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sabato 29 dicembre 2012

Dio diede a Borges la cecità con la biblioteca

In una serie di conferenze al teatro Coliseo di Buenos Aires nell’estate del 1977, Borges ne tenne una sulla cecità, e una sull’incubo. Da professionista, si può dire, essendo egli stesso cieco, nonché autore di un “Elogio dell’ombra”, e un praticante assiduo dei sogni, autore naturalmente anche d’un “L’incubo”Due testi che il curatore Tommaso Menegazzi dice esemplari della “fabbrica Borges”, quella “della vita e la letteratura, della realtà e l’artificio, della verità e la finzione” (in un’edizioncina incredibilmente scorretta, “borgesiana” si può dire anch’essa, dove le lettere si dispongono come vogliono).
È il Borges conversativo, al suo meglio. L’aneddotica sulla cecità è inarrestabile. Della nonna e il bisnonno, che morirono “ciechi, sorridenti e coraggiosi”. Non i soli, ma “si ereditano molte cose (la cecità per esempio), non si eredita il coraggio”. Della cecità sopravvenuta nel 1955, con la direzione inattesa della Biblioteca Nacional. Dove i due direttori precedenti erano stati ciechi, Groussac e José Marmol. Propiziando la “Poesia dei doni”: “La confessione della maestria\ di Dio, che con magnifica ironia\ mi dette insieme i volumi e la notte”.  E la capacità accresciuta di affabulazione e scrittura. Come Milton, che “consumò la vista scrivendo libelli in difesa dell’esecuzione del re a opera del Parlamento”, salvo poi essere graziato dal figlio del re assassinato e scrivere i suoi illustri poemi. Cieco si voleva a suo modo Oscar Wilde, e conviene leggere Borges per capire perché.
Sugli incubi, cioè sui sogni, ogni citazione sarebbe borgesiana, una riproduzione pari pari del testo, senza essere esaustiva. Uno da antologia è quello di Dante, la lettura borgesiana del “nobile castello” che Dante incontra nell’“Inferno”. Borges è decisamente con Shakespeare: siamo fatti della materia dei sogni. Ne siamo come dice Addison: attori, registi, autori, dialoghisti, truccatori, costumisti, scenografi. Tutto dei sogni gli piace, anche degli incubi, specie nella versione inglese, del nightmare, la cavalla notturna. E non esclude i sogni profetici. “I sogni sono un’opera estetica, forse l’espressione estetica più antica, la cui forma si rivela estremamente drammatica”, al modo di Addison. “E se gli incubi fossero strettamente sovrannaturali?” In tutte le lingue “rimandano a qualcosa d’innaturale”. E perché, nel sovrannaturale, non sarebbero “squarci dell’inferno”? Anzi, e “se negli incubi ci trovassimo letteralmente nell’inferno? Perché no? È tutto così strano  che persino questo è possibile”.
Una sola cosa si può dire: che i sogni costituiscono per Borges, con gli specchi, il suo triplice labirinto (una volta Borges vide, in casa di Dora de Alvera una stanza circolare con le pareti e le porte di specchi: un labirinto e una prigione). Anzi quadruplice, poiché con gli specchi vanno le maschere – e questo è il sogno di Baudelaire (il sogno che hante Calasso nella “Folie Baudelaire”, e nella seconda, illustrata, più che nella prima). Borges  è una di quelle esistenze, non rare nel Novecento ma senza precedenti, che sono state letteratura.
Jorge Luis Borges, La cecità. L’incubo, Mimesis, pp. 58 € 3,90

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