bologna anche il basket, reddito medio stagnante, cioè in forte calo in termini reali, e ruolo di attrazione azzerato, perfino rispetto alle province di appartenenza.
Il Comune, in questa città che potrebbe essere ricchissima, e malgrado tassi pure l'aria, ha un debito di seicento milioni. Che copre per un terzo con gli swap, la “finanza creativa” che ha creato la crisi mondiale. Alla quale non paga gli interessi. Prontamente sostenuto dalla Procura di Quattrocchi, che sequestra gli attivi delle banche creditrici e ne minaccia di arresto i dirigenti. Motivo? Estorsione, la giunta Renzi non riconoscendo i debiti della giunta Domenici. Sembra fantacronaca, i Democratici bianchi contro i Democratici Rossi. Ma è quello che avviene. Con Quattrocchi, il Procuratore Capo, che rifà genialmente “l’Unità” - accusare le banche di estorsione è geniale, non c’è che dire, anche se da briganti.
Una corruzione “normale”, di cui si è sempre saputo in città: tutti gli affari, che a Firenze sono immobiliari, e gli appalti, si sono fatti per mezzo secolo alla federazione locale del Pci, sopravvissuta a tutt’e quattro le trasformazioni del partito. Ben condotta, “equamente divisa” direbbe Stendhal, al punto che la destra ha sempre rinunciato a candidarvi personaggi che potessero dare disturbo. Ma “è di sinistra”, si chiede un epigramma di Arbasino, “prendere i soldi buoni dei turisti stranieri offrendo servizi di merda tanto loro sono coglioni e noi furbi, soprattutto a Firenze”? Si fanno cadere, e si fanno, sindaci e amministratori su singoli progetti immobiliari, come quello di Castello, e questo è l'unico argomento politico in città.
L’ex Fiat, Novoli e Sesto, e ora Castello: Tangentopoli ha devastato Firenze, lasciando all’ex Pci una posizione di potere imbattibile, già al tempo dei sindaci laici o socialisti, ma con la distruzione della città. Incatenata la pubblica attenzione su Isozaki, se fare o no la tettoietta sull’entrata secondaria degli Uffizi disegnata dall’architetto giapponese, se ne discute da un quarto di secolo, si è fatto intanto scempio delle Cascine a Porta al Prato, con la scusa di un multimilionario e non finito sottopasso per evitare un semaforo sull’Arno - il parco ne è ora l’area di rispetto. E si è trasferita l’università, roba da centinaia di milioni, di tangenti. Tutta l’università, che costituiva l’anima di Firenze, un centro d’attrazione sul resto d’Italia, con le punte d’eccellenza di Lettere, Architettura, Scienze Politiche, è stata ributtata in periferia, per nobilitare zone di nessuno a scopo speculativo. L’area scientifica a Firenze Nord senza riscaldamento. L’area umanistica a Novoli, nel deserto umano.
Un caso fra i tanti, quello delle Cascine. Si pubblicano foto eloquenti del degrado del parco, ma senza sottolineare il fatto. Anzi annunciandone l’ingrandimento, l’abbellimento, la valorizzazione. E questo significa che l’opinione, dopo un regime di quarant’anni, è insensibile. In nessun’altra città si potrebbe devastare impunemente un parco pubblico, tanto meno un parco con tanta storia, tanto potere evocativo. Il parco pubblico probabilmente più antico, prima ancora della villa Borghese a Roma, della Favorita a Palermo. O il caso del polo scientifico dell'università. A Firenze Nord una delle avventure immobiliari che fanno la corona della città è contro le regole, e non può essere messa sul mercato. Rileva l’immobiliare il Comune, una quindicina d’anni fa, per venti miliardi, e ci trasferisce le facoltà di Scienze. Ma tutto l’interno va rifatto, i corridoi, gli accessi, le prese di corrente, gli scarichi. Senza contare due ore di pendolarismo ogni giorno per chi ci lavora, via autostrada Firenze Certosa-Firenze Nord, sempre intasata. Senza parlare dello scomodo per gli studenti: le comunicazioni della provincia sono su Firenze e non questa (ex) campagna. Ma niente. Senza contare la desertificazione della cultura – Firenze è ora una piccola università locale. E lo squallore della città abbandonata.
Con l’università sono andati nelle aree della speculazione anche gli uffici amministrativi e giudiziari. Non tutti, per i restanti il partito Democratico e lo stesso sindaco Renzi, prontamente allineato agli interessi dei "traslocatori", sta trovando qualche resistenza in consiglio comunale, anche al suo interno. Ma il trasloco è già sufficiente ad avere la città mattina e pomeriggio nell’ingorgo, in questi nuovi centri di periferia. Anche entrare e uscire dall’autostrada è un problema a Firenze. E uesto è tutto il progetto: affidare la città ai Nuovi Interessi immobiliari.
Modello Toscana
Tutto questo in un singolare silenzio. La città è governata da una mano occulta, si dice. E non può che essere così, il “silenzio degli innocenti” deve avere qualche padre, o gestore. Non si spiega altrimenti che per una linea del tram siano stati spesi più soldi che per le case dell’Aquila senza che nessun apparato giudiziario abbia mai indagato, nemmeno una piccola intercettazione. Del resto non è stato indagato nemmeno il “mostro di Firenze”, se non per ridere, una ventina di assassinii sono stati lasciati impuniti. Senza reazioni, bisogna dire, della città. Che guarda ammutolita, come drogata.
Un ammutolimento garantito peraltro dai giornali, che quando c’è la pista giusta la occultano. Un paio di mesi fa l’arresto dell’ex capogruppo in Comune del partito Democratico, un diessino, a capo della “cupola del cemento”, ha meritato non più di una notiziola Ansa, un giorno solo. È anche vero che il capo cupola era stato indagato e denunciato dalla Stradale. Dalla polizia Stradale. Non ci sono carabinieri in questa città, non ci sono giudici, non ci sono nemmeno giornali, giusto della Fiorentina si può parlare, e di Isozaki. Qualsiasi ufficiale dei Carabinieri sa la verità, ma alla Giustizia non interessa. Neppure all’Arma, bisogna dire, la “cupola” a Firenze è vastissima, gratificante, sicura. È l’unica Firenze residua, città di cupole, un mostro.
Non si può dire del resto Firenze un caso mostruoso isolato: è il modello Toscana. Una regione ombrosa, che al coperto del vecchio repubblico-comunismo sta sperperando il capitale accumulato con i Lorena. Svuotata di ogni contenuto, l’industria tessile, meccanica, conserviera, l’artigianato, immenso serbatoio di occupazione e creatività. E i vini ha senza sapore, lolio doliva adulterato più spesso che non, da march insigni svenduti a multinazionali rotte a tutto. Un modello, un nome, che ancora vende, ma sempre più sfiorito, perché la base non c’è più, da Prato al Chianti. Imbruttita dai sordi interessi locali, a Firenze, Arezzo, Pisa, Siena. Di cui non si parla, anche se a Siena si producono da un decennio lotte al coltello tra fratelli compagni, all’università, al Comune e al Monte dei Paschi, in banca e alla fondazione - tra nemici personali? tra opposte logge? Tra echi quotidiani di taglieggiamenti, soprattutto sulle strade, con autovelox occultati, dietro sbalzi improvvisati dei limiti di velocità, autovelox falsati, nella taratura, nell’angolazione, semafori intelligenti col trucco.
È questa la specialità in particolare dell’Aurelia in provincia di Grosseto e della Firenze-Siena. E spiega tutta l’opposizione toscana alle autostrade: i Comuni vogliono garantirsi il loro milione extra, ognuno, di entrate annue, a spese del viandante, come ha sempre usato dal tempo dei banditi di strada. La Maremma è specialmente amara per chi ci deve viaggiare, di destra (il comune di Orbetello) e di sinistra (Magliano, Grosseto et al.). Ma tutta la Toscana, luogo di passo obbligato Nord-Sud, lungo la Bologna-Firenze-Roma e l’Aurelia, nonché la Firenze-Siena e la Firenze-Mare, è una serie di trappole, senza vergogna, per estorcere denaro agli automobilisti. Al coperto cella sicurezza della circolazione, che invece ne viene minacciata – a quanti sorpassi azzardati non costringe la virtuosa Toscana.
Il modello Toscana è la più rigida regolamentazione accompagnata dalle peggiori brutture. Asor Rosa è riuscito a fermare la lottizzazione di Montalcino (ma non del tutto). Ma non quelle del litorale apuano, altrimenti detto Versilia. Che ora ha, da Bocca di Magra, alla frontiera con la Liguria, a Marina di Pisa, fiumi e fiumetti sporchi oltre ogni limite, acque putride la gran parte dell’anno (con la Bandiera Blu: anche Lega Ambiente fa parte del sistema?), e spiagge già profondissime sempre più ristrette. La patria del commercio ambulante illegale e della prostituzione “nigeriana”, con coca, sempre ben protetta, ormai da un trentennio, da Livorno a Massa Carrara. Ma tutta la costa si vede in più punti derelitta, esclusi i luoghi del turismo di lusso, che si proteggono da soli (Forte dei Marmi, Punta Ala, Ansedonia).
Quarant’anni di berlinguerismo hanno desolato molte città, Bologna e Firenze in testa. Con le tasse e la speculazione. Ma Firenze supera ogni immaginazione. Era “città senza alberi” già al tempo dei racconti italiani di Margherite Duras, negli anni 1950. Ma è stata anche all’avanguardia nella “sanitazione”: la prima isola pedonale, la prima Ztl. E ha ora il record della tossicità dell’aria. L'unico progetto di viabilità all'interno della città è un anello a scorrimento continuo e privilegiato, che c'è solo a Bursa, in Turchia, ed è infernale.
L’Arpat Toscana vi è singolarmente incapace, l’agenzia per l’ambiente. Buona a imboscare il partito degli Intelligenti, ingegneri e architetti, che maturano stipendio e pensione mentre trattano gli affari propri. Hanno autorizzato Monticchiello, ma se sposti un sasso in giardino senza prima essere passato dalla Federazione, un sasso vero, non un muro, sono capaci di risalire ai regolamenti del granduca, anzi degli etruschi, per multarti e perseguitarti. Sono tanto assenti quanto inflessibili, su indicazione del federale locale del partito.
Fine regno
La cronache del fine regno ex Pci sarebbero esilaranti, una macchietta del sovietismo, non fossero anche drammatiche. Tre anni fa la città si segnalava per il Cioni. L’assessore Cioni, che aveva decretato l’arresto dei lavavetri al semaforo. O dei mendicanti, che voleva chiedessero l'elemosina stando in piedi sul marciapiedi e non sdraiati. Un personaggio venuto fuori da una novella del Fucini, rustico, incapace al di là di ogni immaginazione, che però gestiva l'urbanistica, la “messa in valore” della aree e i grandi lavori. Nell’impunità totale. “Seguo la lezione di Lenin “, disse qualche settimana dopo l'arresto dei lavavetri a “Repubblica” il sindaco della città, il bello Domenici - una lezione subito seguita peraltro da Cofferati a Bologna, lo stesso che dieci anni prima aveva sberleffato e affossato una proposta ben più sensata del sindaco di Milano, che “togliamoli dalla strada”, diceva, “diamo loro un minimo di mestiere e se possibile anche un’attività”, si vede che il leninismo è proprio una questione di lavavetri.
Il Cioni, dunque, come comodo punching-ball, un altro Isozaki. Ma un anno dopo qualcosa si muoveva nel pur copertissimo vaso di Pandora della corruzione. E tuttavia le cronache locali celebravano Domenici come il miglior sindaco che Firenze avesse avuto, il più amato. Il più amato anzi tra tutti i sindaci di Toscana. Anzi tra tutti i sindaci d’Italia. A prova di sondaggio. Azionato dal Cioni. Che si penserebbe a questo punto personaggio scanzonato. Se non che bisognerebbe chiedersi perché i fiorentini, che sono tanti Cioni scanzonati, avessero paura, perché si facessero prendere per i fondelli senza reagire. Domenici più popolare di Veltroni, che era pure un’eresia, allora, nel partito Democratico.
Sei mesi dopo, Domenici è minacciato d’indagine. Proprio lui, il bello-e-onesto. E allora protesta, creduto. Va a Roma e s’incatena davanti a “Repubblica”. Poi torna a Firenze e chiede all’assessore “cosa si sta facendo” al Castello. Al Cioni. Castello è la lottizzazione del futuro di questa Firenze, ma il sindaco dice di non sapere. È l’unico, ma gli inquirenti gli credono. L’operazione Castello è l’ultima delle grandi lottizzazioni portata in dote a Ligresti da Fondiaria, e dalla borghesia ricca fiorentina che stava dietro Fondiaria. Un'area più grande di Novoli, ma Domenici poteva non sapere per la Procura fiorentina. La stessa che dopo due anni d’intercettazioni, non avendo ancora trovato la puttana di Bertolaso, comunque lo sputtana. Forse non tutto è perduto, per la corruzione, a Firenze - è un oceano troppo grande.
Che fare? In città non si può fare niente, l'inerzia del giovane Renzi è eloquente. Non resta forse che “nazionalizzare” la città, se è un bene dell'umanità, prima che sia troppo tardi: tra un po' ne piangeremo la scomparsa.

domenica 14 febbraio 2010

La Calabria non è Svizzera

È il racconto di una vacanza mal riuscita dalla Svizzera alla costa jonica della Calabria, tra Gioiosa e Roccella. Di un autore pubblicato in Italia solo dalla Compagnia San Paolo. Mediata da una calabrese interprete a Ginevra, ma in cui nulla corrisponde alle attese: il luogo, l’abitazione, il tratto delle persone. “La bellezza di ogni cosa, e in particolare della natura, non è possibile che attraverso l’uomo riconciliato”, conclude lo scrittore con l' understatement con cui narra l’aneddoto (prima di avventurarsi in un’appendice sul panino dal droghiere che da solo merita la lettura).
È un racconto degli anni 1970, quando la decostruzione si rivoltava contro la stessa antropologia - gli assiomi allora di legge quali “sono cattivo perché sono povero” e “sono povero e quindi bello”. Ma sa delineare, senza imporsi al lettore, un doppio sdoppiamento: dell’interprete sradicata, svizzera in Svizzera, calabrese in Calabria, e della resistenza delle cose alla memoria e ai progetti. O della mancanza di scorciatoie alla modernità.
George Haldas, La maison en Calabre

La verità è sempre un'altra

È un “altro” Dickens. “Edwin Drood” è un “altro” racconto di Natale. È un repertorio dei segreti (le procedure) dei grandi detective. Modesto, perché le procedure sono modeste, modesti congegni, e ripetitivi: il detective è un archetipo, semplice sotto l’apparente mistero, e ripetitivo.
È un giallo di gialli. Il ritorno della narrazione come gioco, inventiva, sorpresa. Senza la cogenza (coerenza) logica. Il “gioco” di F&L è di dimostrare che i più celebrati metodi investigativi, Poirot, Maigret, Sherlock Holmes, Nero Wlfe, Marlowe, avrebbero condotto a un errore giudiziario.
Fruttero e Lucentini, La verità sul caso D.