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martedì 25 dicembre 2012

Monti non è Ciampi

Monti è un capopartito, anzi peggio, un capo cordata, non manifesta ma surrettiziamente forte, e non certamente il tecnico al di sopra delle parti. Si può misurare la quasi candidatura di Monti dal raffronto di Ciampi. Per una differenza non tanto di stile quanto di strategia politica.
Ciampi era il vero tecnico: chiamato a risolvere alcuni problemi, lasciò poi con buona pace quando Scalfaro decise d’interrompere la legislatura – il primo dei suoi golpe istituzionali, che doveva segnare il trionfo di Occhetto e invece portò Berlusconi. Poi, chiamato da Prodi e quindi da D’Alema per preparare l’ingresso della lira nell’euro, vi si prestò senza storie. Monti è diverso.
Monti è il cavaliere dell’ipotesi neo guelfa. Il progetto di riprendere il controllo del paese attraverso una Democrazia Cristiana ribattezzata Grande Centro. Anche da posizione minoritaria, come è avvenuto in questo anno di supplenza, concessa improvvidamente da Napolitano sotto la minaccia dello spread. Ma forte dell’appoggio delle banche, ormai confessionali al 90 per cento. E dell’“opinione pubblica”: la Rai, casiniana in percentuale di poco minore, Sky, La 7, e l’editoria giornalistica: Rcs, Espresso-Repubblica-Finegil, Itedi-Fiat- Caltagirone-Messaggero, Riffeser, Sole-24 Ore. Che ne hanno imposto all’Italia l’urgenza, e quasi il bisogno, malgrado un’esperienza disastrosa di governo, il primo della storia della Repubblica che abbia provocato da solo una recessione.
Monti è ipotesi forte a Milano, grazie alle due grandi banche e alla Confindustria di Emma Marcegaglia. E ha una sponda ferma nel cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi, e nella Confindustria di Squinzi. Gli editori sono allineati per il ripristino delle “provvidenze” all’editoria, e per interessi di bottega, a Torino e a Roma.  

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