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sabato 6 ottobre 2007

Vaffanculo sull'8

Salgono sull’8 a viale Trastevere tre albanesi, o zingari, giovani, un uomo e due donne, una delle quali, di sguardo e portamento autorevoli, è incinta. L’8 è la “metropolitana di superficie” che a Roma serve mezza città, insomma un tram, che di solito è affollato, ma non a quest’ora, a mezzogiorno. L’entrata dei tre allarma un gruppo di asiatici sulla parte anteriore sopraelevata del tram, che vanno al loro commercio, ma niente di più. Tutti sono puliti, vestiti con proprietà, di taglio, di colori. L’albanese, o zingaro che sia, ha la camicia bianca e la cravatta. Gli ambulanti asiatici tengono i loro oggetti, occhiali, bigiotteria, orologi, in cartelle ripiegate a valigia. C’è l’aria condizionata, e c’è posto per tutti, eccetto che per il vostro testimone e i tre albanesi, o zingari, compresa la donna incinta, cui nessuno offre il posto, né lei lo cerca.
Si procede nel cicaleccio di lingue ignote, nel rumore attutito della linea ferrata. Finché dalla porta, prima della fermata, un signore robusto non intona la litania: “Non mi toccare! Fai il furbo? Non ridere, io ti riconosco, sa'? La gente come te non dovrebbe stare in libertà” eccetera. Avviandosi all’uscita, si è sentito toccare dal giovane albanese\zingaro, e ha temuto il borseggio. Il giovane sorride, l’incinta si avanza maestosa e interpella l’accusatore. Non si capisce cosa dice, se non “incinta”, che ripete toccandosi il ventre, ma è arrabbiata. L’accusatore si difende: “Cosa vuoi? Ma chi ti conosce? E guarda negli occhi le persone quando ci parli”, e scende. La donna lo accompagna con uno sprezzante, ben pronunciato: “Vaffanculo!”.
È un innesco. Dalla predella anteriore gli asiatici avviano, in gruppo e a turno, una filippica contro la donna. Non si capisce che dicono, ma il loro “vaffanculo”, singolo e di gruppo, è scandito. La donna li fronteggia con voce sonoramente vivace, anche se composta, di cui solo si afferrano un paio di “incinta”, sottolineati dalla mano che batte sulla pancia. L’alterco dura fino alla fermata successiva, a piazza Sonnino i tre albanesi\zingari scendono. Ha l’ultima parola la giovane matrona, che si gira dal marciapiedi, e attraverso la porta ancora aperta lancia l’ultimo “vaffanculo!”. Poi le porte lente si richiudono, e si riparte.
Sul ponte Garibaldi il tram sembra avere un’ulteriore esitazione – pare che il rollio faccia vibrare i pilastri del ponte, come un reggimento che segnasse il passo, sono stati fatti degli studi, se non sono ubbie da colonnello in pensione. Tre degli asiatici si preparano a scendere al ministero con le loro cartelle. E una conversazione ravvicinata sale progressivamente di tono. Un signore baffuto in età ha ripreso il discorso: “Io voglio essere padrone a casa mia. Tutti vogliono essere padroni a casa loro, è un loro diritto”. Si rivolge a una ragazza seduta accanto alla porta, che a lungo ha guardato intenta, senza alzarsi, la donna incinta. Sembrano padre e figlia, o zio e nipote, c’è familiarità tra i due. La ragazza dice qualcosa, che non si ode, il baffuto tuona: “Io non dico che non ci sia spazio per tutti, ma a casa mia comando io. Sarò felice di ospitarvi, ma a casa mia comando io”, eccetera. L’8 intanto è arrivato all’Argentina, e i due se ne vanno separatamente senza salutarsi. Il “Fanculo pensiero”, prima che del comico Grillo, è di autore croato. È residuo quindi del comunismo. Potrebbe essere di disappunto, per quello che non è stato. O di rabbia, una reazione a quello che è stato?
Non c’è tempo per pensarci, l’H arriva, che va a Termini ed è coincidenza rara, sul marciapiedi di palazzo Caetani. Arriva ma non apre le porte. E anzi riparte nel mentre che il vostro testimone è giunto trafelato davanti alla porta. Il “vaffanculo!” all’indirizzo dell’autista dev’essere stato sonoro, si sa che gli autisti dell’Atac sono stronzi e vi chiudono le porte in faccia, tanto che lo stesso autobus sussulta, mentre si ferma. È un lungo momento, l’autista apre la porta, ma potrebbe essere un invito al litigio che conviene evitare, poi lento riparte. E' che non c’è fermata in quel luogo dell’H, la palina non la segna - l’H è uno di quei bus che saltano una fermata su due, o due su tre, l’Atac non organizza le fermate per favorire le coincidenze.

Per "Le Monde" chiedere all'Eliseo

Colombani passa a Sarkozy con dovizia di argomenti. Non per ambizione, da direttore silurato del "Monde" per eccesso di sinistrismo, ma per il repubblicanesimo e altre stoiche virtù. Si può essere ipocriti impunemente. Ma bisogna dire che Colombani non era ingenuo negli attacchi all'Italia per tutto il governo Berlusconi, e anche prima e anche dopo. A somiglianza dell'altro opinion leader straniero in Italia, l'"Economist", il cui direttore Bill Emmott è stato anch'egli poi silurato. Colombani con più spregiudicatezza, arrivando a mettere sotto accusa più volte il presidente Ciampi, con la scusa che non cacciava Berlusconi, benché eletto a grande maggioranza. Era il tempo in cui la Francia si comprava mezza Italia, dagli ipermercati alla Edison e alle banche, e Colombani spalleggiava in realtà la furiosa campagna del destrissimo Chirac, il presidente del 18 per cento dei francesi. In Francia e in Inghilterra i migliori giornali, quelli che fanno opinione in Italia, vengono sempre schierati quando ci sono interessi finanziari o commmerciali in gioco, di volta in volta sulla corruzione, la mafia, Berlusconi: in una serie storica i due tipi di attacchi combaciano sempre.

venerdì 5 ottobre 2007

Si dice "Corriere" ma è l'eco di Santoro

Apertura e due pagine del “Corriere della sera” per “Anno zero”, Santoro in tv. Con contorno di pettegolezzo, e un inviato a casa di Curzi, che di Santoro fu l'inventore. Chi l’avrebbe detto, di un giornale che, al tempo di “Lascia e raddoppia”, pensava che bastava non parlarne per cancellare Mike Buongiorno. Nemesi della storia? È la conferma che la tv surclassa il giornalismo? Santoro coi suoi quattro filibustieri è più bravo delle maestose flotte del grande giornalismo - è anche vero che alla tv basta poco, della giudicessa di Milano riesce a fare una pin-up.
Il fatto è importante, ma in fondo marginale – chi se ne frega dell’opinione pubblica? Ma è vero che Santoro coi suoi quattro filibustieri determinano l’agenda politica della nazione, e questa è miseria. I veri poveri, in questa Italia di avidi e prepotenti, sono i politici.

domenica 30 settembre 2007

Polsi, il luogo di culto con più continuità

Giuseppe Leuzzi

Andando per l’Aspromonte s’incontrano nella buona stagione trekker in solitudine e mountain biker entusiasti, ma soprattutto s’incontrano pellegrini. Di una specie particolare, devoti e caciaroni: vanno di preferenza in gruppi, e la fede manifestano in balli, botti e “mangiate”. Ballano anche dentro il santuario che è la loro meta, di Polsi o della Madre del Divin Pastore, più nota come Madonna della Montagna, sul versante jonico dell’Aspromonte. È una devozione che le autorità stanno modernizzando a tappe forzate, ma ancora prorompente di un’antica vitalità.
I pellegrini si moltiplicano nella seconda metà di agosto, per la festa che si celebra il 2 settembre. Arrivando spesso in fuoristrada: l’Aspromonte, “il luogo più aspro d’Italia” ancora per Norman Douglas, che fu in Calabria più volte tra il 1912 e il 1915, camminatore esperto, è oggi percorribile agevolmente con strade asfaltate – solo dal lato di San Luca Polsi resta isolato, cui un’improvvida politica l’ha legato amministrativamente. Ma in molti ancora preferiscono il pellegrinaggio a piedi, come si è sempre fatto, per le balze scoscese che si frappongono tra San Luca e il santuario, e giù quasi a picco dal piano di Carmelia e dal passo dei Reggitani, gli accessi che raccolgono i devoti rispettivamente dell’area jonica, del versante tirrenico - la piana di Gioia Tauro, Palmi, Bagnara, Messina – e di Reggio e lo Jonio reggino. Un gruppo di giovani di Bagaladi ci va a piedi: “Sono tre giorni e tre notti di cammino”, dicono senza enfasi.
Benché elevato, a 862 metri di altezza, il santuario si trova in una conca nella pancia della “montagna” – la “montagna” è l’Aspromonte. Un po’ protetto e un po’ imprigionato fra gli strapiombi. È una chiesa non grande, su un poggio che guarda il torrente Bonamico, formato a monte da due fiumare, attorniata da pochi chioschi di rinfreschi e ricordini, e dalle “case” residue delle comunità polsiane, quelle di Pedavoli (oggi Delianuova), Messina e Bagnara. Un eremo che la massa dei pellegrini soverchia dopo Ferragosto col numero e la voglia di festa. Che ogni gruppo si fa da sé, preferibilmente di notte, anche se il santuario non ha strutture di accoglienza. Un ex convento, che nel Novecento è servito da dormitorio di fortuna, oggi ristrutturato, è chiuso al pubblico: è utilizzato per convegni a carattere religioso, e da gruppi di pellegrini selezionati dal rettore, don Pino Strangio. Ma i pellegrini non si aspettano niente: dormono dove capita, nelle case, per terra, dentro la stessa chiesa, e ripartono contenti.
In realtà a Polsi non si dorme. Vi si va per pregare, ma la preghiera è soprattutto ballare la tarantella, sparare in aria (ora sempre meno: in teoria è proibito), e mangiare il castrato, il “capro”. Una realtà che supera l’immaginazione: fino agli ultimi divieti sanitari si scannavano e scuoiavano ogni giorno centinaia di capri, le pelli venivano stese ad asciugare lungo il Bonamico, le acque del torrente scorrevano rosse di sangue. Con la ristrutturazione avviata nel 2002, su iniziativa del Parco dell'Asperomonte e della diocesi di Locri-Gerace, allora retta da monsignor Giancarlo Bregantini, dai commissari prefettizi inviati a San Luca dopo lo scioglimento del consiglio comunale per mafia, il sacrificio dei capri è stato ristretto ad appositi piccoli macelli. Nel 2006 è stato proibito, sempre per ragioni sanitarie, ma non per questo il capro non è più mangiato.
È un rito anomalo. La tarantella, che si suona e si balla ininterrottamente, notte e giorno, vi contribuisce col suo ritmo ossessivo da danza rituale. È tuttavia un rito “intimamente religioso”, secondo lo stesso vescovo del santuario, monsignor Giancarlo Bregantini, a capo dal 1994 della diocesi di Locri e Gerace. Bregantini, che con decisione ne ha avviato la normalizzazione, Polsi ha voluto aggiunto al sito e all’annuario ecclesiastico in lingua inglese, “diocesi di Locri, Gerace (e Polsi)”. Anche per il laico Tonino Perna, sociologo all’università di Messina, già deputato del Pci-Pds, ex presidente del Parco dell’Aspromonte, il pellegrinaggio “è una manifestazione di fede, un punto d’identità forte”, non regressivo: “È una devozione popolare, con forti elementi di liberazione”.
È una devozione femminile. I paesi e le città che hanno casa a Polsi sono legati al culto mariano. Continuazione, si tende oggi a pensare, del matriarcato di Locri, la colonia magnogreca, creata nel 719-720 a.C., del cui bacino Polsi sarebbe stato l’apice interno, “segreto” – tanto più se si considera che il Bonamico era a tratti navigabile ancora in epoca romana. Polsi si può dire dunque per molteplici indizi il luogo di culto con più continuità nel Mediterraneo e in Europa.
Caricato di connotazioni mafiose nel secolo scorso, il santuario se n’è rapidamente liberato nell’ultimo decennio, per il rinnovamento imposto da mons. Bregantni. Nonché a opera del Parco, che nel 2001 ha fatto adottare una Carta della civiltà dell’Aspromonte, e patrocina ogni anno Giornate della legalità nei comuni che ne fanno parte. La “mafia a Polsi” è – è stata - uno dei miti, seppure recenti e mediatici, legati al santuario: una “onorata società” vi terrebbe ogni anno una riunione per speciale devozione alla Madonna. Mentre il contrario è vero, il sacrilegio è la norma della locale criminalità: nel secolo scorso cinque preti del santuario sono stati assassinati (sette secondo alcuni), gli arredi, la Madonna e il Ceppo – la cassa che raccoglie le offerte – regolarmente spogliati (la notte del 30 ottobre 1936 di sei chili d’oro), incluse la “corazza” d’oro della statua e, tre volte, la corona d’oro.
La festa non cessa il 2 settembre. Una seconda celebrazione si tiene il 14 settembre, la festa della Croce. Di cui la chiesa vuole valorizzare la simbologia in altro contesto, della latinizzazione del culto come nascita dell’Europa. Poi Polsi entra in letargo, come dopo una forte febbre. “Per sei mesi”, dice il rettore Strangio, “parliamo coi fiocchi di neve e coi lupi alle cancellate”.

Persiste su Polsi, come su tutta la Calabria, “il silenzio della storia” di un lontano saggio di Leonida Repaci. Aggravato per il santuario dall’isolamento, che ha favorito a diverse epoche il saccheggio. Sono stati asportati molti dipinti e la biblioteca, più volte gli arredi, oltre agli ori e agli ex voto di pregio, e degli archivi non c’è traccia. Di quaranta codici greci che il visitatore apostolico Calceòpulo trovò a Polsi nel 1457 ne sopravvivono in biblioteche note solo tre. Le ultime due tele sono state sottratte nel 1973. La violenza è favorita dall’impunità: la chiesetta bizantina di San Giorgio, nella valle di Pietra Cappa a un’ora a piedi da Polsi, accanto a una casa della Forestale, veniva distrutta nei primi anni Settanta da un locale imprenditore con un suo bulldozer alla ricerca del tesoro nascosto dal santo sotto il pavimento. Ma, in attesa dei documenti, sono molti i segni che fanno la storia di Polsi.
L’origine archivistica del nome combacia con una convincente etimologia, che Rohlfs così sintetizza: “A. 1324 S.Maria de Popsi, a.1328 S.Maria de Ypopsi, gr. Antico epòpsios, onniveggente. Sofocle ha un Zeus epòpsios”. Le due tracce sono del Catalogo delle decime: quella di Popsi nel 1324 quando l’abate Romano paga sette tareni e dieci grani, quella d’Ypopsi nel 1328 quando l’abate Nilo paga dieci tareni. In un sinassario del 1174, residuo della biblioteca di Polsi, Salvatore Gemelli ha rintracciato, “Storia, tradizioni e leggende a Polsi di Aspromonte”, una mano posteriore, del Quattrocento, che si firma “io, fratello del monaco Barnaba della Madonna di Popsi”. Nel Nuovo Testamento, altro volume superstite della biblioteca greca di Polsi, ora a Parigi, si attesta che esso è proprietà di “Romano, monaco, con l’abito del monaco, della Madonna di Epopsi”. Popsi ricorre fino al 1750. Gemelli ha una guida dettagliata, compilata in quell’anno, della Madonna di di Poupsis. Analoga guida a fine Settecento reca invece Madonna di Polsi. Nel 1960, quindici anni prima della pubblicazione del Gemelli, gli editori del “Liber Visitationis” del Calceòpulo, Laurent e Guillou, avevano escluso che Popsi potesse corrispondere a Polsi, ma sbagliavano.
La chiesa in Calabria è stata per sette secoli di rito greco, dopo l’occupazione bizantina nel secolo settimo. Nel 732 l’imperatore di Bisanzio Leone l’Isaurico, l’Iconoclasta, aveva separato la Calabria dalla chiesa di Roma. Nel 736 vi fu adottato il rito greco – la lingua era già in uso, accanto al latino. Con una pronta accettazione, soprattutto da parte del clero: molti sacerdoti trovarono l’uso greco più comodo anche per la possibilità che esso concedeva di ammogliarsi, nonché per i controlli gerarchici affievoliti. Nello stesso secolo ottavo i basiliani arrivarono a frotte da Bisanzio per sfuggire l’iconoclastia, il divieto di venerare le immagini. Tanto più accetti a Roma in quanto erano monaci e non ponevano problemi di celibato. Nel 1472 la diocesi di Oppido viene unita a quella di Gerace, retta da Attanasio Calceòpulo. Sarà questo vescovo greco, un monaco del Monte Athos, basiliano, che seguì Bessarione a Roma nell’ultimo tentativo al concilio di Firenze di riunificate le chiese d’Oriente e Occidente, a mutare nel 1473 nelle due diocesi il rito greco nel latino. Il 19 marzo 1481 un decreto romano abolì il rito greco in Calabria. I basiliani si ritirarono a Grottaferrata.
Il cambiamento sarà progressivo: ancora un secolo dopo i paesi aspromontani di Pedavoli, Paracorio, Scido, Giorgia, Cozzapodini, Sitizano, Lubrichi, saranno citati dal Barrio, “De Situ et Antiquitate Calabriae”, come “villaggi greci, che la religione celebrano in lingua e usi greci, anche se nel quotidiano usano la lingua greca e la latina”. Ma Polsi farà capo da allora alla diocesi di Gerace-Locri, il primo vescovo di Polsi è lo stesso Calceòpulo. Il cui “Liber Visitationis (1457-58)” dei luoghi pastorali è ricco di particolari e, a ogni riscontro, preciso. A Polsi trovò una comunità di cinque monaci, guidati da un abate sapiente e venerabile, Gerasimo, che disponevano dei quaranta manoscritti greci poi andati perduti, una biblioteca allora considerevole.
Il sito è meglio descritto da Edward Lear, che vi passò a metà Ottocento, e nei “Diari” ne fece oggetto di vari schizzi, di una tavola, e di due pagine dettagliate: “Per certo, Santa Maria di Polsi è uno dei posti più notevoli in cui mi sia imbattuto”. Dopo averne descritto la topografia, ne rimarca la mancanza di visuale, come di solito hanno i monasteri isolati in Italia: “Il carattere perpendicolare è singolarmente sorprendente, le rocce alberate a destra e a sinistra chiudendolo come le quinte di un teatro… Qui tutt’attorno, di sopra e di sotto, sono boschi ravvicinati e montagne – nessuno sbocco, nessuna varietà: rigida solitudine e un senso di eremitaggio regnano”. Il Superiore gli spiega che per la maggior parte dell’anno i monaci conducono vita isolata, quando non sepolti dalla neve, con la sola compagnia di qualche montanaro di passaggio, “gente semplice, tenace, senza niente dell’espressione di ferocia che i Lavater inglesi attaccano per vecchia tradizione alla fisionomia calabrese” - il Superiore (l’arciprete Domenico Fera) si meraviglia molto all’idea dei preti (anglicani) che si sposano, e Lear si diverte a citarlo in italiano: “Vescovi sposati? O cielo, una moglie di arcivescovo!” Il “carattere perpendicolare” significa che per accedere a Polsi, che è a 862 metri di altezza, si scende. Specie dal passo dei Reggitani, per un dislivello quasi a piombo di mille metri. Notevole la scarpata anche scendendo da Carmelia, per Bocale e la fonte della Pregna, la sorgente della donna incinta.
I controlli e gli ammodernamenti hanno attenuato ma non cancellato il carattere popolare della festa: si balla, si mangia e si spara lungo la strada, e poi in chiesa. Oggi si tende a dire “pagane” queste manifestazioni. I razionalisti e i credenti moderni tornano schifati da Polsi: dalle pelli appese con le mosche, dai pentoloni sul fuoco per bollire la capra, dal ballo ossessivo, profano, anche indecoroso. Insomma dal popolaresco, che sembra farvi la caricatura di se stesso. Ma pagano connota anche qualcosa di irreligioso, e questo non è nel carattere di Polsi. Corrado Alvaro, che di Polsi ha scritto in più occasioni (Antonio Delfino ne ha redatto una silloge in “A Polsi, con Alvaro sui sentieri dell’anima”), nel sussidiario “Calabria”, da lui compilato nel 1931, ricorda anch’egli perplesso il luogo e la festa: “Dirò d'una festa che è forse la più animata delle Calabrie (allora durava tre notti e tre giorni, n.d.r.)... Nell’Aspromonte abbiamo un Santuario che si chiama di Polsi, ma comunemente della Madonna della Montagna. È un convento basiliano del millecento, uno dei pochi che rimangono in piedi nelle Calabrie...”, con un inciso che è una riserva: “Le feste fanno conoscere la natura degli uomini”. Più persuasive le note di padre Stefano De Fiores, altro sanlucoto illustre, gordinario di Teologia mariana alla Gregoriana, riprese da Domenico Caruso in “Storia e folklore calabrese”: “A Polsi si evidenziano le note della pietà mariana popolare: il senso di una presenza viva dotata di potenza e bontà, l’attrattiva della bellezza, l’esigenza di contatto immediato, il bisogno di far festa”. Sono le note con cui, in linguaggio moderno, il musicologo Roberto De Simone, ricostruendo nei suoi ricordi (“Novelle K 666”) le devozioni popolari dei suburbi napoletani, da lui vissute con trasporto, così ne analizza il senso: “Un rito battesimale in cui si convogliano e si riplasmano culturalmente il malessere esistenziale, le colpe collettive, una medianità repressa, lo sgomento di essere toccati o invasi dal numinoso, come avveniva in lontani orizzonti precristiani”. Com’è sempre avvenuto, anche se in forme diverse: più che arcaiche queste sono esperienze di cui il mondo s’è privato, che, individualista, borghese, decoroso, rifiuta l’arcano e il “numinoso”.

La religiosità è tema arduo. La religiosità popolare è tuttavia indiscutibile, in qualsiasi forma. Si discuteva trent’anni fa (1977) se la religione popolare continui a vivificare, tesi americana, o se essa non sia invece, tesi europea, un residuato folklorico. Erano gli anni in cui Ambrogio Donini, lo storico marxista delle religioni, deprecava nella prefazione al Gemelli: “Troppo a lungo la storia delle tradizioni popolari ha costituito poco più di un capitolo a parte nelle denunce delle puerilità e delle “degenerazioni” dei ceti popolari”. Oggi nessuno mette in discussione la tesi americana. In Calabria, nel primo volume della progettata “La pietà popolare in Italia” che le sue Edizioni di Storia e Letteratura inauguravano dieci anni fa appunto con questa regione, il compianto storico Gabriele De Rosa trovava “nomi greci, antichi e meno antichi, che accarezzano il linguaggio e la memoria di un grande passato, senza ritorno, ormai immobile, esausto e sfinito come una terra esangue”. Ma, notava, “la Grecia e Bisanzio, i monaci del Mercurion e le celle montane del Cilento, san Fantino e san Nilo, san Leo hanno salvato le coste (dall’invasione saracena, n.d.r.) con la preghiera come implorazione di grazia”. La preghiera, in tutte le sue forme, è implorazione di grazia. Che sopravvive anche nella modernità, e travalica “la “cecaggine””, diceva il dotto sacerdote, degli usi confraternali e dei folklorismi. “Il fascino di questa terra”, commenta monsignor Gianfranco Ravasi sul “Sole 24 Ore” del 24 gennaio 1999, “è nei suoi due volti, quello bizantino e quello latino, ora in dialettica ora in contrappunto armonico”. Delle settanta Madonne censite in “La pietà popolare in Calabria”, ventidue sono di matrice orientale. Gli spazi più densi di pietà popolare risultano la Vallis Salinarum, o valle degli ulivi, l’attuale piana di Gioia Tauro, e il Mercurion, la valle che unisce Calabria e Lucania sullo Jonio.
Nasce da qui il detto del vescovo Bregantini, prete trentino: “Se vuoi conoscere la Calabria devi conoscere l’Apromonte, ma se vuoi conoscere l’Aspromonte devi conoscere Polsi”. Un detto forse rassegnato, e che tuttavia potrebbe restare a esergo della sua prelatura. È la stessa conclusione di Perna, “è il cuore dell’Aspromonte”, che a Polsi avrebbe voluto la sede del Parco, non fosse stato per il difficile accesso e per l’equivoca associazione a San Luca, il comune cui il santuario risulta frazione. Il cuore della Calabria è dunque un santuario. Anche per lo scrittore Antonio Delfino, memoria storica e narratore dell’Aspromonte e di Polsi (“Gente di Calabria", “Amo l’Aspromonte”, “La nave della ‘ndrangheta” sono alcune delle sue raccolte di racconti), “non c’è dubbio, Polsi è il cuore della montagna”. Si va a Polsi “non per una devozione specifica ma per amore della Madonna”, spiega Delfino, “potrebbe essere questa la vera fede”. Una devozione popolare e anche spontanea, organizzata ma non promossa da congregazioni, associazioni, patronati, e a lungo anzi osteggiata, dopo le leggi anticlericali e eversive della proprietà ecclesiastica degli ultimi Borboni e dell’Italia unita. Ma parte, bisogna dire, anche della cultura alta dei luoghi, quella che ha primeggiato tra Ottocento e Novecento, compreso il recalcitrante Alvaro, e fino a Francescantonio Leuzzi, massone professo (libero docente di Semeiotica medica a Napoli, Leuzzi si aggregò alla sparuta dozzina di ordinari universitari che rifiutarono il giuramento al fascismo, perdendo la cattedra e lo stipendio). La devozione, il pellegrinaggio e la Madonna della Montagna furono soggetto dei poeti latinisti insigni, Diego Vitrioli di Reggio, Francesco Sofia Alessio di Taurianova, che primeggiavano al premio Amsterdam, il certamen di poesia latina della Reale Accademia Nederlandese.
Il pellegrinaggio è certo speciale. “Il pellegrinaggio evoca moltitudini di pellegrini che attraversano montagne, fiumi, foreste”, ironizzano Fruttero e Lucentini nel loro romanzo-catalogo, “L’amante senza fissa dimora”. Quello di Polsi non evoca, è. I pellegrini andavano fino a ieri in “carovane”, nei sei mesi di tempo clemente. È un uso che non si è perduto: le carovane si ricostituiscono ancora da molti luoghi, soprattutto per la festa, nella seconda metà di agosto, che culmina il 2 settembre con la processione della Madonna per le balze che circondano il santuario. Sono folle che l’esiguità dei sentieri e delle strutture ingigantisce, gruppi familiari, di clan, di quartiere, di parrocchia, e ora circoli culturali, talvolta organizzati da procuratori. Dallo Jonio le carovane risalgono il Bonamico, la tipica “fiumara” dell’Aspromonte. Dal Tirreno si va a Polsi attraverso Delianuova e il Piano di Carmelia, da Reggio e l’estrema punta della penisola per Gambarie e il Piano dei Reggitani, sotto il Montalto. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso i Messinesi – ma venivano da Ganzirri, Capo Faro e altri paesini più che dalla città – arrivavano a Delianuova il pomeriggio del 31 agosto, e dopo alcune ore ripartivano a piedi, via Carmelia, per essere a Polsi alle prime ore dell’1 settembre.
Per secoli, fino a questi primi anni del millennio, il pellegrinaggio è stato come Corrado Alvaro lo ha ripetutamente descritto, da “Polsi nell’arte, nella leggenda, nella storia” - la sua prima operina di diciassettenne, con le “belle cardole”, le ragazze di Cardeto in costume, che ballavano vivaci e aggraziate la tarantella - a “Gente in Aspromonte”. Sul pellegrinaggio è centrato il racconto “Consolata” della raccolta, con “la Madonna di pietra colorata”, “la folla compatta”, la chiesa ridotta a “mistico ovile”, dove i pastori portano in voto “le mucche e le capre infiocchettate”. Ma già il racconto lungo del titolo, “Gente in Aspromonte”, crea attorno ai pellegrini una delle sue scene principali, che scaldano la buona stagione del chiuso e cupo villaggio “cantando e suonando giorno e notte”. Si grida “viva Maria!” e si sparano colpi di fucile: “La folla si snodava lungo lo stretto sentiero in fila indiana. I bambini piangevano nelle ceste che le donne portavano sulla testa, i muli con qualche signore seduto sopra facevano rotolare a valle i sassi, una signora vestita bene camminava a piedi nudi tenendo le scarpe in mano, per voto. Una donna del popolo andava con le trecce sciolte…” Il santuario è remoto: “Nella valle l’ombra era alta, e pareva che la riempisse, col rumore di un torrente che si gettava da un salto del monte”. Varie scene movimentano il percorso: “Una comitiva sbucò suonando e sparando in aria. Andava avanti uno con una zampogna, e un altro batteva ora il pugno ora le cinque dita a un tamburello. Altri lo seguivano a passo di ballo, per voto, come potevano, uomini e donne. Uomini e donne si davano a tratti, ballando, dei gran colpi con le natiche, senza ridere… Un’altra frotta di pellegrini sbucò coi fucili sulla strada. Avevano accese le fiaccole… ”.
Nel racconto “Festa a Polsi”, così Antonio Delfino ricorda il pellegrinaggio del 1943: “Sul greto del Bonamico i pellegrini stanchi dormivano in giacigli improvvisati, al rumore piacevole dei sassi che rotolavano tra la corrente. Le sonagliere dei muli interrompevano il silenzio della notte. Dal Puntone della Croce, un formicaio umano, dopo una breve sosta alla fonte della Pregna, scendeva attraverso la sterrata della Figurella, dopo aver depositato, grandi e piccini, una pietra portata sulle spalle, ai piedi di una croce di legno che dominava tutta la vallata. La pietra, come simbolo di penitenza, che, davanti alla croce, libera l’uomo da ogni colpa. Al ponte della Sedia, breve sosta per entrare a Polsi, tra i secolari castagni piantati dai monaci basiliani all’inizio del primo millennio e poi l’acre odore del castrato, rosolato tra le pietre della fiumara ed offerto tra la fraganza delle felci”. Sotto i castagni, crepita a tratti la fucileria: “Era l’annuncio dell’arrivo di qualche carovana, che per antica tradizione si fermava all’ingresso di Polsi per ricevere, prima di entrare in chiesa, dal Superiore, lo stendardo con l’effigie della Madonna”.
Anche il santuario è speciale. Polsi è il luogo di culto con la più lunga continuità nel Mediterraneo e in Europa. Partendo dalla fondazione della vicina Locri, che si fa ascendere al 7189-720 a.C., da parte di coloni greci, una colonia matriarcale. La scelta di Polsi come sito religioso di Locri può sembrare incongrua: per quanto vicino in linea d’aria, e il Bonamico fosse all’epoca in parte navigabile, il santuario è stato a lungo, e resta tuttora, di faticoso accesso. Ma un santuario, più che alle feste, serviva allora a custodire un segreto, talvolta anzi quello più importante, l’anima segreta della nazione. Era questo il senso dell’uso allora corrente di celebrare i nuclei centrali dei riti fondamentali in segreto. La ritualità e la collocazione dei primi santuari greci ripetono l’inclinazione all’arcano dei primi sacerdozi, che venivano dal Sud Mediterraneo, dall’Egitto e da Creta.
A Polsi, dove “si scende”, la devozione è simbolicamente una discesa agli inferi, che ripete quella di Persefone. Persefone è l’antica divinità di Locri. Risponde al mito di una fanciulla bellissima, “dal volto di bocciolo”, figlia di Zeus e Demetra, la “madre terra”, rapita dal dio degli Inferi Ade mentre giocava coi figli di Oceano sui prati lussureggianti di fiori. Quando Persefone stese le mani verso il narciso la terrà si spalancò, Ade ne emerse e se la portò via in lacrime sul suo cocchio dorato. Nelle innumerevoli pinakes, tavolette votive in terracotta, rinvenute negli scavi a Locri e ora al Museo della Magna Grecia di Reggio Calabria, Persefone presiede alle attività agricole. Il culto è tramandato tal quale nella vicina Bova, colonia di Locri, la domenica delle Palme nella processione delle “Persephoni”, grandi statue femminili di foglie d’ulivo (della varietà Chianese‑Sinopolitana, l’ulivo di alto fusto che forma nella Piana di Gioia Tauro il panorama forse più emozionante della Calabria). Ed era analogo al culto della Dea Madre nel santuario epirota di Dodoni, sull’altro versante dello Jonio, altrettanto remoto e segreto che Polsi.
La devozione è tipicamente mariana, anche se in forme tutte sue – anch’esse insomma speciali: della Madonna che, oltre ad essere la madre di Cristo, eredita tutte le funzioni cultuali delle antiche divinità femminili. Il filo non si è mai interrotto dall’antichità, che attorno e in prossimità dell’Aspromonte ha avvertito e onorato “presenze” femminili: Persefone, Afrodite, che a Locri aveva tre luoghi di culto distinti, ed era la divinità di Palmi-Bagnara-Scilla-Messina, e il Toro. La Persefone dell’Alt Museum di Berlino, uno dei gioielli museali della capitale tedesca, che sarebbe stata trafugata un secolo fa da Locri (Alvaro ne racconta la storia in "Mastrangelina"), si adorna anche di simboli marini, per sovrapposizione col culto di Afrodite. “La pietà popolare in Italia” censisce non lontano, a Nicastro, anche una Madonna delle Cucchiarelle, dal greco cochlea per conchiglia, cristianizzazione anch’essa del mito di Afrodite. È il culto della fertilità. La Madonna di Polsi, la “Madonna dal volto di popolana” (Delfino), è forse il caso più appariscente di esibizione frontale del corpo di Cristo, anche se è sfuggito al repertorio classico, “The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion”, di Leo Steinberg: più che mostrarlo, ostenta il Bambino nella sua nudità. La traccia persiste nelle colonie locresi della piana di Gioia Tauro, Medma (Rosarno) e Metauro (Palmi), in una con la toponomastica legata al toro, residuo di un altro filone del culto della Dea Madre, Artemide Tauropolos, la cretese Madonna del Toro. La Vergine associata al Toro è reminiscenza micenea – ampie sono le tracce micenee nel Sud d’Italia, benché inesplorate - di origine minoico-cretese. I Normanni, cui si deve la rinascita di Polsi, edificarono molte chiese di varia devozione a Maria nella fascia tirrenica, da Tropea a Reggio.
Polsi è da sempre luogo di riferimento di Messina e Palmi, di Bagnara, di Delianuova, sottocolonia di Bova, e di altri centri legati al culto mariano. Con una distinta struttura matriarcale a Bagnara, e nelle finitime Pellegrina e Solano, Solano, perdurante a Novecento inoltrato e nucleo centrale di “Horcynus Orca”, l’epica di Stefano D’Arrigo, materia di studio ancora a metà secolo della Sorbona, della Fondation Nationale des Sciences Politiques, sotto la direzione di Jean Meyriat. Per i messinesi Polsi è un riferimento fin dal terzo secolo dopo Cristo: vi si sarebbero a lungo rifugiati per sfuggire alle persecuzioni. Bagnaroti sono stati – e lo sono ancora nelle occasioni meno importanti – i portantini della statua nella processione. In maggior parte bagnaroti sono stati fino a recente i procuratori della festa, ora membri del comitato. Deliesi sono stati fino agli anni 1970 i bancarellari, poi sostituiti da sanlucoti. Sono tutti devoti di Maria i paesi che a varie epoche, come vedremo, hanno avuto a Polsi delle case di accoglienza per i pellegrini. Alto ma profondo, il santuario è, come dice ancora Bregantini, il “grembo dell’Aspromonte”. La caratterizzazione si conferma con le leggende dell’Alto Medio Evo, del Sabba e della Sibilla. Quando, al termine della processione, la statua della Madonna giunge davanti al santuario, viene rigirata rapidamente, in maniera che possa far fronte alla Maga Sibilla, la morte, che la insidia dal capo della valle. Buona parte delle leggende e della storia che accompagnano dopo il Mille la rinascita del santuario lo legano al sentimento della Dea Madre. Ancora nel 1647, nel “Sentimento dell’Opera”, la sinossi del suo “Adamo Perduto”, pubblicato quell’anno a Cosenza, nel quale molti vedono l’originale del “Paradiso perduto” di Milton, Serafino della Calandra, frate predicatore, annuncia “fra breve… un’altra operetta, titulata Venere Pudica, e Martire della Città di Locri, adesso Gerace”.
L’antropologia della festa, di Jesi, Lanternari, Lombardi Satriani, non manca di mettere in rilievo come il pellegrinaggio sia stato a lungo l’unica occasione di viaggiare, specie per le donne. E una sorta di carnevale sacro, di liberazione periodica del controllo sociale – molti comportamenti restrittivi, in famiglia e fuori, sono determinati nelle società statiche dalla “faccia della gente”, dal controllo sociale. “Le donne, per esempio, sia pure per un breve tempo, uscivano da uno stato di costrizione” (Giovanni Sole, “Il cammino verso la Grande Madre”, in Luigi M. Lombardi Satriani, a cura di, “Madonne, pellegrinaggi e santi”). Il pellegrinaggio era anche “un’occasione per fare ciò che in tempi normali era proibito”. Henry Swinburne e Norman Douglas, i viaggiatori a piedi di fine Ottocento in Calabria, trovano presso i santuari donne momentaneamente libere e corteggiamenti. Polsi è praticamente assente nella letteratura di viaggio, se si eccettua il dettaglista Lear. E anche nell’antropologia religiosa: si sono fatti studi su molte Madonne in Calabria, ma non su Polsi. Ma non per questo i connotati del culto sono meno precisi. Un gruppo di donne di san Giorgio Morgeto, da Perna incontrate tre anni fa sul sentiero per il santuario, ci andavano, dissero, “per liberarsi dalle famiglie, dai mariti”, almeno per qualche giorno.

La storia risale al secolo XI, nel quadro della “latinizzazione” della Calabria, a opera dei normanni. Ne sono testimonianza la Croce di ferro, e alcuni tratti costruttivi che ripetono la Cattolica di Mileto, la città nell’entroterra di Tropea che fu la capitale dei Normanni dal 1058 al 1110, del Gran Conte Ruggero e di suo figlio Ruggero II. Roberto il Guiscardo, il Furbo, scende in Italia con la seconda ondata dei figli di Tancredi nel 1047. Nel 1056 succede a Unfredo in Puglia. È un violento, tanto da incorrere nella scomunica. Ma è anche un politico: si ravvede e si lega alla curia romana. Nel 1058 scende in Calabria. Lo accompagna il fratello più piccolo, Ruggero, che sarà il Gran Conte. Dal tempo di Pipino il Breve il papa sempre ha usato i francesi - i franchi, i normanni, gli angioini e fino a Napoleone III - per curare gli interessi temporali nella penisola. Mileto, prima capitale del Conte Ruggero, nel 1058, è la prima diocesi di culto latino del Meridione, nel 1080. Vi nacque Ruggero II il Normanno, che nel 1110 riuscì a sbarcare in Sicilia, spostando la capitale a Messina.
Il recupero di Polsi a luogo di culto si fece a opera dei basiliani, monaci greci di culto latino, che scesero a Polsi, secondo l’etnografo Raffaele Corso, abbandonando il cenobio aspromontano del monte Pistocchìo – ove dei ruderi non classificati sono tuttora visibili. La costruzione del santuario è datata convenzionalmente 1144: la data spiega il legame speciale del rinato santuario con Messina, oltre che con i Normanni. Ma i primi documenti – quelli che ne danno l’etimologia – sono di due secoli dopo. Una Madonna bizantina bruna (“nera”) Gorgoepikoos, “la Madonna che ascolta pronta”, del genere in cui la Madonna o il Bambino reggono il globo crocifero, su tavola, sarebbe anch’essa del Trecento. Le case e i pellegrinaggi sono certificati dal 1457, dalla visita del futuro vescovo Calceòpulo: le coltivazioni sono ordinate, scrive il visitatore, gli spazi puliti, le case spaziose. Ne residuano, di fronte alla torre campanaria, quella ampia di Bagnara e quella di Campo Calabro, e di fronte alla porta principale quelle di Messina, Ganzirri e Pedavoli (Delianuova), che nel 1894 il superiore don Enrico Macrì ha fatto demolire e ricostruire, ridimensionandole, “ad incremento dela piazza, a scopo di fare un nuovo ingresso alla chiesa”. Restano attive anche la casa di Platì, la casa di Cittanova, la lunga fila delle case di Condofuri.
Da almeno sei secoli, dunque, il santuario ha una struttura ricettiva, che nella scala del Quattrocento si può considerare di dimensioni molto ampie. Ed era dotato di vasti censi, canoni e proprietà fondiarie. Nel 1604 una “platea” dei beni del santuario rivendicati dall’abate don Giovanni Sanchez in territorio di Bianco, San Luca, Careri, Natile, Bovalino, Casignana, Condojanni, Santa Giorgìa di Santa Cristina, Platì, assommava a poco meno di mille ettari, calcola Gemelli, più delle proprietà della diocesi di Gerace-Locri. A fine Ottocento risultano censite le case – due stanze sovrapposte, su un “basso”, lo scantinato – di Bagnara, Pedavoli, Oppido, Santa Cristina, Mammola, Sambatello, e quelle di Messina, quattro stanze con una balconata in legno, e Reggio, tre stanze. Ognuna con un orto di tre tomoli, pari a un ettaro nell’area aspromontana – il tomolo è una misura di capacità del frumento, pari a 55-56 litri: tomolata, e anche tomolo, è la superficie necessaria a produrre un tomolo di grano, nella valle del Bonamico pari a un terzo di ettaro.

La statua monumentale della Madonna, in pietra siracusana, del peso di otto quintali, opera dello scultore Rinaldo Bonanno, fu portata a Polsi in regalo dai messinesi nel 1580. Messina punteggia molti momenti della storia di Polsi – forse perché la Sicilia non è afflitta dal morbo del “silenzio della storia”. Bonanno, messinese, allievo di Montorsoli e Montanini, ne mediò l’ispirazione ellenistica in numerose rappresentazioni di Bambini giocosi e Madonne giovanili e materne. La tiara d’argento nella quale la Croce di ferro è contenuta è del 1632, offerta dai messinesi. Si devono ai messinesi, di Messina e di Ganzirri, le dotazioni di maggior pregio del santuario. Il diario del primo parroco nominato da Gerace nel 1730, il dottore protopapa don Stefano Piteri, da Careri, scoperto e conservato da Vincenzo De Cristo a Cittanova, e in parte pubblicato da mons. Raschellà (“Nuove luci su Polsi”), dà il tono: “La festa di questa gran signora non ha giorno determinato, poiché da maggio fino a tutto novembre è una continua festa”. La festa si faceva allora il 4 settembre, “festa particolare”, scrive il dottore, per “l’arrivo dei Signori Messinesi”. Nel 1731 i Messinesi portarono in dono “un Tabernacolo; un trono coronato con bellissima corona a finissimo intaglio fatto tutto d’oro guarnito; un ombrello di bellissimo drappo guarnito alla moda; una sfera d’argento e un avanti altare o paliotto di damasco forestiero con la cornice di mistura”, oltre alle offerte personali, in gioielli e al ceppo. Il vescovo, intervenuto al culmine delle celebrazioni, registrò quell’anno “più di settantacinque grazie segnalate”, di cui diciotto “strepitose e consolantissime”. L’altare in marmo policromo fu offerto dai messinesi nel 1737.
Un po’ ovunque in Sicilia, più spesso in chiesette bizantine, è diffuso il culto della Madonna in riferimento a Polsi, celebrata come Madonna della Montagna ad Alì Superiore, e come Madonna del Bosco a Milazzo, Partinico, Bisacquino, Buscemi, Rodia nei pressi di Messina – sin dal Medio Evo – e Messina. A Messina nel 1614 si eresse una chiesa in onore della Madonna del Bosco – il quadro della Madonna sarà dipinto dal Catalano l’Antico l’anno successivo – e si costituì una confraternita per i pellegrinaggi a Polsi. Distrutta dal terremoto del 1908 e riedificata, la chiesa fu poi demolita per sempre dai bombardamenti alleati del 1943. Fino a una ventina d’anni fa Ganzirri ha onorato la Madonna di Polsi anche con una festa sulle rive dei suoi laghi l’ultima domenica di settembre. A metà Settecento risultavano a Polsi una casa dei Messinesi, una dei Ganzirroti e Faroti e una del canonico messinese Gullì. Per i messinesi, nel 1799, risultavano nella casa di Polsi sei stanze, coi relativi bassi, e i balconi di legno.

Il campanile e la navata principale della chiesa sono dei primi del Settecento. Il convento è stato ricostruito a partire dal 1740. La Croce fu collocata nel 1771 sopra un altare policromo fatto erigere quello stesso anno dal marchese Vincenzo Maria Carafa per la guarigione – la resurrezione – del figlio, marchesino di Roccella. Nel 1784 la Cassa Sacra, istituita dal governo borbonico di Napoli per finanziare la ricostruzione dopo il sisma catastrofico dell’anno precedente, requisiva nel santuario un quintale abbondante di oro e argento.
Il santuario è stato variamente retto da abati, priori, superiori, rettori. Con la ripresa dell’interesse della curia di Gerace ai primi del Settecento, la chiesa fu eretta a parrocchia con un proprio titolare, in quanto a grande distanza dai centri abitati, variamente chiamato vicario, curato, protopapa, canonico, arciprete - in aggiunta al titolo di abate, eccetera. San Luca, il centro più vicino, distava dodici miglia di un sentiero accidentato da torrenti e burroni. In precedenza il santuario sarebbe stato affidato all’ufficiatura dell’abate dell’ex convento basiliano di Potamia, il villaggio vicino San Luca che una frana distrusse nel 1592. Gli abati, di cui si ha traccia dal 1604, sono venuti da Platì principalmente, e da svariati altri luoghi, Careri, Bianco, Casalnuovo d’Africo, Santa Severina, perfino da Napoli, prima che da San Luca.
La statua della Madonna non viene rimossa per la processione, salvo che per i giubilei (incoronazioni), i primi tre ogni cinquant’anni dal 1881, dal 2006 ogni venticinque anni. In processione va la minuta statua lignea regalata a questo fine nel 1881 dal conte Ruffo di Sinopoli. Il convento ha ospitato fino a prima dell’ultima guerra dei frati detti di San Paolo l’Eremita, novizi e cercatori diffusi un po’ in tutta la Calabria, che non pronunciavano voti. Successivamente, fino alla recente ristrutturazione, è rimasto in abbandono, ospitando i pellegrini in giacigli di fortuna.
La leggenda riporta le origini del santuario agli albori dl IV secolo, quando papa Silvestro I vi ritrovò i cristiani messinesi che vi si erano rifugiati per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Costantino, e insieme pregando ne ottennero la conversione nel 313. Il luogo mantiene intatte le sue leggende. Che hanno sempre un fondo storico, per quanto presumibile. Partendo dalla più attendibile, l’origine greca antica. Attestata da tre caratteristiche che l’etnologia considera di chiaro significato: il ballo in chiesa, i fuochi (i botti), l’ecatombe. Il pellegrino di Polsi deve mangiare il capro: è, era, una cerimonia di chiaro nome, anche se desueto, l’antica ecatombe, il sacrificio di animali presso il tempio (gli usi che vanno via via scomparendo per la modernizzazione sono documentati nella raccolta di foto storiche “Saluti da Polsi”, Nuove Edizioni Barbaro). Il ballo, la tarantella, accentua nel modo “reggitano”, o meglio aspromontano, la diatonia antico greca, accordi semplici reiterati con minime variazioni. Maria Barresi lo fa derivare dal kordax, il ballo che intervalla le commedie greche ("Il Kordax dalla Grecia alla mafia"). Ma più probabilmente deriva dal sikinnis, il ballo dei satiri, anch’esso come il kordax inteso a propiziare la Fertilità. Il kordax, un ballo mascherato, è detto dai testi antichi “lascivo”, “sguaiato”, “osceno”, mentre il sikinnis, detto “vivace”, “rapido”, “vigoroso”, al più “sapido”, risponde meglio alla tarantella aspromontana, che si balla in coppia, variamente assortita da un maestro di ballo tra i partecipanti disposti in circolo – “quando c’è ruota c’è festa”, dice il maestro Battaglia, dell’Associazione dei Suonatori di Cardeto. All’uso greco rimandano anche le “case” e le fazioni: le prime sono reminiscenze dei tesori – in realtà edifici a forma di altare, o comunque sigillati - che le città greche e magnogreche depositavano presso i maggiori santuari, in segno di devozione e a suggello di alleanze, mentre le contese, che contraddistinguevano le antiche polis, si rinnovano a Polsi per portare la statua in processione, tra Bagnara e San luca, per portare lo stendardo, tra Reggio e Messina, per reggere le aste del baldacchino, idem.
Il sincretismo è persistente, i miti non hanno mai cessato di proliferare al centro di quel “bosco sul mare” che è l’Aspromonte, un paesaggio privilegiato che il Parco oggi protegge. Andando a Polsi s’incontrano ancora il Sabba e le Sibille. Successivamente i Normanni, che hanno dato il nome all’Aspromonte, lo hanno popolato anche dei loro cicli di avventure cavalleresche, il ciclo carolingio, con la “Chanson d’Aspremont”, e quello bretone, dalla Fata Morgana di re Artù a Guerrin Meschino. La tradizione che vuole l’Aspromonte greco, “bianco monte”, non ha base filologica: coniuga aspros, greco per bianco, col latino mons. La montagna peraltro non ha nome prima, lo prende con la venuta dei normanni, che vi insediano i lori cicli di avventure. Ricollocandole, con minime variazioni onomastiche, tra i suoi boschi e il mare dello Stretto di Messina, che i normanni agognavano di traversare – i nemici erano sempre gli stessi, gli infedeli arabi. La maggiore novità della “Chanson d’Aspremont” rispetto agli altri cicli cavallereschi è il posto che essa fa ai romiti delle Rocche, oggi dette di San Pietro, e della montagna in generale, uomini di preghiera, difensori del popolo, ammirati dai nemici mussulmani. Di cui nelle balze sopra Natile, non lontano da Polsi, che riproducono in piccolo le Meteore della Grecia o la Cappadocia in Turchia, si trovano tuttora consistenti tracce.
Ancorato alla leggenda è anche il manufatto del santuario di più sicura ascendenza storica, la Croce normanna. La Croce, in ferro battuto, grezzo, alta cm.70, sarebbe stata rinvenuta da un torello. O meglio da un pastorello cui il vitello lo indica. Un’altra leggenda la vuole rinvenuta dai levrieri del Conte Ruggero, nel corso di una battuta di caccia, nel 1084. Una terza leggenda i levrieri dice del Re Ruggero e il ritrovamento del 1144 – epoca nella quale il re normanno era già a Palermo. Le tre ipotesi vengono il superiore di Polsi Domenico Fera sintetizza a Edward Lear in una: il Toro attese il passaggio di Ruggero per spingerlo, scavando la Croce, a costruire il monastero. La leggenda pastorale si colloca in luoghi dell’Aspromonte legati al pellegrinaggio, Santa Cristina, Carmelia, Pedavoli, Piano o passo dei Reggitani.
La croce è comunque “rinvenuta”, non “appare”. Mons. Vincenzo Raschellà, che nel 1938 pubblicò gli esiti delle sue ricerche nell’archivio della diocesi di Locri in “Nuove Luci sul santuario di Polsi”, opina che la croce fosse residuata dal frontone della chiesetta dello stesso nome, Santa Maria di Polsi, esistente dai primi secoli dell’evo cristiano alle Rocche di Juncari, luogo di devozione greco-ortodosso, travolta - da terremoto o alluvione – attorno al 1500. La Croce ha ora un culto rinnovato. È stata portata in processione nella diocesi di Gerace nel 1997, quindi anche a Crotone e Ganzirri, e per la Pasqua del 2006 fino a Roma, dove il cardinale Javier Lozano Barragàn ne ha celebrato il “significato per l’Europa”.

Addendum. Nel quadro dell’appiattimento mediatico del Sud sulla delinquenza, Polsi viene nuovamente legato alla mafia, la ‘ndrangheta. E più specificamente a quella di San Luca, in particolare nell’estate del 2007, dopo l’esecuzione di sei sanlucoti a Duisburg in Germania. Le Radio Rai del 2 settembre 2007 hanno fatto delle celebrazioni la “festa patronale” di San Luca, e questo è l’unico inconveniente reale della devozione. È San Luca che, con la vicina Platì, ha riverberato sinistra fama sul santuario. Dapprima con l’industria dei sequestri negli ultimi trent’anni del Novecento - attorno a Platì-San Luca Cesare Casella fu tenuto in cattività per due anni, e Alessandra Sgarella, l’ultima sequestrata, per otto mesi nel 1998. Ora col commercio europeo della droga. Ma anche prima, bisogna dire: si rubava già in “Gente in Aspromonte” l’oro della Madonna e le offerte, per giocarseli a carte. Un sacrilegio non temuto: Alvaro lo attribuisce nel racconto a un “forestiero”, un “parente del priore”, uno “di un paese vicino dove la gente era la più furba della contrada”, e cioè Platì, ma nel cupo villaggio che fa da sfondo al racconto, cioè a San Luca, il sacrilegio non suscita nessuno scandalo.
Il santuario si trova alla stessa distanza, geografica e a piedi, da San Luca che da Delianuova o da Platì. Ed è intimamente legato anche all’area tirrenica. L’ultimo giubileo è stato celebrato a fine 2006-inizio 2007 con un pellegrinaggio della Madonna della Montagna attraverso tutte le parrocchie della Piana di Gioia Tauro. Ma un paio di segretari comunali e ora la prelatura Bregantini lo hanno legato a San Luca. I segretari comunali originari di San Luca operando nei Comuni di Bovalino e Delianuova negli anni 1920-1930 hanno fatto di San Luca il Comune più grande dell’Aspromonte: il paese che Corrado Alvaro fissava nell’estrema indigenza, nella chiusura, nella sopravvivenza, di poche case in pietra e malta continuamente sbriciolate dal torrente, diventava in quegli anni surrettiziamente il maggior “proprietario” dell’Aspromonte, con diecimila ettari ed estese propaggini perfino sul versante tirrenico, un sedicesimo di tutto l’Aspromonte, poco meno di un settimo del Parco, di cui fanno parte una quarantina di Comuni.
La questione dell’appartenenza non è di poco conto. Un abate peraltro benemerito del santuario, don Giosafatto Mittiga di Platì, mentore e fonte di Alvaro giovinetto, tentò di risolverla negli anni 1920 creando una diocesi a se stante, che avrebbe raggruppato attorno a Polsi alcune parrocchie di Gerace-Locri (San Luca, Cirella, Natile) e di Oppido Mamertina (Delianuova, Scido, Santa Cristina d’Aspromonte), ma fu sconfessato a Roma. Polsi resta frazione di San Luca, e il rettore di Polsi è, dopo Mittiga, il parroco di San Luca. L’ipotesi è che la Madonna della Montagna si riverberi benevolmente su San Luca. È dubbio, San Luca avendo bisogno non di compiacenza ma di una brusca repressione e di una sana prevenzione. Mentre l’inverso è possibile, e anzi avviene: che il santuario e la devozione passino per mafiosi. Nel 1931 Francesco Siciliano, segretario comunale di Bovalino, attribuiva ai sanlucoti il titolo di portantini della statua nella processione del secondo giubileo, per “diritto di dominazione del proprio territorio”. Il maresciallo Giuseppe Delfino e il canonico Francesco Pangallo avevano statuito a favore dei bagnaroti, per diritto tradizionale, ma senza effetto. Al terzo giubileo, nel 1981, il rettore del santuario, don Pino Strangio, ha sanzionato il cambiamento: “Questo momento (la processione, n.d.r.) appartiene alla gente di San Luca”.
(Il sommario di queste note è stato pubblicato nel numero di settembre del "National Geographic)