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sabato 10 maggio 2025

Secondi pensieri - 561

zeulig


Falso – Ha una valenza anche morale, e anche ineluttabile - conoscitiva. Non tanto per la “logica delle false  credenze”, il processo accumulativo delle convinzioni, immune al riscontro. Il problema si pone oggi che dilaga per la natura stessa della rete, una rete di comunicazione incontrollata-bile, e del moltiplicatore automatico google.
Il falso come conferma di sé, autosostengo - la falsa credenza e la falsa comunicazione (non necesariamente ostile o prevaricatrice). Specie se corroborato dalla condivisione. Senza intento criminale, un atto difensivo.
 
Intellettuale – “Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i «veri» intellettuali”, A . Gramsci, “Gli intellettuali”.
I primi intellettuali – rilevato da Gramsci di passata - erano ecclesiastici. E proprio nel senso che Gramsci pretende dall’intellettuale, che “non può piú consistere nell'eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore”.
 
Libertà – Viene in discussione quanto più è libera. Non basta il limite canonico, di non fare il male degli altri, nell’età della comunicazione “libera”. Per la forza della rete e di google è diventata un motore di autoconsunzione, autodissoluzione, nell’ebetismo – nella dipendenza cioè. Con la promozione - anche senza invenzione, nelle cose - del gerarchismo più inattaccabile, della conoscenza.
 
Nichilismo – Non è fisico, e non è matematico. Non è filosofico. Ed è russo – un po’ politico, un po’ esistenziale. Come il risveglio la mattina dopo una sbronza. Un misto di mal di testa, con forte pressione sui vasi oculari, e di mal di stomaco, e più per il sonno agitato che per l’alcol nel sangue. In inglese è hangover, una sorte di autoimpiccagione.
È russo in quanto “effetto vodka”?
 
Ragione-Razionalità – È di pianura, di ambienti aperti? “Due popoli soli, nei millenni, si sono dati un Pensiero razionalista e geometrico, due popoli di pianura: gli Egiziani e i Francesi, cui venne e viene naturale concepire un mondo piatto, lineare, euclideo, rappresentabile geometricamente, o se per caso si ammette che non lo sia, da ridurre a geometria, quadrato, cacolabile, prevedibile”.
È una razionalità esagerata, anamnesi per di più di uno scrittore, Ulderico Nisticò. Ma non trascurabile.
 
Piatta è anche la Germania. Ma è razionalista il “pensiero tedesco”?
 
“Quello che l’occhio è per il corpo, la ragione è per l’anima”, è similitudine di Erasmo da Rotterdam nel mezzo della trattazione “Sul libero arbitrio”. Uno strumento.
Nel senso traslato si vuole altra, ma in quanto strumento è la sua unica verità.
 
Russia – Sosteneva Giorgio Galli che la Russia non ha la democrazia perché non ha avuto la caccia alle streghe: è “mancato il rapporto sfida-risposta”. Si spiega perché l’America vi indulge, da Salem a McCarthy, e a Trump. Ma grande democrazia avrebbe dovuto avere la Russia dopo le cacce di Stalin. Mentre il potere vi suona, al centro del potere, in ogni epoca, cavo, una tirannide costruita sul tufo, su un sistema di caverne sotterranee che esso stesso ha scavato e di cui ode echi indistinti.
 
È l’effetto vodka – russo è il nichilismo?
Resta da spiegare perché i russi, specie le donne, sono affascinanti. Bisogna ipotizzare un’origine del fascino nella decomposizione.
 
Suicidio – C’è quello del kamizaze, quello che si uccide per distruggere il più possibile, in disprezzo di sé e del mondo – quello jihadista, non quello sacrificale giapponese - nel nome di Dio e della verità.
James Hillmann ha “Il suicidio e l’anima”, giovanile, 1964. Che così viene presentato: “Se il suicidio è certamente il più violato fra i tabù – oggi più che mai, come testimoniano le cronache –, rimane nondimeno, nella percezione comune, lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile”.
E: “Poiché nell’esperienza della morte l’anima trova una rigenerazione, l’impulso suicida non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita, ma come un andare incontro al bisogno imperioso di una vita più piena. Più che di essere spiegato, ci dice in sostanza Hillman, il suicidio attende di essere compreso”.
Sul suicidio di Peto e Arria - Arria, matrona romana, esitando il marito Cecina Peto, s’affondò il pugnale nel petto, lo estrasse, glielo porse e disse: “Paete, non dolet” - Thomas Mann compose uno dei sui primi esercizi poetici, in terza elementare, una ballata.

Verità È demiurgica – si fabbrica. Meglio se totalitaria, secondo la argomenta Hannah Arendt in un appunto, ma di un totalitarismo non violento, non nel senso del manesco, della forza: “Se la filosofia occidentale ha sempre sostenuto che la realtà è verità, adequatio rei et intellectus, il totalitarismo ne ha tratto la conseguenza che noi possiamo fabbricare la verità nella misura in cui fabbrichiamo la realtà”.
Nello stesso senso Heidegger può aver detto, come ha detto: “La Verità è il carattere tangibile delle potenze”.
Il demiurgo fabbrica realtà-verità, indifferente al rosso e al nero. E non è necessariamente un dittatore. H. Arendt ha già detto che non lo fa per renderci più saggi ma per coinvolgerci “nel deserto delle proprie conclusioni e deduzioni logiche astratte”. Potrebbe averlo scritto dopo l’avvento della rete.        

zeulig@antiit.eu

Novantenni d’assalto

Un racconto sul niente, sulla modesta condizione umana, per di più di vecchi in motoretta, e di stupidi figli di mezza età, chiacchieroni nevrotici, con tutti i cliché delle due situazioni, svolto con insolita sapienza. Forse per la scansione delle insulsaggini. Forse per il contrappeso dei nipoti, “generazione Z” o “centennials” o “zoomers”, post-adolescenti incerti in un mondo svuotato di senso. O per la bravura degli attori, su tutti la protagonista, June Squibb, 93 anni nella vita (a 94 comincia un nuovo film) e 93 nel personaggio, e il compagno d’avvetura Richard Roundtree. Thelma, truffata con la telefonata allarmistica ora di routine sul grave incidente occorso al nipote amatissimo, scoperto l’inganno, decide di recupare il malloppo. Ogni tanto si perde, ma ci riesce.
Un’opera prima, ma di un navigato sceneggiatore.
Josh Margolin, Thelma, Sky Cinema, Now

venerdì 9 maggio 2025

Problemi di base di pace - 858

spock


Una pace disarmata è disarmante?

spock@antiit.eu

Guerre private in Crimea – la Tauride - un secolo fa

I Doorn, russi, scappano nel 1920 da San Pietroburgo per rifugiarsi in Crimea, da  dove progettano d’imbarcarsi per la Francia. È la storia della famiglia dell’autrice, che vi figura bambina come “punto di vista”. Il progetto di romanzo verrà abbandonato, ma i tanti motivi qui accennati o progettati troveranno poi eco nei soi romanzi e racconti di I. Némirovski, “Il vino della solitudine”, “Le mosche d’autunno”, “Il padrone delle anime”, “I cani e i lupi”, “David Golder”, “Il ballo”, etc. Abbozzate anche alcune figure e tematiche poi ricorrenti: il padre, la madre, la njanjia, la nostalgia, la fuga. Comprese le indecisioni che la seguiranno: per l’ebraismo, “sempre problematico nella sua opera”, per la famiglia d’origine, per la madre. Con molta Crimea – Irène era in realtà ucraina, la sua famiglia non fuggiva da San Pietroburgo ma da Kiev..
La madre è già nell’abbozzo come sarà, sempre vituperata – ebraismo compreso. Alla domanda se darle un amante rispondendosi: non è renderla simpatica? “Sì, è abbastanza difficile mostrare questa donna così tranquilla e così sicura di sé. Se lo si fa, diventa immediatamente simpatica. In realtà una grossa ebrea, che si lamenta, appena qualcosa non va” – “la mia prima idea era diversa…. Era una Madame Rubinstein (cioè un’ebrea, n.d.r.), grassa, grossa, imponente, con grasse guance ricoperte di polvere bianca, e sudando di paura”. Un amante per la madre, “bon Ami” o “Serge”, resta solo un’ipotesi. E il padre è “ossessionato dal denaro”.  
“Une nouvelle inachevée de Irène Némirovski” è il sottotitolo: un’analisi del romanzo incompiuto di I. Némirovski, abbozzo di romanzo, che tradotto si può ora leggere in appendice alla raccolta di racconti “Il carnevale di Nizza”. E in appendice il testo originale, con le “prime varianti”.
Elena Quaglia,
Les Jardins de Tauride, “Studi Francesi”, 180 (LX I III) 2016, Open Edition

giovedì 8 maggio 2025

© dei principati arabi sul Medio Oriente

Gaza, Iran, Houthi, e ora la Siria, gli “sceiccati” della penisola arabica si pongono al centro delle convulsioni di tutto il Medio Oriente, dalla Libia all’Afghanistan. In funzione pacificatoria, e quindi per la loro stessa sopravvivenza, di Stati patrimoniali (Max Weber), cioè di proprietà privata, come nel feudalesimo. Ma con risultati inattesi. Erano sceiccati in senso proprio, di capitribù, ancora quarant’anni fa, e al di fuori del Grande Gioco, prima della guerra del Golfo. Hanno avviato una diplomazia di pace per tutto il Medio Oriente, con risultati positivi.  
Il Qatar, dunque, pagherà le retribuzioni dei funzionari siriani, con l’avallo di Washington, per evitare il crollo del nuovo regime e favorirne la stabilizzazione. Mentre gestisce, da due anni ormai, le difficili tregue tra Hamas e Israele. Oltre che la Siria, gli emirati e l’Arabia Saudita sostengono l’economia libanese, per evitare il dissolvimento del Paese – abbandonato dalla tradizionale protezione europea e vaticana.  L’Oman si è assunto la difficile, al limite dell’incredibile, missione di avvicinare l’Iran agli Stati Unii – una mediazione che si svolge periodicamente anche a Roma. Nel 1970 i protettori inglesi dovettero fare un colpo di Stato a Mascate (come già due anni prima a Tripoli di Libia) per allontanare il vecchio sultano che non voleva la luce elettrica e manteneva la schiavitù.
I principati della penisola arabica hanno sostituito i militari nella strategia di Washington. A partire dalla prima presidenza Trump. Dopo i militari (Mubarak, Saddam Hussein, Assad, lo stesso Gheddafi) gli Stati Uniti hanno provato, con Hillary Clinton, che trascinò Obama, a puntare sui Fratelli musulmani come forza stabilizzatrice, facendo finta di credere alle “primavere arabe”. La Fratellanza rilanciò il jihadismo su vasta scala, e ora, già col primo Trump nel 2016, puntano alla stabilizzazione attraverso i principati della penisola arabica. Partendo dagli “accordi di Abramo”, che pure sembravano inconcepibili – e che si dissero negoziati da un genero di Trump, non altrimenti ricordato.
In prospettiva, dopo la Siria, il finanziamento della deportazione dei Palestinesi. Di Gaza e, in prospettiva, della Cisgiordania. La politica estera americana ha una forte consistenza, anche sotto i fuochi artificiali di Trump: nasce da analisi e strategie.

Il nazionalismo buono

In discussione oggi, anche se l’internazionalismo è morto da un secolo, con Stalin, per il dilagare in Occidente come già in Oriente (India, Cina, lo stesso Giappone) del sovranismo, il nazionalismo, l’analisi del nazionalismo, non ha fatto passi avanti da quello che Gramsci in carcere ne scriveva nel 1930 circa (vi si introducono dei capoversi per facilitarne la lettura):

 

“[Nazionalismo e particolarismo.] Julien Benda. Un suo articolo nelle «Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929: Comment un écrivain sert-il l’universel? è un corollario del libro «Il tradimento degli intellettuali». Accenna a un’opera recente, «Esprit und Geïst» del Wechssler, in cui si cerca di dimostrare la nazionalità del pensiero e di spiegare che il Geist tedesco è ben diverso dall’esprit francese; invita i tedeschi a non dimenticare questo particolarismo del loro cervello e tuttavia pensa di lavorare all’unione dei popoli in virtú di un pensiero di André Gide, secondo cui si serve meglio l’interesse generale quanto piú si è particolari.

“Il Benda ricorda il manifesto dei 54 scrittori francesi pubblicato nel «Figaro» del 19 luglio 1919, «Manifeste du parti de l’Intelligence» in cui si diceva: «N’est-ce pas en se nationalisant qu’une littérature prend une signification plus universelle, un intérêt plus humainement général?». Per il Benda è giusto che l’universale si serve meglio quanto piú si è particolari. Ma una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo. Qui è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista. Nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista.

“Un’idea non è efficace se non è espressa in qualche modo, artisticamente, cioè particolarmente. Ma uno spirito è particolare in quanto nazionale? La nazionalità è una particolarità primaria; ma il grande scrittore si particolarizza ancora tra i suoi connazionali e questa seconda «particolarità» non è il prolungamento della prima. Renan, in quanto Renan non è affatto una conseguenza necessaria dello spirito francese; egli è, per rapporto a questo spirito, un evento originale, arbitrario, imprevedibile (come dice Bergson). E tuttavia Renan resta francese, come l’uomo, pur essendo uomo, rimane un mammifero; ma il suo valore, come per l’uomo, è appunto nella sua differenza dal gruppo donde è nato. Ciò appunto non vogliono i nazionalisti, per i quali il valore dei grandi intellettuali, dei maestri, consiste nella loro somiglianza con lo spirito del loro gruppo, nella loro fedeltà, nella loro puntualità ad esprimere questo spirito (che d’altronde viene definito come lo spirito dei grandi intellettuali, dei maestri per cui si finisce sempre con l'aver ragione).

“Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all’«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l’essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Cosí molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l’essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l’enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere).

“Wagner (cfr. l’Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l’espressione del genio tedesco, invitando cosí tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere. Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C’est le rôle des maîtres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch’essi, in questa processione.

“Questa tendenza ha avuto effetti disastrosi nella letteratura (insincerità). In politica: questa tendenza alla distinzione nazionale ha fatto sí che la guerra, invece di essere semplicemente politica, è diventata una guerra di anime nazionali, con i suoi caratteri di profondità passionale e di ferocia. Il Benda conclude osservando che tutto questo lavorio per mantenere la nazionalizzazione dello spirito significa che lo spirito europeo sta nascendo e che è nel seno dello spirito europeo che l’artista dovrà individualizzarsi se vuol servire l'universale. (La guerra appunto ha dimostrato che questi atteggiamenti nazionalistici non erano casuali o dovuti a cause intellettuali – errori logici, ecc. –: essi erano e sono legati a un determinato periodo storico in cui solo l'unione di tutti gli elementi nazionali può essere una condizione di vittoria. La lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile. È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato piú elevato)”.

(A. Gramsci, “Quaderni del carcere”, Quaderno 3 (XX) § (2))

Verità e pregiudizio

Viviamo di “bias di conferma”, di propensione alla conferma – di pregiudizi. Crediamo quello che sappiamo – che presumiamo di sapere. Quando ci siamo formati un’opinione, di noi stessi e degli altri, ma anche degli eventi, quella è la (nostra) verità, e non cambia. Non facilmente. Un “fatto” di cui non si tiene abbastanza conto, nell’informazione e nell’analisi politica. Che è diventato quasi fisico, si può aggiungere, materiale, con la “rete”, per la natura incontrollabile della rete stessa, la libertà che ne fa il pregio, e con google (i blogger, i social, la disinformazione).
Recensendo tre libri usciti otto anni fa (non tradotti in Italia), di due coppie di psicologi, “The Enigma of Reason” di Hugo Mercier e Dan Serber, “The Knowledge Illusion: Why We Never Think Alone”, di Steven Sloman e Philip Fernbach, e “Denying to the Grave:Why We Ignore the Facts That Will S av Us”, di Jack e Sara Gorman, l’autrice, premio Pulitzer per la saggistica divulgativa, rafforza le loro conclusioni con gli studi analoghi effettuati mezzo secolo prima all’università di Stanford. Con due ricerche, nel 1975 e “qualche anno dopo” (nel 1980, n.d.r.: Anderson, C.A., Lepper, M.R., & Ross, L., “The perseverance of social theories:  The role of explanation in the persistence of discredited information”).
Nei due esperimenti di Stanford agli studenti veniva posto un dilemma con una doppia verità. Poi si stabiliva chi si era approssimato a quella giusta. Poi si rivelava che tutto era una messinsecna, che non c’era una vera graduatoria di chi aveva indovinato la verità e di chi non c’era riuscito. E si invitavano gli studenti a rivedere le loro conclusioni e a motivarle. La maggior parte confermavano la risposta precedente.
Agli studenti “furono presentate coppie di biglietti di suicidio. In ogni coppia, un biglietto era stato scritto da una persona a caso, l’altro da una persona che si era successivamente tolta la vita. Agli studenti fu chiesto di distinguere i biglietti autentici da quelli falsi”. Alcuni ci indovinarono, fno a 24 casi su 25. Altri “identificarono la nota autentica solo in dieci casi”. Si rivelò allora che metà degli appunti erano “autentici - autentici – erano stati ottenuti dall'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles”, ma che “i punteggi erano fittizi”.  Si è spiegato che “che il vero scopo dell'esercitazione era valutare le loro risposte al pensiero di avere ragione o torto”. E si chiese “agli studenti di stimare quanti biglietti di suicidio avessero effettivamente categorizzato correttamente e quanti, secondo loro, uno studente medio avrebbe indovinato”. L'esito fu che i “migliori” si confermavano migliori, i “peggiori” peggiori. Anche se era un altro tipo di giudizio che veniva richiesto. “Una volta formate”, osservarono seccamente i ricercatori, “le impressioni sono straordinariamente perseveranti”.
Elizabeth Kolbert, Why Facts don’t Change Our Minds, “The New Yorker” 19 febbraio 2017, free online (leggibile col traduttore google)

mercoledì 7 maggio 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (592)

Giuseppe Leuzzi
“1,7 milioni le imprese attive nel Mezzogiorno a fine 2024. Pari a un terzo del totale nazionale”. Giusto: un terzo della popolazione, un terzo delle “imprese” in Camera di Commercio. Quanto fatturato non si dice – un decimo, anche meno.
L’ingegno non manca, né l’iniziativa. Mancano i capitali, il contesto (la storia), la rete, produttiva e commerciale. E lo Stato, comprese le Regioni: sicurezza, burocrazia, promozione.
 
“Le superragazze di Conegliano, loro anche la Champions del volley: le venete hanno vinto anche scudetto, Coppa Italia, Supercopa e Mondiale”. Una squadra che non ha nulla di Veneto, solo i soldi: tutte straniere. Uniche due italiane Monica De Cescenzo, Sorrento, e Cristina Chirichella, Napoli.
 
Si ordina un hamburger, da consegnare a 25 km. di distanza, con un rider, per 3,20 euro lordi, 50 km. andata e ritorno. Senza vergogna. Succede a Portoguraro e non fa scandalo.
 
Prestipino e De Gennaro, grandi carriere sul fronte antimafia, vanno sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato di cui chiunque può essere gravato, all’umore del più piccolo Procuratore della Repubblica, anche solo per averne scritto o scherzato su. Per un’opera, il Ponte sullo Stretto, al di sopra di ogni mafia, essendo solo in mente Dei – sotto forma di Salvini.
Anche se – Scarpinato, 5 Stelle – c’è pure un “Dio mafioso”. Dalle stelle si vedrà meglio.
 
Gaetano Livrea, rettore a Messina, 1975-1983, il primo dopo il rettore a vita Pugliatti, giurista, musicologo, letterato, amico di Quasimodo e di La Pira, si cita per aver rifiutato la laurea honoris causa a Sciascia, con questa motivazione: “Il grado di elevatezza intellettuale, morale e artistico-letteraria di Sciascia, è tale che da un simile riconoscimento nessuna convenienza o beneficio, nell’ambito spirituale, potrà ricavarne la di Lui superiore personalità”.
Che è molto “meridionale”, lo humour bizzarro. Ma Livrea era triestino.
 
Se la libertà viene dal Sud, con le “masse”
L’idea libertaria dell’Italia, socialista, repubblicana, matura al Sud, anzi in Calabria. Nelle “masse” contadine del 1799 che fanno la guerra per gli usi civici, per le terre comuni. Nel “moto insurrezionale” del 1844 “a Cosenza, e il sacrificio dei fratelli Bandiera, che sperarono di abbattere i Borboni partendo dalla Calabria”, G. Galasso, “Calabria, paese e gente difficile”, 79 – “l’impresa doveva riuscire a Garibaldi partendo dalla Sicilia sedici anni dopo”.  E, si può aggiungere, ebbe l’ultimo sfogo con l’occupazione delle terre in Calabria, tra il 1945 e il 1949.
In un lungo saggio del 1984, contributo agli scritti in memoria di Francesco Compagna, “Vecchi e nuovi termini della questione meridionale” (ora ripubblicato in “Calabria, paese e gente difficile”), Giuseppe Galasso dà una diversa lettura anche del movimento massista del cardinale Ruffo nel 1799 – che pure portò alla caduta della Repubblica giacobina a Napoli. Al § “Jacquerie, banditismo, emarginazione”, lo storico ricorda che “la lotta del potere costituito contro i banditi esige a volte vere e proprie campagne,” militari e di opinione. Ma, ha già premesso, “il banditismo esprime il disagio di una civiltà contadina polarizzata da tensioni violentissime e senza possibilità di mediazione”.
In Calabria, dove il banditismo “fu uno dei più violenti”, “all’epoca di Masaniello” e nel 1799 “le masse contadine calabresi fecero il loro grande, ultimo sforzo per estirpare gli abusi del regime feudale, e per ripristinare ed ampliare la sfera dei diritti delle comunità”. È in questa ottica che paradossalmente nel 1799 i contadini delle “bande del cardinale Ruffo, che insorsero contro i Francesi e la Repubblica Napoletana”, con particolare ferocia, in Calabria e a Napoli, “si mossero a sostegno della posizione feudale e lottarono duramente contro i «patrioti» giacobini, che sostenevano la soppressione del feudalesimo”. La ragione era la stessa che nel 1647-48, delle rivolte di Masaniello.
Lo storico, che ha indagato i due movimenti, sa il perché dell’apparente contraddizione: “Tra l’atteggiamento contadino del 1647-48 e quello del 1799 corre una profonda analogia. In entrambi i casi i contadini lottarono, infatti, per gli usi civici, per le terre comuni, per i diritti assicurati alle popolazioni nel quadro del regime esistente. Ai tempi d Masaniello la lotta era stata soprattutto contro le usurpazioni feudali. Nel 1979 faceva paura l’affermazione incondizionata del principio della proprietà privata della terra, che avrebbe privato le comunità rurali e i loro membri dei complementi indispensabili alle loro magre economie familiari. Nei «borghesi» e nei non pochi «aristocratici» che si erano schierati per la Repubblica e per l’abolizione del feudalesimo i contadini vedevano i pericolosi demolitori delle poche garanzie tradizionali del loro stato di cui avessero nozione”.
Sia nel 1647-48 che nel 1799 essi si batterono, inoltre, per un alleviamento del carico fiscale del quale erano pesantemente gravati, e la materiale impossibilità in cui si trovò la Repubblica di fare alcunché al riguardo decise in gran parte il loro atteggiamento”.

Si potrebbe anche risalire a due secoli prima di Masaniello. Nel secondo Quattrocento Alfonso d’Aragona, Alfonso V poi I, suo figlio Ferdinando I, detto Ferrante, e poi, dopo il flagello Carlo VIII, il secondo figlio di “don Ferrante”, Federico I, per fiaccare la feudalità, oltre a invitare nel Regni i combattenti albanesi, crearono una robusta rete di Comuni demaniali. Subito dopo la congiura dei baroni quasi tutti i paesi ottennero in Calabria la demanialità. Durò poco, nel primo Cinquecento Ferdinando III, smaltita la paura, si riprese quasi tutte le concessioni. Ma incontrò forti resistenze, quasi ovunque, specie a Santa Severina, Catanzaro, Monteleone (Vibo Valentia), Stilo.

Il “massismo”, si direbbe con altro linguaggio, fu una rivolta di classe.    
(continua)


Intellettuali siciliani
Erano poca cosa al tempo di Gramsci in carcere, un secolo fa, poco meno. Questa la nota (raccolta ne “Gli intellettuali”) che li concerne:
“Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell'isola. – Catania chiamata l’Atene siciliana, anzi la «sicula Atene». – Celebrità di Catania: Domenico Tempio, poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al fatto del terremoto: morte – vita– distruzione – fecondità). – Vincenzo Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica. Mario Rapisardi è la gloria moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All’avanguardia del progresso noi vi seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». – Rapisardi-Garibaldi Victor Hugo. – Polemica Carducci-Rapisardi. – Rapisardi-De Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di Rapisardi). – Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di Sant’Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella Chiesa: «Tal visse Argante e tal morí qual visse» disse Rapisardi. – Accanto al Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati «sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del Carducci – Catania e l’Abruzzo nella letteratura italiana dell'Ottocento.
L’ultima frase è curiosa, ma si sa che Gramsci sa sempre di cosa parla. Rapisardi che mopolizza tutto è la Sicilia. Verga, Capuana, De Roberto?
Manca Pirandello. Perché autore romano, internazionale? Ma scriveva, commedie e novelle, anche in siciliano. Perché si era solennemente iscritto al fascismo all’assassinio di Matteotti?
 
Vedi Napoli e poi muori
Un (doppio) errore materiale in Giuseppe Galasso, “Calabria, paese e gente difficile”, p. 135 (“si ricordi sempre Creuzé de Lasseur, che ancora nel 1906 proclamava: «L’Europa finisce a Napoli, e vi finisce anche assai male»”) riporta alla memoria un viaggiatore di cui s’è persa la traccia, che a suo tempo fu una sorta di gemello in tutto, se non un esempio, di Stendhal, carriera amministrativa (modesta) con Napoleone compresa. Autore anche lui di un “Viaggio d’Italia e Sicilia” – che fu il motivo della sua precoce disgrazia presso Napoleone, il quale per Napoli progettava un regno familiare, il primo. L’unico “Viaggio in Italia” che non si ripubblica, anche se a lui si deve il leitmotiv della futura “questione meridionale”: “L’Europa finisce a Napoli, e vi finisce anche assai male. La Calabria, la Sicilia, tutto il resto è Africa”. 
Auguste Creuzé de Lesser era stato segretario di legazione a Parma, ed era deputato quando fece il viaggio. Fu cacciato dall’amministrazione quando pubblicò il “Viaggio”, e riemerse con la Restaurazione, prefetto e poi barone. Nell’intervallo visse agiatamente con le commedie, di cui fu prolifico.
Che c’entra Stendhal? Era un italianofilo, anche lui. Poeta nella vena di Giovenale e di Alessandro Tassoni – che imitò e tradusse. Autore di romanzi in versi – sui cavalieri della Tavola Rotonda (il primo, “La Table Ronde”, è di 50 mila versi). Soprattutto fertile autore di teatro, l’invidia di Stendhal.
Il ritratto che ne fa il Larousse, tratto da “un contemporaneo”, è molto lusinghiero: “Questo amabile scrittore, nota un contemporaneo, ha ottenuto e conservò sempre un nome onorevole. Una giocondità piena di franchezza e di vivacità, una originalità non meno vera, uno spirito indipendente e piccante insieme, che non polemizza mai sulla parola altrui, ciò che gli inglesi chiamano humour, una semplicità forse troppo spesso trascurata, ma ancora più spesso elegante e graziosa, questi i tratti caratteristici del suo talento, e questo talento sa spesso anche elevarsi a belle e felici ispirazioni”.
Un autoritratto? Ma è dimenticato, bisogna dire, anche in Francia. Il Sud non porta bene -  Stendhal se l’inventò, doveva scriverne epr guadagnare ma si tenne a distanza, e poco.
 
La Calabria d’un fiato
Fenomenale sintesi della Calabria, a ogni riguardo esatta, fa Ulderico Nisticò, grecista di Soverato, , in “Controstoria della Calabria”, 41. Nell’anno Mille, quando si configurava, come oggi:
“La nostra terra ha preso ormai il nome di Calabria, e nessuno più ricorda né Elleni né Bruzi, e tantomeno i remotissimi Itali, Enotri e Siculi. È una terra del tutto nuova, e vi si aggiungono soldati e coloni da ogni luogo dell’impero (bizantino, n.d.r.); ma anche da ogni luogo musulmano e del Mediterraneo.
“Quanto alla lingua, quella greca bizantina è ufficiale e veicolare, e da questa derivano, con molti termini, le strutture del dialetto della Calabria meridionale; ma non mancano sacche di latinità e, secondo il Rohlfs, di grecità classica; mentre proprio l’espansione verso Nord, e l’aver compreso tra i confini del catepanato anche le genti di lingua latina della Puglia e della Basilicata, favoriscono la penetrazione di questa lingua, ormai il volgare, nei territori di più antica grecità”.
 
Cronache della differenza: Puglia
“Ariano di Puglia è un paese di Lucania che tiene ancora d’Irpinia, vale a dire della Campania” - Antonio Baldini, “L’Italia di Bonincontro”. Oggi è Ariano Irpino – dal 1930, dopo la divertita incursione che vi fece lo scrittore. Ma era nei secoli Ariano di Puglia.
 
Ancora Baldini su Ariano: “Il garibaldino Antonio Binda, di passaggio per Ariano, annotava: «Non so se si debba all’aria finissima o alle sue eccellenti acque la floridezza e robustezza di queste ragazze, ché, anche le più civili, di 14 anni al petto pronunciatissimo si giudicherebbero di 19 o 20 almeno”.
 
Ariano di Puglia e d’Irpinia vive tutta nella memoria di un suo P.P.P. monumenti, strade, scuole. Di Pietro Paolo Parzanese, di memoria evidentemente grata – anche se la sua poesia, secondo il malizioso Baldini, “s’impigliò nelle scuole elementari, non giunse mai al popolo”.

Fu a lungo Langobardia, con capitale Bari – per due secoli, a cavaliere del Mille. Con un territorio esteso a tutta la Puglia, compreso il Salento. Fatto noto ma che si trascura. Dall’876, quando Bari, indebolita dalle guerre fra potentati longobardi, chiese l’aiuto di Otranto, contro i Saraceni. Otranto si unì a Bari, e il gastaldo longobardo di Bari prese a governare giurando fedeltà all’imperatore bizantino – protetto dalle truppe imperiali, tra esse i mercenari variaghi, altra tribù germanica.

 
Era la Puglia dei miracoli già un secolo fa, quando Baldini vi fece il sul viaggio. Padre Pio già famoso anche se giovane - ma fortissimamente muto. Un sindacalista monco che dà i numeri del lotto - Italia impazzita.  E i preti: il “prete pugliese” Baldini trova speciale, garantito nella sua libertà, di pensiero e di costumi, dalla marginalità: “trascurato da tutti i regimi passati…nel Risorgimento il prete pugliese poté essere schiettamente liberale e la sottana non dargli fastidi”.
Per liberale Baldini intende massone.
 
“Per via di Foggia”. A San Giovani Rotondo Baldini va a conoscere padre Pio, giovanissimo. “Gli dicemmo che venivo da Roma via Foggia. Quel nome di Roma non parve interessarlo affatto”. “Da Foggia? Quanto tempo ci avete messo?” - è l’unica frase che il giovane frate, riservatissimo, dirà.
Si riproduce il “per via di Foggia” delle reclute che si smarrivano con la “bassa” militare. Per tornare a casa in licenza o al congedo, da Napoli, da Roma, da Casarsa, capitava che facessero il giro largo - se sbagliavano treno dovevano sempre andare avanti, non potevano tornare indietro.  “Foggia” come una Finisterre, in capo al mondo.
 
“Ricordo che Cavour nel 1847”, si legge in Giuseppe Galasso, “Calabria, pase e gente difficile”, 111, “calcolava il valore di tutte le esportazioni dall’Italia «considerata come un solo Paese» in 500 milioni di lire piemontesi, di cui 300 dovuti alla seta, quasi tutta del Nord, e 100 all’olio, quasi tutto meridionale”. E aggiunge: “Ma si sa pure che il grande centro oleario napoletano era in Puglia,  dove il porto di Gallipoli costituiva il polo di esportazione di quel prodotto, richiestissimo anche per   uso industriale, come per il sapone di Marsiglia”.
 
La Puglia fa tuttora, con la Calabria, oltre i due terzi dell’olio d’oliva prodotto in Italia, con le coltivazioni e le rese più pregiate, e la quasi totalità delle esportazioni. M la fiera dell’Olio Evo, “Olio Capitale”, si tiene a Trieste. 
 
Bari un tempo era un polo fieristico – la Milano del Sud. Ancora a fine Novecento si proponeva come la “piattaforma” italiana, europea, verso la ricchissima penisola arabica – dove l’affare più piccolo sarà poi di miliardi. Ora punta sul turismo. Sulle navi da crociera, sul piccolo commercio.
 
La Puglia è la prima regione in Italia per la produzione di elettricità fa fonte eolica e la seconda da pannelli solari. Un business ricco, anche se per pochi. Ma da massimo “consumo del territorio”. Meglio le rendite dell’applicazione, anche se a un costo per gli altri, per tutti?
Di solito questi “investimenti” in rendite pubbliche si giustificano con l’occupazione, che però in questi settori non c’è.
 
Con “Gerri” sono una dozzina le serie tv ambientate in Puglia. Con gran risalto di bellezze naturali, anche dei corpi, e se c’ un delitto senza la cupola mafiosa. Dopo la Sicilia, location predestinata per vari motivi (scrittori, storia, monumenti, tradizione tardoottocentesca del Gran Turismo, a Taormina, Siracusa, Palermo). Un’estensione del “modulo hawaiano”, dell’economia vacanziera?  
 
Avviandosi la Puglia sulle orme della Sicilia, monumenti-spiagge-cucina, si tentò di gravarla di una quarta mafia, spentosi il contrabbando. Ma non ci sono riusciti.
 
leuzzi@antiit.eu

Il Carnevale di Irène, tra cinema a madre (“odiosa”)

Il racconto del titolo, quello analogo, “La sinfonia dI Parigi”, e il “Natale”, le tre storie più importanti, storie d’amore, sono pensate per il cinema – “trattamentoni”. Le altre pure, ma meno articolate: suggestioni, atmosphere, scenette. Non scritte, buttate giù - “soggetti”. A un certo punto, mentre contemporaneamente si avviava a scrivere i romanzi e i racconti meglio riusciti, Irène puntava sul cinema, come mezzo espressivo più rapido e più proficuo. S’inventa quindi personaggi, soprattutto ragazze, e situazioni che avrebbero dovuto farla ricca con poco. Il tocco c’è sempre, ma sono prose pr lo più svagate.
Quelle iniziali, le quattro storie di “Nonoche”, danno il tono della raccolta: Nonoche e l’amica Louloute sono due ragazze svagate e un po’ tonte, ma simpatiche come i diminutivi vogliono dire, all’avventura in città, in cerca di un uomo ricco - ruoli comici. C’è una festa di fine anno, di ragazze ricche e sbracate, in casa, con la mamma attempata, per strada, nei bar, invidiate dalle prostitute. E molte scene, frammenti, più che racconti. “La Njanja”, la tata russa, da anni attende una forte nevicata su Parigi. Un’altra tata bussa alla porta di una coppia che si veste litigando per il cenone di Natale per ricordare i bambini, che “vi aspettano da ore per appendere le calze al camino”.
I racconti di Nonoche, in forma di “dialoghi comici” con l’amica Louloute, altrettanto sgallettata, furono pubblicati sulle riviste satiriche “Fantasio” e “Le rire”. I “Nonoche”, brevi dialoghi tutto pepe, sono cinque. I quattro qui pubblicati sono di Irène diciottenne, quando, approdata infine a Parigi attraverso mille peripezie dalla Russia rivoluzionaria, frequentò per un periodo la Sorbona: “Dalla chiaroveggente”, “Al Louvre”, “In villeggiatura”, “Al cinema”. È una vena comica ignota ai critici. E anche ai biografi, Philipponnat e Lienhardt. Una lievità che dà una luce nuova alla sua opera, e anche alla tragedia personale, nella guerra e l’antisemitismo. Nonoche è un personaggio alla Colette, senza il sussiego. Con qualcosa in anticipo su dadaismo e surrealismo, e molto in anticipo su Queneau e Boris Vian.
In appendice una prosa diversa. Un racconto mai scritto, anche se molto pensato, “I giardini di Tauride”, su un tema più nelle corde della scrittrice, l’’emigrazione, l’ebraismo. Un progetto del 1934, mentre scriveva “Il vino della solitudine”. Un testo che, più per la storia, si legge per le note dell’autrice su se stessa, le riflessioni sui personaggi, i caratteri, le espressioni che le si impongono.
Usando come titolo una di queste riflessioni, “Forse un amante sarebbe di troppo?”, Teresa Lussone, che ha lunga dimestichezza con l’eredità Némirovski e ha curato la raccolta, la spiega in appendice. Irtène se lo chiede a proposito della “madre-tipo” di cui ha deciso di scrivere (“non appena trovo una madre odiosa, acida, detestabile, sto subito meglio!”): “Forse, in un libro breve, un amante sarebbe di troppo?” – non graverà la madre, nei tanti racconti “odiosi” che ne farà, di un amante.
Irène Némirovsky, Il Carnevale di Nizza e altri racconti, Adelphi, pp. 310 € 19

martedì 6 maggio 2025

I papi italiani fecero il Risorgimento - f.to Gramsci

“Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e qualcuno potrebbe anche vedere in esso l’origine del Risorgimento. Esso certamente fu dovuto a necessità interna di difesa e sviluppo della Chiesa e della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee, tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita. Se positivamente il Risorgimento può dirsi incominci con l'inizio delle lotte tra Stato e Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico, quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l'importanza del Giannone), negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza portarono la Chiesa a cercare sempre piú in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il personale del suo apparato organizzativo” – Antonio Gramsci, “Gli intellettuali”, p. 28.
Il papa ora non è più “italiano”. È finita la carica risorgimentale – l’Italia non ha più nemici, non conta? Oppure è cambiata l’ottica della chiesa, col Concilio Vaticano II – per un “risorgimento” del mondo?

Cronache dell’altro mondo – immigratorie (340)

Oggi come cent’anni fa New York esercita un’attrazione gravitazionale. La gente arriva da tutto il mondo per “fare arte, soldi, guai, l’amore, un nome. E ci rimane perché non può immaginare alcun altrove.
A New York City un’economia sommersa facilita ai nuovi arrivati la ricerca di un posto per dormire. Talvolta solo un letto e una tenda.
Nel Queens, al primo piano di un edificio in East Elmhurst, dodici immigrati condividono un appartamento. Quattro camere, ognuna occupata da una coppia giovane, che paga da 800 a 1.100 dollari al mese. Una delle coppie condivide la stanza con la figlia di cinque ani e lo zio della moglie. Nella stretta entrata tende da doccia chiudono una quinta “stanza” con due letti affiancati stretti, occupati da due uomini. Una piccola cucina è l’unica area in comune. In assenza di privacy, dopo avere schiacciato gli scarafaggi.
A New York, “uno dei mercati degli affitti più cari degli Stati Uniti”, sistemazioni ultraaffollate cme questa in East Elmhurst sono diffuse a variate. Specialmente nei sobborghi.
Negli ultimi anni la maggior parte degli immigrati sono venuti dal Venezuela, la Colombia e l’Ecuador.
(“The New Yorker”)

Il papa arriva a sorpresa

Il racconto di come si sceglie un papa, che è un atto cerimoniale e tuttavia aperto - ambiguo e sofferto. Questo è particolare perché attuale, essendo aperto il conclave di fatto da tempo, dall’inizio della crisi respiratoria di papa Bergoglio. Ma il canovaccio è quello: i favoriti non convincono, le sorprese si sgonfiano ad horas. Naturalmente non senza un intrigo, o due. E la scelta sarà naturalmente a sorpresa.
Più attuale, e sorprendente di fatto, doppiamente, risulta il film a chi avesse letto il romanzo di Robert Harris da cui è tratto, pubblicato a metà 2016 – quindi scritto, si presume, da qualche mese o anno. Muore un papa umorale come sarà Francesco, che fa e disfa, più spesso in solitario e in privato. Un accostamento cui lo lo stesso Harris poteva già invitare, protestando il contrario, nell’avvertenza: “Il defunto Santo Padre descritto in ‘Conclave’ non intende essere il ritratto dell’attuale papa”. Poco dopo, mentre descrive la Casa Santa Marta, precisando del papa defunto: “Dopotutto, un eccesso di semplicità era anch’esso una forma di ostentazione,  e il compiacimento per la propria umiltà un peccato”.
Un grande capitale, insomma, di informazione e di giudizio, mette in campo Harris a ridosso di appena un anno o due di pontificato bergogliano – ma è, si sa, il miglior conoscitore e narratore della romanità, antica e contemporanea. La seconda sorpresa è invece epocale, uscendo il film in epoca trumpiana: quanta differenza da un’epoca DEI trionfante – diversità, equità, inclusione - al suo rigetto o abbandono. In appena otto anni.
Il film, affidato al tedesco Berger, superpremiato due anni fa agli Oscar per “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, altro adattamento di romanzo famoso, dà corpo con le immagini pagina per pagina, si può dire, al romanzo. Aiutato da un cast scelto con fine appropriatezza: chissà come sono i veri cardinali, ma Ralph Fiennes nel ruolo principale, Stanley Tucci, Castellitto padre, John Lightgow, e gli altri innumerevoli comprimari sembrano tutti, ognuno per il suo verso, porporati nati – non sapremmo immaginarli diversi.

Qualcosa del film - gli ambienti, le caratterizzazioni - rinvia irresistibilmente all“Habemus papam” di Nanni Moretti. Lunico film sul Vaticano, il conclave, il papa, che non è stat riesumato in questi giorni. 

Edward Berger, Conclave

lunedì 5 maggio 2025

Ombre - 773

“Conclave, nuovi veleni su Parolin e Tagle. Ma ci sarebbe un motivo politico: i due cardinali sostengono il dialogo con la Cina”. Che è l’oggetto di tutte le offensive americane, di intelligence ed economiche (dazi). Singolare che questo fatto così evidente della politica americana non sia recepito. Perfino dichiarato sul piano economico: è la Cina che deve rivalutare (l’euro lo ha già fatto, abbondantemente, lo yen finirà per accodarsi), rispettare i brevetti, e non praticare il dumping – non così a man bassa come ha fatto e fa.
 
È singolare come la giustizia, sia sportiva che ordinaria, sottovaluti le mafie dei tifosi Inter, con assassinii, almeno tre, e ferimenti vari. Mentre sono sensibilissime, con processi “gridati” prima di essere celebrati, e condanne sostanziose della (sostanzialmente) inappellabile giustizia sportiva, nel caso di un altro club, la Juventus – che pure ha fatto di tutto per combattere il bagarinaggio e altri soprusi. Una ragione non si trova. Se non che la giustizia non sente ragioni?
 
Molte le “notizie” e le valutazioni su Mps, Mediobanca, Generali, Unicredit, Bpm, ma tutte col preambolo “operazioni di mercato”, non un solo accenno all’evidenza: all’entrata brusca del governo nelle partite bancarie. A fini di potere. Spingendo al passaggio di Mediobanca-Generali sotto Mps, cioè sotto il Tesoro, con la fusione poi alla pari di Mps così gonfiata con Bpm. Anche nei media non meloniani, di Cairo, di Elkann.
Viene da pensarci oggi che si scorre su “Milano Finanza” l’unica lettura finora apparsa dell’evidenza – peraltro molto rispettosa per il ministro leghista Giorgetti (ma con la pubblicazione delle assurde condizioni che ha imposto a Unicredit).
 
Meglio, qualcosa si era letto qualche giorno fa: “Meloni fuori dal salotto. La contromossa di Mediobanca su Generali spiazza Mps e il governo, che non gradisce”. Il primo accenno – accenno - al vero senso delle manovre Giorgetti-Mps. Dopo due mesi. E virato sul gossip – è “normale” che un partito si faccia una banca, e che banca.
 
Il regista russo-americano Lockshin spiega, per il lancio del suo film in Italia, che “Il maestro e Margherita” che ha tratto da Bulgakov  “è uscito nei cinema russi il 25 gennaio 2024 diventando un caso clamoroso: 2,3 milioni di rubli (circa 25 milioni di euro) di incasso”. Dopodiché pretende: “Così ho beffato Putin”. Il povero Putin, certo, che non ha nemmeno un vigile urbano di sbirro. Non ce la raccontano giusta, e si sa. Ma perché scrivere scemenze?
 
“Parata, Mosca minaccia Kiev” e la prima del “Corriere della sera” il 4 maggio. Il 3 maggio Zelensky ha dichiarato: “Non garantisco la sicurezza dei leader alla parata di Mosca” – alla celebrazione della vittoria nel 1945. Zelensky si è fatto russo, moscovita?
 
Ha fatto perdere i conservatori in Canada, da sicuri vincenti, e quelli in Australia, farà ora perdere la dilagante Alternative für Deutschland in Germania? La coppia Trump-Vance si è dimostrata un fattore Blitz perla sinistra, vincente a piene mani ovunque era in declino. C’è un’ideologia – come sempre perdente – anche di destra.
 
Ma l’India ha già abolito la digital service tax su Google&co, che aveva introdotto dieci anni fa. Riconoscendo l’obiezione di Trump alla doppia tassazione delle web communities. Canada e Gran Bretagna ci ripensano, anche se f ano la voce grossa. La Germania, che diceva di starci pensando, l’ha esclusa dal programma di governo. Resta la tassa in Francia, 700 milioni, e in Italia, 400. E in Canada, che l’ha introdotta un anno fa - un 3 per cento sugli utili dei ricavi eccedenti 20 milioni di dollari. Il Giappone non ci ha mai pensato e non ci pensa. La minaccia dei dazi comincia a mostrare i suoi veri effetti.
Mentre in America Google è sotto indagata per monopolio.
 
“Sono cresciuto con due miti”, Adriano Olivetti e “un mito cittadino: Vittorio Ghidella, l’ultimo grande ingegnere della Fiat che aveva la primazia in Europa nelle auto piccole e medie. Un conoscitore unico della fabbrica, degli uomini, dei processi industriali. A Torino eravamo tutti innamorati di Ghidella. Poi, in Fiat, con la prevalenza di Cesare Romiti, gli Agnelli hanno scelto una cosa diversa dalla fabbrica”, Massimo Perotti sul “Sole 24 Ore”. Semplice, no? La storia è semplice.
 
La storia come fatta sul “Sole” manca però un’altra cosa semplice e essenziale: la Fiat che sceglieva di non fare automobili non consentì l’entrata in Italia di altri costruttori. Il cuore del made in Italy, per l’industria, per l’occupazione (tuttora il pil industriale soffre da anni perché “non c’è più la Fiat”), chiuso per interessi di famiglia.
 
“Le statistiche sulle violenze ai bambini sono impressionanti”, rifletteva papa Bergoglio nel 2014 con Ferruccio de Bortoli nella più informativa delle sue tante interviste (ripresa nel fascicolo di “7”, “Papa Bergoglio, le immagini, le parole”), “ma mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato.  La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata”. I protestanti – io e il mio Dio - non fanno prigionieri, specie se “puri” (puritani). Altro che dialogo.
 
Si legge con sgomento l’editoriale di Massimo Giannini su “la Repubblica
https://www.repubblica.it/economia/rubriche/circo-massimo/2025/03/24/news/l_ex_ilva_agli_azeri_il_made_in_italy_svende_un_altro_pezzo_di_industria-424077604/
Le caffettiere le diamo a cinesi, l’acciaio agli azeri? Ma poi viene da ridere. Dove si parla di una “cordata europea” che invece il governo non avrebbe filato – per populismo? S i può scrivere di tutto, anche di cose solide come l’acciaio.  
 
La scienza si dice che vada con l’ignoranza. Non necessariamente. Il saputello è però sicuramente indigesto. Si spiega così che “la Repubblica” sia scesa da 600 mila copie a 60 mila? Per il giornalismo di quelli che sanno tutto, decidono tutto, risolvono tutto, eccetto quello di cui si devono occupare – nel caso, informare i lettori. Basta la parola, come nella vecchia) pubblicità.

Napoli è sempre Napoli con James Franco

Un veterano delle tre gradi guerre americane, la seconda, la Corea e il Vietnam, ha lasciato a Napoli nel 1945 un figlio. Che dopo una ventina d’anni le poste bizzose gli ricordano, consegnando infine un vecchissimo telegramma della Croce Rossa, passato atravwerso gli uffici dei Veterani, che gli notificava la morte della madre del bambino, e il desiderio del bambino, ora ragazzo, di conoscerlo. In crisi con la mglie e con la vita, come tutti reduci dalle guerre, Joe decide di partire. Napoli è cambiata, ma non molto (il nostro eroe è “Joe” anche se si chiama Dean), e col figlio ritrovato va incontro a molte peripezie, dal contrabbando alle coltellate. E al cancello di partenza in aeroporto per mettersi in salvo in America, ci ripensa, e rimane.
Una trama semplice, con un solo significato, nemmeno tanto originale: Napoli val bene una coltellata.  Anche se è, senza sbavature, cioè senza novità, “napoli”, tutto il colore ammonticchiato. Un “veterano”, un reduce di tre guerre senza più stimoli, nemeno dall’alcol, si rigenera nell’affetto. E i pericoli gli fanno da stimolo. Ma il racconto è superbo.
Il film è stato danneggiato dal fatto che tra inglese e napoletano stretto va visto con i sottotitoli, ma fa passare due ore senza mai una caduta d’attenzione. Un miracolo di James Franco, che, dimesso, sempre un passo indietro, un “veterano” che?, ha un’espressione per ogni inquadratura, in un esercizio naturalissimo ma moltiplicato, apparentemente inesauribile, di minuti gesti, sguardi, pause, ombre.
E con lui, o col regista, tutt il cast funziona – uno si dimentica la napoletanità, o napolitudine: Giulia Ercolini, la “salvatrice” dello spaesato “Joe”, entraîneuse e traffichina (sa perfino fargli ritrovare il figlio), Giada Savi, la ragazza innamorata del 1945, Francesco di Napoli, il figli ritrovato, in quattro o cinque personalità diverse, Aniello Arena, il patrigno camorrista, nella migliore arte della caratterizzazione.
Claudio Giovannesi, Hey Joe
, Sky Cinema

domenica 4 maggio 2025

Secondi pensieri - 560

zeulig


AteismoDi logica particolare – controvertibile: una professione di fede contro qualcosa che si nega.
 
Attualità – Una retorica che confonde la storia. Attualità di un detto, una riflessione, un gesto, un personaggio, un evento. L’attualità del classico. Che vuol dire la vivenza – reviviscenza, significanza – al di là e fuori del tempo. Una forma di verità anche, ma fuori contesto, l’ieri, l’oggi.
Si sottintende della storia come insieme di permanenze-persistenze, quasi de moduli. Che può essere un criterio cognitivo ma non la storia, l sua verità.
 
Ragione – C’è anche quella della “sragione”. La scorge don Chisciotte, il Cavaliere dalla triste figura, quando si addentra col fido scudiero en lad entranas de Sierra Morena a caccia di avventure, e vede nelle rocce fortilizi, torrioni, gabbioni, trincee - la razón de la sinrazón” che sarà un titolo di Pérez Galdós.
Dell’immaginazione, della follia, della natura.
 
Spiritismo – Dilaga ‘n coppa alle epoche razionaliste – volutamente (dichiaratamente) tali: Rinascimento, Illuminismo, Positivismo. Non come reazione, però, anzi con pretese di esserne sviluppo o filiazione. In che misura ne è coda?
 
Una coda positivista fino alla psicoanalisi (psicologia) nel suo complesso. Di qualche utilità terapeutica, ma occasionale – e rischiosa. Ma come tutti i moti spiritualisti, misticismo compreso, autosuggestiva.


Suicidio - David Foster Wallace, un omone di un metro e novanta, quarterback al football, quello che le becca di più, forte, robusto anche nella scrittura, riconosciuto e anzi celebrato, curiosone, analista attento, meticoloso, si uccide impiccandosi nella stessa casa in cui abitano la moglie e i due cani che adorava – faceva tutto con loro, scriveva, giocava, scherzava, curiosava per il mondo, che era il suo modo di vivere la letteratura, legata alle cose, alla quotidianeità, e scambiava moine e carezze. Ma aveva dentro “la Cosa Cattiva che ti divora”, era stato anche ricoverato, all’apparenza senza conseguenze, ma un po’ lo sapeva, “forse come a tutti i Wasp da bambino mi è mancato l’affetto”. L’ansia lo ha sempre divorato, da ragazzo, da adulto, da studente, da recensore, da scrittore di successo e premiato. A volte basta poco. Qualcuno fra i suoi followers ha arguito-argomentato che “il suicidio è fottutamente straziante, il risultato di un dolore interiore letteralmente peggiore della morte”.

 
Per Aristotele è un delitto contro la polis – un danno alla società (sarà l’argomento anche di san Tommaso d’Aquino). Fino al Settecento, quando gli illuminati lo decretarono nell’ordine naturale delle cose.
 
Shakespeare ne fa materia di ben 32 drammi. A uno dei malcapitati, Amleto, facendo valutare una mezza dozzina di opportunità, di cause propedeutiche: “Non sopportare le frustate e gli insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce dell’amore respinto, i ritardi-traccheggiamenti-indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia (??) che il merito paziente riceve dalla mediocrità”.
 
Poi via via il suicidio è stato depenalizzato. Fino al catechismo del papa Woytila, nel 1992, che lo prevede, possibile. Legalmente, è stato depenalizzato per ultimo in Inghilterra, solo nel 1961.
Ma resta sempre il reato di “istigazione” o “favoreggiamento”.
 
Il suicidio è contagioso? Una delle più forti predisposizioni al suicidio è conoscere, frequentare, un suicida.
Non sembra, anche da esperienza personale, ma così dicono i terapeuti.
 
Timone agli Ateniesi: “Ateniesi, sono già parecchi quelli che si sono impiccati al mio fico. Io devo abbatterlo. Perciò chi vuole appendersi si affretti!”.
 
Philip Mainländer, alla fine dell’Ottocento, sale sulla pila di copie fresche di stampa del suo unico libro, “Filosofia della redenzione”, e si lascia penzolare da una fune. Leggendo Leopardi a Napoli, ne aveva ricavato che “il non essere è meglio dell’essere” – che invece è un inno all’essere e la vita (non era un buon lettore?).
 
Piace anche morire in coppia. Kleist non fu il primo, solo il più famoso, in antico usava così – lui fu speciale in questo, che lo fece presto, di 34 anni, in un’epoca, il 1811, in cui il modo era in armi contro Napoleone, e trovò lei, malata di cancro terminale, solo entusiasta all’idea: banchettarono prima entusiasti, e lei pregò il marito nelle ultime volontà di seppellirla accanto al poeta: non un tradimento, un sonno interminabile di romantica felicità.
Morire in coppia adesso è più facile. E su appuntamento. Ci sono agenzie per questo, benché sotterranee, di anime gemelli, di fratelli. Un gentiluomo della Norvegia ne ha trovato uno in Nuova Zelanda, ha preso l’aereo, lo ha raggiunto, e insieme si sono lanciati da una una scogliera. Un uomo e una donna hanno preso camere separate contigue in albergo su un lago, e insieme sono stati trovati, ammanettati, annegati.
Tra i siti la gara è tra il Golden Gate a San Francisco e la foresta Aokihahara in Giappone, ai piedi del monte Fuji, sito preferito dai giapponesi, che adorano finire in gruppo (si perdono nella foresta?).
 
E vale anche qui l’effetto annuncio? Il maggior numero di suicidi, in Europa e in America, si sarebbe registrato nel Settecento, quando venivano regolarmente registrati, come ogni altro evento pubblico, sui giornali.


Verità  Non c’è evidenza incontestabile.

Il quadro indiziario deve restare aperto il più possibile.


zeulig@antiit.eu

La vita in autunno, colorata

Due amiche per la vita – avendo da giovani “fatto la vita” – passano le giornate tranquille in Borgogna, dove si sono ritirate, benché in situazioni difficili. L’una col figlio scemotto in galera per piccoli furti, l’altra con la figlia in carriera a Parigi irritata e ostile, benché da lei sempre accudita. La figlia morirà poi, cadendo dal balcone, nella casa che la madre le ha comprato, e la cosa potrebbe essere sospetta. Ma delle due amiche si occuperà sempre con dedizione l’ex carcerato.
Una storia come tante, senza storia. In filigrana, anche se non voluto, un conflitto generazionale, tra chi si è fatto, anni 1960-1970, anche se con mezzi non convenzioali, e chi ha tutto avuto ma non sa di nulla e non si pone nemeno il problema di che e come vivere.
Dice tutto il titolo originale, “Quand vient l’automne”. Un film autunnale, i colori, l’abbigliamento, i modi anche di dire, i problemi, che non sono mai decisi, gravi, neanche la morte, e l’età dei protagonisti – delle protagoniste.
Le attempate Hélène Vincent e Josiane Balasko, che Ozon come Ozpetek preferisce per le sue storie e sa rendere pregnanti, di leggerezza e robustezza, animano in minuti gesti, sguardi, accenti, molto professionali, al limite della cancellazione, la quieta trama.
François Ozon,
Sotto le foglie