sabato 12 aprile 2025
Problemi di base scrittoriali - 853
La divina marchesa
Con molte illustrazioni,
una lunga storia pubblicata vent’anni fa, sulla “ereditiera italiana (milanese,
ndr.) nata ricca, sposata ricca, che tutto aveva perduto al tempo della morte,
in caratteristico stile surreale”. Che ne fece la vedette di mezzo mondo
fashion, se non di tutto, per mezzo secolo. Un “personaggio”, del tutto
contemporaneo, e invece stranamente trascurato.
Nata nel 1881, la
marchesa è morta, penniless, nel 1957, “erede di una immensa ricchezza,
avendo speso in abiti e gioielli più di qualsiasi altra regina nella storia”.
Nata Luisa Annan, figlia di un ricchissimo industriale tessile milanese,
nobilitato col titolo di conte da Umberto I, che ne era spesso ospite, sposata
a un marchese Casati Stampa di Soncino, col quale fece una figlia di cui nessuno
si è mai occupato, a 22 anni debuttava con la liaison del secolo, con
D’Annunzio. Dopodiché farà le cronache mondane per mezzo secolo. Seducendo,
seppure solo in immagine, molti scrittori, per lo più americani (tra essi da
ultimo Kerouac), almeno tre generazioni di scrittori. Imperando da Venezia
dapprima (dal palazzo poi preso da “un’altra pretessa”, Peggy Guggenheim), e
poi a lungo da Parigi. Dagli sgoccioli della Belle Époque ala Jazz Generation,
da Cocteau, Man Ray, Paquin, Schiaparelli fino a Karl Lagelfeld, Yves
Saint-Laurent, Gucci, Roberto Cavalli, di persona, sempre eccentrica,
trasgressiva, eccessiva, e in immagine. “Eccezionalmente alta e cadaverica, con
una testa a forma di spada, e un viso piccolo ferino, che veniva sommerso da
occhi incandescenti”, coltivò in ogni eccesso l’immagine di sé – “l’animale
totem di Casati, come di Medusa, era il serpente: una creatura che squama la
pelle e ipnotizza con lo sguardo”.
Una lettura breve, una
ventina di pagine, che soppianta stranamente la copiosa biografia della
marchesa degli americani Scot D. Ryerson e Michael Orlando Yaccarino, di
venticinque anni fa, “La sua infinita varietà”. Thurman vi aggiunge notazioni
importanti sulla scena parigina tra le due guerre, desunte dalle sue ricerche
attorno a Colette, e su Isak Dinesen, di cui ha scritto molto.
Colette era “una
truculenta carnale e frugale «figlia
della natura»,
perennemente dura lavoratrice e allergica alla morbosità”. Ma entrambe, Colette
e Casati, erano “credenti nel mondo degli spiriti, frequentatrici delle stesse
medium alla moda, etc”, con Jean Lorrain, Montesquiou, Diaghilev, Isadora
Duncan, Natalie Barney, lo stesso D’Annunzio, etc.. “Dinesen sembra avere
stilizzato la persona stregonesca della vecchiaia – quella della baronessa
Blixen – su Casati. Per nascita, appartenevano alla stessa classe, i nouveaux
riches, e alla stessa generazione di donne che aspiravano a essere
altrettanto pericolose quanto le loro madri era state innocue”.
Molti modi di essere di Blixen-Dinesen in tarda età l’accomunano alla
marchesa, spiega Thurman in dettaglio. Premettendo: “Anche se non ho prove che si
incontrarono, certamente si incrociarono a Parigi”. Blixen-Dinesen comunque
adottò la figura “emaciata”, “fondotinta pastosi e occhi aureolati neri”, ebbe
la stessa passione per compagni nobili e poveri, per le eccentricità, per un
“barbarismo Orientale filtrato da un velo di snobberia ancien-régime”.
Judith Thurman, The Divine Marquise, The New Yorke Classics, 3 aprime
venerdì 11 aprile 2025
Ma Adenauer voleva la Bomba
La “pregiudiziale
atlantica” o “formazione atlantica” è ornai un dato di fatto per la politica
della Germania, di destra e di sinistra, da più generazioni. Per Kohl recentemente,
e ora von der Leyen, come per il socialdemocratico Schmidt mezzo secolo fa. Ma
la tentazione di fare da sé, con un briciolo anche di non-atlantismo, se non di
anti-atlantismo, è sempre circolato, seppure sottotraccia: nella Ostpolitik che
ha caratterizzato i cancellierati socialisti di Brandt e di Schröder, nell’indifferenza
di Merkel. Ma c’è di più: la politica di riarmo del nuovo patto di governo di
Berlino trova un precedente nell’ultimo Adenauer, nel 1962-63, estesa allora
anche al nucleare.
Da sempre
rigidamente atlantico, e con un ministro della Difesa, il bavarese Franz Josef
Strauss, altrettanto rigidamente schierato, Adenauer si avvicinò negli ultimi due
anni di governo, a fronte della distensione avviata da Kennedy con Kruscev dopo
la crisi dei missili di Cuba, verso un’Europa autonoma anche nella difesa. Comprese
le armi nucleari.
Nell’ultimo
biennio di Adenauer alla cancelleria è una sinfonia discordante a tre parti. Kennedy
riflette su un impegno formale a non dotare la Germania di Bonn di armi
atomiche. Ancora più risoluta su questo impegno è l’Inghilterra. Mentre Adenauer
non perde occasione per dichiarare che la Germania non può tollerare che le sue
forze armate non possano disporre di armamento nucleare.
Non potendo
sfidare Kennedy, Adenauer si fa sostenitore di De Gaulle. E ne incoraggia in ogni
occasione la costituzione di una solida force de frappe nucleare – come nucleo
di una “potenza di deterrenza” eurocontinentale.
Il 5
agosto 1963 Stati Uniti e Gran Bretagna firmano a Mosca il trattato “Teststop”,
che mira a bloccare il “club atomico” – un trattato contro la Cina, ma anche contro
la Francia e la Germania. Adenauer non può reagire – è anche alla fine del cancellierato:
indebolito nel suo partito, resterà al potere fino a metà ottobre. Ma fa sapere
a Kennedy che non è d’accordo, e moltiplica le aperture a De Gaulle. Fuori dalla
cancelleria si farà apertamente polemico con la politica americana di appeasement,
a suo avviso, con Mosca, sancita a ferragosto del 1965 con la proposta dell’accordo
di non proliferazione nucleare: per Adenauer “l’Europa è consegnata ai russi” –
il suo ultimo impegno politico, seppure da grande pensionato, sarà la critica
di questo trattato.
Trumpeide
È perfino
affascinante, tanto è assurdo, il tifo per la Cina anche dei media dell’establishment,
poteri forti, ceto dirigente, società civile che dir si voglia dei ricchi e
dei potenti, come “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, il “Corriere della sera”,
nella controversia con gli Stati Uniti. Per un paese di cui sono note le
pratiche commerciali scorrette, e che è saldamente comunista, governato da un
partito totalitario, con pugno di ferro. Tra America e Cina come si fa a tifare
Cina? L’antiamericanismo non era legato al vecchio Pci? I media sguazzano nel cupio
dissolvi – o non sar anno già morti?
Dice il
giusto solo Pascal Lamy, l’ultimo dei mohicani socialisti - come dire degli
ultimi che ci capiscono - che Montefiori da Parigi ha avuto l’intelligenza di
far parlare, anche se poco: “Di fatto Trump ha imposto un embargo sulla Cina, anche se non lo chiama tale. E i cinesi non lo stanno gestendo affatto come una
questione commerciale, ma geopoliiica. Sono pronti allo scontro”. Cioè, la Cina
non si nasconde. Si è filocinesi con giudizio?
Tantissimo
spazio ai dazi da Trump, da settimane, da mesi ormai, ma in chiave di mostruosità
– enormità, astrusità, anche ridicolaggine. Come se fosse una gag, istrionica,
folle. Mentre è articolata, molto. Esenta le materie prime e i prodotti
energetici. Canada, Messico e America Latina, alla fine, rientrano nella
ginnastica normale dei dazi. Prevede – preannuncia prima d’imporre. E prevede “dazi
reciproci scontati”, di molto: applica la metà dei dazi che ogni paese applica
ai prodotti americani. Si garantisce anche le manipolazioni del cambio (leggi: Cina).
E contro le “barriere non tariffarie”.
Queste barriere
sono non da poco: lavoro minorile, femminile, comunque sfruttato, libero
inquinamento, sussidi all’export, furti di proprietà intellettuale. Specialmente,
quindi, si garantisce contro la Cina. Ma non solo: il capitolo sulle barriere
non tariffarie dell’Unione Europea è lungo trenta pagine.
Questa storia non la racconta giusta
Un saggio del 2006,
breve, per denunciare la guerra all’Iraq: “Trent’anni fa abbiamo subito una
sconfitta militare - combattendo una guerra che non si poteva vincere contro un
paese di cui non sapevamo nulla e nel quale non avevamo in gioco interessi
vitali. In Vietnam andò male, ma ripetere lo stesso esperimento dopo trent’anni
in Iraq è una forte prova in un processo per stupidità nazionale”. Ripubblicato,
per il titolo-civetta, in chiave anti-Trump – contro cui la rivista è costantemente
critica. Se non che il Vietnam gli Stati Uniti devono a John Kennedy, il presidente
di cui Schlesinger fu lo storico amato e l’amico devoto.
Resta come lettura,
concisa e insieme approfondita, del farsi della storia come storiografia. Nelle
sue varie tendenze o fasi: politica (dinastica, militare), sociale, di classe,
dei diritti, ideologica o postmoderna, e storytelling o narratologia. Tenendo presente che “il presente
incessantemente ricrea, reinventa, il passato. E in questo senso tutta la storia,
come Benedetto Croce ha detto, è storia contemporanea”.
Arthur Schlesinger jr., History
and National Stupidity, “The New York Review”, free online
giovedì 10 aprile 2025
Ombre - 769
Bastano due o tre giorni d’impazzimento delle Borse al ribasso, e i fondi passano subito dal (modesto) attivo al rosso di due e tre punti. Poi sopravvengono due giorni d’impazzimento delle Borse al rialzo e niente, i fondi sono sempre rossi di vergogna, al 3 e anche al 4 per cento. Il carovita è inferiore alle attese? Si agita il rischio recessione - un rischio si trova sempre. Quando finirà l’horror di questo sifonamento dei risparmi di milioni di persone, ardentemente consigliato dalle banche, a opera di veri e propri ladri del risparmio, professionali?
Si fanno
ogni giorno pagine e pagine su Trump personaggio, quale lui si vuole da
politico-uomo di spettacolo. Sempre con grandi “ooh!” per i suoi colpi di scena.
Che invece sono scritti nei documenti, del ministro del Tesoro, del Council of
Economic Advisers, con dinamiche già previste, al giorno e all’ora. Nessuno legge,
basta spararla ogni giorno grossa? Ma il sensazionalismo, peraltro ripetitivo -
siamo sempre ancora ben in vita – non stanca i lettori, invece di stuzzicarli?
Viene
salvato di tutto il governo Trump, ovunque rappresentato come un baraccone, di pagliacci,
incapaci, semidementi, solo il ministro del Tesoro Scott Bessent. Solo perché è
– è stato per metà vita – socio di Soros? L’“informazione” è orientata?
Bessent
in effetti veste bene, taglio sartoriale (inglese? Napoletano?). Ma anche Trump
2, benché faceto, intrattenitore incontinente, va ora ben vestito. Mentre Bessent
è il vero ispiratore, autore, regista di questa “commedia all’italiana” che sono
i dazi – o come sgonfiare unilateralmente il caro-dollaro.
Questo,
che pure è l’essenziale, non si dice. Si accredita invece la “voce” (di chi?) che
Bessent è contrario ai dazi…. Un vero signore, chissà perché sta col Mackie
Messer Trump, Jack-the-Knife.
Si fa l’elogio
in Parlamento di Paola Del Din, intraprendente eroina della Resistenza, ma a opera
del re d’Inghilterra. Sì, perché addestrata dagli inglesi come paracadutista,
ma perché non c’è su questa donna affascinante da ogni punto di vista, a
partire dal fratello maggiore già ucciso dai tedeschi, ancora in vita a 102
anni, nessun best-seller di “storia”, nessun film, nemmeno uno
sceneggiato, un medaglione, un’intervista? Perché non era del Pci. Anzi, era
della Brigata Osoppo, che quelli del Pci s’ingegnavano di assassinare a tradimento.
Poi si dice la Liberazione: di chi a opera di chi?
Tra gaffes
e complimenti il re inglese è attorniato, si direbbe assediato, da
leghisti, La Russa, Fontana, Simonetta Matone. Che poi si dicono anti-europeisti.
Pensano di prendere qualche voto più con Carlo contro von der Leyen?
Nell’aula
affollata in Parlamento per il discorso del re inglese, ambientalista avant-lettre
, conservazionista, c’era vuoti, sensibili, sul lato sinistro dell’emiciclo,
guardando dalla presidenza, dove siedono Verdi e Sinistra, Democratici, 5 Stelle.
Per essere repubblicani? O non saranno contro la “perfida Albione”, i ruoli si
rovesciano?
Racconta
Saronni a Bonarrigo sul “Corriere della sera” di un viaggio avventuroso a Berlino
Est per una gara d’inseguimento: “Arrivammo al confine di notte: i cani lupo, i
fari dalle torrette, i Vopos con i mitra puntati. Ci tennero ore a fianco di
una donna con due bambini piccolissimi che perquisirono facendole spremere
anche i tubetti di dentifricio. La sua umiliazione….”. Non era un caso, era la
normalità, nel 1974, appena ieri.
Si fanno
molte pagine, com’è giusto, sui dazi di Trump. E si sentono le lamentele degli
industriali che ne potrebbero essere colpiti. I quali però tutti, senza eccezione,
non lamentano tanto i dazi, possibili, eventuali, futuri, ma invece la “iperregolamentazione”
europea. La burocrazia, attiva, costosa, dannosa. E il green deal Ue,
una transizione accelerata a cui nessun’altro al mondo si applica o si sente
obbligato. Doveva essere una furbata – prendiamo la testa dell’innovazione – e
invece è una stupidaggine – la piccola Europa che salva la grande terra?
A fine marzo 2025 il National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers, che il ministro Usa del Commercio indirizza ogni anno al presidente, fa un riferimento in testatina alla European Union portion of the Report, talmente essa è complessa. Prende la parte maggiore del Rapporto, 32 o 32 pagine, ed elenca una quarantina di pratiche "scorrette" - anche autolesive: sussidi, barriere, alle importazioni e agli investimenti, classificazioni, etichettature e regolamentazioni minute e contorte: sanità,
fito-sanita, pesticidi, biotecnologie, gas ad effetto serra, packaging,
plastica, servizi digitali (“Digital Services Act”), tassazione dei servizi
digitali, tassa sulle emissioni di CO2 dei prodotti importati (Carbon Border
Adjustment Mechanism). Un dirigismo minuto, asfissiante, e infine balordo.
E la
Germania invece di casa discute? Di riprendersi l’oro depositato, per ragioni
di sicurezza ed economia, a Fort Knox negli Stati Uniti. Depositi che nessun altro
prova a riprendersi. Non la Russia prima della guerra e delle sanzioni. Non la Cina,
che è l’obiettivo dichiarato della guerra monetaria e commerciale di Trump. La
Germania è proprio immutabile.
Trump è
Trump – è l’America - e, quali che siano gli obiettivi reali della sua guerra
dei dazi, non c’è niente da fare, giusto qualcosa da dire, da discutere. Ma è
vero, come lui dice, o gli fanno dire, che con l’Iva l’Europa castra e si castra.
P.es. in Italia, specie nei servizi, dove è la causa e il motore dell’economia
in nero, degli arricchimenti facili, delle disparità sociali. Una verità talmente
evidente. E non se ne può nemmeno discutere.
Di Lorenzo
Necci la figlia Alessandra può ricordare sul “Corriere della sera”, per i vent’anni
dalla morte, che “è stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che gli è valsa
quarantadue assoluzioni”. Altro che riforma, ci vorrebbe la ghigliottina.
Un’“inchiesta
giudiziaria” naturalmente da sbirri, non di giustizia. Impuni. Anzi
privilegiati, sui media, al Quirinale, in carriera, nei poteri veri.
Sempre Alessandra
Necci dice: “Papà fu portato in prigione senza sapere di che cosa lo accusavano.
Quando uscì, alla fine della detenzione su cui la Cassazione espresse una
sentenza netta, la prima cosa che fece fu di scrivere al presidente della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro, con un rendiconto del suo operato”. “Risposte?”, chiede
l’intervistatore. “Nessuna”. Di Scalfaro e “Mani Pulite”, e i processi Sofri,
non si fa la storia. Perché?
Si
discute a Roma, discutono i romanisti, se e perché la loro squadra di calcio,
che non perde da quindici partite (ne ha vinte 11 e pareggiate 4) e nelle
ultime otto ha preso solo due gol, “non gioca bene”. Che è una scemenza - i tifosi
intendono che vince ma senza il “bel gioco”. Ma quanta passione, di un tifo che
riempie l’Olimpico, 63 mila posti, anche per le amichevoli. Che in mani olandesi
o spagnole diventerebbe un business enorme, altro che Real Madrid.
È curioso
come i tg e i giornali italiani, anche quelli che si penserebbero di destra, parlano
di Trump, dei dazi e di ogni altro impiccio, come i media americani, che sono stati
e sono anti-Trump sempre e comunque. Più che di destra e sinistra, ribolle sempre
l’antiamericanismo, della “cattolica” (duplice Italia.
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Il balletto, poco truce, dei cadaveri
Tenuta su da Brignano,
il gonfio bamboccione solitario e imbranato, orfanato dai genitori emigrati
politici nella Germania sovietica, all’epoca del paradiso in terra, e cresciuto
dalle suore, che si vuole agente segreto e spia e scopre tutto, una grande occasione
per molte attrici in ruoli comici, una rarità: Gabriella Pession, Paola
Minaccioni, Grazia Schiavo.
Del film si è già
detto un anno fa: i morti compaiono, assassinati, e scompaiono, e non si sa se
non sono parto della fantasia di Brignano, guardiano di un supermercato col
culto di James Bond – in realtà curioso di indizi, invadente come Sherlock
Holmes. Ma senza Grandi Potenze in lotta, una storia di corna e di “bonazze” –
una black comedy, su temi italici.
Rivisto, una grande
occasione, per soggetto, sceneggiatura, interpretazioni strepitose, sprecata dalla
distribuzione con la programmazione dell’uscita, due anni fa, in agosto.
Alessandro Pondi, Una
commedia pericolosa, Rai 1, Raiplay
mercoledì 9 aprile 2025
A Pechino la metà del debito Usa
La partita dei dazi è una partita Usa-Cina. Ed è monetaria. Con molto teatro a fare scena, per qualche spicciolo, minuscolo, accessorio, beneficio su altri fronti, Canada, Messico, Ue, Giappone, Corea.
“Trump ha minacciato di punire i Paesi che smettono di usare il dollaro
come riserva monetaria”, scriveva a novembre, subito dopo il voto ma prima della
presidenza Trump, quello che poi è diventato il il suo Presidente del Comitato
dei Consiglieri Economici, Stephen Miran. Vuole solo indebolire il dollaro, troppo forte da troppi anni. Di svalutazione non si può parlare, non è pratica lecita, e quindi si parla di guerra dei dazi, ma il fine è un altro “accordo del Plaza”, come quello del 1985,
che chiuse la turbolenza monetaria e aprì la lunga stagione della globalizzazione.
E si capisce che prende di punta, con la politica dei dazi per indebolire il dollaro,
in primo luogo la Cina. Dazi per costringere i partner a rivalutare. Come Reagan fede quaranta anni fa con il Giappone.
Le riserve in dollari (i “tesoretti” in dollari) detenute da paesi esteri sono calcolate in 8.530 miliardi, un quarto del totale dei Treasury. A fine 2024 alla sola Cina era in
capo un terzo abbondante dei dollari detenuti fuori dagli Stati Uniti: 3 trilioni. Seguivano
il Giappone, con 1,2 trilioni, la “Svizzera” con 800 miliardi, l’India 600,
Taiwan 560, Arabia Saudita 450, Corea del Sud 420, Singapore 350, Ue solo 80 (ma tra i primi dieci Paesi detentori di Treasury figurano Lussemburgo, Cayman e Irlanda).
Si capisce da questo quadro la diversa reazione ai dazi di Trump. Della aloofness
cinese, per esempio, confuciana?, la correttezza distaccata. Specialmente
visibile a fronte dell’agitazione europea – ridicolo al confronto l’allarme che si
fa circolare in Germania sulle riserve in dollari della Bundesbank.
Non sembra invece riuscire il secondo fine assegnato alla manovra di Miran, lo spostamento degli investimenti esteri in Treasury dal breve al lungo termine: nei quattro mesi a fine febbraio le banche centrali straniere hanno aumentato di 131 miliardi gli investimenti in Treasury a breve, riducendo quelli a lunga scadenza di 87 miliardi.
Chicken run Trump-Cina – o i dazi per ristrutturare il debito Usa
Il dollaro è troppo
forte, va svalutato, o altrimenti…. Il presidente dei consiglieri economici di
Trump, del Council of Economic Advisers, aveva anticipato a novembre l’attuale
strategia dei dazi: un dollaro più debole oppure dazi a tutti. “Storicamente”,
dichiara in apertura dello studio, “gli Stati Uniti hanno perseguito approcci multilaterali
per gli aggiustamenti monetari. Molti analisti credono che non ci sono mezzi
per provocare unilateralmente la svalutazione della moneta, ma questo non è
vero”. E promette, ma senza toni minacciosi: “Descriverò alcune potenziali vie
per una strategia di aggiustamento monetario, multilaterale o unilaterale, e i
mezzi per mitigare effetti collaterali indesiderati”. Mettere dazi su misura a
tutti i partner la prima mossa.
Il debito va ristrutturato
(quello che, incidentalmente, l’Italia non ha fatto prima di aderire all’euro e
ora le costa così tanto caro, la “palla al piede”). E nello stesso tempo va riguadagnata, col rilancio della produzione interna sostituiva di importazioni, con i dazi e la svalutazione del dollaro, la creazione in America di posti di lavoro
qualificati, a reddito elevato – oggi l’occupazione è al massimo, malgrado l’entrata
ogni anno di milioni di immigrati, legali e non, ma molti devono fare due e tre
lavori per sopravvivere.
Lo studio è chiaro, esplicito. Prevede perfino un intervento unilaterale del Tesoro americano, che la legge consentirebbe, un International Emergency Economic Powers Act del 1977. Una legge che conferisce alla presidenza poteri discrezionali anche in materia di “guerre economiche”, fino a una supertassa (“tassa d’uso”) sulle riserve straniere in dollari.
Miran non è un economista
in cattedra. Dottorato a Harvard, ha lavorato nell’industria finanziaria – da ultimo
a lungo, Senior Strategist, nella società di gestione investimenti Hudson Bay
Capital. Ma nella trattazione fa riferimento spesso all’attuale ministro del Tesoro,
il banchiere Scott Bessent, socio di Soros per un quarto di secolo, poi titolare
di una società d’investimenti analoga allo Hudson Bay Capital, il Key Square
Group. Il quale ne ha avallato, e applicato fino ad ora alle lettera, presupposti e misure.
Miran è esplicito: ci
vuole una “versione 21mo secolo di accordo valutario multilaterale”. Analogo all’Accordo
del Plaza del 1985, imposto e ottenuto da Reagan, con beneficio di tutti – segnò
l’avvio della globalizzazione, che in effetti è stata la maggiore rivoluzione
economica da due o tre secoli, dopo quella industriale. In sostanza, una
ristrutturazione del debito lordo statunitense, che è a livelli e viaggia a ritmi
italiani, attorno al 130 per cento del pil. Per il quale paga cifre enormi.
Il “mondo” dovrebbe
vendere i suoi dollari, per rivalutare le proprie monete. Favorendo anche,
indirettamente le esportazioni americane. E\o scambiare i Treasury Bond, i Bot
americani, di cui è goloso, per la stabilità e per gli elevati rendimenti, con obbligazioni dello
stesso Tesoro americano ma a scadenza “secolare” – a lungo termine.
Il “privilegio esorbitante
del dollaro”, denunciato da molti economisti in polemica con Washington dagli
anni 1960, si è trasformato in un handicap. Per l’economia. Specialmente per l’industria
– quindi per il lavoro, l’occupazione qualificata, i redditi. Questo sistema, del
dollaro über alles, “avvantaggia i settori finanziari dell’economia”, ma
danneggia la produzione, e la produttività.
La critica non è nuova. Le
prime risalgono a una quindicina d’anni fa, per esempio di Fred Bergsten, che è
stato vice-ministro del Tesoro di Carter e poi animatore di molte istituzioni
di studi economici internazionali. Del resto, Miran è in linea col “dilemma del
dollaro “ di Triffin, che richiama subito, l’economista americano-belga che
criticava negli ani 1950 gli accordi monetari di Bretton Woods, il sistema dei
cambi fissi, basato sul dollaro: il dollaro, moneta nazionale, non può fare da moneta
mondiale. Per farlo, per essere effettivamente moneta di riserva globale, gli Stati
Uniti devono costantemente indebitarsi. Creare più moneta di quanto ne hanno
bisogno, avere (e finanziare) una bilancia dei pagamenti costantemente in deficit.
Miran lo spiega con un grafico eloquente: pur con oscillazioni, il trend
è netto, si va da un avanzo di 150 miliardi nel 1960 a un disavanzo di 1.200
miliardi nel 2024, con un deterioramento costante nei sessant’anni.
Coi dazi il deprezzamento
sarà automatico? Si può dire che Trump – Miran per lui - vuole rivoluzionare il
dollaro. O almeno indebolirlo.
Con la Cina il discorso americano
è semplice: “La lista degli abusi della Cina sul sistema internazionale del
commercio è lungo e variato, dai sussidi di Stato alle industrie da esportazione
a puri e semplici furti della proprietà intellettuale e ai sabotaggi aziendali”. Rappresaglie? “Poiché gli Stati Uniti sono un
grande bacino di domanda per il mondo, con robusti mercati dei capitali, possono
fare fronte a rappresaglie più facilmente di qualsiasi altra nazione con probabilità
di vincere, come a un game of chicken” – “gioco del pollo”: nella teoria
de giochi chi sa fermarsi immediatamente prima del baratro, avendo accumulato un
tragitto più più lungo dell’avversario. Era una scommessa, il chicken run,
all’origine, nel film “Gioventù Bruciata, 1955. E non è una scommessa semplice –
quasi una “roulette russa”.
Stephen Miran, A User’s
Guide to Restructuring the Global Trading System, Hudson Bay Capital, free
online
I
martedì 8 aprile 2025
Problemi di base vitali (852)
spock
“Può il presente
aiutare il passato”, Han Kang?
“Può il passato
aiutare il presente”, id.?
“Possono i
vivi salvare i morti”, id.?
“Possono i
morti salvare i vivi”, id.?
“La vita anela
alla vita” (id.), anche da morti?
“Morire è
diventare freddi (id.) anche da vivi?
spock@antiit.eu
Roma “divina” – per una filosofia della città
La bellezza è degli insiemi, non
delle singole cose, o componenti. E può essere ricercata (costruita), oppure
casuale. Come è quella della natura. Ma anche di manufatti che se non sono nati
con canoni estetici ne prendono le proprietà, ne hanno gli effetti.
Questa è la “filosofia della città” che Simmel abbozza. Una breve raccolta,
a cura di Federica Corecco e Christian Zürcher: “Roma. Un’analisi estetica”, un
testo pubblicato sul settimanale “Die Zeit” di Vienna nel numero di maggio
1898, è un saggio, la bellezza dell’antico. Completano la compilazione sette
paginette su Firenze, e altrettante su Venezia: due articoli di giornale, del
1906 e del 1907, ma pieni di senso. Andrea Pinotti prova nella corposa
introduzione a dare un filo unitario alle annotazione del turista, facendone un
“filosofo della città”.
Roma, sempre “costruita” per migliaia di anni, “obbedendo unicamente a esigenze
del presente e al gusto o alla moda della propria epoca”, è un “opus
superogationis”, un’opera supererogatoria - con qualche stiracchiamento del
temine teologico: un’opera il cui valore “supera di gran lunga le originarie
intenzioni”. Che erano solo celebrative, si potrebbe osservare, dei vari
trionfi, “monumentali”. Ma con la notazione più pertinentemente teologica:
“Allo stesso modo le azioni dell’uomo, governate dalla particolarità e
dall’angustia dei loro obiettivi, confluiscono tuttavia nella realizzazione del
piano divino del mondo di cui non sanno nulla”.
Come Roma ci arriva? È una città che si parla. “La città è condizionata dalla
natura collinare del terreno. Quasi ovunque gli edifici si situano in un
rapporto di reciprocità tra alto e basso”, e “si richiamano l’un l'altro”. Con
un senso vivo dell’unità e del diverso - nuovo. Sorprendente: “Dalla
molteplicità esteriore, o persino interiore, verso l’unità interiore”.
Firenze è il luogo “in cui per la prima volta si avvertì che tutta la bellezza
e il significato a cui l’arte aspira si presenta come un’elaborazione della
manifestazione naturale delle cose…. Nei palazzi di Firenze, di tutta la
Toscana, percepiamo l’aspetto esteriore come l’espressione esatta del loro
senso interiore”. Che non è etrusco?
Firenze è anche la continuità: “Il
tempo, qui, non genera una tensione distruttrice tra le cose, come accade con
il tempo reale, ma anzi assomiglia al tempo ideale nel quale vive l’opera d’arte;
il passato, qui, ci appartiene quanto la natura, che è anch’essa eterno presente”.
Il che è, curiosamente, il limite dell’arte: “I limiti interni di Firenze sono
i limiti dell’arte”. Dell’arte rispetto al mondo, alla natura: “La terra di
Firenze non è una terra su cui ci si getta per sentir battere il cuore dell’esistenza
nel suo oscuro calore, nella sua forza informe – come potremmo sentirci nelle
foreste tedesche, in riva al mare e persino in un qualunque giardino fiorito di
un’anonima cittadina di provincia… Non è una terra per noi, in un’epoca in cui
si intende ricominciare tutto da capo… Firenze è la città degli uomini
compiutamente maturi che hanno raggiunto l’essenza della vita o vi hanno
rinunciato e che, per tale possesso o tale rinuncia, vogliono cercare
unicamente la sua forma”.
Venezia è il luogo dell’uniformità. E della mascheratura: “Venezia è la città
dell’artificio…. Tutti a Venezia si muovono come su un palcoscenico: con la
loro operosità, che non produce nulla, o con le loro vuote fantasticherie”. E
subito poi: “Persino il ponte perde qui la sua forza vivificante”.
A Venezia molto è in rapporto a (a
differenza da) Firenze. Una città d’acqua, senza il respiro del tempo, delle
stagioni. Una città di “strette calli” e di “stanze, ambiente chiuso,
circoscritto. Con “l’apparenza di un’intimità e di un’«amabilità» in cui non c’è
traccia dell’anima”.
Di
Roma-meraviglia il filosofo della città non sa che dire di troppo, dando un
senso alle impressioni quotidiane di chi ci vive. Riprende Feuerbach: “Roma
assegna a ciascuno il proprio posto” (ma è Anselm, il pittore, figlio dell’archeologo
e nipote del filosofo, che visse a Roma diciotto anni, dal 1855 al 1873 – e morirà
a Venezia poco dopo, nel 1880). Non nel senso della dispersione, non a escludere
ma a inglobare. Succede con Roma come
con Goethe, come ci identifichiamo con le personalità elevate: ha l’autorevolezza
dei Grandi Personaggi, per cui “ciò che in qualsiasi altro posto risulterebbe
del tutto insignificante acquisisce, in quanto parte costitutiva di Roma, un
senso che trascende di gran lunga il suo significato immediato, quello che le è
proprio «in sé e per sé» In virtù dell’unità per cui Roma fa sì che si fondano
tutti i suoi contenuti”. Una unità di cultura: “Se a Roma non ci si sente soffocare,
ma anzi si ha l’impressione di aver raggiunto l’apice della propria
personalità, questo è certamente un riflesso della spontaneità esasperata dell’uomo
interiore. In nessun altro luogo al mondo un caso felice ha disposto gli
oggetti in modo tanto adeguato al nostro spirito da invitarlo a sviluppare la
forza capace di riunirli in una unità piena, superando così le enormi distanze
della sua immediata datità. Questa è anche la ragione per cui Roma si imprime
in modo tanto indelebile nella nostra memoria”. “In nessun altro” è esagerato,
bisognerebbe avere visto tutto, ma il senso resta.
Georg Simmel, Roma, Firenze, Venezia, Meltemi, pp. 69 € 8
lunedì 7 aprile 2025
“A Washington, a Washington”, a trattare
Che va a fare Giorgia Meloni a Washington da Trump dopo i dazi? Niente,
perché niente può fare - in materia
commerciale si decide tutto a Bruxelles. Ma può favorire un chiarimento, non
marginale, anzi decisivo su quello che è in realtà il piano americano.
Il piano di Trump è diventato materia di gladiatori al Colosseo. Una
lettura favorita dalla gigantesca speculazione ribassista che vi è stata innestata.
Ma è articolato, specie nelle premesse: è un invito alla revisione dei rapporti
reciproci con la “maggiore economia” del mondo. Il ministro del Tesoro che dai
manovratori di Borsa veniva dato per dimissionario di fronte alla “follia Trump”,
Scott Bessent, è invece bene in carica, e ripete il consiglio che il piano, a
leggerlo, premette: trattare - “Non fate ritorsioni, sedetevi, discutete.
Perché se reagite sarà una escalation”. Una precisazione che trova
riscontro nell’ “ordine esecutivo” di Trump sui dazi, a volerlo leggere.
Il piano tariffario di Trump è sicuramente aggressivo, rispetto all’ordinamento
attuale dei mercati, ma “gentile”, come lui dice, nella forma e anche nei contenuti.
Intanto, Canada, Messico e America Latina ne vengono esentati, perché hanno
risposto rapidamente alla minaccia, hanno trattato. I nuovi dazi prendono la
forma di “dazio reciproco scontato”, e cioè paese per paese la metà dei dazi che
quel paese impone sulle merci americane.
La Gran Bretagna mantiene i dazi Usa al 10 per cento perché impone il 20
per cento sulle importazioni. Con l’Europa si arriva al 20 per cento calcolando
la media europea dei dazi sui prodotti Usa al 39 per cento.
Più spinoso è il capitolo, in aggiunta ai dazi commerciali, delle “barriere
non tariffarie” su cui Trump si propone di vedere chiaro: burocrazia, sussidi,
barriere agli investimenti esteri, anche sotto forma fiscale, barriere commerciali.
Per l’Europa sono citati espressamente il Digital Services Act e il Carbon
Border Adjustmenet Mechanism – i dazi sulle emissioni di CO2 importate. Ma
molte se non tutte queste barriere sono contestate dall’interno della stessa
Europa, con più veemenza – da tutti i settori industriali, e anche da governi
non “populisti” (da ultimo, ora che ha dovuto abbandonare il “tutto green”
del mercantilismo di Angela Merkel, dalla Germania).
La valanga speculativa
Non si ferma il crollo mondiale delle Borse, dopo l’annuncio dei dazi di
Trump. In tutto il mondo, in tutti i comparti. Una manovra ribassista
vertiginosa, che ha avuto un successo strepitoso. In tutti i settori, Ict, banche,
assicurazioni, utilities, più o meno pubbliche, automotive, siderurgia
e metalli, tessile e abbigliamento, agroalimentare. Una speculazione senza
precedenti, una valanga.
Il cassettista non c’entra, rimane impietrito di fronte alla valanga.
Non ci sono mai stati crolli a ripetizione del 5 e 6 per cento, per più giorni
di seguito, per più settimane, sotto un cielo senza nuvole (fallimenti,
recessioni, guerre), su tutte le piazze indifferentemente, in nessuna crisi
pregressa. Oggi si può, sull’effetto mediatico. E scontare l’opinione controversa
del nuovo-vecchio presidente americano è una manovra agevole.
Ma se il cassettista non si muove, che speculazione è – è il “parco buoi”,
il piccolo risparmiatore, che paga i movimenti violenti di Borsa? S’incassa l’ipervalutazione
dei corsi degli ultimi anni, specie nei settori finanziario (banche, assicurazioni)
e tecnologico, senza rapporto col sottostante, e si resta liquidi – presto il motore
ripartirà.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (589)
Giuseppe Leuzzi
Napoli madre
Il duello (da qualche anno per
lo scudetto) Napoli-Milano è più oleografico che mai - imperituro? Anema e core
vs. silenzio. Non c’è napoletano, che pure abbia abbandonato Napoli
senza nemmeno rancore, per il corso delle cose, che non parli di Napoli.
L’altro ieri Elisabetta Rasy – come già, a lungo, Raffaele La Capria. Oggi l’avvocatessa,
giurista e ex ministra Paola Severino: “Di Napoli conservo l’aroma della
diversità, il mescolare dell’alto con il basso, nell’idea di una uniformità”. Che
non si capisce cosa vuole dire ma è come dire: Napoli nel cuore – anche se uno non
ci ha a che fare.
Ieri “Il Foglio” con due
pagine roventi, “Manierismi e venerazione”, sui “nuovi santi di Napoli”. Una
città che ha bisogno di santi, dunque, con “storie di moderne apoteosi partenopee,
celebrate nelle strade, sui palchi, nei musei”. Di una laica trinità, prima
Massimo Troisi, però come al solito modesto. Poi Pino Daniele, “il cantautore
di «Napul’è»”. E naturalmente Maradona, ora in veste di “santo che protegge dal
terremoto”. Pino Daniele principalmente,
per i dieci anni della morte e i settanta della nascita. Con due documentari,
un film che si annuncia, e l’annuncio di un terzo documentario, più una mostra, a
Palazzo Reale. E una medaglia, in argento, a forma di plettro, della Zecca
dello Stato. Anche se “non viveva a Napoli”, e ne rifuggiva.
Napoli si è persino pacificata
con Caruso, “dopo un secolo di incomprensioni”.
Niola dice Napoli “una madre
imperiosa: ti dà moltissimo e molto ti toglie”, guardando “solo a ciò che dà
senza riflettere su ciò che toglie”. Attenta alle minuzie, per cui ha una
memoria “talmente ‘zippata’” da riuscire ingombrante, ritrovandosi “sempre
gravata dai suoi resti”.
Milano tace. Con Jannacci. Come
sempre. Severino, che vi ha aperto studio dopo Mani Pulite, molto c’era da
fare, ci trova apprezzante, con le multinazionali come anche a Roma, e a Napoli,
“i capitalisti silenziosi delle imprese familiari” – e le banche, certo.
Il senso della
morte
“Il senso della morte proviene
dai suoni della mia infanzia”, spiega a Cacciari Riccardo Muti, nel dialogo “Le sette parole di Cristo”, p.111: “Da ragazzo ho sempre accompagnato le processioni
della Passione del Venerdì e Sabato Santo. Le marce funebri dei paesi del
nostro sud ti costringono ad un ad un dialogo ravvicinato con la morte”.
Muti ne fa un segno caratterizzante
permanente: “Quelle statue tragiche trasportate in quei giorni al suono di quelle
marce hanno influenzato fortemente tutta la mia vita di musicista. Io mi sento
figlio di quella civiltà. Il senso della morte proviene dai suoni della mia
infanzia. Forse per questo amo molto i Requiem….: i Requiem di
Cherubini, il Requiem di Brahm1s, i Requiem di Mozart, il Requiem
di Verdi, lo Stabat Mater di Rossini….”
Storie di San Luca
Si riscioglie per mafia - in realtà
senza una motivazione specifica, “su proposta del prefetto”, nel caso una
prefettessa - il consiglio comunale di San Luca, per molti anni deserto, dopo un
primo o secondo scioglimento. La prefettessa scioglie anche, nell’occasione, la
benemerita Fondazione Corrado Alvaro,
basata a San Luca. E uno deve concludere che sia una condanna legata al nome, alla
nomea - l’ASD San Luca (calcio) era riuscita perfino ad ascendere alla serie D,
con un campo di calcio in erba naturale (e tremila abitanti).
Oppure San Luca, paese di Corrado
Alvaro, come paese “raccontato” è condannato a un’esistenza “letteraria”, fissata un secolo fa. A Natale
- o Capodanno - del 1991 avviò una colossale faida, finita poi in tragedia in
Germania, con la strage di Duisburg, sei morti, con questo avvio: il lancio di
uova per Carnevale da parte di alcuni ragazzi contro vari negozi, tra cui uno
gestito da un malavitoso.
Ma, anche questo è vero, era
stata in precedenza la vera capitale dei sequestri di persona.
È pure, era qualche anno fa,
un paese dove la metà delle famiglie era tornata a farsi il pane in casa, con
l’impasto, la lievitazione, il forno a legna – a turno - e tutto. Ed è - era -
anche il paese delle guardie forestali in eccesso. Che però curavano i rifugi in
pietra (che nessuno adoperava, il parco dell’Aspromonte, che è uno dei più
variati, e quindi “belli”, è deserto), e amavano, verrebbe da dire, veneravano
i castagni di quattro e cinquecento anni. Soprattutto evitavano gli incendi -
che poi, proprio sul versante jonico, sono stati catastrofici, nel 2021, con la
distruzione di boschi “storici”, di 5 e 600 anni.
Si raffigura l’evangelista (si
raffigurava nella tradizione copto-ortodossa, nella quale riceve grande
venerazione, come il primo ritrattista, invaghito, della Madonna - la Vergine Odigitria, Theotókos Odigitria, Panaghía Odigitria,
quella che apre o indica la strada) col pennello in mano, lo sguardof isso perplesso.
Come di ogni artista. Ma si vede che non ha sciolto le perplessità neppure nel
luogo che ne porta il nome.
Malavita di curiosità
“Maranza” e rom, storia di
scippi, gioielli rubati, ricettazione, e di case occupate. Nella normalità. A
Milano. Il “Corriere della sera” eccezionalmente ci fa una pagina, come di una
curiosità. Anche perché tutto avviene alla luce del sole, a un posto di dogana,
niente “retate” all’alba, niente indagini, microspie, trojan, intercettazioni.
Giusto una storia di controllo aeroportuale, casuale. A una famiglia rom, una
famigliola numerosa, in viaggio da Orio al Serio alla Romania, per una festa di
nozze. Ma niente scandalo: “maranza”, ladri, ricettatori non sono cose da Dda,
non hanno parenti calabresi, nemmeno un cugino. Sono anche noti, “Striscia la
notizia” li fotografa ogni giorno mentre lavorano nella metro. Quindi non c’è da
preoccuparsi?
La famigliola arriva disinvolta
al check-in in aeroporto: “Arrivano carichi di gioielli e trascinando borse
di Chanel e Louis Vuitton (anche queste rubate)”: la polizia non può non controllarli.
“Addosso alla famiglia, oltre a 15 mila euro in contanti, gli agenti trovano 61
monili d’oro. Alcuni sono «spezzati». Altri hanno incisi nomi e scritte”. “Sono
i regali che portiamo per il matrimonio”, lamentano. Ma niente, la polizia non
può che fermarli.
È un’organizzazione mafiosa?
No, è una famiglia rom. “«Mamma Romania», così i «maranza» delle rapine (giovani
sudamericani e africani, n.d.r.) contattavano i ricettatori. Una famiglia di
rom che aveva occupato abusivamente un appartamento di San Siro”. A cui confluisce
senza sosta il bottino degli scippi: “Rapine di collanine, orologi di lusso e
cellulari, che per la maggior parte avvenivano in metropolitana”
Si direbbe un’organizzazione non
da poco - “quanto agli arresti…. 18 minorenni e 32 maggiorenni”. Ma niente allarmi,
si continua a borseggiare in metropolitana - “Striscia la notizia” può continuare a filmare i borseggiamenti e gli scippi. Come dire: uno spettacolo.
C’è crimine e crimine, certo.
Si può commetterli alla luce del sole, anche con violenza, e niente succede. È l’origine
che fa il crimine dei Cavalieri del Lavoro, buonanima, di Catania, una vita di
fatica, distrutti con quattro avvisi di garanzia. Il crimine è un’etichetta.
Il crimine in nuce
“Il fratello di Lea Garofalo
fu ucciso solo perché si rifiutò di ammazzarla. Almeno questo è quello che
sostiene il collaboratore di giustizia Carmine Venturino, che oggi ha 38 anni
ma ne aveva appena 16 quando avrebbe nascosto le armi utilizzate nell’agguato. E
avrebbe fatto da vedetta al commando che entrò in azione l’8 giugno 2005 per
assassinare Floriano Garofalo”. Che aveva anche lui sedici anni.
Venturino, che oggi, morti gli
assassini e i mandanti, quindi non più minacciabile, fa il pentito per uscire
dal carcere, la sera dell’agguato faceva finta di raccogliere ciliegie, mentre
fungeva da palo. Custodì poi le armi dell’agguato per sei mesi all’interno della
sua abitazione.
Venturino è ritenuto
attendibile per avere fatto ritrovare i resti di Lea. In un campo vicino Monza
- il corpo bruciato, le ossa ridotte in migliaia di frammenti.
Floriano Garofalo non era un
brav’uomo: “Ha ucciso tanta gente, imponeva alla povera gente del paese di
pagare il pizzo”, ha scritto Venturino da pentito qualche tempo fa ai giornali.
Non aveva però ucciso la sorella, rea di avere denunciato l’assassino di Antonio
Comberiati a Milano nel maggio 1995, nella persona di Giuseppe Cosco detto
“Smith”, dalla pistola, fratello di Carlo Cosco, il suo convivente. Che poi
organizza l’eliminazione della compagna. Venturino faceva da palo sulla strada,
davanti alla casa in via Fioravanti a Milano, mentre il commando omicida
strangolava Lea Garofalo col cordino di una tenda, metteva il cadavere in uno
scatolone, lo scatolone in un sacco nero, e il tutto poi portava al quartiere
San Fruttuoso di Monza.
Un caso come tanti di cronaca nera.
Perché rileggerlo? Perché l’attacco alla delinquenza, dei rozzi e sanguinari, è - sarebbe stato - più fruttuoso delle chiacchiere di mafia, che distolgono l’apparato repressivo –
buone giusto per le carriere di pochi, giornalisti, giudici, anche Carabinieri
(non c’erano Carabinieri nel paese dei Garofalo – Petilia Policastro è quasi
una cittadina, da 9-10 mila abitanti?).
Cronache della
differenza: Sicilia
Ce l’aveva anche con la Sicilia,
naturalmente, Tomasi di Lampedusa, come con la Calabria, scrivendo negli anni 1950
“Il Gattopardo”. A don Fabrizio Salina al suo ultimo viaggio di ritorno da Napoli, la fa vedere secca e riarsa: “A Messina
poco dopo, il mendace sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse
colline peloritane”…. Che invece, negli anni in cui il romanzo si scriveva,
erano verdissime - come del resto Tomasi sapeva, poiché frequentava i cugini Piccolo
poco lontano, a Capo d’Olando.
È però vero che per andare da
Messina a Palermo il treno faceva al tempo del viaggio un lunghissimo e sgraziatissimo percorso: Messina-Catania,
poi sui per Castrogiovanni (Enna), “la locomotiva annaspante su per i pendii
favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforato”, per infine cadere come
a strapiombo su Palermo. Per andare da Palermo a Roma bisognava circumnavigare
l’isola. E con le locomotive a carbone. La linea Messina-Palermo è stata completata
nel 1895. E elettrificata solo negli anni 1960.
Si poteva andare con un
viaggio nello stesso posto nella stessa carrozza da Palermo fino a Messina solo
dal 1882, l’anno prima dell’ultimo viaggio del principe nel romanzo. Via
Girgenti (Agrigento), Caltanissetta e Catania.
L’eredità di Letizia Battaglia,
fotografa antimafia per eccellenza, si scopre contrattata da un genero, Rosario Marchese,
con un (ex? scarcerato dopo vent’anni) boss mafioso, Franco Bonura. Le tre
figlie di Battaglia si contendono l’eredità, e Marchese vuole favorire sua
moglie. È più questione di mafia o di antimafia?
Marchese è “uno degli imprenditori
siciliani più noti nel settore del caffè made in Italy”. Ma fu “condannato ai tempi del maxi processo
istruito da Falcone e Borsellino”. Condannato, o forse solo imputato, di “associazione
mafiosa”.
“Il silenzio” è un racconto
“disperso” di Sciascia, recuperato da Squillacioti nella raccolta postuma “Il
fuoco nel mare” – ora sceneggiato e filmato da Andò in sotto il tiolo “L’abbaglio”.
Sulla “diversione” operata da Garibaldi per aprirsi la via di Palermo, mandando
una colonna nel senso opposto per attrarre le truppe borboniche: è il silenzio
della gente che, secondo Sciascia, fa il successo dell’operazione.
“Il silenzio” è anche il
titolo di un racconto breve pubblicato su “La fiera letteraria” nel 1959, che
diventerà il nocciolo, e il capitolo di apertura, de “Il giorno della civetta”.
Silenzio come omertà. Sciascia è implacabile con la Sicilia da subito.
Pirandello, Tomasi, Sciascia,
Camilleri, “tutti siciliani che hanno parlato di Sicilia e, tramite essa, di
un’umanità difficilmente redimibile”. L’antisicilianismo della sicilitudine. Ma
più di Autore. Senza misericordia.
O è sempre la lectio
parthenopea, “chiagne e fotti”? Ai siciliani piace molto, sono tutti autori
bestseller.
Sarà per questo che l’isola ha totalmente dimenticato
– obliterato – il suo pure fecondissimo secondo Ottocento, Verga, Capuana, e
soprattutto De Roberto – che forse non ha mai letto. E con loro nel Novecento Brancati, Musco,
Martoglio, Bonaviri, gli stessi Quasimodo, Consolo, Bufalino, quelli dello
Jonio - o dell’Est, mettendoci Lucio Piccolo: dell’operosità invece dei titoli di nobiltà.
leuzzi@antiit.eu
Israele e il sospetto di razzismo
La testimonianza forse più partecipata,
e verace, di Gaza sotto i bombardamenti israeliani, già quindici anni fa.
Reduce da una convulsa attività
di volontariato, nell’Est Europa, in Africa, in Medio Oriente, in tutte le
mansioni, con corrispondenze per Radio Popolare, “il Manifesto” e altri media,
già espulso dall’esercito israeliano più volte, da Gaza, dove rientrava ogni
volta dal mare, da Gerusalemme Est, dalla Cisgiordania, l’autore è morto il 14
aprile 2011 a Gaza, a 36 anni, ucciso da un gruppo terrorista islamico. Fautore
dei “due Stati” degli accordi di Oslo, ma non per questo inviso a Israele. Il rapporto
specialmente agitato di Arrigoni con i governi israeliani negli anni s’innesta
sul sospetto, se non un’accusa, di razzismo, di Israele nei confronti dei “palestinesi
di Gaza”, cioè poveri. In particolare qui Arrigoni denuncia “la personalissima
jihad israeliana contro i luoghi sacri dell’Islam lungo la Striscia”.
Notevole comunque la sottolineatura
del fattore religioso (si era al tempo del terrorismo islamico, “religioso”). “Sono
venti le moschee finora rase al suolo”. E: “Fortunatamente nessun «razzo» qassam
ha ancora sfiorato le pareti di una sinagoga, altrimenti siamo certi che
avremmo giustamente avvertito levarsi al cielo grida di sdegno da ogni angolo
del mondo. Dio deve pagare il dazio di ricevere preghiere dai palestinesi”.
La denuncia è il filo della
cronaca dell’operazione “Piombo fuso”, dell’esercito israeliano nella Striscia
di Gaza, fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009. Una testimonianza dal
vivo, sotto forma di denuncia, che ha avuto all’uscita nel 2009 eco larga – subito
tradotta nelle maggiori lingue europee (e in arabo, con una postfazione di Ilan
Pappè, lo storico israeliano autore della “Storia della Palestina” e di “La
pulizia etnica della Palestina”).
Arrigoni fu rapito - e ucciso
nello stesso giorno - a Gaza il 14 aprile 2011 da un gruppo terrorista del
jihadismo salafita, con l’accusa di “diffondere la corruzione” nella Striscia –
questa raccolta di testimonianze-corrispondenze fu pubblicata una settimana
dopo. Arrigoni era vicino a Hamas, alla cui organizzazione doveva i rientri nella
Striscia via mare, ogni volta che l’esercito israeliano lo espelleva.
Vittorio Arrigoni, Gaza. Restiamo umani, Manifestolibri,
p. 127 € 12
domenica 6 aprile 2025
La Cina non vuole litigare
La risposta è fredda da Pechino ai dazi di Trump. Che viene percepito
oggi come nella sua prima presidenza: come una manifestazione del declino
americano, scomposto nel suo tentativo di reazione. Segno di una rivalità
destinata a protrarsi. Ma con gli Stati Uniti disancorati dalla gestione multilaterale
degli affari internazionali che aveva assicurato la loro lunga egemonia – e il “decollo”,
economico e politico, della Cina.
Una valutazione, nel linguaggio cinese, “benevola”. Di Trump (e Biden) e
degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni come dei “vecchi”. Nel senso comune del
linguaggio cinese, come di qualcuno anziano, da trattare con sufficienza benché
autoritario o scontroso – “vecchia America” come di qualcuno che, per quanto
benvoluto, può non essere ragionevole, e anzi irritabile.
La risposta ai dazi è avvenuta senza polemiche, e modulata in vista di una
trattativa. Con la quale rabbonire il gigante – ché tale è sempre percepito –
americano. Inoltre, l’America è pur sempre in Cina il gestore e garante di
quarant’anni di benessere, quelli delle “riforme e apertura” avviate da Deng.
La direzione è chiara: “rispettare e negoziare” con la “vecchia America”.
Ma ora, rispetto al 2016, con un deterrente in più: una domanda interna
(mercato nazionale) inattaccabile dai dazi. Considerate anche l’autosufficienza
tecnologica, oggi rispetto agli anni pre-covid, e l’ampia disponibilità di
risorse, sia fisiche che finanziarie.
L’amore, unico rimedio alla violenza
Una presentazione breve
dei romanzi della scrittrice coreana premio Nobel - compreso quello cui sta lavorando, “Huin”, bianco, sulla “vita” della sorella maggiore, morta due ore
dopo la nascita, e sulla madre. Una dozzina di pagine. Più il discorso breve,
una paginetta, tenuto a Stoccolma, al banchetto per il premio con i reali di Svezia.
Centrale, nell’attività
della scrittrice, “Atti umani”: la scoperta, tardiva, e la narrazione delle
tragedie nella città dove è nata, Gwanju, nel 1980, al tempo della sanguinosa dittatura
militare. Con la scoperta che il suo tema è, come già nei quadernetti da
bambina, l’amore, “il filo d’oro che unisce i nostri cuori”.
Han Kang, Nella notte
più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, Adelphi, pp. 39 € 6
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