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sabato 20 febbraio 2016

I separati in casa e l’Europa à la carte

Sono lontani i tempi di De Gaulle, che invitava protervo a diffidare della perfida Albione, che pure lo aveva accolto in guerra. E anche quelli dei diktat a Bruxelles di Margaret Thatcher, “o si fa come dico io o altrimenti…”. L’accordo da separati in casa tra Cameron e la Ue è tra due debolezze. La Gran Bretagna è molto lontana dallo splendido isolamento, solo interessata a qualche immigrato in meno. L’Europa non è unita e non lavora più per unirsi: non solo l’entusiasmo, ha perso anche le idee.
L’accordo con la Gran Bretagna è anche l’avvio di una serie di accordi da separati in casa con questo e quello, per prima la Polonia, poi l’Ungheria. Di una Unione di ridotta à la carte, in cui ognuno prende ciò che vuole. Senza pagare.

Monti non è europeista

“Lei sta facendo correre grossi rischi all’Italia e al’Europa”, ha ammonito Mario Monti al Senato il presidente del consiglio Renzi: “ei non manca occasione per denigrare l’Unione introducendo negli italiani una pericolosissima alienazione nei confronti dell’Europa”. Un’indignazione inversamente proporzionale al giudizio: l’ex capo del governo “salito in politica” si professa europeista unico, mentre affonda l’Unione in quello che è il suo gorgo, l’autoreferenzialità. Non un’Unione di citadini nell’interesse dei cittadini, cittadini ma una entità astratta, al meglio – in concreto di burocrati espressione di interessi economici e nazionali.
La cosa si può complicare con la nascita politica e il governo di Monti. Succube di un’Europa che ha portato l’Italia a una crisi ancora senza via di uscita. Anche perché caparbiamente ce la tiene dentro. Ma è inutile maramaldeggiare: l’uomo ha i suoi limiti. Da economista, il primo economista al vertice dell’Italia – ci fa Einaudi, ma era il capo dello Stato, al di sopra delle parti- che non ha dato una sola ricetta utile e tante invece dannose. E come fa il professore Monti a non vedere il disastro che l’Europa ci ha combinato e ci sta combinando, bancari e, ancora una volta, sul debito? I disastri, mettendoci dentro anche l’Ucraina, gli immigrati, la Siria e la Libia.
Si può essere servi con onore. Ma non servi sciocchi: non è venuto mai il dubbio al professore che l’ “Europa”, la sua Europa, lo onori perché lo ritiene un servo sciocco? Obbedire alle cancellerie potenti non è europeismo - quanto potente è Berlino Monti avrebbe dovuto saperlo da commissario a Bruxelles alla Concorrenza. 
Non si è europei sottomettendosi al peggio. A un duopolio Germania-Francia palesemente inetto – che è poi un monopolio merkeliano, a fronte dell’inettitudine di Sarkozy e Hollande. O a non tanto oscuri diktat di “Bruxelles” o “Francoforte” – da intendere la Bundesbank, non la Bce - che provocano guai invece di cercare soluzioni e miglioramenti. Riprova di questa falsa ipostatizzazione è l’approccio all’opinione pubblica, considerata passiva: non c’è da indirizzarla, nell’opinione del professor Monti, ma di comprimerla e sacrificarla. A un totem Europa, pure oggi così brutto. Migliorare questo totem è invece l’impegno d’ogni anche piccolo europeista.

L’Habeas Corpus di Pignatone

Maha (Abdelrahman) era al funerale di Giulio, è stata portata via dalla polizia e interrogata dal procuratore in circostanze che noi consideriamo estremamente insensibili, non le sono state date sufficienti spiegazioni e non parla italiano. Era in Italia per piangere Giulio, quello che è stato detto ai media italiani dopo quel colloqui non ha basi, sono state rivelate cose che si dichiara che avrebbe detto, ma lei non ha detto. Non era in grado di capire cosa veniva detto sul suo conto”. In due frasi  sei o sette capi d’accusa verso una polizia e una giustizia proterve e infamanti.
Il professor David Runciman, capo del dipartimento Studi Internazionali di Cambridge, è preciso e letale in intervista con Viviana Mazza per il “Corriere della sera”. Senza contare che la ricercatrice di Cambridge dottoressa Abdelrahman, tutore (direttore di ricerca) di Giulio Regeni, è stata sequestrata e abusata dalla Procura di Pignatone perché egiziana di origine.
Il professor Runciman viene dalla cultura dello “Habeas Corpus, troppo per i Procuratori italiani, che non sanno l’inglese – ma è latino (a meno che questo “habeas corpus” non lo intendano come afferrare la preda, sbattere dentro: nulla è impossibile per un giudice italiano). 

Il mondo è vario, la natura esiste

Il sottotitolo è: “Sull’inconveniente di collegare idee morali a certe azioni fisiche anche se non ne comportano”. L’interlocutore B. del dialogo, l’autore, si scandalizza per certi usi che il comandante Bougainville ha testimoniato nel suo “Viaggio intorno al mondo”. Per esempio “l’infibulazione delle donne; e da lì tanti usi di una crudeltà necessaria e bizzarra, la cui causa si è persa nella notte dei tempi, e mette i filosofi alla tortura”. Per un intreccio perverso tra divino e umano nelle istituzioni storiche: “Un’osservazione abbastanza costante è che le istituzioni soprannaturali e divine si fortificano e si eternizzano, trasformandosi alla lunga in leggi civili e nazionali; e che le istituzioni civili e nazionali si consacrano, e degenerano in precetti soprannaturali e divini”. Le “istituzioni soprannaturali e divine” è una contraddizione in termini, ma il ragionamento è chiaro: cosa è storico e cosa è divino, è un garbuglio. Ma non c’è dubbio che certi divieti e obblighi sono infondati e inconsistenti: col “Supplemento” l’illuminismo si apre al naturalismo, ma in chiave sempre di ampliamento del perimetro delle libertà. .
Antonio Santucci, studioso di Gramsci, ha preparato questa riproposta in chiave di etnoapertura. Del viaggio di pura scoperta, non a fini imperialistici. Della molteplicità delle culture, senza gerarchie – tema già di Montaigne. Ma non di indifferenza, né senza un criterio di razionalità e giustizia: è questo il problema di Diderot. Il capitano di vascello barone Louis-Antoine de Bougainville aveva prodotto nel 1771 un enciclopedico “Viaggio intorno al mondo”, dopo un viaggio per e da Tahiti nel 1768. In cui parlava più di cose non viste che viste, ma esaurientemente. Tanto da scuotere l’antinaturalismo di Diderot, che subito recensì il “Viaggio” e pochi mesi dopo lo arricchì di questo “Supplemento” teorico.: Il cui interesse, antiquario e contemporaneo, è inesauribile. Dal semplice. Le previsioni del tempo, allora per Diderot come per noi oggi in Italia: imprevedibili – in Svizzera dicono il minuto esatto e anche la strada dove pioverà. O il viaggio come spostamento del punto di osservazione. O le “riduzioni” dei gesuiti nel Paraguay come un sistema di crudeltà spartana: “Quei crudeli Spartani in tonaca nera usavano i loro indiani come  Lacedemoni i loro iloti”. Al complesso.
Si prenda l’insularità come origine degli stermini: antropofagia, massacro di bambini, sacrifici rituali, infibulazione delle donne, castrazione dei maschi. Tutte cose non più insulari, ma sì all’origine, come reazione alla sovrappopolazione in un perimetro ristretto – la cosa si potrebbe applicare alle interminabili guerra nella piccola e popolosa Europa. O l’incesto non innaturale, considerata l’origine dell’umanità secondo i testi sacri. Ma contrario all’ordine sociale: “Che diverrebbero al scurezza di un capo e la tranquillità di uno Stato, se tutta una nazione composta da parecchi milioni di uomini si trovasse raccolta attorno a una cinquantina di capifamiglia” – l’asfissia della società oligarchica oggi. O la condanna dell’atto sessuale: “Come è accaduto che un atto il cui scopo è così solenne, e al quale la natura ci invita col richiamo più potente; che il più grande, il più dolce, il più innocente dei piaceri sia divenuto la fonte più feconda della nostra depravazione e dei nostri vizi?” Anzitutto “per la tirannia dell’uomo, che ha convertito il possesso di una donna in una proprietà”. Il “possesso di una dona” oggi suona ridicolo, me altre ragioni no: il sesso è tabù in virtù delle leggi, nonché degli usi, quando privilegiano l’unione coniugale, e “per la natura della nostra società, in cui la diversità di fortuna e di rango ha istituito convenienze e sconvenienze”.
Diderot si spinge a considerare l’anomia in Calabria come un allargamento dell’area di libertà, ma questo necessiterebbe di un altro supplemento.
Denis Diderot, Supplemento al viaggio di Bougainville, Editori Riuniti Univ. Press, pp. 132 € 14

venerdì 19 febbraio 2016

Letture - 247

letterautore

Basile – Per i 450 anni della nascita nemmeno un articolo di giornale, nonché una celebrazione, uno studio, una riproposta, un francobollo. Di Giambattista Basile, l’autore del “Cunto di li cunti”. Del primo trascrittore e rielaboratore delle fiabe, prima di Perrault, madame de Beaumont, i fratelli Grimm – delle stesse fiabe peraltro, più o meno. È uno dei segni dela “scomparsa di Napoli” dall’Italia. Ma è anche vero che la scomparsa di Basile è più antica: lo ha riscoperto Croce, che lo volse in italiano, poi più nulla.
L’edizione di Croce è del 1925. Riproposta ripudiata perché era anche l’anno III E.F? Non c’è un crivello letterario per cernere la storia alle varie date?
Basile manca anche a Propp, lo studioso delle fiabe.

Candido – “Un romanzetto leibniziano” lo dice Gadda – nella filippica contro Foscolo, “Il guerriero, l’amazzone etc.”. O non ne è la satira, del migliore dei mondi possibili? Ma è vero che il romanzetto è leibniziano suo malgrado, perché Leibniz era – un po’ – Voltaire.

Citazione – È sempre un furto, ma talvolta, anche se riconosciuto, con destrezza – furbescamente, tradendo. Rousseau amava la “Gerusalemme liberata”, assicura Starobinski, soprattutto in vecchiaia, fino a tradurre, sintetizzandolo in prosa, l’episodio di Sofronia. Che utilizzerà infine nelle “Fantasticherie”. Ma artatamente: “Magnanima menzogna! Or quanto è il vero\  Sì bello, che si possa a te preporre?”. Per dire che si può essere bugiardi. Mentre Sofronia non è bugiarda, compie un atto di resistenza contro una ingiustizia – concetto a Rousseau, e a tutti i romantici, estraneo.

Corpo – “The primacy of Matter over Thought” è per Man Ray un bel corpo femminile, ben fotografato tra le ombre. Non si può dire che abbia torto.

Don Giovanni – Peter Handke lo fa autobiografico – un narcicista al quadrato. E la prima avventura, con la sposa che sottrae al matrimonio, gliela fa godere soprattutto all’addio. “Entusiasta si separò da lei: paradiso degli addii”. Dopo questa scoperta, gli incontri si moltiplicano, all’ingrosso, al minuto e all’istante.
Il don Giovanni di Handke è anche peripatetico, come tutti gli altri, ma più per una condanna – un po’ come l’ebreo errante. Finché non incontra la donna in Norvegia. Che, “secondo le concezioni del luogo”, è “malata, una folle, una disturbata”. È allora che s’innamora.  Fino a divernirne il portavoce e il portabandiera, di lei e di tutti gli “umiliati, i deconsiderati”. Gli anonimi, l’esito è la perdita dei nomi.
I “rovesciamenti” sono inseparabili evidentemente dalla cultura tedesca.

Inadeguatezza – La nozione forse più ricorrente della psicoterapia oggi, che assomma a un senso di vergogna uno contemporaneamente di superiorità (nel giudizio, nelle attese), è probabilmente la figura più ricorrente della narrativa, prima della scomparsa del personaggio. Russa: Gončarov, Gogol’, Turguenev, Leskov, Dostoevskij, Tinyanov, Bulgakov, lo stesso esuberante Majakovskij, con le sue improvvise tristezze. Francese:  Flaubert  (Félicité, Emma Bovary,  Frédéric e Rosanette), quelli dell’atto gratuito di Gide, l’apocalittico Céline, nel suo Bardamu e in proprio, le stesse anti-figure di Sartre. Italiana: Soldati, Calvino (un modo più giusto di leggerlo). E Melville, naturalmente, che ne è pieno.
Ossola ne trova la radice – dell’“inadeguato” come “idiota” - in don Chisciotte. Ma il cavaliere è un combattente, l’idiota è en retraite, concettuale, morale (per scelta), per nascita, famiglia, educazione, struttura mentale (culturale), perché sconfitto. Anche se in realtà opera – a senso - l’“affermazione negativa” di Pontalis, l’ossimoro che Ossola cita in “En pure perte”.

Il personaggio, quindi, a tutto tondo si vuole “inadeguato”. È – era - anche un modo per sbozzarlo, delinearlo, mutarlo, rivoluzionarlo in corso d’opera.

Lettura – “Possiamo contare su cinquemila lettori, non di più”, lamentava Arbasino cinquant’anni fa, quando cominciava la sociologia della lettura. Con la prima industrializzazione dell’editoria e il marketing. Da allora è una costante: in Italia si legge poco. Cosa che il “nasometro” sembra confermare: non si leggono tanti romanzi come in Inghilterra, o in Francia, tanti e così voluminosi best-seller come negli Usa, e forse, ma non è detto, nemmeno tanta filosofia come in Germania – non è detto che la Germania legga filosofia, non sembra. Ma una cosa che l’Istat contesta, contando a in Italia 24 milioni di lettori di libri, di almeno un libro. Dei quali il 14,3 per cento “lettori forti”, coloro che leggono in media almeno un libro al mese: tre milioni e mezzo. Il 64,4 per cento delle famiglie italiane, due su tre, ha in casa fino a 100 libri, e il 7,4 per cento più di 400. Solo il 9,1 per cento dichiara di non avere in casa nemmeno un libro – nemmeno uno di devozioni?
È anche vero che solo il 42 per cento degli italiani dai sei anni in su dichiara di aver letto un libro – solo il 28,8 per cento al Sud. Ma va meglio altrove?
Se si pubblicano circa 62 mila titoli nuovi l’anno, per una vendita di circa 100 milioni di copie, queste cifre fanno una tiratura media di 1.800 copie a titolo. Non disprezzabile, anche se bisognerebbe sapere quanto di queste tirature finisce ai remainders o al macero.
Il lettore del resto è un consumatore diverso. Mentre di ogni altro prodotto che non risponde ai requisiti di qualità per cui è stato venduto si può chiedere il cambio o il rimborso, del libro no. Il libro è anche un prodotto che per legge dev’essere venduto a caro prezzo. La legge di Ricardo Franco Levi proibisce che il libro si venda a sconto, mentre del prosciutto questo è possibile, e di ogni altra merce. Levi ha fatto male, ma può rimediare, introducendo il diritto al rimborso se la merce non risponde alla presentazione (pubblicità, presentazioni, recensioni).

Manzoni – “Sono gli insegnati, spesso, i primi nemici di Manzoni”, titola “Sette” le Lettere al direttore. Manca la enne, certo, ma il titolo dice sbagliando la verità: il romanzo non si legge volentieri.  A dispetto delle tante elevate professioni di alta fede manzoniana (o non saranno solo i siciliani, paraculi? di devoti si citano da qualche tempo solo Sciascia e Camilleri), il suo è un romanzo storico ottimo ma con un plot debole e anzi debolissimo. Di personaggi e storie che Manzoni non capiva e non sentiva – giusto il conte zio – e non voleva imparare a conoscere.
Più che storico, del resto, il romanzo è satirico. Fa torto alla Spagna naturalmente, ma anche alla Lombardia nel Seicento. Che non era la Scozia, e nemmeno terra incognita.

Secoli – Il Novecento è armato. No, quello è l’Ottocento, secondo l’Ingegnere Gadda sardonico al meglio, “Conforti della Poesia”, in “Il tempo le opere”: “La grande poesia ottocentesca disponeva di un armamentario che farebbe invidia ai magazzini della Scala: i cimieri, i brandi, gli usberghi vi furoreggiano, i destrieri, le pugne, le prore,le tubi, le torri, le selve, ne combinano d’ogni maniera. Senza contare il serraglio: volatili e quadrupedi”. Così è.
Il Novecento è mortifero, luttuoso, depresso e deprimente. Il Settecento è presto detto: impresentabile, inemendabile, tanto è ragionevole e sa tutto. Qui ha ancora ragione l’Ingegnere: “Ossessione immaginifica è quella d’un perpetuo celebrare , d’un interminato sacerdozio preso le are e le tombe. I gesti rituali degli officianti, lo spargimento dei sacri liquidi dalle sacre pàtere sul cubo dell’ara. Fronde di alloro e di mortella, e libagioni di latte e coltivazione delle api …., di profusione di aggettivi patronimici greci su tutti i cimiteri di memoria…”.

Si può anche dire l’Ottocento celebrativo, contento di sé – positivamente positivista. È il secolo del primo grande sbalzo concentrato della tecnica – solo un secolo dopo sopravanzato, a Fine Novecento, dall’elettronica. E il secolo di maggiore creazione di ricchezza nella storia, dell’Europa e degli Usa: le tracce sono ampie nella letteratura, francese, americana, perfino in Tolstòj, nella “Karenina”.

letterautore@antiit.eu

La politica fagocitò il comico

Il pubblico ride. Ma perché ha pagato il biglietto. Alla fine se ne va avvilito: il Grillo comico effervescente non fa più spettacolo, la politica se ne è impadronita – l’ha ingoiato, lo ributta  predigerito.
Il comico tornato al teatro dopo la politica dovrebbe fare la gag di se stesso, ma Grillo non ci riesce. Non se lo propone nemmeno, e questo è anche peggio: è come se si dichiarasse vinto in partenza. Si ha voglia di parlarne male, la politica è un animale infettivo, di civetteria irresistibile e superba, anche quando non è in forma. Essendo il potere, l’antitesi esatta del comico.
Beppe Grillo, Grillo vs. Grillo, teatro Brancaccio a Roma

giovedì 18 febbraio 2016

Il mondo com'è (250)

astolfo

Bombardamenti – Si fa la storia solo dei bombardamenti aerei anglo-americani, ma la tecnica del bombardamento massiccio, con i cacciabombardieri, fu messa a punto e applicata alla “guerra totale” – così come il concetto stesso e la pratica della guerra totale - dalla Germania: nella guerra di Spagna, a Guernica e altrove,  e poi, a partire dal 1939, in Polonia, sull’Inghilterra, da Londra a Coventry, nelle Fiandre, nel Nord-Est della Francia – Roubaix e altrove. In Francia, allo scoppio della guerra, la popolazione parigina prese per prima misura lo sfollamento in campagna, dando per scontato che la città sarebbe stata bombardata. “Le nostre città sono solo una parte\ di tutte le città che abbiamo raso al suolo”, commenterà Brecht nell’“Abicì della guerra”.
In nota a una delle foto, il primo bombardamento inglese su Berlino, la notte del 10 settembre 1940, Brecht stesso dà però poi la paternità-responsabilità del bombardamento indiscriminato agli anglo-americani - effetto della propaganda postbellica di Berlino Est:
“Dal 1940 all’aprile 1945 sulla sola Germania furono sganciate:
peso del e bombe in tonnellate      = 1 300 000
vittime                                            = 500 000
percentuale delle vittime per tonn. = 0,38”

Corruzione – Ha confini labili. Nel mondo mussulmano, nel quale il furto è un delitto grave, la corruzione di fatto non esiste: fa parte dell’economia del dono. Fu un grave problema per le multinazionali negli anni 1970 – e lo è tuttora per le multinazionali italiane in Italia, presso alcuni giudici  – quando una commissione del Senato Usa intese perseguire il pagamento di mediazioni d’affari. Che nel mondo arabo, e in Iran, Pakistan, India e altrove, grosso modo nei mercati islamici, costituivano pratica corrente e anzi necessitata. Sia dove gli Stati sono patrimoniali, come nella penisola arabica, sia in Iran, Pakistan, Malesia, Indonesia, nella stessa India, etc., paesi istituzionalmente moderni. La corruzione attraverso la mediazione, perseguita quarant’anni fa sulla scia degli Usa, fu la causa prima della caduta dello scià: era pratica corrente dei suoi familiari, specie della sorella Ashraf.
La Malesia ne è esempio recente. Si è chiuso tre settimane fa con un’assoluzione l’inchiesta a carico del primo ministro Najib Razak sul cui conto erano stati trovati 681 milioni di dollari. Il sospetto era che li avesse sottratti a un gruppo pubblico andato fallito, di cui come primo ministro era il presidente. Si è invece dimostrato che erano un dono personale dell’Arabia Saudita, e quindi non imputabile.
In realtà, il fatto non si è dimostrato. Questo lo ha stabilito il Procuratore Generale Mohammed Apandi. Che era stato nominato da Razak. Il quale è figlio di un ex primo ministro. Un dono di 681 milioni sembra troppo. Ma il Procuratore Generale ha assicurato che 620 milioni sono stati restituiti ai reali sauditi, senza specificare il motivo del dono né della restituzione.  E che 61 sono stati spesi, “non per fini personali”. Ma senza dire quali. La Malesia ha anche una Autorità Anti-corruzione. Che ha attestato anch’essa l’origine dei fondi quale donazione saudita. Senza scandalo. La supposizione è che il finanziamento sia andato all’islamizzazione del paese: la Malesia è uno Stato multirazziale e multiconfessionale, che da qualche decennio è entrato nell’orbita islamica. Ma non è detto.

Napoleone – Passa ancora per liberatore, mentre fu sofferto dai contemporanei come conquistatore. Nei capricci di Goya, nelle caricature di Rowlandson, o a Venezia, di cui chiuse la storia millenaria. Senza contare le predazioni, a partire dall’Egitto, una spedizione promossa a questo solo fine, e poi sua pratica costante, in Italia, in Germania nelle Fiandre, in Spagna.

Profughi – Settant’anni fa erano ebrei: la prima emigrazione di massa nel Mediterraneo, di profughi, con mezzi di fortuna e centinaia di morti, fu quella degli ebrei europei verso la Palestina subito dopo la guerra. Erano un nucleo piccolo ma consistente di quei dieci milioni di displaced persons, come verranno chiamati dalla sociologia negli anni 1980, profughi in genere dall’Est, ma anche sopravvissuti ai lager nazisti, che costituirono uno dei punti di crisi in Europa nel 1945-1946. Otto su dieci erano tedeschi, della Prussia, della Slesia e della Galizia occupate dai russi e dai polacchi, e furono in qualche modo sistemati in Germania. Dei restanti due milioni (polacchi, baltici, rumeni etc, in fuga dal sovietismo o ex collaboratori della Germania occupante), 250 mila circa erano ebrei: 70 mila sopravvissuti ai lager, centomila ebrei polacchi che si erano salvati nella guerra in Unione Sovietica, e nel 1946 fuggirono dalla Polonia dopo alcuni sanguinosi pogrom, e 80 mila circa sopravvissuti in Germania e altri paesi occupati da Hitler.
Il Salento  divenne “la porta di Sion”, dove confluirono per l’imbarco verso la Palestina almeno trentamila e forse quarantamila (molti non avevano documenti) ebrei europei. Il governo italiano favoriva gli imbarchi, un po’ per ragioni umanitarie, un po’ per calcolo: “La scelta di assecondare una iniziativa carica di risvolti umanitari, che […] intralciava la strategia inglese nel Mediterraneo, diveniva col tempo uno strumento per riaffermare una parziale autonomia operativa dell’Italia”, ha scritto lo storico diplomatico Mario Toscano (“La porta di Sion: l’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina, 1945-1948”, 1990). I più passavano dal Brennero - “lo stretto canale di un vasto imbuto”, Primo Levi. Due-tremila al mese passavano il confine di notte, da campi a campi profughi di fortuna di là e di qua del confine, mediamente in gruppi di un centinaio a notte.
Dei 17 campi profughi (DP, displaced persons) organizzati in Italia dall’Unrra, un’agenzia Onu, la metà erano in Puglia, a Palese, Barletta,Trani, Bari, e quattro nel Salento: Santa Maria al Bagno, Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea e Tricase. Santa Cesàrea Terme nel Salento conserva ancora le iscrizioni in nero sulla calce bianca degli edifici dei punti di raccolta e di imbarco dei profughi ebrei di tutta Europa per il Levante.
La lunga didascalia di una foto americana di un giornale Usa che Brecht riutilizza nell’“Abicì della guerra”, mostra una madre col bambino ripescati in mare insieme con altre 180 persone, mentre 200 erano morte annegate, nel naufragio di una carretta del mare, il “Salvatro”, sulle coste rocciose della Turchia. Come oggi. Un’altra carretta, “Patria”, era esplosa con 1.771 persone a brodo. La “Pentcho” si era incagliata su un’isola italiana con 500 imbarcati. La “Pacific”, con 1.062 profughi, e la “Milos” con 710, erano state costrette a proseguire il viaggio senza sbarcare in Palestina – allora amministrata dalla Gran Bretagna. Un’altra nave, con 500 profughi ebrei, “fu rimandata di porto in porto per quattro mesi”.

Rendita – È ferma all’Ottocento, la rendita al 3 per cento, le obbligazioni delle ferrovie o delle poste,  e i titoli russi (oggi cinesi), redditizi e sicuri. Mentre non esiste più. Né di fatto né concettualmente: si investe, anche in obbligazioni, come al casinò. Ognuno lo vede. Ma la forza dell’apparato (pubblicità) resta soverchiante. La rendita viene tenuta bloccata sull’Ottocento, sul secondo Ottocento in realtà, epoca di relativa stabilità finanziaria, quella che culminerà nella Belle Époque, nel balletto Excelsior e nei piani di Pace Perpetua, dagli stessi che fanno professione di destabilizzarla: i banchieri d’affari e tutto il business finanziario, che prospera nei sommovimenti, e i loro referenti nei giornali – l’informazione economica è per nove decimi originata dagli ambienti d’affari.

Spread – È una clava e non una unità di misura. È un differenziale, ma non un misuratore inerte: è un rapporto fra due entità analoghe, dei quali l’una è più o meno favorita dell’altra, ma in rapporto vicendevole. Nel caso del debito pubblico in Europa, in cui i debiti nazionali si valutano in rapporto al debito tedesco, il debito di riferimento, ogni rincaro degli altri debiti nazionali è un alleggerimento del costo del debito tedesco. La Germania ha interesse a tenere gli spread alti? Sì.

Stabilità – “La sinistra di Hollande in frantumi”, titola a tutta pagina – grafica inconsueta – “Le monde”. Senza che la Francia si strappi i capelli. Non perché la sinistra che governa il paese è divisa. Né perché il presidente si distrae con le donne: “Julie Gayet première dame clandestine”, titola  “L’Express”, senza sbracciarsi a chiedere dimissioni. Nemmeno perché il presidente possa essere – Hollande lo è, dopo Sarkozy - un improvvisatore e forse un incapace. Hollande, il presidente, è stato eletto per un termine, e per quel termine governa – non è detto che con elezioni anticipate si abbia un governo migliore.

astolfo@antiit.eu 

La madre aguzzina

“È furba, sleale, perfino ipocrita. Ma è mia madre. E questa è l’ultima volta che la vedo…”. È la madre propria della scrittrice. Che l’ha abbandonata a quattro anni, a Berlino nel 1941, col fratellino di pochi mesi, mentre il padre era al fronte. Una madre mai rivista, se non fuggevolmente trent’anni dopo, nel 1971, e ora dopo altri 27 anni, nel 1998, in quello che sarà l’incontro finale, in una casa di riposo, tra i tentacoli dell’alzheimer. Due ore di colloquio incerto, che è piuttosto un vaneggiare, ma un racconto mozzafiato.
Nel 1971 la madre si fa rifiutare con l’offerta di monili e oggetti d’oro che non possono non suscitare memorie orrende. Qui è mezzo smemorata, ma non abbastanza da non inalberare l’orgoglio di essere stata quello che è stata, di aver fatto quello che ha fatto. Non ingenua, mai leale, che dalla figlia anzi vuole solo estrarre, anche alla fine, un po’ di consolazione, continuando ad abusarne. Ripetutamente, la figlia non può che trovarla, anche in questo incontro, a sessant’anni, con una donna che non rivedrà più, invariabilmente “bugiarda, opportunista, fanatica, infida”, “scaltra, perfida”, “crudele, insensibile”. Il racconto è di una che gioca a fare la madre tra le pause della smemoratezza. Un gorgo morale.
Ci sono tante persone cattive al mondo, e alcune sono madri. Ma non si raccontano. Ci sono molti padri di cui è possibile leggere indegni: violenti, con le mogli, le figlie, anche con i figli, autoritari, incapaci, sciocchi. Le madri indegne no, non se ne ricordano. Questa è particolare, anche se non rara, perché ha abbandonato tutti per fare l’aguzzina, Waffen-SS orgogliosa, a Ravensbrück e Auschwitz-Birkenau, campi di sterminio. Due fra i campi peggiori. Ravensbrück, lager femminile, non era propriamente di sterminio, ma la madre di Helga vi era impegnata con le cavie umane degli esperimenti disumani sui sulfamidici e la sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani e ancora in forze, che venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i dolori. Una delle guardie “migliori, più forti ed efficienti” nei suoi dossier giudiziari, entusiasta sempre, anche qui, da ultimo, benché prossima alla fine.
Un racconto febbricitante, di tensione insopportabile. Emozionante: la scoperta della madre aguzzina è tarda, del 1971, “allorché ti rividi dopo trent’anni”, ricorda la scrittrice alla madre, “dopo l’abbandono nel 1941, e rabbrividisco al ricordo dello sgomento che provai scoprendo che eri stata un membro delle SS. E non eri pentita, anzi. Ancora ti compiacevi”. La stoccata finale, “è semplicemente volgare”, è definitiva, ma non liberatoria. Come per le vittime dei lager, quell’esperienza resta non cicatrizzata nella vittima figlia.
Schneider rasenta il capolavoro, non fosse per alcune pagine documentarie sui lager. Un tributo dovuto alla memoria, che però non fa contesto ma lo immemorializza nella storia - lo diluisce nel paradigma della “madre SS”. Un contesto fuorviante, nell’economia del racconto, da cui però si estraggono atrocità ancora trascurate. Di Höss, il comandante di Auschwitz, l’agghiacciante si può registrare in esergo, estrapolato dal suo processo e dal suo libro di memorie: “Il sentimento dell’odio mi è sempre stato estraneo”. O dello sterminio polacco: “I nazisti consideravano i polacchi una razza inferiore, tanto da vietarne la sepoltura in terra consacrata. Temevano però la scomoda intelligencija locale, e avevano deciso di sterminarla”.
La scrittrice stessa è vittima di una certa Germania, seppure non del pregiudizio razziale: la tragedia nazionale e storica è anche sua personale. Ottima scrittrice in italiano, Helga Schneider è nata in Polonia da genitori austriaci. Il racconto è anche di una persona, una scrittrice, che ha perduto per questo la madrelingua (l’italiano ha cominciato a praticarlo dai tardi vent’anni), evento altrimenti impossibile, tale è la forza del rifiuto, della sopravvivenza, della cancellazione del male. E tuttavia non può strapparsi dalle radici materne, fisiologiche, malgrado la sofferenza, la propria sofferenza – dalla colpa. Sembra facile rifiutare una madre indegna, e invece non si può.
La madre catalizza altri rigurgiti molesti. Dei berlinesi in stracci affamati tra le macerie che si rifanno sugli Alleati accusandoli di sputare sulla Germania solo perché ha perso la guerra. Un ricordo vero anche storicamente: è la sindrome Heidegger, fino all’intervista postuma allo “Spiegel”. O di se stessa bambina, di sei o sette anni, alla vigilia della Caduta, febbraio o marzo 1945, che partecipa invasata al linciaggio di una povera coppia di ebrei, spinti fuori del rifugio dalla fame – salvati dalle guardie SS, per essere avviati allo sterminio....
Il racconto è anche di un’infanzia e un’adolescenza segnate dai rifiuti e gli abbandoni, oltre che dai bombardamenti e dalla fame: una vita nei rifugi, e poi tra collegi e correzionali. Col contrappunto grottesco della visita a Goebbels, per i buoni uffici della sorella della matrigna, segretaria del supergerarca. E al bunker di Hitler per la campagna di promozione del führer “umano e solidale”, che offre ai bambini “casa, cibo e conforto” – all’inizio di dicembre del 1944, poco prima della liquidazione in massa degli intellettuali antifascisti deportati dai paesi occupati, l’operazione Notte e Nebbia. Sullo sfondo di una pedagogia materna – antiquata? femminile? - tirannica e gelida, senza mai un segno di affetto per i figli. Compresa una matrigna che rifiuta la bambina di primo letto e la butta in casa di correzione. Mentre si appropria del bambino, lo fa passare per suo - squallida vicenda che annichilerà il ragazzo.
Inedito, duro, tragico il racconto quando è della madre indegna, senza cura materna e nemmeno umana, un essere di ghiaccio come i suoi occhi, di un rapporto quindi impossibile. Nonché dell’immaterialità, anche se criminale, distruttiva, del fanatismo. Al quale cioè non c’è rimedio. La madre indegna è in Irène Némirovsky, ma con cautela. Helga Schneider ne ha avuto una che si autorappresenta da sola, ed è già troppo crudele, non c’è bisogno di aggiungere.
Helga Schneider, Lasciami andare, madre, Adelphi, pp. 132 € 9

mercoledì 17 febbraio 2016

Secondi pensieri - 251

zeulig

Amicizia – È – è più profondamente – muta. Sentita più che detta. È una forma di compartecipazione. Ma anche un forma di solitudine, senza il tomento della solitudine: il conforto più spesso del solitario.

Dialogo – È la forma della riflessione Del due in uno, o uno in due. Si procede per domande, espresse o implicite. E in forma destrutturante, scarnificante, il “levare” di Michelangelo, dello scultore, più che per accumulo.

Dono - È il segno più certo della vivenza, la propensione al dono. Dona chi ha, chi non ha-è non ha doni da fare.

Esicasmo – Una “idiorritmia «vera»”, lo dice Barthes alla voce “Cristianesimo, Oriente”, delle lezioni – le prime date dal semiologo al Collège d France a gennaio del 1977 - raccolte sotto il titolo “Comment vivre ensemble”. Idiorritmia, cioè proprioprivato, e regola, la vita solitaria regolata dei monaci. Vera nel senso che “il telos è di natura mistica: non un essere perfetto, ma «respirare», unirsi”.

Heidegger – Quello che è certo è che è un affabulatore, e un inventore di gerghi. Un inventore di parole. Anche di linguaggi. Anche di concetti? Questi restano vaghi, a ogni pur accanito approfondimento.  L’unico certo è una certa visione della vita, provinciale e anzi paesana, con accenti lirici, nazionalista “in senso buono” – anche se “nazista” e imperialista (germanica). Nulla di speciale: Heidegger fu un rivoluzionario conservatore nazionalista come molti altri, non solo Jünger e Schmitt, anche il Thomas Mann delle “Considerazioni di un impolitico” e di “Fratello Hitler”. Solo che lui era anche nazista: cioè razzista, anche se non biologico, e per questo antisemita – non ce l’aveva solo con gli ebrei..

Il conio verbale heideggeriano è più sul genere filosofico o su quello futurista? Questo è da decidere – Heidegger futurista non è  male.

Si traducono e si pubblicano i “Quaderni neri” all’impronta solo in italiano - non in francese,  in inglese (uno se ne annuncia fra tre mesi), in spagnolo. Perché gli heideggeriani sono numerosi in Italia? Non più che in Francia, sicuramente, o negli Usa. Perché – dato che l’interesse precipuo di questi quaderni, fino ad ora, è l’antisemitismo – in Italia c’è più interesse per la questione ebraica? No: non degli ebrei italiani, che sono pochi e non leggono, né di un antisemitismo italiano, che non c’è. Effetto Iadicicco, probabilmente, la valorosa traduttrice, che in un anno e mezzo ha consentito la pubblicazione di un migliaio di pagine, e un altro mezzo migliaio ce l’ha in uscita. Ma anche di Donatella Di Cesare, che da vice-presidente della Fondazione intitolata a Heidegger è diventata sua sradicatrice, con due  libri e molti articoli. La filosofia al potere?

Riso - Omero rideva? Forse sì, in cuor suo. Di tutti quegli sbruffoni di cui gli toccava poetare. Eccetto i pochi momenti in cui poteva renderli patetici e quasi umani. Sarebbe un’ipotesi non da poco per gli studi. E per il riso.

Silenzio – È il collante del mutuo riconoscimento, se non del rispetto – può essere collerico. Di ogni mondo, umano, animale, vegetale, minerale, e dei mondi tra di loro.
È il segreto della comunione nella lettura. O delle “corrispondenze” in rete, come nel film di Tornatore - entro limiti anche di facebook: forme di intimità tacite, malgrado le tante parole in libertà e le immagini di comodo. 

Stupidità È una difesa nel Tao: “Il saggio la cui virtù è compiuta ama portare nel viso e nella sua presenza l’apparenza della stupidità”. Ma allora offensiva, una strategia di attacco: una ritirata dal mondo come una trappola. Per ingannare forze forse altrimenti soverchianti, ma un’attitudine tra alterigia e disprezzo.

Verità – Si direbbe indivisibile, un approccio mentale prima che etico. Rousseau invece distingue – non è il solo, ma lui è il più argomentato, alla “Quarta passeggiata” delle “Fantasticherie di un passeggiatore solitario”. Partendo dall’ovvio: “La verità generale e astratta è il bene più prezioso: senza, l’uomo è cieco; essa è l’occhio della ragione”. Ma. “La verità particolare e individuale non sempre è un bene; talvolta è un male; spesso, una cosa indifferente”. E: “le “verità che non hanno alcuna utilità né per l’istruzione né per la pratica, come potrebbero essere mai considerate un bene dovuto, dal momento che non sono nemmeno un bene?” Dunque: una verità “assolutamente priva d’utilità, anche potenziale, non può essere cosa voluta; chi la tace o la trasforma non mente”.
Ciò è detto da uno che premette: “Non ho nel cuore nessun altro sentimento che possa superare l’orrore per la falsità”. E: “Giudico me stesso con tanta severità quanta forse il giudice supremo ne userà verso di me”.
Sembra il paradosso di Epimenide cretese, quello che asseriva: tutti i cretesi dicono il falso. Ma forse è un misto di agudeza e di lassismo morale. Rousseau era indulgente con se stesso, e il suo primo ricordo importante è di una bugia che fece molto male. È anche il paradigma della morale utilitaristica, che sembra essere l’sito di una fede protestante, di un ordine divino disgiunto dall’umano, e personalizzato - io e il mio Dio. Le deduzioni Rousseau attribuisce al temperamento, più che alla logica o alla cogitazione: “Ho seguito l’indirizzo morale della mia coscienza più che le astratte nozioni del vero e del falso”. Come sempre ponendosi al centro: “Non ho fatto torto a nessuno e non mi sono attribuito più merito di quel che avessi” - fino ad accusarsi di avere esagerato, nelle “Confessioni”, in bugie ma a danno di se stesso: “Ho descritto i miei giovani anni senza vantarmi delle belle qualità che dotavano il mio cuore”….
Rousseau parte dal proposito di sfidare l’assunto comune che non si può “ingannare innocentemente”. E si risponde di sì: “Dovunque la verità è indifferente, ugualmente è indifferente  l’errore contrario”. Tacere la verità e dire una bugia “sono due cose diversissime, dalle quali però può risultare lo stesso effetto”, se è un effetto nullo. In questi casi “chi inganna dicendo il contrario della verità non è più ingiusto di chi inganna tacendola: se si considerano le verità inutili, l’errore non è peggiore dell’ignoranza”.

La verità Rousseau lega, quando la analizza in astratto, alla giustizia: “La verità dovuta è quella che interessa la giustizia”. Ma porta infine alla sua “passeggiata” l’esempio di Sofronia, tratto dalla “Gerusalemme liberata”. Di una, cioè, che lodevolmente dice una bugia, anche a costo della vita. Ma Sofronia si accusa di un furto che non ha commesso per salvare Olindo - come non l’ha commesso Olindo, che pure si accusa: entrambi si accusano per salvare altri innocenti, i cristiani di Gerusalemme. Sofronia è in una situazione di giustizia ingiusta, da cui deve difendersi.

Rousseau (“odio le cattive massime più delle cattive azioni”) si vuole soprattutto un artista – letterato, musico – e da ultimo, nella stessa “Quarta Passeggiata”,  il quesito risolve in poesia – apologhi, favole, racconti, romanzi: “Mentire per proprio vantaggio è impostura; mentire per l’altrui vantaggio è frode; mentire senza vantaggio né svantaggio, proprio o altrui, non è mentire, non è menzogna, ma finzione”.Ma la poesia non è comunque verità? O altrimenti, in ipotesi: la letteratura è proprio realmente esente dalla morale, se è esente dalla verità?

zeulig@antiit.eu

Tutti contro tutti, l’America al quadrato - per ridere

La parodia del filmaccio splatter. Ci sono anche un’impiccagione dal vivo, e uno squartamento a colpi d’ascia, oltre alle solite revolverate-deflagrazioni di teste e visceri: una overdose di immagini dette forti, molte peraltro ripetitive, nessuna memorabile. Forse i volti esagerati. Ma si annegano nel parlato, volutamente artefatto: elaborato, soprammesso.
Tarantino si moltiplica, fa la parodia della parodia, del Tarantino stesso prima maniera, splatter. E, volendo fare i cinefili,  di Sergio Leone naturalmente, la musica di Morricone aiutando. Della “Sporca dozzina” per l’ambientazione chiusa, cupa, notturna, tutti maschi - c’è una donna, ma è peggio: Jennifer Jason Leigh è solo una maschera di sangue rappreso, senza figura (fa senso rivederla lo stesso giorno, su Sky in “Washington Square” vent’anni fa, una che da sola regge l’immenso Henry James). Del giallo alla Christie, parlato-parlato. E soprattutto, dopo Tarantino, di “Ombre rosse”, per la claustralità – lì tutto si svolge dentro una diligenza, qui dentro una locanda, in un paesaggio ghiacciato. Con molto Godard, forse inconscio, il parlato-parlato sommandosi all’inquadratura fissa e al soggetto frontale. Geniale e faticoso.
Di Leone la parodia è di “C’era una volta l’America”, coi desperados - messicani, neri, mulatti, bianchi fottuti - invece delle borghesie urbane, drogate e mafiose. Ma non nostalgico, cattivo: un “sogno americano” di tutti contro tutti, come si legge nelle cronache, che tutti si sparano. Con una punta di razzismo. Lo stesso, sottile, di “Django unchained”, l’altro western di Tarantino un paio d’anni fa, il primo. Il film è diviso in episodi. L’ultimo, intitolato “Uomo nero, inferno bianco”, vede tutti morti, ma del nero, il mastermind della carneficina, non si può dire, non si vede spirare, né del suo succube bianco, un figlio di confederati spregiatore dei neri – una fine diversa solo per consentire un sequel?
La parodia o pastiche è genere per pochi. E anche i pochi, se insistita, li affatica. Al quadrato poi: la parodia della parodia, anche per i 167 minuti della versione digitale, venti in meno di quella in pellicola, come tutte le parodie stanca. Camuffata da grande produzione, dai produttori, i Weinstein, che hanno il genio della promozione, è un lungo, lento, teatro da camera, seppure da macelleria. Un esercizio di bravura, ma da infiacchire anche i tifosi del genere.
Quentin Tarantino, The hateful eight

martedì 16 febbraio 2016

Problemi di base - 265

spock

Pensare il niente non è negarlo?

Necessitas non habet legem. Si può rubare per necessità?

Si può uccidere per necessità?

E mentire (Kant)?

Rubare a un ladro è reato?

Tacere una verità non è mentire (Rousseau)?

E asserire il contrario della verità, senza danno altrui (id.)?

“Chi dà una moneta falsa a un uomo a cui non deve niente, indubiamente inganna quell’uomo ma non lo deruba” (id.)?

spock@antiit.eu

La politica estera di Angela Merkel

La no-fly zone sulla Siria settentrionale, alla frontiera con la Turchia, richiesta da tempo dal presidente turco Erdogan, è infine patrocinata da Angela Merkel. Potrebbe essere un vulnus  non riparabile nei rapporti tra i governi Ue.
La no-fly zone ha lasciato finora perplesso anche lo Stato maggiore Usa, il miglior alleato della Turchia. Perché oscura la frontiera turco-siriana attraverso la quale passa di tutto, anche i terroristi dell’Is, nonché le armi e i finanziamenti col traffico petrolifero. Ma la cancelliera ha deciso. Come già per gli aiuti Ue alla Turchia, tre miliardi. Non poco, e senza vincoli né controlli - per il bene dei rifugiati, si spera.
Merkel ha deciso all’improvviso, senza concertazione europea, e da sola. Una decisione avventurosa, che rischia di accendere una guerra globale. Una condotta unilaterale comunque della politica estera e di difesa europea, con buona pace di Mogherini, e dello stesso governo italiano, come sempre assente nelle questioni importanti, che preoccupa molto la diplomazia e anche lo Stato maggiore italiano. La no-fly zone era richiesta da Erdogan per poter bombardare senza controlli i curdi in Siria e in Iraq. E forse rifornire, con i suoi alleati sauditi, l’Is.
Ci si interroga sul perché la Germania avalli questa tattica. Forse per un calcolo politico della cancelliera, per guadagnare qualche voto di turchi tedeschi alle prossime importanti elezioni regionali. Ma non ci si interroga troppo: la diplomazia tedesca ha una lunga e coerente tradizione di tracotanza e avventurismo. Ha creato il caso Ucraina, con le finte rivoluzioni arancioni di vecchi marpioni - dopodiché, dopo aver bloccato le relazioni tra l’Europa e la Russia, traffica tranquillamente con Putin. Dopo aver dissolto la Jugoslavia nelle pulizie etniche per farsi un paio di Stati cuscinetto. Ora impone all’Europa un regime liberticida, con le carceri traboccanti di intellettuali critici e oppositori politici – le impone di finanziarlo e lo sostiene nel genocidio dei curdi.

Il ritorno del Neutro

La “pura perdita” è la riserva spirituale, fino alla perdita di sé dei mistici. Un catalogo e un’affermazione positiva. A partire da Meister Eckhart, Ossola medita sulla “triste sorte di questa virtù”. Magistrale, un gioco demiurgico svolgendo della parola e dell’analisi, fino a trovare la bonomia di Leopardi, la muta flaubertiana Felicita, l’idiota di Dostoevskij in… don Giovanni. Ma persuasivo. Come un ritrarsi da un mondo che non ci merita, al di sotto delle attese ma anche degli obblighi.
Don Giovanni è personaggio-tema su cui Ossola centra la riflessione, insieme con gli amati Hammarskjöld (“il viaggio più lungo\ è il viaggio verso l’interno”), del cui diario è stato il curatore nell’ultima edizione francese, e Foucauld, dei cui “Deserti”, un estratto del dizionario tuareg-francese, Ossola è l’editore, sempre in francese. Con letture golose dal “Neutro” di Barthes. Nel mezzo, le lettere “morte”, o “corrispondenza negata”: le lettere non spedite che si sono accumulate negli anni al manicomio di Volterra. Un florilegio di molta, umile, sapienza, stilistica e morale.
Una filatura sottile, un ricamo. Attorno al “cuore semplice”, l’eroe assente. Un mesto addio ai “beni del mondo”, anche. Non mesto, sorridente. Ma non sereno, un po’ di risentimento c’è. Di rivalsa.
Il volumetto ripercorre un corso tenuto al Collège de France dieci anni fa, sotto lo stesso titolo, “In pura perdita: la rinuncia e il gratuito”. La cui idea era germinata a Ginevra, dalla tesi di uno studente che, rileggendo le documentazioni familiari, epistolari, notarili, narrative, etc., si era imbattuto in un’ultima volontà del nonno impelagato in una causa in tribunale: “Un giorno di Natale sono nato, a Pasqua morrò, ma le mie ragioni non finiscono”. Un assunto che poi Ossola scopre suo proprio,  dell’infanzia, un legato materno. Rielaborato sulla tesi di Klaus Heinrich, lo storico delle religioni, “Saggio sulla difficoltà di dire no”, 1964, e sul successivo, 1967, “Parmenide e Giona”, sul rapporto tra filosofia e mitologia.
Un’acuta  (per questo estranea al gusto italiano? si pubblica, tradotta, in francese) riflessione su ciò che resta dell’io. Dal ritiro nel “neutro” di Barthes (altra nozione rimasta estranea in Italia). Con una doppia, implicita, valenza, non estranea allo stesso Barthes: della ritirata nel Neutro come mossa tattica, tanto è pregnante.
Carlo Ossola, En pure perte, Rivages, pp. 89 € 5,10 

lunedì 15 febbraio 2016

Fisco, appalti, abusi (86)

Si è sparsa la fama che a Roma il prefetto Tronca combatte Affittopoli. No, la pratica è, come sempre da trenta o quaranta anni, agli inizi: al censimento degli stabili del Comune. Niente sfratti, niente pignoramenti, niente disdette di contratti di favore. Si fa rumore per non fare.

Il Policlinico dell’università La Sapienza rinvia molti interventi chirurgici per carenza di graffette, ha la radioterapia fuori uso e non è in condizione di ripararla, e così due tac su tre. È “il più grande ospedale d’Italia, uno dei più grandi al mondo”, con code di attesa che ne farebbero una miniera in mani appena decenti.

Seimila casali sono in vendita tra Firenze e Siena lungo la Chiantigiana. Effetto delle tasse di Monti: i paesi e la campagna si svuotano in Italia, per la prima volta dopo le invasioni dei barbari.

È invalso anche a Roma, dopo la Toscana, l’uso di piazzare i controlli di velocità su strada a ridosso del segnale che riduce la velocità e\o a ridosso del segnale stradale di indicazione del controllo stesso. Eludendo in entrambi i casi la legge. Che nel secondo si configura in modo preciso: “Le  postazioni  di  controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben  visibili, ricorrendo all’impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi”. Ma è inutile fare ricorso al prefetto Gabrielli.

È inutile fare ricorso in genere al prefetto avverso gli atti amministrativi discrezionali, per esempio le multe stradali. Il ricorso verrà rigettato automaticamente, senza motivazione. 

Chi ci protegge da Mafia Capitale

Villa Pamphili, la più grande e frequentata di Roma, ha una ventina di strutture architettoniche fatiscenti per incuria. Una di esse, in concessione, dopo due anni di procedure, per usi commerciali e culturali, è stata chiusa subito dopo l’avviamento dai vigili. Per questo motivo: le attività commerciali erano preponderanti su quelle culturali. Troppi caffè.
Nessuno ci crede, a questa motivazione, ma a torto: la richiesta di mazzette si sa che a Roma è proibita. Da parte dei vigili, poi.
Quello di Villa Pamphili è l’unico esercizio commerciale chiuso dai vigili dacché ce n’è memoria. Con altri ci hanno tentato ma la chiusura si è arenata nelle procedure. Bisogna felicitarsi con i vigili, nel caso di Villa Pamphili, oppure le cooperative hanno più problemi nelle procedure?
Nell’esercizio chiuso a Villa Pamphili le cooperative affermano di avere speso 300 mila euro per riadattare il casale fatiscente. Ma se anche ci avessero speso un decimo, un bel pungo in un occhio hanno ricevuto. Per non dire delle famiglie con bambini. Consentivano pure di prendere il caffè seduti in giardino senza pagare il supplemento “servizio”. Uno spreco, un lusso, bisogna essere severi.

La fede prima di Auschwitz

Opera postuma, titolata anche “I doni della vita”. Una storia della Francia profonda, come usava dirla in rapporto a Parigi, di continuità e odi familiari, attaccata ai beni di questo mondo, anzi arcigna, attraverso le due guerre e tre generazioni del Novecento. Col lieto fine ma con brutti presentimenti. È la prova generale di “Suite francese”, alla quale Némirovsky lavorava contemporaneamente, nel 1941-42, sfollata con la famiglia nella campagna occupata dai tedeschi, che anch’essa avrebbe dovuto avere il lieto fine. Ma fu interrotta dalla denuncia, anonima ma insistita, della scrittrice in quanto ebrea alle autorità tedesche, che le costrinse a internarla, e quindi a destinarla alla morte, a Auschwitz.
È – più che in “Suite francese” – la caduta delle illusioni, di questa francese d’adozione: sociali, nazionali (la borghesia indomabile ma feroce, la provincia chiusa e gretta), personali, di mentalità e di caratteri. Vissute come si sa intimamente, oltre che gestite, dalla scrittrice. La Francia, che era sempre stata un porto di elezione, e nella provincia anche più che a Parigi, è qui luogo iperfrancese ma di piccinerie e risentimenti. Fin nell’amore, il giorno stesso del matrimonio d’amore. Tra obblighi insulsi, familiari, paesani, di classe, vezzi egoisti, cattivi, ciechi, in orizzonti ristretti e ristrettissimi. Un’opera consapevole, dei guasti della guerra in corso come di quelli della prima grande guerra. Irène Némirosky è forse la scrittrice francese tra le due guerre che, dopo Céline, ebbe più acuto il senso della catastrofe incombente.
È tuttavia un’opera volutamente ottimistica. Per atto di fede, da neo francese, e anche da neo catecumena. Interpolate sono qui pagine commoventi di fede cristiana, che non può essere che sincera. I due titoli di lavorazione sono evangelici. Némirovsky, battezzata in prossimità della tempesta antiebraica, è sospettata di opportunismo, da una parte e dall’altra. E in qualche modo anche dalle due figlie, che le sopravvissero protette dalle monache. Qui non professa, come negli “Appunti” sparsi, il rifiuto di un “destino comunitario”, semplicemente si proietta in un’altra cultura – apocalittica (i due titoli sono presi dal vangelo di Giovanni) ma non senza speranza.
Scrittura sentimentale si vuole la sua, ma è piuttosto secca, anche qui, alla Balzac. Una Balzac si direbbe piuttosto dei sentimenti invece che delle cose, affari, politica, istituzioni, relazioni e regole sociali. Dalle quali peraltro non rifugge, con una conoscenza o sensibilità di prima mano – la sua non è una scrittura “femminile” come opinano i suoi biografi Philipponnat e Lienhardt. Dà qui, e resta a tutt’oggi la sola, la triste verità delle dinastie economiche, del capitalismo familiare: “Un patrimonio, per sopravvivere di generazione in generazione, ha bisogno di essere continuamente alimentato con denaro fresco, sostenuto da eredità…”.
Francesi o ebrei (le due categorie si distinguono), i suoi personaggi sono tratteggiati col distanziometro, e con occhio tanto critico quanto interessato, personalmente toccato. Senza intimità con i personaggi che crea – se non in “Suite francese”, presagio di morte. Di “compassione impietosa”, la disse Henri de Régnier, un ossimoro che la riassume bene: un miscuglio di ironia e partecipazione. Che lei stessa in qualche modo rivendicherà nella “Suite”, dicendosi di “spirito dickensiano” - balzacchiano sarebbe meglio.
Irène Némirovsky, I beni di questo mondo, Editori Internazionali Riuniti, remainders, pp. 234 € 7,50

domenica 14 febbraio 2016

Una Norimberga delle banche

Si vendono e si svendono le banche in Borsa e non si sa perché. Mentre è noto a tutti che col bail-in bisogna assolutamente tenersene alla larga. È l’esito della saggezza europea, cioè della Bundesbank tedesca – gli Usa, per dire, se ne tengono alla larga, Londra pure. Ma la Banca centrale europea non è da meno, che anzi attizza le svendite, con le sue non ambigue insinuazioni. Ci sarà una Norimberga delle banche?
Non la migliore scienza bancaria, in queste politiche, e anzi una selvaggia. Se non è da magliari. Perché venerdì si è arrivati alla follia. La Deutsche Bank si è riacquistato un prestito obbligazionario per poco meno di due miliardi emesso appena una mese prima. Che aveva venduto caro, appena una settima prima di annunciare perdite colossali già note nel bilancio 2015, per 6 miliardi e mezzo. Questa è la banca più solida per la vigilanza Bce.
È (quasi) la fine de mondo, e quindi non si può riderne. Ma cos’è questa economia di mercato, cos’è questa Europa, questa Germania?

Perché le banche ci rovinano

Non solo Deutsche, tutte le maggiori banche del blocco franco-tedesco,  sono sovresposte in derivati e altre attività a rischio. La leva finanziaria, documenta Antonella Oliveri sul “Sole 24 Ore”, cioè il rapporto tra attivo, o impieghi, e il patrimonio è di ben 28 volte per le banche del blocco: Deutsche, Commerzank, Société Générale e BnpParibas - per le banche italiane e spagnole è molto più ridotto, poco più della metà. Basta una perdita anche minima sui derivati, su un ammontare così colossale, per bruciare tutto il capitale di queste banche.
La situazione è tanto più a rischio perché la vigilanza della Bce è carente o pregiudiziale. Sono banche che promuove a pieni voti, senza nesuna garanzia di solidità – nel mentre che interviene  con la scure su banchette italiane che sono lo zero virgola dei colossi d cu parliamo.

Giornalismo inutile, controproducente

Cairo è invasa da inviati e agenti italiani, ma la verità arriva solo sul “New York Times”, da un giornalista che si è fatto spiegare la verità sull’assassinio, sotto tortura, di Giulio Regeni. Senza speciali poteri o trucchi: interrogando le fonti egiziane, a partire da quelle ufficiali.
Il fatto non è episodico. Non è il primo caso in cui i giornali di opinione non italiani sanno dell’Italia più dei giornali italiani – che spesso magari ne sanno molto di più ma tacciono o distorcono. Segna un limite che è diventato grave. Per l’industria giornalistica stessa, che non dà affidamento. E perché non c’è democrazia senza informazione vera. Libera non vuole dire nulla, siamo tutti liberi oggi, di finire male: l’informazione si vuole ragionata, intelligente. Magari anche lavorata, un poco.
tologia.


Giornalismo di Stato, ignorante

L’inglese maccheronico pervicace di Renzi è il segno di una politica, oltre che di provincialismo: die fati esteri non gliene frega nulla. A lui come a ogni altro politico. Anche quando parla di Bruxelles o Berlino, Renzi parla all’Italia di cose italiane, di piccinerie di solito. Italia. Continua in questa terza Repubblica il vezzo democristiano di chiudere l’Italia nell’Italia, che è la vera debolezza dell’Italia da ormai settant’anni. Nella Ue e altrove. Di Renzi come di Mattarella, o di Boldrini.
Abbiamo Mattarella negli Usa e Boldrini in Grecia non per altro, con un codazzo di giornalisti sui loro aerei di Stato. Per guadagnarne la confidenza, e farsi portavoce dei pettegolezzi. Continua la pratica vecchia Repubblica degli inviati al seguito dei potenti, ospiti di riguardo.  Un uso unicamente italiano, scandaloso per ogni deontologia.
I potenti della Repubblica, i presidenti, i presidenti del consiglio o delle Camere, qualche ministro influente, vanno all’estero per farsi pubblicità gratis sui media, dalla Rai in giù. La loro olitica estera si riduce all’uso di questa piccola corte per le loro beghe politiche, personali, di corrente, di partito. I loro interlocutori all’estero ormai lo sanno, che non si preparano nemmeno più agli incontri – servono per una fotografia.

Che successo, Cecchi antisemita

Bruno Pischedda, milanese, romanziere, contemporaneista alla Statale,  autore di uno”Scrittori polemisti” che sta per diventare uno “Scrittori apocalittici”, sul Novecento italiano (Morante, Pasolini, etc.), svolge un’indagine sul Novecento razzista. Esamina romanzi, saggi, anche di ebrei (Lorenzo Mondo), giornali, viaggi, convegni, carteggi, e azioni e reazioni di monsignori senza carità cristiana. E ne fa perno la personalità e l’opera del fiorentino romano Cecchi. Ne fa il filo conduttore della ricerca, ma anche implicitamente il padre o ispiratore dell’antisemitismo nella letteratura prebellica, in quanto razzista, più o meno inconscio. Non si capisce su quali basi. Forse per far digerire l’altrimenti indigesto  malloppo, o magari per un succès de scandale. Il libro è andato subito esaurito, ma la tesi è piuttosto paradossale, dopo tanto lavoro d’indagine. Nel senso che fa scadere l’antisemitismo nel tutto antisemitismo, che è la negazione della cosa – la quale invece c’è stata e c’è, eccome.
Il sottotitolo è “Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale”. Partendo forse dal saggio estremamente elogiativo che Debenedetti dedicò allo stesso Cecchi, l’autore dei “Pesci rossi” e di “Corse al trotto”, l’anglista a lungo principe, prima di Praz, corrispondente del “Guardian”. Il giornalista letterario principe. Di cui però l’illustre critico rilevava, nel 1952, o 1954, più divertito che censorio, che spendeva ancora la parola “razza”,  pur conoscendone l’uso deflagrante. Una pietra d’inciampo illustre, ma troppo poco per dire Cecchi un razzista. Le prove a carico sono la stroncatura di Guido da Verona, scrittore ebreo, sulla “Ronda”, da parte di Bacchelli. Il caso “Americana”, l’antologia di Vittorini ripubblicata nel 1940 con l’introduzione di Cecchi in sostituzione di quella dello scrittore siciliano, censurata – ma Vittorini l’ha ripubblicata nel dopoguerra giungendovi la prefazione di Cecchi, che ringraziava per aver consentito la ripubblicazione del 1940. E il “caso Weininger”. Di cui Cecchi non ha colpa, ma sì Boine, che recensendo di Weininger, esempio illustre dell’odio-di-sé ebraico, “Sesso e carattere”, dice – ma parafrasando Weininger - la donna da rispettare come “si rispettano le razze umane inferiori: gli ebrei ed i negri”.
Non è il solo limite dello studio. Cecchi è un poveretto: un autodidatta. Intruso a Roma, da giornalista furbo, nella migliore cultura. Reggendosi con monsignori, uno dei quali dichiaratamente razzista, e altre cariatidi. Un cattolico bieco. E anzi reazionario. Che non fu fascista ma voleva esserlo, e anzi lo fecero accademico d’Italia. Nonché relatore, per conto di Bottai, al famigerato convegno di Weimar del 1942 – un guaio: c’erano anche Giaime Pintor e Pasolini. Una belva, con i guanti di velluto. Una ricerca che, arrivati a questi punti, scade nel giornalismo a sensazione – il giornalismo culturale purtroppo non sa fare altro.
L’esito è infatti che, estremizzando, la “cosa” viene assunta per scontata, e i giornali spendono per il libro grossi titoli. Cecchi è stato un razzista sul “Corriere della sera” (di “un razzismo polimorfo, ingegnoso a  seconda delle opportunità”), su “Repubblica”, sul “Manifesto” (Un saggio che smaschera il terrore del meticciato e l’antisemitismo di Emilio Cecchi, dietro la sua abile dissimulazione critico-letteraria”), un po’ su tutti i media. Eccetto che sul “Sole 24 Ore”, di cui Pischedda è collaboratore, che l’ha dato da recensire a Piero Craveri. Il quale ne scrive oggi  allibito: come, Cecchi antisemita?
In effetti, si legge l’excursus con fastidio. Il metodo è insinuante, volendo fare di episodi limitati di antisemitismo letterario un caso. Cecchi diventa uno che si vuole crociano per motivi di potere. E  nel 1925 firma incautamente il manifesto di Croce contro il fascismo dopo il delitto Matteotti e la sospensione dello Statuto. Sottinteso: era fascistissimo. Mentre non poté avere i riconoscimenti di cui aveva bisogno perché non iscritto al fascio – fu infine accademico perché lo volle Pirandello. E  di Lorenzo Mondo le successive generazioni, eccetto l’ultimissima, hanno avuto modo di apprezzare la dirittura intellettuale. Tanto rumore per nulla? L’antisemitismo è materia delicata, per risolverlo a randellate. .
Bruno Pischedda, L’idioma molesto, Aragno, pp. 314 € 20