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mercoledì 2 novembre 2011

Letture - 75

letterautore

Gossip – Già chiacchiera, e oggetto del risentimento di Stendhal a Milano (in “Dell’amore”). Se è, come annotava lo scrittore, il vizio nazionale italiano, si spiegano alcune cose.
Chiacchiera è un linguaggio (ancora? di nuovo? ) orale. Ripetitivo quindi, e impreciso. Ineffettuale anche. Milanese – quello del “milanese” Stendhal non è uno sfogo, è una constatazione. Consistente con la difficoltà (l’irrealizzabilità) di una conveniente prosa italiana nel prolungato predominio culturale, ora anche politico, di Milano – ha meno problemi la poesia, che è più vicina al canto, quindi all’oralità. E con la sua persistente mancanza di condizione e precisione, in ogni forma di comunicazione, scritta e orale. I francesi pure amano parlare – si riesce a immaginare Stendhal, a Milano come a Roma, solo come grande chiacchierone – ma la causerie è conseguente, è architettata, con la grammatica e la sintassi.
L’oralità spiega anche il senso di comunitarismo che, malgrado tutto (malgrado Milano, la Lega, l’ultramontanismo), distingue la società italiana a un occhio non esercitato. Anche se, in realtà, alla sommatoria, il linguaggio orale è ferocemente individualistico, non essendo nemmeno ancorato a regole, non temperato.

Grecia – Si ripropongono periodiche le grandi ricostruzioni dilettantesche che la Grecia vogliono al Nord, iperborea di fatto - Oslo la Locride, Troia verso Helsinki, gi Argonauti nel mare del Nord (generalmente resta da trovare Itaca, un’isola ospitale). È un calco rovesciato di Graves, che i greci porta con la Dea Bianca fino in Scandinavia. Gli antichi volevano appropriarsi con gli Argonauti, oltre al Mar Nero, il Vicino Oriente, il mar Rosso e l’Africa, che si chiamava Libia, il Don e il mare del Nord, con l’ambra e lo stagno, il Danubio, l’Adriatico, il Rodano e il Tirreno. Queste ricostruzioni rovesciano il paradigma.
Il Mediterraneo, si sa, fu fatto nostro, dall’Odissea. Timeo si prese il Don col mare del Nord. Esiodo e Pindaro il mar Rosso e la Libia. Apollonio il Danubio, il Rodano, l’Adriatico e il Tirreno. Giasone fu proiettato pure nell’Oceano, come già Menelao e Ulisse nei loro viaggi di ritorno – una stramberia per Strabone, roba di geografi incompetenti: l’Oceano non ci appartiene. Ma i miti nordici sono pieni di eroi che combattono in perdita. Vinti, o comunque condannati.

Il paesaggio, minuto, minutamente vario, litiga con la statuaria, grande , solenne, modellata, e l’architettura, i templi, i teatri, gli stadi. Anche le abitazioni nell’antica Grecia erano minute. Litigano pure la storia, tormentata e violenta, fuori e dentro, e la lingua e il segno artistico, sereni.
La maestosità dei templi mette in una falsa prospettiva la società e i luoghi. L’antica Grecia era mi-nuta, in miniatura, i monti, le città, i mari, i porti, le flotte, gli eserciti, ogni bosco, ogni siepe, ogni albero vi nutriva un mito, ogni rivolo d’acqua. È il distintivo della classicità. La stessa sapienza minuta ingentilisce il paese ora come all’epoca di Tucidide, che attesta l’uso persistente di evitare le città sparsi nei villaggi. È il villaggio il capolavoro della Grecia, l’urbanità nella natura.
La natura e i greci, e la natura dei greci, danno l’estasi a molti. A mezzo fra l’Occidente, dove è l’uomo che cerca Dio, e l’Oriente, dove Dio cerca l’uomo. La natura naturante, sbalzata nella vecchia e nuova Grecia come pietra preziosa, trasparente, luminosa, che rigenera la forza del mondo. Checché sia greco: si censiscono tre pagine di microcomunità non greche in Grecia, almeno un centinaio.

Colli, “Dopo Nietzsche”, vuole la Grecia vera in Pitagora. Senza Omero, Fidia, Solone. Non per filologia dunque. Perché allora?

I pelargoi portano nel cielo di Grecia che felicemente s’ignora nuvole lievi, e non si sa se vogliano dire cicogne, o Pelargi, o Pelasgi, questa popolazione che vola dappertutto in Grecia, fino alle montagne dell’Epiro, e si ritrova sulle colline della Tuscia. Si potrebbe risolvere una volta per tutte il mistero degli etruschi, nella comune stirpe pelasgica con i greci prima dell’invasione dorica. Attestata dal perdurare sul Tirreno delle sue simbologie, in Grecia assorbite e superate da quelle olimpiche degli achei.

Marx aveva una difficoltà, nel precisare il rapporto tra base materiale della vita e arte, una difficoltà per l’arte greca (per il resto, contrariamente all’opinione corrente, dava per scontato che non ci fosse rispondenza: “Nel caso dell’arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno affatto in rapporto con lo sviluppo generale della società, e quindi neanche con la base materiale - §§ 21 e 22 dell’introduzione ai “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”): “La difficoltà non sta nel fatto che l’arte e l’epos greci sono connessi con determinate forme di sviluppo sociale. La difficoltà sta nel fatto che essi suscitano tutt’ora in noi un godimento artistico e in un certo senso sono ancora considerate norma e modelli ineguagliabili”.

Zeus vuole insegnare agli uomini che in amore conta l’estro e non la fedeltà. Ma vince la Grande Madre cretese – Giunone era cretese – e non l’amore camaleontico. Volage è l’uomo, non la donna?

Joyce – il “Giacomo Joyce” è (rivelatore?) molto mallarmeano. Ricercato, ricamato sul nulla e per nulla – alcune immagini. Prezioso, un testo overglowed, direbbe lo stesso Joyce. Da preraffaellita in ritardo – la passione per Dante. E per Brunetto? L’approccio è molto “artistico” alla scrittura, non dissimile dai datati provenzali.

Kipling - Magris, nell’introduzione a “Kim” (ora in Alfabeti”), certifica “Kipling grande poeta della fraterna amicizia, e del brusco, solidale cammino comune incontro agli agguati del destino”. Ma, “improvvido camerata di sé stesso, contribuendo all’eclisse della sua opera presto seguita alla sua mitica fama mondiale”, per volersi “«professore di energia»”. Eclisse di Kipling?
Nello stesso saggio-introduzione dice della lingua di Kipling: “Una delle più varie, complesse e complete. secondo Burgess e Eliot, diviene la lingua stessa della modernità tecnologica”. Tecnologia in Kipling?
Magris poi ricorda: “Senza questa lingua kiplinghiana, osserva Wilson, non esisterebbe l’“Ulysses” di Joyce”. Né Brecht, forse, che può avere preso da Kliping uno stile che è montaggio e smontaggio, della realtà e dell’uomo stesso.

Stile – Viene con la fede: la dote prima del letterato, soprattutto del narratore, è crederci, lo stile viene dopo. I maggiori scrittori del Novecento sono narratori, Proust, Céline, Musil, Joyce, Pirandello, Gadda, portati all’eccesso. Certo, Céline si distingue per la scrittura “giusta”, che lega cioè con la materia (il fatto del racconto) e non col capriccio dell’autore, per quanto creativo. E poi ci sono Kafka, Pasternak, Faulkner, Hemingway, Kerouac, Lampedusa, Garcia Marquez, tutti stilisti ma asciutti. La cifra comune è la fede nella scrittura.

Wagner - Jünger lo dice “un mago di prim’ordine”, e questo è: uno che rigenera cadaveri e morte culture con esorcismi di sangue vero. Ma il Maestro è la Germania. La questione è indecifrabile, se la Germania dell’Otto- Novecento s’è modellata sul “Ring”, o se il ciclo fu tagliato a misura della Germania, ma l’immedesimazione è intima, tra i languori e i furori.

letterautore@antiit.eu

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