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sabato 5 marzo 2022

Ombre - 694

Si buttano giù in Borsa le banche italiane, a botte del 10 e 15 per cento Unicredit e Intesa, del 5 e 6 per cento Bper, come se le sanzioni anti-russe le mandassero in rovina. Le banche italiane più di quelle russe? Mentre il danno non può essere rilevante nella peggiore delle ipotesi, ancora non c’è, e se prende piede la tregua potrebbe non esserci. E si sa che sono mani pesanti, di grandi fondi che giocano al ribasso le banche italiane. Che guerra è questa? Perché non viene denunciata?

 

Quando si farà la tregua scopriremo le grandi banche italiane nelle mani di chi? A prezzo infimo? Perché la Consob è come se non ci fosse, a fronte di sciortaggi di tale portata? Troppe le disattenzioni in questa guerra, la superficialità (stupidità) non basta – non spiega tutto.


Si presenta l’incontro ieri fra il presidente finlandese Niinisto e Biden alla Casa Bianca come una richiesta urgente della Finlandia di entrare nella Nato. Mentre la Finlandia, come la Svezia, ha fatto di tutto a suo tempo per non entrarci. Non è disinformacija, probabilmente (o l’Ansa la scrive l’Aise?), e non è fake-news: è proprio sciatteria. Ignoranza. Questa guerra certifica la fine dell’opinione pubblica.

 

Fa Crozza - solo Crozza non i media, malgrado le decine di pagine e di ore ogni giorno sulla guerra - una panoramica dei grandi mallevadori di Putin: Salvini, Berlusconi, Grillo, Meloni. Errare humanum est. Ma tutti insieme, per fare piacere al comico?

 

Sono scomparse, con la guerra, le decine di pagine ogni giorno e di ore sul covid. Che non è scomparso, non può, il virus non ha paura della guerra. È “scomparso” nel senso che non se ne parla più.

 

Niente più virologi terrificanti in tv, ora ci sono i generali. All’improvviso, primavera precoce, ce n’è stata una fioritura. Di ogni specie, arma, età, esperienza: basta la parola, generale suona anche meglio di virologo.


Non ci sono gli idrocarburi nelle sanzioni, la Russia può, deve, esportare petrolio (Lukoil) e gas (Gazprom) - il presidente Biden, richiesto espressamente, lo ha specificato. Ne è sanzionata la banca attraverso cui si pagano. I soli Stati Uniti importano 700 mila barili al giorno di petrolio russo, 35 milioni di tonnellate annue.

 

Di Giacomo ha ascoltato i dvd (52, cinquantadue) in cui monsignor Perlasca accusa il cardinale (ex) Becciu, che il presidente del tribunale vaticano, il Gande Accusatore Pignatone, rifiuta alla difesa dell’imputato, già condannato dal papa Francesco, e li trova pieni di scemenze. La “prova inconfutabile” sarebbe nella mancata querela di Becciu contro Crozza e la sua satira. È la giustizia divina?

 

“la Repubblica” fa l’elenco giovedì, con fotina, di chi e come ha commentato la guerra senza proclamarsi ucrainista per principio.  Non per una migliore intelligenza della guerra, l’analisi dei motivi e dei possibili sviluppi. Come berlina – dei giornalisti, bollati filorussi”, compreso l’ambasciatore Romano, il solo forse in Italia che conosce i due paesi e i relativi problemi. Non si danno gli argomenti, giusto i nomi.

 

“Basta guardare la carta geografica per capire che, negli ultimi trenta anni, chi si è allargato non è stato la Russia ma la Nato”. Eresia! Il corrispondente della Rai da Mosca, Marc Innaro, è per questo bollato d’infamia alla Commissione Vigilanza Rai, su iniziativa del Pd. Sempre più partito Democristiano – furbo, opportunista.

 

Zelensky fine teatrante (sa come far giocare i video), profeta disarmato, l’uomo solo che è un paese, primula rossa, ebreo. La partecipazione al lutto dell’Ucraina non sa che inventarsi del presidente eletto. Ma dagli oligarchi anti-Poroshenko, oligarca uscente. Che invece non si citano.

 

Troppi articoli, fino a venti pagine al giorno, del tipo social, a commento di foto instagram, superficiali, immagini di studio, curate, truccate, sulla guerra. La guerra è brutta, e la politica va letta. Ma non c’è più intelligenza delle cose, solo sbandate sentimentali. Una truffa comunicativa.

 

Un oligarca ucraino lo chiama a Londra, l’oligarca russo Abramovich si dice disponibile, i due oligarchi trattano la pace. È l’unica verità, forse, della guerra: l’Ucraina è di fatto in mano ai boiardi, la Russia forse (purtroppo?) no.

Desiderio di Neutro

Alla prima lezione, il 18 febbraio 1978, “La benevolenza”, benevolentia, è esemplificata con l’italiano: “Ti voglio bene”, “Stammi bene”. E con la citazione della poesia di Pasolini “Una vitalità disperata”. La composizione, dalla raccolta “Poesia in forma di rosa”, è ripresa, detta per intero, alla terza lezione, il 4 marzo, sulla delicatezza. E in chiusura del 18 marzo, “il neutro come scandalo” – a seguire alle “Immagini dispregiative” del Neutro (ingrato, sfuggente, felpato, flaccido, indifferente, vile). A metà della terza lezione – segue “La Collera” – la cosa è detta: cinquant’anni fa, poco meno, Roland Barthes anticipava la culminazione della sarabanda dei generi, lgbtqia+, nello schwa, trasferito dalla linguistica all’indistinzione sessuale.   
“Definisco il Neutro”, esordisce Barthes, come ciò che elude il paradigma. Paradigma, in Saussure, essendo “la molla del senso: là dove c’è senso c’è paradigma, e là dove c’è paradigma (opposizione) c’è senso”. Una cosa è o non è, e non può essere l’opposto: “Il senso riposa sul conflitto (la preferenza di un termine contro un altro) e ogni conflitto è generatore di senso”. Spiegazione che, retore fuori norma, Barthes conclude quasi derisorio: “Votarsi al senso”, “produrre senso”, “scegliere l’uno e respingere l’altro”, è “produrre senso, darlo da consumare”. Due termini allora, e ancora, negativi: produrre e consumare.
Contro il binarismo soccorre il neutro – il Neutro. In due forme: indicando l’uno e l’altro (ermafrodito è “maschio” e “femmina”), escludendo l’uno e l’altro (“angelo” non è né “maschio” né “femmina”). Fin qui l’anamnesi. Il programma è esplicito: “Ci prenderemo il diritto di parlare di ogni stato, di ogni condotta, di ogni affetto, di ogni discorso… che riguarda il conflitto, o la sua rimozione, la sua sottrazione, la sua sospensione”. Il “conflitto” dunque, Neutro non è genere anodino. Con tre possibilità, tre “discorsi” nuovi, contro uno. In spirito battagliero. “Il Neutro non rinvia a ‘impressioni’ di grigiore, di ‘neutralità’, d’indifferenza. Il Neutro – il mio Neutro – può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. ‘Eludere il paradigma’ è un’attività ardente, che brucia”.
Contro il binarismo soccorre il neutro – il Neutro. In due forme: indicando l’uno e l’altro (ermafrodito è “maschio” e “femmina”), escludendo l’uno e l’altro (“angelo” non è né “maschio” né “femmina”). Fin qui l’anamnesi. Il programma è esplicito: “Ci prenderemo il diritto di parlare di ogni stato, di ogni condotta, di ogni affetto, di ogni discorso… che riguarda il conflitto, o la sua rimozione, la sua sottrazione, la sua sospensione”. Il “conflitto” dunque, Neutro non è genere anodino. Con tre possibilità, tre “discorsi” nuovi, contro uno. In spirito battagliero. “Il Neutro non rinvia a ‘impressioni’ di grigiore, di ‘neutralità’, d’indifferenza. Il Neutro – il mio Neutro – può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. ‘Eludere il paradigma’ è un’attività ardente, che brucia”.
Un testo ricostruito, con gli appunti che Barthes prendeva per il corso che tenne nel 1977-78,  due anni dopo l’anno dopo la sua elezione al Collège de Francia (il primo corso era stato “Comment vivre ensemble”), due ore a settimana, ogni sabato mattina per quattro mesi, ventitré lezioni, e la trascrizione della registrazioni dell’intero corso. Riproposto da uno specialista di Barthes, Augusto Ponzio, con una lunga introduzione, per collegare l’esercitazione di Barthes a Blanchot, che Barthes nomina, e a Bataille, Lévinas e Derrida. Il Neutro declinando su una serie di temi che avrebbe ingolosito il Calvino della leggerezza: benevolenza, stanchezza, silenzio, delicatezza, sonno, affermazione, colore, aggettivo, ideosfere, coscienza, risposta, riti, conflitto, il ritrarsi dal mondo (esemplificato con la “Vita Nova”), l’arroganza, il kairos, il giapponese “wu-wei”, voler vivere (esemplificato col Leonardo da Vinci di Fr), l’androgino, lo spavento. Con molta letteratura, non solo Pasolini e Dante.
Il tema è in realtà nuovo e vecchio in Barthes, trovandosene chiara anticipazione nella sua opera di esordio, per la quale fu subito famoso, il “Grado zero della scrittura”. E in linea col dibattito di quegli anni 1970, sul disimpegno politico trasferito nella lingua, il “né…né”, l’“o…o”, un pilatismo che Barthes amplia nell’accettazione, “sia… sia”. Qui è esteso, senza veli, alla morale dei sentimenti. Il semiologo moraliste che è sempre stato Barthes, applicato ai modi di vivere e di esistere, ne fa una battaglia, a suo dire doverosa, di libertà. La “verità del corso” proclama, con spirito polemico inatteso, è “il desiderio che è alla sua origine e che mette in scena. Il corso esiste perché vi è un desiderio di Neutro: un pathos (una pathologia?)”. Mettendosi personalmente in gioco: “La descrizione topica, esaustiva, finale di questo desiderio di Neutro non mi appartiene”, i.e. sono parte in causa, “è il mio enigma, ovvero quanto di me può essere visto soltanto dagli altri. Posso soltanto indovinare, nella boscaglia di me stesso, l’antro in cui esso si apre e si approfondisce”.
Nella sintesi del corso da lui stesso redatta per l’annuario del Collège de France, Barthes lo dice ancora più esplicito: “Si studia ciò che si desidera o che si teme; secondo questa prospettiva il titolo autentico del corso avrebbe potuto essere: Il Desiderio del Neutro”. La sezione “Il Neutro come scandalo” si può dire la ragione del corso, quella che Barthes “spiega” evocando Pasolini. Ripreso, questa volta senza citarlo, ancora il 25 marzo, sotto il titolo “L’attivo del Neutro”: “Qual è questa vitalità disperata che il Neutro ha al suo attivo?” Con l’aggiunta: “Con, risuonante nella parola, la musica nietzscheana”, dionisiaca. E ancora: “Si potrebbe dire: le virtù del Neutro. «Virtus»? Riferimento al vir, non in quanto maschio (niente maschilismo del Neutro!) ma per contrastare l’immagine troppo facile del Neutro come spazio della sterilità indifferente”.
Il paradigma – il senso unico – può essere indebolito, nei colori per esempio (l’opposizione bianco\nero si mescola-trascolora in “bigio, bruno”), nelle sensazioni (il freddo\caldo si neutralizza in “tiepido”). Il Neutro quindi come una forma di disarmo. Ma a volte invece di affermazione. E qui entra in gioco il desiderio, la voglia di non essere paradigmatico, bianco o nero, caldo o freddo, e soprattutto maschio o femmina. Non detto, ma è il genere sessuale che tutta la trattazione sottende.
Roland Barthes, Il Neutro, Mimesis, pp.  364 € 24

venerdì 4 marzo 2022

Letture - 483

letterautore

Corrado Alvaro - Togliatti lo fece dire fascista a cadenza biennale, da Giacomo Debenedetti (1953), Salinari (1955), Angioletti (1957), Trombatore (1959), reo di avere scritto “L’uomo è forte”, il romanzo dell’orrore del totalitarismo.
 
Carlyle – “Uno dei padri intellettuali del Fascismo”, George Orwell, “Sul nazionalismo”.
 
Cina - C’è chi ha li ha messi sulla bilancia – “Le Nouvel Observateur”, 1975: i testicoli europei pesano il doppio, in media, di quelli cinesi.
La Cina è scoperta recente.
 
Colombo - Thor Heyerdahl, 1975, ha scoperto che Colombo aveva già scoperto l’America venticinque anni prima della scoperta ufficiale. Viaggiando con i danesi – discendenti dei vichinghi. Un compromesso boreale.
 
Conan Doyle - Ha l’apprezzamento senza riserve di Houellebecq, “Serotonina”, 337: “Conan Doyle è l’autore di un numero impressionante di racconti, di piacevole lettura costante, e anche talvota francamente palpitanti, è stato per tutta la sua vita n eccezionale page turner, senza dubbio il migliore della storia letteraria mondiale, ma questo non contava senza dubbio molto ai suoi propri occhi, non era là il suo messaggio, la verità di Conan Doyle era che si sentiva a ogni pagina vibrare la protesta di un animo nobile, di cuore sincero e buono”. E ancora: :”Il più toccante era soprattutto il suo atteggiamento personale riguardo alla morte: allontanato dalla fede cristiana da studi di medicina di un materialismo disperante, confrontato tutta la sua vita da perdite ripetute, crudeli, tra esse quella dei propri figli, sacrificati dai disegni guerrieri dell’Inghilterra, non aveva potuto in ultima istanza che rivolgersi allo spiritismo, speranza ultima, consolazione ultima di tutti quelli che non sono disposti ad accettare la morte di tutti quelli che sono loro vicini. Né a incorporarsi alla cristianità”.  
 
Femminismo – Una “deriva triste”, attaccata al “genere”? Natalia Aspesi fa i complimenti a Daria Bignardi per il.suo memoir “Libri che mi hanno rovinato la vita”, per concludere: “Le tue passioni letterarie mi sembrano quelle di una ragazza nata nel 1961, ventenne nel 1981 in tempo di femminismo vincente, che ama la cultura senza attribuirle un genere, oggi deriva triste di troppi libri scritti da donne. E persino da uomini”.  
 
Kiev – Irène Némirovsky, che ci è nata nel 1903, e ci ha vissuto per dieci anni, non ne ha memoria - crebbe parlando francese e russo, e poi anche l’inglese, e ai dieci anni emigrò con la famiglia a San Pietroburgo, fino a qualche anno dopo la rivoluzione leninista. Né ne parla Babel’, altro ucraino illustre, nei racconti del suo peregrinare bellico.
Bulgakov, invece, illustre concittadino di Némirovsky, suo maggiore di dodici anni, la descrive in tempo di guerra. Ma come luogo di battaglie: nell’anno e mezzo trascorso in città dopo la rivoluzione, di ritorno da Mosca, tra il 1918 e il 1919, ebbe 14 “chiamate alle armi” da parte di 14 “poteri” diversi. L’anarchia, ma molto sanguinosa.
 
Primo Levi – Fu bocciato da Einaudi nel 1947, “Se questo è un uomo”, da Pavese e Natalia Ginzburg. Levi si limiterà a dire in una tarda intervista. “Ebbe varie letture, toccò all’amica Natalia Ginzburg dirmi che a loro non interessava”. Ginzburg poi, nel 1963, vincerà il premio Strega, al quale anche Levi concorreva, con “La tregua”.

Maschile, femminile -   Aldo Grasso: la protagonista di “Hotel Portofino “assiste perplessa a un tentativo di matrimonio combinato tra suo figlio e la figlia di un ex amante del marito”, amante che nello sceneggiato è donna. Sconcerti: il Napoli “non ha avuto crisi di gioco… è corretto darle una chance in più”.  Nello stesso giorno due ottimi scrittori, sul “Corriere della sera”, giornale controllato, sono incerti sul genere.

1942 – L’Europa era tedesca, nazista o sotto il tallone nazista. In Francia i pacifisti collaboravano con l’occupazione tedesca. E anche in Gran Bretagna, l’unico paese europeo ancora libero, “l’intellettuale medio di sinistra era convinto che la guerra era stata perduta nel 1940, che i tedeschi stavano per conquistare l’Egitto, che i giapponesi non sarebbero stati mai cacciati dalle terre che avevano conquistato, e che l’offensiva Anglo-Americana dei bombardamenti non faceva alcun effetto in Germania” – G. Orwell, “Sul nazionalismo”.
 
Romanzo – “Il Millennio non ha ancora il suo A tore”, si lamenta, o “il suo Romanzo”. Si lamenta l’assenza del grande romanzo in questo primo terzo millennio. Asor Rosa già trent’anni fa trovava “Calvino, Pasolini e poi niente” (“La Stampa”,24 novembre 1992), “ultimi classici, anzi ultimi scrittori”.
In tempi di grandi travagli il romanzo è inutile – impossibile perché inutile - secondo il marchese di Sade: “Il Romanzo diveniva tanto difficile da scrivere quanto monotono da leggere: non c’era individuo che non avesse subito in quattro-cinque anni più disavventure di quante potesse narrarne in un secolo il più famoso romanziere”. Non restava, secondo Sade, che “chiamare in aiuto l’inferno”.
Sade, però, che visse anni di grandi travagli, il romanzo lo ha scritto, più di uno. È il Millennio che non è avventuroso? Sembra segnare il passo – anche la guerra di Putin non sembra drammatica.
 
San Sebastiano – Si rappresenta a partire dal Quattrocento giovane e ignudo, il petto aperto alle frecce, icona lgbtqia+. Era anziano e barbuto nel mosaico di San Pietro in Vincoli, del VIImo secolo, che ancora si vede, rivestito di un’armatura d’oro, in mano una corona gemmata. Estato al Quattrocento: in costume antico o da cavaliere, un soldato in età matura, barbuto, i capelli bianchi, armato di corazza e spada. Ma già da un paio di secoli aveva preso a circolare, seppure rara, l’immagine del santo giovane e nudo, il viso gentile inanellato di boccoli, il torso nudo bersaglio di invisibili arcieri – la “sagittazione”. Parte di una prima scoperta, o un ritorno, del nudo antico, del nudo artistico.
 
Totalitarismo – Fu invenzione italiana, neologismo della scienza politica coniato in Italia. Dall’antifascismo. Poi assunto dal fascismo stesso per definirsi – storicamente a torto, obietta Aurelio Lepre, “L’inesistente totalitarismo” (“Corriere della sera”, 3 gennaio 2005), in quanto il regime fu monarchico-fascista, l’Esercito, la Marina e il Senato essendo monarchici (anche Hannah Arendt, che ne sarà la teorica, negava recisamente che il fascismo fosse totalitario - almeno fino alle leggi razziali del 1938, il razzismo a suo giudizio costituendo elemento qualificante del totalitarismo).
“Il 2 gennaio 1925, mentre in Italia si stava consumando l’agonia finale dello Stato liberale sotto la pressione terroristica del fascismo (squadracce e delitto Matteotti, n.d.r.), appariva nel linguaggio politico un nuovo sostantivo: «totalitarismo»” - Emilio Gentile, “Il compleanno del totalitarismo” (“Sole 24 Ore”, 2 gennaio 2005). Era in circolazione già da due anni l’aggettivo “totalitario”, “coniato nel 1923 dall’antifascista liberale Giovanni Amendola” per definire metodi e fini del fascismo: “Quel giorno (il 2 gennaio 1925, n.d.r) il settimanale antifascista «Rivoluzione Liberale», fondato e diretto dal poco più che ventenne intellettuale Piero Gobetti, pubblicava in prima pagina un articolo intitolato «L’Antistato», firmato Prometeo Filodemo, pseudonimo di un giovane socialista marxista, Lelio Basso”.
L’articolo usciva a sei mesi dall’assassinio di Matteotti. “Per singolare coincidenza”, continua Gentile, “il termine «totalitarismo» entrava nella storia proprio alla vigilia del discorso di Mussolini alla Camera, il 3 gennaio, che «segnò una tappa definitiva nella storia del fascismo, cioè l’abbandono definitivo dello Stato costituzionale, liberale e parlamentare» (Luigi Salvatorelli)”.

letterautore@antiit.eu


Amica psicoanalisi, nemica dell'artista

Saba fu attirato presto dalla psicoanalisi - maturandone poi una dipendenza, a giudizio di Debenedetti, suo profuso critico e personale amico e quasi confessore. Ossessionato dal matricidio oresteo del mito, lui figlio di madre singola, legata alla severa legge ebraica, da cui il padre naturale si era allontanato già prima della nascita di “Berto”. Rossi, già ordinario di psichiatria e Genova e psicoanalista accreditato in città, già autore di un “Umberto Saba: Oreste ed Edipo”, ne rivede rapidamente l’anamnesi, alla luce di due tarde lettere, del marzo 1949.
Nella prima, indirizzata a Joachim Flescher, non inclusa nel volume del 1991, “Lettere sulla psicoanalisi. Carteggio con Joachim Flescher. 1946-1949”, fa la difesa del suo analista, Edoardo Weiss. Prosegue con una celebrazione di Freud, riscattatore della stirpe ebraica, dopo “il peccato originale-Gesù”, e scopritore del nodo di tutte le nevrosi, la religione. Ma a prezzo, forse, di troppo razionalismo. Il dubbio sorge a Saba in rapport alla propria creatività, di poeta, di artista: a Flescher scrive per domandare se un artista guarito “potrà ancora fare dell’arte”. È in questa ambivalenza, terapia e timore della “guarigione”, che Debenedetti parlava della passione psicoanalitica dell’amico come di una dipendenza.
La seconda lettera, indirizzata a Weiss, a distanza di sedici anni dalla fine del rapporto terapeutico, esordisce con un “le ho voluto e le voglio sempre bene”. Come a “persona affascinante che (per me) ha fatto più di ogni altra persona al mondo”. Lo attacca: “Durante la mia analisi furono commessi degli errori”. E poi lo santifica, “fino a giungere”, nota Rossi, “ad una ammissione di dipendenza ancora totale”. Facendolo depositario dell’ultima delle sue opere, “Scorciatoie e raccontini”  (1946): “Scorciatoie sono quasi tutte sue” – aggiungendo “alla riga successiva”, nota Rossi, un ambivalente: “Detto tra parentesi, Scorciatoie  non ha avuto nessun successo”.
In realtà, la dipendenza è tarda in Saba. L’analisi avviò nel 1928, e prolungò per cinque anni, fra i 45 e i 50 anni quindi. Ma ne era affascinato prima e non se ne liberò dopo. A Weiss era – e rimarrà – dedicato già il seminale “Il piccolo Berto”, nel 1931, con l’emersione della dissonanza-ambivalenza paterna-materna.
Romolo Rossi, B. Masnata, Umberto Saba: un poeta contro la depressione, “Journal of Psychipathology”, 3/2004, online

giovedì 3 marzo 2022

Il mondo com'è (441)

astolfo

Dodge vs. Ford – Nel 1916 Ford aveva accumulato un surplus in conto capitale di 60 milioni di dollari. Benché avesse a più riprese ridotto il prezzo della sua Model T, e praticamente raddoppiato i salari dei lavoratori nell’impianto, a Detroit – il vecchio Fort Pontchartrain fondato nel 1770 da Antoine Laumet de la Mothe Cadillac, guascone e soldato di ventura. Il surplus del 1916 si propose allora di spendere in nuovi investimenti, per una fabbrica più grande, in grado di produrre più automobili in minor tempo, da vendere a prezzi ancora più scontati, e di creare molti nuovi posti di lavoro. I fratelli Dodge, John Francis e Horace Elgin, soci di minoranza col 10 per cento della compagnia, secondi soci di fatto dopo Ford, contestarono il piano, e infine denunciarono Ford in tribunale. L’accusa era di sperperare i soldi degli azionisti per rendersi popolare. E vinsero: il giudice sancì che l’unico fine dell’impresa è il profitto, e quindi utilizzare i capitali dell’azienda per altri scopi, per quanto nobili, era derubarne i soci.
Nel dibattimento, Ford sostenne che scopo di un’impresa è “fare il maggior bene possibile, in ogni contesto, e incidentalmente fare soldi”. Il 7 febbraio 1919 la Corte Suprema del Michigan stabilì il principio esclusivo del profitto degli azionisti e ingiunse a Ford di pagare subito 19,3 milioni di dollari ai soci come dividendi. Con questa motivazione: “Una società d’affari è organizzata e gestita primariamente per il profitto degli azionisti. I poteri dei dirigenti vanno utilizzati a questo fine. La discrezionalità dei dirigenti deve essere esercitata nella scelta dei mezzi per raggiungere quello scopo, e non si estende a un cambiamento dello scopo in sé, alla riduzione dei profitti, o alla non-distribuzione di profitti tra gli azionisti al fine di devolverli ad altri scopi”.
Ford, che sei anni dopo susciterà l’ammirazione del futuro scrittore Céline, in visita nella sua fabbrica in veste di medico funzionario della futura Organizzazione Mondiale della Sanità, era già noto per posizioni sociali molto avanzate. E per l’antisemitismo. Re per un ventennio dell’automobile. Tanto da diventare nel 1932 il bersaglio di Upton Sinclair, già suo fervido ammiratore, nel libello “The Flivver King”, il re del macinino. E di deus del “Mondo nuovo”, il best-seller di Huxley sul futuro prossimo, dove il tempo si calcola A.F. e P.F, prima e dopo Ford, l’invocazione è “Ford!”, “Nostro Ford!”, “Grazie a Ford!” (talvolta “nostro Freud”) l’esclamazione “Oh, Ford!”, “Ford, quanto lo odio!”, “Ford, quanto mi piace!”, l’inno è al Macinino, il diminutivo della Model T, la festa è il Ford’s Day, il segno della Croce il segno della T, l’esortazione “Aiutati che Ford ti aiuta”, la storia “chiacchiera” (bunk), come Ford l’aveva detta, Sua Forderia sta per Sua Signoria, “fordiano” per cristiano”, e si giura toscanamente con “Ford Macinino”. Chaplin non lo nomina, ma è a Ford che gli spettatori penseranno nel 1936 all’uscita di “Tempi moderni”.
Aveva adottato per primo gli studi di Frederick Winslow Taylor sulla gestione scientifica dell’impresa, e in particolare sulla razionalizzazione del lavoro in fabbrica - la teoria dei “tempi e metodi”. Riducendo nell’estate del 1913 da un mese all’altro le ore di lavoro necessarie per fabbricare uno chassis da 12,5 a 1,33. E per recuperare gli operai, che non gradirono il nuovo sistema e se ne andavano, aveva raddoppiato la paga giornaliera, da un minimo di 5 (poi elevato a 6) fino a 20 dollari, e ridotto la giornata lavorativa da dieci a nove, e poi a otto, ore. Misure che il “New York Times” definì “gravi perturbazioni”, e il “Wall Street Journal” “errori economici grossolani, se non un delitto”. Ulteriore incentivo, Ford decise che la sua fabbrica fosse aperta a chiunque volesse lavorare, compresi i portatori di handicap, gli ex detenuti, le donne – non molte (“il loro lavoro è la famiglia”), ma proporzionalmente più di ogni altra fabbrica e a paghe più alte.
E per chi aveva problemi, giuridici, finanziari, affettivi, creò un Dipartimento sociologico, con unità composte da un ispettore (infermiere e\o legista), un autista e un interprete, che operavano a domicilio. Il Dipartimento Sociologico dispose fino a 150 di queste squadre. Gli ispettori erano particolarmente attenti alle abitazioni e all’igiene. I ritmi di produzione s’ingigantirono. Anche perché la giornata di otto ore consentì tre turni di lavoro e la massima utilizzazione degli impianti, e i costi si abbassarono. In sei-sette mesi il fordismo si era imposto. Dilagò quando Ford tagliò i prezzi, facendo dell’automobile un prodotto popolare – chi non poteva permettersela sapeva che c’era “una Ford nel suo futuro”. Il prezzo originario del Modello T, 825 dollari, erta stato dimezzato nell’ottobre 1914 a 440 dollari, e nell’agosto 916 ridotto a 345 dollari.
Henry Ford era un uomo riflessivo, perfino segreto, ma audace, sempre pronto a rischiare. Amante dell’ordine e della rivoluzione, della tradizione e dell’innovazione, generoso ed egoista, individualista e populista, pacifista e patriota, antirazzista e antisemita, produttivista e ambientalista, miscredente e massone, igienista (niente fumo, niente alcol), frugale. Nel 1926 Detroit fu scossa da un’ondata di razzismo contro i neri. Ford rispose assumendone in un colpo cinquemila, che poi portò a diecimila, e polemicamente diede loro tutta una fabbrica da gestire, per mostrare che sapevano lavorare. Ma fu di un antisemitismo feroce, al quale non è stata trovata spiegazione. Se non nella paura che aveva di banchieri e gente di finanza - o nelle sue origini di irlandese protestante (o nelle faide cui poteva portarlo la sua pratica massonica).
Aveva un settimanale, “The Dearborn Independent”, di cui imponeva l’abbonamento ai clienti. Di diffusione nazionale quindi, anche se spesso i concessionari si assumevano loro la spesa dell’abbonamento, lasciando i pacchi non scartati del settimanale ai topi. Il primo numero era uscito nel mezzo del processo Dodge, l’11 gennaio 1919, con un programma libertario: no alle concentrazioni, alla grande banca, al capitalismo assenteista, nazionalizzazione dei telefoni e delle ferrovie, sostegno al presidente Wilson e alla Lega delle Nazioni in un momento di isolazionismo rampante, un piano casa, lotta all’alcol, femminismo.  Ma dal 22 maggio 1920, per 91 numeri, il settimanale dovette attaccare gli ebrei e, come espressione della perfidia ebraica, il bolscevismo, le gonne corte, il gold standard, gli affitti alti, New York, il jazz. Il segretario privato di Ford, Ernest Liebold, pubblicò seriosamente “I Protocolli di Sion”, il libello sulla congiura semita per prendere il controllo del mondo, di cui già si era dimostrato che era un falso, e una serie di libri, “The International Jew” che riproducevano gli articoli del “Dearborn Independent”. La campagna cessò, su ordine di Ford, a metà gennaio 1920.


Lucia Anna Joyce – La figlia amatissima di Joyce, finita in manicomio, per quasi cinquant’anni, vittima evidente di un conflitto madre-figlia, tenuta ai margini della storia e della critica joyciana (il Joyce Museum di Trieste le dedica una didascalia, imprecisa), si rivaluta da qualche tempo come artista dotata, per il disegno e il balletto, e ispiratrice di vasti passaggi di “Finnegans Wake”, se non dell’intera opera. Era stata a scuola, e scriveva, in italiano, e a Parigi e Londra, dove visse da adulta, con la famiglia e con Harriett Weawer, padroneggiava ugualmente il francese e l’inglese. Finora è stata presente, marginalmente, al meglio (Natalia Aspesi) come “l’ennesima donna il cui talento, all’ ombra di un uomo, si è persa nella follia: come Zelda Fitzgerald, come Vivien Eliot, come Sylvia Plath”, un punto interrogativo. 

Vari episodi di stranezze, almeno per come sono state raccontate al biografo di Joyce Ellmann dal fratello Giorgio e dal nipote Stephen, figlio di Giorgio, molto prevenuti, culminarono nel ricovero definitivo di Lucia il giorno del cinquantesimo compleanno del padre, che amava festeggiarlo con solennità. Il 2 febbraio 1932 – a seguito evidentemente di una lite, l’ennesima, ma questo Ellmann non lo dice - Lucia scagliò una sedia contro la madre. Il fratello la fece ricoverare in “sanatorio” (manicomio). Aveva venticinque anni e vi resterà fino alla morte, di 75 anni, a Northampton nel 1982, dopo aver cambiato due o tre “sanatori”. Con brevi intervalli nei primi anni, a iniziativa del padre, che la portò a fare esaminare da vari luminari per mezza Europa, compreso Jung – la tenne in osservazione per alcune settimane e la dichiarò ingovernabile.
Lucia Anna era nata a Trieste, all’Ospedale Civico, nella corsia dei poveri. James Joyce stentava a guadagnarsi la vita come insegnante alla Berlitz e in lezioni private. Conviveva con Nora, giovane cameriera conosciuta a Dublino, che non aveva voluto sposare, e dalla quale aveva già avuto un figlio, Giorgio. Era il 26 luglio del 1907: Lucia fu dalla nascita una figlia non amata dalla madre, che durante la gravidanza e dopo continuò ad allattare il primogenito Giorgio. I Joyce vivranno a lungo in alloggi modesti. Lucia crescerà col fratello, praticamente nello stesso letto, “come due porcellini in una stalla”, è stato scritto da una frequentatrice dei Joyce, la madre non volendo separarsi la notte dal padre. “Lucia ha avuto molte storie d’amore, anche col fratello”, scriverà una sua tarda amica, Hélène Vanel, maestra di ballo. 
Nel settembre 1913 venne iscritta alla Scuola Parini, vicino alla Barriera Vecchia, che frequentò per due anni. Quando i Joyce ritornarono a Trieste nel 1919, frequentò per un anno una scuola femminile evangelica in via S. Giorgio. L’italiano, lingua con la quale corrispondeva col padre, preferirà sempre al francese e all’inglese. Richard Ellmann, il biografo Di Joyce, di parte, lavorando d’intesa con Giorgio e Stephen, ostili a Lucia, annota che “le stranezze di comportamento” di Lucia emersero nel 1929, quando il fratello Giorgio si fidanzò con Helen Kastor Fleischman. Prima “ai ricevimenti era allegra e loquace”, scrive il biografo autorizzato, “e talvolta imitava Charlie Chaplin con i pantaloni cadenti e il bastoncino”. Charlot e Napoleone erano i suoi personaggi preferiti, ai quali aveva dedicato ai diciassette anni un articolo che una rivista belga, “Le Disque Vert”, aveva pubblicato, con una breve nota di Valéry Larbaud. Aveva studiato piano per tre anni, a Zurigo e Trieste, canto a Parigi e Salisburgo, disegno a Parigi, alla Académie Julian. A Parigi soprattutto aveva studiato danza – “con un impegno che eguagliava quello paterno”, deve dire Ellmann, “aveva studiato sei ore al giorno, dal 1926 circa al 1929”.
I primi anni di vita di Lucia, fra Trieste e Zurigo, furono segnati dall’instabilità: numerosi i traslochi, frequenti i trasferimenti da un istituto scolastico a un altro (a Zurigo durante la guerra deve ricominciare daccapo a scuola, in tedesco, a Parigi nel 1920 deve ricominciare col francese), con continui cambiamenti di ambienti, amici e lingua. A Zurigo cominciò a studiare danza, secondo i metodi del ginevrino Institut Jacques-Dalcroze. Nel 1920 la famiglia si trasferì a Parigi e nel 1922 Lucia riprese la danza alla scuola di Raymond 
Duncan, fratello di Isadora, un personaggio, pacifista, vegetariano, capelli lunghi sulle spalle, sandali ai piedi, tunica. Poi con madame Egorova – Liubov Nikolaievna, ex Balletti Russi. Seguitò con Jean-Borlin (svedese), Madika (ungherese), e con vari maestri: Lois Hutton e Hélène Vanel (ritmo e colore); Margaret Morris (danza moderna), oltre a Raymond Duncan. “Come danzatrice”, ammette Ellmann, “Lucia, alta, snella e aggraziata, aveva raggiunto uno stile assai personale”. Ha sicuramente preso parte a un film di Renoir, “La piccola fiammiferaia”.

Varie esibizioni sue sono state registrate. Alla Comédie des Champs-Elysées in tre riprese: il 20 novembre 1926 nel “Ballet Faunesque” di Lois Hutton, il 19 febbraio 1927 in “Vignes sauvages”, il 18 febbraio 1928 in “Le Pont d’or”, un’operetta buffa musicata da Émile Fernandez. Con la stessa compagnia danzò anche a Bruxelles. Al Vieux Colombier aveva partecipato il 9 aprile 1928 al balletto “Prétresse  Primitive”. L’ultima esibizione, il 28 maggio 1929, al Bal Bullier, fu un trionfo: fu classificata seconda, ma James scrisse agli amici che la sala era impazzita per lei (citando da un giornale, vero o inventato che fosse: “Un giorno il nome di James Joyce verrà ricordato solo in quanto padre di un’incredibile danzatrice”). Spopolò, se è vero quello che il padre scrisse, in abito da lei disegnato e in una coreografia da sirena - una delle foto che lo testimoniano e ora vagano per i social è stata ritrovata tra le carte di Samuel Beckett, sessant’anni dopo.
A Parigi avrebbe avuto una cotta per Beckett, allora giovane e bello, che frequentava casa per conversare col padre (non spesso, Beckett si alzava al più presto dopopranzo) – Beckett lo avrebbe confidato a Peggy Guggenheim, sua compagna per un breve periodo nel 1937, subito dopo l’internamento di Lucia. Wikipedia dice che “lo stretto rapporto fra Beckett, Joyce e la sua famiglia si raffredda quando respinge la figlia di Joyce, Lucia, che soffriva di schizofrenia”, ma la cosa non è attestata in nessun luogo. Di Lucia dopo l’internamento il poco loquace Beckett ha invece scritto a un corrispondente: “Non è pazza, ha solo accumulato troppa tristezza”.
Altre infatuazioni la sua unica biografa, Carol Loeb Shloss, studiosa di letteratura angloamericana (nota per gli studi su Flannery O’Connor), le attribuisce per Alexander Calder, per
 un Émile Fernandez, “poeta surrealista” (in realtà il musicista di “Le pont d’or), per l’insegnante di russo di Joyce, Alexander Ponisovsky, con cui si sarebbe fidanzata, prima che lui le preferisse la ricca Hazel Guggenheim, sorella di Peggy, e per una donna, Lyrsine Moschlos (si vede in una foto online della National Portrait Gallery), lesbica, assistente di Sylvia Beach, della libreria Shakespeare&Company a Parigi, l’editrice coraggiosa dell’“Ulisse”.
Più che ai flirt, Lucia teneva alla sua attività di disegnatrice (vari suoi schizzi furono utilizzati dal padre per le sue pubblicazioni) e alla passione per la danza. Ai vent’anni aveva anche abbozzato un romanzo, in italiano. Morto Joyce nel 1941, nessuno più la cercherà: 
gli zii Joyce, con i quali aveva avuto lunga confidenza, la madre, il fratello, il nipote Stephen, erede dei diritti. Seppe della morte del padre dai giornali. Gli studiosi di Joyce la trascurano anche loro volentieri, pur valutando solitamente con perspicuità il rapporto del padre con la madre, la ex cameriera d’albergo – che Joyce non volle mai sposare, malgrado le tante e insistenti pressioni familiari.
Il biografo di Joyce, Ellmann, si limita a elencare le stranezze di Lucia e i ricoveri – lui senza speciale infamia, tratta Lucia come ogni altro: ha lavorato con gli eredi, Giorgio e il figlio Stephen, e ne riflette i limiti (“si comunicò la morte del padre a Lucia, che non volle crederci”, eccetera).
 Stephen Joyce, l’erede dei diritti, persona invisa a tutti i cultori della materia, figlio di Giorgio e della sua prima ricca e anziana moglie Helen Kastor Fleischiman, in un congresso a Venezia nel 1988 ha annunciato con soddisfazione di aver distrutto tutte le lettere di Lucia in suo possesso e di aver convinto Beckett a fare lo stesso, per evitare “che occhietti rapaci e rapaci ditine se ne impossessino”. Distrutto – o forse solo occultato (le carte joyciane si cominciano solo ora a esplorare senza censure, morto Stephen e scaduti i diritti) – con tutte le carte di Lucia anche il romanzo abbozzato ai vent’anni.

astolfo@antiit.eu

La morte che ridà vita

L’addio come un ritorno: una presenza costante, non più contestata e anzi benefica. Il film è della malattia e la morte. Sempre ingiusti, ma qui di più: al culmine di una vita di sacrifici, l’operaio che studia da ingegnere, diventa capo dell’acciaieria, ha una residenza armoniosa, fra i trulli di e le piante sempre fiorite di un borgo da favola (Martina Franca), e subito soccombe all’emorragia cerebrale. Una lunga degenza e una fine che rinsaldano la famiglia e rinvigoriscono gli affetti.
Un film curioso, girato praticamente in interni, anzi in una stanza di ospedale. Una stanza a due letti, in neurochirurgia, con i due degenti cioè praticamente muti. Domenico Fortunato, protagonista oltre che regista, riesce a conversare con le luci, i tagli, i sussurri. Senza mai un momento di calo d’interesse. 
Una scommessa, da film a bassissimo costo, che si rivela una prova di forza del regista-protagonista, al suo secondo lungometraggio.
Domenico Fortunato, Bentornato, papà, Rai 1, Raiplay

mercoledì 2 marzo 2022

Una guerra per la sicurezza

Fare la sicurezza europea con la guerra? L’unica ragione plausibile che Mosca dà dell’attacco all’Ucraina è la mancata risposta europea alla proposta di un trattato di sicurezza continentale. Avanzata nel 2009, dall’allora presidente Medvedev, ribadita da Putin appena due mesi fa.
Quella del 17 dicembre 2021 è una proposta articolata, per come l’ha pubblicata il ministero degli Esteri di Mosca, completa cioè di tutti i fori e le procedure delle possibili controversie. Che si apriva con questo dispositivo: “Le parti risolveranno tutte le controversie internazionali nelle loro relazioni reciproche con mezzi pacifici e si asterranno dall’uso o dalla minaccia della forza in qualsiasi modo incompatibile con gli obiettivi delle Nazioni Unite”.
Alle proposte russe l’Unione Europea non ha mai risposto. Non avendole nemmeno discusse. Stante la contrarietà degli Stati Uniti. E i problemi, si è detto, di convergenza di un patto di sicurezza europeo con gli statuti Nato.

Il cappio ucraino al gas

Si fa grande caso dell’Ucraina granaio d’Europa. Cosa che non è più dal alcuni decenni – anche per le carestie imposte negli anni attorno al 1930 dalla sovietizzazione staliniana della produzione, che ha riorientato i flussi di approvvigionamento. Il granaio è un meme racimolato da vecchie nozioni di storia – che fa comodo anche ai pastai. Mentre l’Ucraina è stata importante per l’Europa per le importazioni di gas dalla Russia: per i problemi frapposti ogni inverno, per venti e più anni, al passaggio del gas.
Si trascura che Nord Stream e Nord Stream 2 sono stati progettati e realizzati per aggirare il cappio ucraino sulle forniture di gas dalla Russia alla Germania e all’Italia, principalmente. Che per questo stesso motivo il progetto è stato avversato dall’Ucraina. Da ultimo col sostegno molto attivo del presidente americano Biden.

Ma che guerra è questa

Più la guerra all’Ucraina procede, ormai al sesto o settimo giorno, meno si capisce come e per che cosa. Non è una guerra patriottica, di difesa, è una guerra d’aggressione - Mosca non ha neppure tentato di accreditarsi come vittima. Non è una guerra-lampo, l’esercito russo non sa o non vuole combatterle – nel 1944-45 gareggiò in lentezza con Eisenhower per raggiungere Berlino (la guerra di “Guerra e pace” è rimando trito, ma la guerra russa è sempre quella). Non è una guerra di conquista, naturalmente, non si conquista un paese come l’Ucraina, grande due volte l’Italia, nel mezzo dell’Europa.
Si dà per scontato nella “guerra dei meme”, che Putin sia un pazzo furioso, ma anche questo non può essere. A Mosca c’è bene o male un governo eletto, con una molteplicità istituzionale di poteri, comprese le forze armate – non è la Mosca di Stalin
È una guerra preventiva, per evitare alla Russia lo scempio imposto alla Serbia, contro la quale vennero radicalizzate dagli Stati Uniti di Clinton tutte le minoranze slave? È possibile. L’Ucraina ha aperto dal 2004 senza motivo un fronte anti-russo. E nel Donbass combatte gli ucraini russofoni con i volontari nazisti di tutta Europa. 
Dunque è una guerra per “dare una lezione” preventiva all’Ucraina? Dopo quella di otto anni fa, con la sottrazione all’Ucraina fervente antirussa della Crimea? Anche questo è possibile. Ma lo schieramento russo è enorme. Almeno per come viene accreditato. Mosca vuole un corridoio fino alla Crimea? Ma Cherson è dal lato opposto, verso Odessa e la Moldavia-Transnistria - senza contare che una exclave si può governare comunque, come da decenni Mosca fa con la ex Koenisberg.
Senza fondamento appaiono invece gli impegni solenni che sarebbero pretesi dall’Ucraina di non accedere alla Nato e alla Unione Europea. Perché la Nato non può aprirsi all’Ucraina, per vari motivi statutari. Mentre l’Unione Europea non è un’alleanza militare, e quindi starci dentro o fuori non è materia di armistizi o paci armate.   
Si tace invece che Zelensky è presidente in rappresentanza di un gruppo di affaristi, in concorrenza col presidente uscente Poroshenko, affarista massimo. In questi giorni di guerra ha acquisito uno status diverso, impersonando la resistenza all’invasione. Ma l’origine conta. Mentre non si sa nulla delle altre istituzioni ucraine, il Parlamento, con i diversi partiti, le forze armate, la forte opinione pubblica. Così forte da riuscire ben due “rivoluzioni” di piazza antirusse, nel 2004 e nel 2014.



La guerra dei meme

Sarà questa dell’Ucraina un’altra guerra che “non ha avuto luogo”, come il sociologo francese Baudrillard disse famosamente quella del Golfo? Come quella di Putin alla Georgia nel 2008? Una guerra “non ha luogo” quando è fra schieramenti così sproporzionati che non si può dire guerra. È possibile, dopo il non intervento annunciato dagli Stati Uniti e dalla Nato.
È sicuramente una “guerra dei meme”. Quella lanciata da Zelensky contro la Russia due anni fa. Ora rafforzata – di propria iniziativa? - da Anonymous e altri hacker. Che fornisce molti materiali ai social, praticamente li ingombra: i bambini, gli espatriati, le code in fuga, le distruzioni naturalmente (ma non molte), i “sessanta km. di carri russi”, tutti in fila indiana, i tredici eroi dell’isola dei Serpenti, tutti ben vivi, benché prigionieri, il caccia russo abbattuto da un cecchino che è un videogioco, le ragazze volontarie - una, naturalmente bionda, ha un complicato chignon da alloggiare sotto l’elmetto. Immagini e testi per lo più a scomparsa, non certificabili, che operano come i vecchi reparti d’assalto: il fatto non conta, s’impone il ritmo, senza respiro.

Ecobusiness

L’invasione dell’Ucraina, con i prezzi degli idrocarburi triplicati, a oltre 110 dollari, rilancia l’industria nordamericana (Stati Uniti e Canada) degli oli pesanti, da scisti bituminosi, fortemente inquinanti.
Col petrolio e il gas a oltre 110 dollari per unità di fornitura si rilancia anche l’economia russa, grande esportatrice di idrocarburi – le transazioni con l’estero di questi prodotti non sono colpite dalle sanzioni.

Le auto elettriche ibride plug-in, che hanno assorbito in Europa le sovvenzioni statali 2020-2021 alla transizione elettrica, sono inquinanti: vanno normalmente a benzina, per un carico appesantito dalle batterie elettriche. Tutte le ricerche lo confermano: “I veicoli Phev (Plug In Hybrid Vehicle) emettono da 2 a 3 volte più CO2 di quanto dichiarato dai costruttori”. In pratica come una macchina a scoppio, appesantita.
In Svizzera si comincia a revocare gli incentivi alle vetture ibride plug-in, considerate come auto termiche, a combustione interna. Con l’effetto perverso di ritardare il passaggio alla mobilità sostenibile.
Le plug-in dovevano presentare il vantaggio di poter essere ricaricate in casa, con una presa elettrica normale. Ma non si fa, perché costa e\o perché non si dispone di un garage – costo a Roma 80-90 mila euro.

Addio alla vita, il film di Pirandello

Pirandello muore in una scena surrealista (buñueliana), con accenti pirandelliani sulla vita e sulla morte. Dopo aver ritirato, stanco, si vede dai cinegiornali, il Nobel dal re di Svezia. Il funerale si presenta complicato perché lui lo vuole semplice, e povero: una cassa di legno grezzo, da seppellire in Sicilia, dove è nato - al Caos, la “torre” in campagna di famiglia. Questo si farà solo dieci anni dopo la sua morte, quando si riprende a viaggiare dopo la guerra, con un trasporto lento e avventuroso nei carri bestiame dell’epoca.
È un viaggio nella memoria come si racconta avvenga in punto di morte. Con un misto di accettazione e di rimpianto, poiché, si sa, ogni vita si rivivrebbe meglio.
Nella memoria di Paolo ed Emilio Taviani – a Emilio, morto quando il progetto era sul nascere, Paolo dedica il film. Con evocazione di scene e autori cari ai due fratelli: Rossellini, “Paisà”, Lattuada, “Il bandito”, Vergano, “Il sole sorge ancora” (con Lizzani e Pontecorvo in veste di attori, nelle scene di condanne e esecuzioni di fascisti), Antonioni, “L’avventura”, Zurlini, “Un’estate violenta”, Pasolini, “Uccellacci e uccellini”, anche “Kaos”, il film a episodi dai racconti di Pirandello di Paolo ed Emilio. E con spezzoni di cinegiornali: Pirandello a Stoccolma, la condanna e l’esecuzione dei responsabili italiani delle Fosse Ardeatine, De Gasperi a New York nel 1946 (“sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”), il funerale in Sicilia – gli studenti lo vogliono per loro, col pennacchio della goliardia, il vescovo e i suoi collaboratori, tutti lettori di Pirandello, vogliono le ceneri in una bara, invece che in una urna, e la piccola casa con le ceneri viene scambiata dai bambini per il funerale di un bambino, oppure, gran divertimento, di un nano.
Il film che Pirandello avrebbe fatto, se avesse provato a fare film, come pure gli sarebbe pIaciuto. Che Taviani completa con l’ultimo racconto, probabilmente, di Pirandello, “Il chiodo”, innescato da un fatto di cronaca: un ragazzino italiano uccide una bambina a Brooklyn, senza motivo, “apposta” dice agli inquirenti americani che non sanno tradursi sensatamente la parola: come una fat(t)o che dovesse compiersi.
Una despedida, un canto di addio, senza lamenti, già fra i trionfi. Che però attrae e non respinge, avvolge, quasi amichevole. Per una regia al solito asciutta, di cose come necessarie, il trademark dei Taviani.
Il titolo è di una novella di Pirandello. E deriverebbe da una scena girata ma poi non montata. La novella è sulla morte attesa, e quasi benvoluta – il titolo si rifà a Manrico, del “Trovatore” di Verdi, che la invoca rivolgendosi all’amata: “Ah! che la morte ognora\ è tarda nel venir\ a chi desia, a chi desia morir!.../ Addio, addio, Leonora, addio!”.
Paolo Taviani, Leonora addio

martedì 1 marzo 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (485)

Giuseppe Leuzzi

“Erano gli anni 50 quando Ahmed Pasha Fakri, uno dei più importanti proprietari terrieri della zona, ha iniziato a importare a Shubra Beloula, piccolo borgo a Nord del Cairo, i fiori di gelsomino dalla Francia per piantarli nei suoi campi” - “il Venerdì di Repubblica”. Ora fa “più della metà della produzione mondiale di gelsomini” e lavora all’estrazione dell’olio di gelsomino, “usato per la produzione di essenze”. Fino agli anni 50 era la produzione della Locride. Poi abbandonata.
Abbandonata fu pure la produzione delle banane, sempre nella Locride.
 
Scriveva Boccaccio in avvio nel “Decameron” alla novella avventurosa di Landolfo Rufolo: “Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia”. Una “marina” che dalla Calabria proseguiva in Campania “piena di picciole città, di giardini e di fontane”. Prima c’era tutto, non mancava nulla, nemmeno la fama.
 
Nostos – il ritorno alle origini - può essere altrettanto azzardato, temerario, quanto la partenza, l’abbandono. È il tema sottotraccia de “L’amica geniale” che in tv risalta di più. Come già in Omero, con l’“Odissea”.
 

Sciascia addio, non servi più”
Nel 2005, più o meno di quest’epoca, il filosofo catanese Sgalambro, venuto alle cronache per la collaborazione col musicista Battiato, sollevava un polverone proponendo un nuovo paradigma della Sicilia, non più ancorato alla mafia e al malaffare - il titolo, eccessivo, è quello di una grande pagina del “Corriere della sera”, dell’11 febbraio 2005 .
Sciascia era morto da sedici anni, Sgalambro, 81enne, ne avrebbe vissuto ancora una decina, ancora lucido. Ciò che lui diceva, infatti, non era in toni e a fini di scandalo, mediatico. Era poca cosa, e ragionata: non fare i carabinieri, i carabinieri acciuffano i delinquenti, non fanno la storia.
All’apparenza liquidatorio: “Sciascia era lo scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione s’è esaurita. Sciascia non ci serve più. Occorre una nuova riflessione, un’altra coscienza siciliana”. Ma lo dice per una ragione – la mafia sottintendendo come fattore economico, dello strozzinaggio, non della violenza fisica, questa lasciata ai carabinieri. “La retorica non ci serve più”, spiegava a Francesco Battistini: “Se vogliamo che l’economia mafiosa sia un’esistenza temporanea, se vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico della diabolica mafia, non possiamo stare a contemplarla come una statua immobile. A un intellettuale si chiede di combatterla in un altro modo. Il problema non è l’esistenza della mafia: è la valutazione che se ne fa. Perché c’è tutto questo? Non cade dal cielo, è un fenomeno economico ben radicato. E allora gli intellettuali producano buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a parlarne. Lavorare il proprio giardino, alla Candide. Tu cancelli le ombre della mafia operando più di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo”.
Un economista potrebbe aggiungere che riducendo tutto a mafia il costo si aggrava, di opinione, politico, bancario, commerciale o di sbocco, in termini di qualità, prezzo, credito eccetera: la mafia è un collo di bottiglia, una strozzatura, invalicabile.
 
Abbandoni
Sono passati dieci anni dalla frana di Cavallerizzo, il piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, scivolato via nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005. Una catastrofe prevedibile, e prevista, che ha messo in fuga e frammentato una comunità”, cosi Vito Teti iniziava nel 2015 un saggio, “New town, retoriche e abbandoni”, avendo seguito la vicenda del borgo da vicino: “Oggi Cavallerizzo è una new town: guarda, come in uno specchio, l’antico borgo abbandonato. Tutti gli sfollati hanno avuto una casa, sono al sicuro, ma molti di loro sono andati via”.
Lo smottamento era atteso: “Il disboscamento incontrollato, l’occultamento delle acque, le nuove costruzioni in cemento armato proprio sull’area franosa, lo svuotamento progressivo del paese per emigrazione, l’incuria di alcuni amministratori che non avevano preso sul serio le avvertenze della natura, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, le avvertenze inascoltate di tecnici e ingegneri, che però si scontravano con i pareri di colleghi che rassicuravano: a Cavallerizzo, come ho raccontato in questi anni, tutto è apparso come la «cronaca di una morte annunciata»”.
La ricostruzione è stata rapida. “La Protezione Civile diretta, allora, da Guido Bertolaso, adottò Cavallerizzo come laboratorio per mettere a punto il proprio “metodo ricostruttivo”, già sperimentato a San Giuliano e poi, anni dopo, consolidato a L’Aquila”. A un anno dalla frana un progetto di ricostruzione, definito “il modello Cavallerizzo”, viene presentato alla popolazione. La posa della prima pietra avviene 26 mesi dopo, il 7 marzo 2008. Il paese nuovo, come si vede dalle foto che accompagnano il saggio dell’antropologo, è arioso e solido, con murature robuste, soffitti alti, esposizione curata. Il 5 febbraio del 2011 ha inizio la consegna degli alloggi. Alcuni assegnatari li rifiutano. “Prima della frana, a Cavallerizzo si contavano 105 famiglie; adesso, nella new town, su un totale di 264 case, le famiglie presenti sono 85. La popolazione attualmente presente è passata da oltre trecento prima della frana a circa duecento di adesso. Alla fine, a quanto pare, sono stati spesi più di settanta milioni di euro” - il doppio del preventivo: non troppo, si direbbe, considerando l’andazzo delle ricostruzioni italiane.
Teti è perplesso. “Di fronte a tanta enfasi su quello che veniva definito «il modello Cavallerizzo» scrivevo che l’unicità e la complessità della gjitonia”, dell’habitat come era cresciuto, della comunità, “rendeva impossibile qualsiasi ricostruzione automatica. Peraltro lo schema abitativo e antropologico delle antiche gjitonie era stato eroso da profondi processi di trasformazione, dall’esodo, dall’affermarsi di nuovi criteri abitativi (le case fuori del paese che lasciano vuote quelle dell’interno), dalla fine di antichi legami. Tutto questo non vuol dire, allora – come pretendevano i tecnici impegnati nella ricostruzione – “conservare”, ma significa rinnovare, innovare, e anche inventare, tenendo conto della storia e dei desideri della gente”
Una ventina di assegnatari hanno scelto di non trasferirsi in un paese che non sentivano proprio, che non assomigliava a quello che avevano perduto, e che, due anni dopo, nel 2013, il Consiglio di Stato dichiarerà abusivo. La morale? Difficile. Ma forse il rifiuto è solo politico.
 
I Vespri del tramonto in Sicilia
Si suppongono, un po’ anche si celebrano, i Vespri siciliani come il momento di maggiore libertà della Sicilia, mentre significarono solo il passaggio dagli Angioini agli Aragonesi, che avviarono la decadenza dell’isola, con l’incuria quando la governarono da Palermo, poi, da Napoli, con la trascuratezza. Se la Sicilia angioina non sarebbe stata, unita con Napoli e mezza Italia, una corte e una nazione di rispetto è questione ovviamente insolubile – anche se gli Angiò promettevano bene. Ma quella che succedette ai Vespri ebbe uno sviluppo perfino comico, essendo gli aragonesi una tribù specialmente versata in conflitti dinastici, tra fratelli, zii, nipoti.
Con la pace di Caltabellotta (1302), vent’anni dopo i Vespri, l’isola restava a Federico d’Aragona, Federico III, figlio del re d’Aragona Pietro III il Grande e di Costanza di Sicilia, sposato a una Eleonora d’Angiò, col titolo di re di Sicilia, e da ultimo di re di Trinacria. Il regno di Federico, trentennale, prometteva bene: da Palermo sembrò far rivivere i fasti degli antenati normanni e svevi – la madre Costanza era figlia di Manfredi, il figlio illegittimo di Federico II, che era stato fra i suoi successori. Alla morte di Federico III l’isola doveva tornare agli Angioini, nella figura della sua propria figlia Maria. Ma il re d’Aragona Pietro IV, da Saragozza, se la tenne, destinandola, anche contro il parere del papa, al figlio secondogenito Martino il Vecchio – il quale la passò al suo proprio figlio, Martino il Giovane.
Latitando la corona, i baroni emersero. Divisi, tra fazione isolana e fazione aragonese. La fazione aragonese ebbe il sopravvento: presero la regina Maria in custodia e la mandarono in Spagna, dove fu maritata a Martino il Giovane. Il quale così nel 1392 si poteva coronare, a Palermo, re di Sicilia. Ma non è finita. Morti Maria (1402) e Martino (1409), Martino il Vecchio re d’Aragona si dichiarò anche re di Sicilia. Per pochi mesi, l’anno dopo era morto anche lui, e con lui la casa d’Aragona.  Nell’interregno i baroni si dichiararono, per poter meglio spadroneggiare, per il figlio della sorella di Martino il Vecchio, Ferdinando di Castiglia. I due regni si riunivano, lasciando l’isola, da remoto, in mano ai baroni. Segui un secolo di compravendite, della Sicilia e di Napoli.
 
Milano
La città si scopre, con orgoglio, scena di romanzi criminali, gialli, noir, horror: “Negli ultimi due anni una ventina di romanzi criminali sono stati ambientati in città”, nota “La Lettura”, che questo numero dedica al fatto. In una chiave: “Anche il crimine a Milano è liberalizzato. Tanta droga”, finalmente emerge, “colletti bianchi, delinquenti da trasferta, clan della ‘ndrangheta. Ma nessun monopolio”. Milano città aperta. Al crimine, con orgoglio? Sembra una favola.
 
Milano è la frontiera, argomenta sempre su “La Lettura” Gianni Santucci del “Corriere della sera-Milano”: “Immaginate una gang di giovani sudamericani che prova a spadroneggiare nelle strade di Napoli o Palermo: sarebbe disintegrata dalle leggi di strada alla seconda o alla terza rapina. Milano invece lascia libertà e spazio, tollera, accoglie (anche la devianza)”. Mah!
Però, fare soldi (buoni) anche con la devianza, non è male.
   
Protesta veemente la città, “Corriere della sera”, “Gazzetta dello Sport”, Currò su “la Repubblica” (Milano val bene una messa), per l’Udinese che pareggia col Milan con un gol dopo un fallo di mano - forse. Non si può sbagliare con Milano.

L’Inter perde in casa, per il più classico dei punteggi, 0-2, contro il Liverpool, partita delicata per il passaggio di turno nella Champions, per i finanziamenti connessi. Ma dalle cronache, della “Gazzetta dello Sport”, del “Corriere della sera”, sembra che l’Inter abbia vinto. Ammirevole. E non è una consolazione, è proprio un’esibizione di superiorità.
 
“Doc, nelle tue mani”, la serie Rai sulla superefficiente sanità privata milanese (lombarda), si rivela una storia di carrierismi e ricatti.
 
Da non credere, perfino imbarazzante oltre che noioso, il tifo dei commentatori di Canale 5, Massimo Calegari e Massimo Paganin, il secondo ex calciatore dell’Inter, per l’Inter in Inter-Juventus per la Supercoppa. Nel secondo tempo più calmi – saranno stati ripresi dalla rete, per non allontanare il pubblico televisivo, presumibilmente in maggioranza juventino. Poi fuori di sé alla vittoria a tempo scaduto. Su una rete pure di proprietà milanista. Milano è sempre un gran Milan. Ma si spiega che non è mai stata presa in considerazione per essere una capitale, pur essendo la più ricca del reame.  
 
Si direbbe di Berlusconi che a 85 anni ha perso qualche rotella. Si voleva presidente della Repubblica. Si sposa, anzi no, si fidanza, anzi no, insomma sta con una donna di trent’anni. e nessuno gli dice nulla. Non i figli, non gli amici, non la città. Che lo ha vituperato, perfino perseguitato, quando era in controllo, e ora lo celebra. Con Milano bisogna essere poveretti e moribondi, allora si accende – può esercitare la sua superiorità.

È sempre la pulce e l’elefante. Ora c’è la guerra in Ucraina, il sentiment è antirusso, e Milano censura il maestro Gergiev, Anna Netrebko e, non avendo altri russi sottomano, Dostoevskij - ha annullato il seminario che Paolo Nori teneva sullo scrittore all’università. Non se ne fa mancare una: sia domani l’opinione filo russa, Milano farà monumenti a Gergiev, Netrebko e Dostoevskij.
Altrove sarebbe ridicolo, a Milano no. La città aveva il cabaret – Fo-Parenti-Durano, Jannacci, il Derby – ma non ha il senso del ridicolo. È un male? 

leuzzi@antiit.eu


Bella Italia nell’Istria

Una serie dichiaratamente “ordinaria”: inglese, di caratteri inglesi, all’inglese – senza cioè il vezzo censorio, o impegnato, delle produzioni continentali. In una cornice fantasmagorica, di sole e aria. Convenzionale, rétro. Ma ben contestualizzata, con i postumi della Grande Guerra, quali ricorrono spesso nella narrativa anglofona, da Hemingway a Remarque e Agatha Christie. E col fascismo, brutale, corrotto.
Piacevole: scontata come storia ma ben raccontata, dal di dentro – senza cioè il vezzo censorio che avrebbe una produzione italiana. Con un briciolo di, non voluta, critica della storia: Portofino c’è per poche vedute aeree (per giustificare l’utilizzo del nome, di richiamo): la bella Italia che fa la forza del filmato è istriana, dell’Istria per la quale fu fatta la Grande Guerra e che non è più italiana, Rovigno, Laurana, Fiume.
Matt Baker-Adam Wimpenny, Hotel Portofino, Sky Original

lunedì 28 febbraio 2022

Problemi di base bellicosi - 686

spock


È più onorevole l’assedio dell’Ucraina oppure il bombardamento della Serbia, dell’Afghanistan, dell’Iraq?
 
Dove sono finite le guerre giuste – Serbia, Afghanistan, Iraq?
 
Dicono a Berlino e Bruxelles che l’attacco all’Ucraina è la prima guerra europea dopo Hitler, perché, Berlino nel 1953, e nel 1961, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, dove si trovano?
 
L’Europa non finisce di farsi la guerra, oppure la Russia non è europea?
 
C’è una questione Russia in Europa, oppure il problema è solo Putin?
 
E chi è Putin?
 
È sempre “voi suonate le vostre trombe noi suoneremo le nostre campane”?


spock@antiit.eu


La guerra alle banche

Il primo giorno di guerra dopo l’annuncio che l’Europa, Italia compresa, fornirà armi pesanti all’Ucraina, piazza Affari apre in forte calo, con Leonardo (ex Finmeccanica, armamenti) sospesa invece al rialzo. Con rischio di sospensione al ribasso per Unicredit, giunta a meno 10,68, e poi fermatasi a meno 9,52. E con perdite notevolissime anche per Intesa, - 7 per cento. Le due banche forse più esposte in Russia.
Nella stessa mattina si sono aperti i negoziati per una tregua, tra Mosca e Kiev, ma le armi convincono di più. Nella stessa ottica, però, le decisioni belliche prese dall’Europa – l’esclusione dalla rete swift delle banche russe, oltre alla fornitura di armi pesanti - sono autocastranti.
Le sanzioni, come mezzo di pressione e dissuasione, si sa da tempo che non funzionano – dall’Italia imperiale di Mussolini, dall’Iran khomeinista, eccetera. Si adottano per non saper che fare, come lavacro morale, per sgravarsi la coscienza. Ma possono essere controproducenti.
Per i sanzionati implicano solo un costo supplementare per i rifornimenti – i divieti si traducono in intermediazioni. Nel caso in questione implicano problemi per le banche europee più che per quelle russe. E rincari abnormi del petrolio e del gas – entrambi oggi a oltre 100 dollari per quantità di riferimento. Con impatto severo sull’inflazione e sui bilanci delle famiglie (sui conti pubblici, se i rincari sono nazionalizzati). A carico cioè dei paesi sanzionatori. In questo caso a beneficio perfino del paese sanzionato. Mentre il blocco delle riserve della banca centrale di Mosca non può tramutarsi in confisca, nemmeno in caso di sconfitta russa.

Un fotoromanzo, poco geniale

Dove si conferma che un film è del regista. Le prime due serie di “L’amica geniale”, regista Costanzo, erano “geniali” come storia di un’amicizia “rionale”, incondizionata e coraggiosa, di animalesca intelligenza e intraprendenza, di due bambine, poi ragazze. Una riflessiva, la narratrice, una aggressiva e risolutiva, l’amica geniale. In un’ambiente povero e cupo, sprazzi di luce, perfino di sorriso. La terza che finalmente si conclude, di Luchetti, è un fogliettone – un fotoromanzo. Anche nelle pose, gli sguardi, le battute.
A meno che l’effetto fotoromanzo non sia a questo punto della vita delle due amiche nel racconto originale, di “Elena Ferrante”. Sarà, ma mai quanto il tema, le immagini e le didascalie del film.
Daniele Luchetti, L’amica geniale 3, Rai 1   

domenica 27 febbraio 2022

Secondi pensieri - 475

zeulig

Giustizia – Comincia dal “Libro di Giobbe”, il giusto oppresso dall’ingiustizia – c’è migliore giudice di Dio?

Linguaggio – Borges lo vuole “rigido – “l’universo è fluido e mutevole; il linguaggio, rigido”, “Epilogo”, a “Storia della notte”. Dopo avere appena detto che “un volume di versi altro non è che una successione di esercizi di magia”.

Matricidio – “Il parricidio”, nota Umberto Saba in una delle “Scorciatoie”, “è nella natura dell’uomo, una delle condizioni del suo progresso. Il matricidio è un’altra cosa. E lo seguono le furie di Oreste”, imperdonabile cioè. Il poeta soffriva personalmente il trauma dell’abbandono materno alla nascita - non riconosciuto dal padre, fu lasciato dalla madre per i primi anni a una balia (da lei, Peppa Sabaz, prenderà il nome da poeta): il tema del matricidio lo ossessionerà lungamente, attraverso psicoterapie prolungate. Ma è vero, il matricidio, o l’infanticidio a opera della madre, che obbligatoriamente (mater semper certa) è più diffuso del parricidio, è tema quasi desueto – se non nella tragedia, classica.   
 
Natura
– Ritorna periodicamente sotto vesti ireniche, e salvifiche. Di più, morali, e di pedagogia etica – Woodsworth, Thoreau. Implicite – non a Darwin – nella “selezione naturale”, come motore di ricerca e sviluppo. Saggia, perfino umana.
La bontà della natura è un mito seducente, ma una forma di consolazione. Che fa torto alla natura. La quale è ben altrimenti aggressiva, trasgressiva, attiva, perfino agitata. Creativa per essere convulsionaria  
 
Opinione Pubblica 
- L’opinione pubblica è das Ding, la Cosa, o das Man, l’impersonale “si”, per Heidegger, “Essere e tempo”, §§ 26 e27, che ha la funzione di celare la realtà e d’impedire il manifestarsi del pensiero.
Stendhal denunciava, poco meno di due secoli fa, “l’oscurità e l’enfasi” dei “giornali dell’industrialismo”. Nulla è cambiato.
 
Psicoanalisi
– Lascia fuori la maggior parte dei focolai di traumi infantili, e delle forme di rimozione, tropo adagiata sui casi studiati da Freud, che non può avere analizzato tutti i traumi, ancorché ricorrenti – troppo ancorata alle ricerche (al tipo di ricerche) che Freud personalmente ha sviluppo, ai temi e ai campi di indagine da lui individuati. Il conflitto madre-figlia, il tema più diffuso e pertinente della psicoterapia – nonché della narrazione al femminile (non senza qualche approccio maschile) - ne è fuori.
La scrittrice americana Lucia Berlin nel racconto “Stelle e santi” ne individua un altro, oggi al fronte nel dibattito pedagogico e sociologico: il bullismo, tra bambini, alla scuola materna, e ragazzi, fino anche ai vent’anni, maschile e femminile: “Gli psichiatri si concentrano interamente troppo sulla scena primaria e la deprivazione pre-edipica e ignorano i traumi dei bambini della scuola elementare e diverse, che sono crudeli e spietati”.
 
Wannsee – Non si trova, quest’anno come a ogni ricorebnza (ma ormai non si trova più, gli archivi del Terzo Reich sono pure bruciati), il verbale dello sterminio degli ebrei, della “Soluzione finale”. O della questione se Hitler sapesse, che non era presente alla riunione (John Irving è storico per aver posto il quesito – come se in Germania qualcosa si decidesse all’insaputa di Hitler). Questo alimenta la pubblicistica: fu vero sterminio? Perché, cos’altro fu?
Non c’è il verbale, si può dire, anche perché la filosofia tedesca è terminale: fine della metafisica, Kant, fine della storia, Hegel, fine della filosofia, Nietzsche, fine del linguaggio, Heidegger. Il sottile Heidegger, che al Wannsee certo non c’era, nemmeno lui, s’intestardì in arzigogoli sulla razza e il popolo.
 
L’Olocausto, malgrado la filosofia, fu freddo. E non è irripetibile, anzi si riproduce. L’Olocausto fu l’annientamento deliberato degli ebrei. Con lo sterminio e la schiavitù. In questo aspetto era esteso ai paesi ostili, la Russia, l’Italia dopo l’8 settembre. Si è riprodotto nei gulag e i laogai, i campi di lavoro comunisti che hanno sfruttato milioni di persone, molti comunisti, fino alla morte. Mentre lo schiavismo etnico si riproduce nelle politiche europee dell’immigrazione, che sono non politiche, per tenere gli immigrati fuori della protezione legale. I forni crematori saranno stati un’alternativa tecnica all’impossibile sepoltura e alla cremazione individuale - anche se erano “industria insalubre di prima classe” già per la legge di Mussolini, nel 1934. Ma l’Olocausto è sterminio nelle camere a gas, per gli inetti al lavoro, e negli Einsatzkommandos. Una soluzione impossibile nel quadro d’una soluzione possibile – immaginabile, ripetuta, costante.
 
Il genocidio è rivoluzionario, si sa anche se non si dice: un genocidio vero e proprio, con leggi, bolli e sigilli, fu deciso dalla Rivoluzione contro i vandeani, “razza maledetta”, agli atti nella storia che non si legge, a parte Manzoni e Babeuf. La colpa, insomma, è come dire che è della cucina, Nietzsche che l’ha detto avrebbe ragione ancora una volta - Nietzsche lo stabilisce in Ecce Homo, della “minestra prima del pranzo”, barbarie che a Venezia già nel Cinquecento si diceva “alla tedesca”, della “carne bollita all’eccesso”, delle “verdure cucinate grasse e farinose”, dei “dolci degenerati in fermacarte”, e del bisogno smodato di bere dopo il pasto, Fritz lo dice al capitolo “Quanto sono dritto”, paragrafo 1.  Se non che c’è lo sterminio organizzato, dei mediocri Eichmann, Stangl, Höss, e c’è la volenterosa persecuzione dei semplici. Non solo tedesca, va aggiunto, anche austriaca, anche francese e slava, di uomini e donne che non si davano pace finché le SS non li liberavano del vicino ebreo.

zeulig@antiit.eu

Cronache dal lager, sognando Rabelais

Un Levi preciso e amabile, di persona come nei suoi racconti. Pieno di humour più che di sangue amaro – Rabelais, “se potessi, lo sceglierei come padre”. Raccolto e annotato, con con molti materiali e riferimenti, da Belpoliti (materiali non agevoli alla lettura elettronica – questo è un limite notevole dell’ebook). Sulle sue origini, “ebreo di ritorno”, e quasi inconsapevole - a più riprese si dichiara, in ordine, piemontese, italiano, ebreo. Sui mestieri – “Faussone esiste, io l’ho incontrato”. Su Torino, molto, sulla piemontesità – rivendicata, non per sé, a fronte del resto d’Italia. Auschwitz, naturalmente, ma più per l’orchestrina che suona la mattina e la sera, alla partenza e al ritorno delle squadre di lavoro, che stanno male in piedi, scheletri la più parte, in cenci sporchi.
Della Germania conferma nel 1985 a Germaine Greer, che gli ricorda quanto ha scritto “in modo chiaro e inequivocabile” subito dopo l’abiezione, in “Se questo è un uomo”, “che è inutile cercare di comprendere i tedeschi”: “È vero. In effetti, ho cercato con tutte le mie forze di capire i tedeschi anche dopo quella esperienza.  Sono stato iscritto al Goethe Institut di Torino per cinque anni”.
Con il discorso tragico, che è in particolare de “I sommersi e i salvati”, della compromissione. “È difficile giudicare i limiti della compromissione. C’è tutta una scala, che inizia laddove si accetta di sopravvivere, quindi si accetta di lavorare per il nemico”. Onesto sempre. A proposito di “un film falso come quello della Cavani” (“Il portiere di notte”, 1974), sulla “identificazione della vittima col carnefice”, spiega a Silvia Giacomoni ancora nel 1979. Anche perché – Rabelais - “nel lager succedeva di tutto, proprio di tutto, ma le donne non erano oggetti sessuali. Erano brutte. Perdevano i capelli, parevano vecchie”.
Utile anche per i critici. Per I commenti suoi a tutte le sue opere che a man a mano ha pubblicato (le interviste si affollano in occasione delle uscite di suoi libri).
Primo Levi, Conversazioni e interviste
, Einaudi, ebook, pp. 352 € 7,99