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giovedì 30 ottobre 2008

Processo alla storia-processo

Lo storico giudice di Carlo Ginzburg come uno sbirro? Ci sono due storie al tornante del millennio, la storia come spettacolo in tribunale e la storia dell’inquirente, quello per il quale ogni evento è comunque delittuoso, dovendo essere oggetto d’indagine sul modello poliziesco. La seconda non può essere vera e non è consolante, se non come un qualsiasi giallo. Mentre la prima si dissolve nel gossip, lo spamming invadente dell‘età elettronica, di parole e immagini, nel dissolvimento di ogni principio di verità e responsabilità. In tutto somigliante alla storia negata del nazista di Primo Levi, che risponde con un “hier ist kein warum”, non c’è un perché.
Se lo storico è giudice
C’è un uso distorto della storia, di cui la concomitante uscita dell’“Appello di Blois”, sottoscritto da quasi mille storici di 43 paesi, dà un senso definito. È la storia fissata dalle leggi, “che non si può disconoscere”, e di conseguenza non si può più nemmeno indagare. Sono leggi politicamente di sinistra, secondo il vecchio gergo: le tante fatte in Europa che fissano l’Olocausto, contro il negazionismo, e quelle francesi che fissano la tratta e il genocidio degli armeni. A protezione cioè delle vittime. Ma che finiscono per intralciare la ricerca storica, e quindi la storia. L’associazione Liberté pour l’histoire, che ha lanciato l’appello, è stata creata tre anni da Pierre Nora, socialista, proprio per combattere questa limitazione. Ma c’è di più, di più insidioso.
I saggi qui riuniti vogliono fare giustizia della “tribunalizzazione” della storia in altro senso. Dell’“uso” della storia per fare giustizia, spiega Melloni, del paradigma indiziario, e della concomitante mentalità del complotto. Anche al livello più alto del paradigma, la narrazione della storia, in cui Ginzburg eccelle. Della storia che non si fa, del passato che non passa. Anche citando l’ambiguo Ricoeur: “La storia vuole fare della memoria una sua provincia”, una violazione del tempo che si fa violenta quando la storia è storia del tempo che viviamo.
Ma i due termini della questione alla fine confluiscono, nella commistione tra storico e giudice - sia esso o no legislaore - implicita nel paradigma. Della storia come arringa avvocatesca, sia pure di pubblico ministero, in teoria impegnato alla verità dei fatti. Con la quale si finisce per favorire, dice Melloni con Giovanni Miccoli, lo storico de I dilemmi e i silenzi di Pio XII, “l’idea che quei fatti si collocano al di fuori della portata e della misura degli uomini comuni”. E in parallelo fare giustizia della riduzione della storia del Novecento e dell’ebraismo alla Shoah, con il corollario della Colpa imprescrittibile. Con la conseguenza paradossale che quella “storia che non passa” diventa anche una storia che non è avvenuta, non per gli epigoni e i contemporanei. Se non nelle forme dominanti del gossip, per essere cioè opera di folli, di forze demoniache, del male assoluto, di oscuri complotti.
La categoria dell’“uso pubblico della storia” risale al 1986, coniata da Jürgen Habermas nel quadro della Historikerstreit, la disputa degli storici, contro Ernst Nolte che il nazismo per ultimo disse una reazione al bolscevismo. Ma non si dà un momento della storia in cui non se ne sia fatto un uso politico. Alberto Melloni, storico del cristianesimo, si assume in questo libro a quattro mani, che lui stesso ha impiantato, il ruolo del guastatore. Esordisce con “la storia universale è il giudizio universale”, di Schiller, che Hegel imporrà come criterio principe di filosofia della storia. Cui oppone la “prosaica” verità di “un cantautore” - Francesco De Gregori: “La storia dà torto e dà ragione”, e “la storia siamo noi”. Ma ha da dire una cosa seria, e i testi di Marquard a supporto, sebbene anch’essi brillanti, sono fortemente argomentati. “Per la storia della tribunalizzazionme della storia” di Melloni, e i due “esoneri” di Marquard che confluiscono nel libro, “Motivi di teodicea nella filosofia dell‘epoca moderna“ e “L‘uomo nella filosofia del XVIII secolo“, sono tre densi saggi inattuali. Per la radicale diversa prospettiva che introducono nella storia e nella storiografia.
Il filosofo stuntman
Diversa rispetto a quelle del tornante del millennio. Che comunque sono insoddisfacenti per i loro stessi teorici e fautori.Una ricerca come Pasque di sangue, costruita col paradigma indiziario di Ginzburg, incontra la più convinta condanna dello stesso Ginzburg: ci vogliono - ci sono - interdizioni. Niente è da dire del giacobinismo spammato nelle cronache, e più a opera e beneficio degli avidi, i filibustieri, i furbi, i maestri della corruzione, gli (ex) compagni di strada. Dei padroni insomma della audience. Su una umanità di gusci, che sono tanto protetti e ricchi quanto sono apprensivi e avidi, di libri vuoti, di cartaveline.
L’argomento è sensibile. La storia da farsi essendo quella del fascismo, della Shoah, del comunismo - a cui bisognerà aggiungere l’uso della Bomba, i bombardamenti programmati di vittime civili, e forse lo stesso concetto di guerra totale. Insomma, tutto il Novecento e la contemporaneità. Ma è una storia che non si fa perché è una storia che non passa, questo l’argomento comune ai due autori. “Vige la legge”, Marquard, p.76, “della crescente pervasività dei residui”: più migliora il resto, “tanto più virulento diventa… il negativo che resta“.
È l’effetto della postmodernità - dell’età dell’acquario?. Una riedizione della ciclica depressione goduriosa dell’Occidente. Sopra la quale lo storico Melloni e il filosofo Marquard cavalcano in allegria per esserne esenti. Per essere credenti nell’epoca della incroyance? Marquard vede il filosofo “stuntman dell’esperto”, la controfigiura di chi ne sa nelle situazioni pericolose.
"Si giustifichi"
La tribunalizzazoone della storia è la trasformazione della domanda di Leibniz, “perché esiste qualcosa invece di niente?”, in “con che diritto esiste qualcosa invece di niente?”Con la conseguente inimputabilità, attraverso le nuove filosofie, o un bisogno di esonero: il bene che viene dal male. “Si giustifichi” è la legge dell’uomo moderno. È il principio della Riforma, che per questo ha bandito le opere. Marquard ricorda a questo proposito Heine, che con la solita chiarezza nel 1835 riportò il giacobinismo al teutonismo: “Come in Francia qualunque diritto, così in Germania qualunque pensiero deve giustificarsi”. Il Robespierre tedesco, notava Heine, era stato Kant.
La tribunalizzazione è accentuata dalla “onnipotenza della modernità”, che espunge l’impotenza e il dolore. Fino alla triviale e al banale, che ci perseguita da Norimberga. Per l’immagine che fa aggio su qualsiasi verità, e la comunicazione ridotta a chiacchiera, dei blog, le chat, i forum, i reality e i talk show. Lieve ma invadente e sostiutiva: occupa gli spazi, espunge la riflessione e la comprensione - dopo tanta rete, reality e talk show, la leggerezza cara a Savinio e Calvino va riconsiderata. Le immagini, nota Melloni, sono macigni: giudice insindacabile al tribunale della storia è oggi la televisione. Non il documento in archivio, ma l’immagine a casa.
Contro lo spamming invadente, “lo storico migliore” di Melloni “non è quello che ingenuamente arretra nell’afasia, nella polverizzazione microscopica, in qualche forma di par condicio della memoria, ma quello che riesce a disilludere chi chiede sentenza, a far emergere il valore del dettaglio, la parzialità della fonte, chi sa rendere preziose le aporie, sa valorizzare le contraddizioni e, al contrario del tribunale, sa che solo il giudice apre un dossier come se , dopo anni o dopo secoli, esso fosse rimasto identico e perciò « vero» ”.
Se Norimberga è un’assoluzione
La laicizzazione della storia porta dalla seconda metà dell’Ottocento all’“uso pubblico della storia”, nel senso di una magistratura. Norimberga ha avuto un precedente nel tentativo del presidente Wilson di giudicare il kaiser dopo il 1918. Dopo il 1945 la storia si fa in tribunale. Melloni cita Norimberga, Tokyo, Gerusalemme, Francoforte. Ma il più paradigmatico è Palermo, dove a Giorgio Galli, in qualità di storico, l’accusa commissiona la prova principe a carico di Andreotti processato per mafia, una ricerca storica. Che l’assoluzione boccerà, chiudendo il circolo della tribunalizzazione viziosa. L’idea di Norimberga, lanciata nel 1940 da Roosevelt, all’inizio della guerra, e sancita a Londra, a guerra che appare perduta ma prima della Soluzione Finale, il 13 gennaio 1942., è un processo simbolico, a carico di dodici militari e dodici civili. Di una sola parte in guerra. Non ci sono fascisti, ustascia, ucraini, ungheresi tra gli incolpati. Con effetti in superficie indifferenti e al profondo molto negativi.
Il primo e più profondo è la Colpa che non passa. Come uscire dalla Colpa, la condanna sterile, Melloni si fa dire da Christian Meier, lo storico di Da Atene a Auschwitz e L'arte politica della tragedia greca, suo riferimento in più punti, dal cui insegnamento deduce: “Nessun dubbio sul fatto che il comprendere, il comprendere che « dice tutto» di Bloch, inizi dopo la condanna e serva a rendere il passato sopportabile (in contrapposizione al passato rimosso dal mito e dall’oblio)”. E: “Solo ciò che può essere «sopportato» può anche essere «conosciuto storicamente» da chi viene dopo un passato, anche dopo il più recente dei passati”.
Effetti anche paradossali può far rilevare Melloni in conseguenza della tribunalizzazione. L’assassinio di Mussolini ha evitato un processo. L’Italia è così l’unico paese sconfitto a non avere processato il suo passato. Non l'hanno fatto gli americani, non c’è una Norimberga contro il fascismo, non l’ha fatto l’Italia. Se non per alcuni nazisti, sottufficiali o subalterni. I casi truci la Repubblica li chiuse in un armadio al ministero della Difesa, con le porte contro il muro. Amnistia, amnesia. L’amnistia la voleva Umberto di Savoia all’atto dell’ascesa al trono. Anche sulla guerra civile, c’è stato Pavone e poi niente: la “ricerca” è stata lasciata ai giornalisti, per vendere qualche copia. Non è stato fatto il processo ai crimini comunisti in Europa, pure efferati. E Mengaldo titola “La vendetta è il racconto” le testimonianze e riflessioni sulla Shoah, la storia più traumatica.
La teodicea laica
Ma un effetto su tutti Marqiard e Melloni a sorpresa fanno emergere da questa contemporaneità tribunalizia e vacua: il suo apparentamento alla dismessa teodicea, di quando la storia era la rivelazione di Dio. Critici e anzi sarcastici, benché credenti, in quanto è da due scoli e mezzo, dal 1750, una labile teodicea laica. Che, se aiuta e fomenta il progresso tecnico, si adopera a escludere il male, a metterlo da parte, mediante la storia tribunalizia. Mediante il risarcimento (del male), il criterio base della “Teodicea” di Leibniz: del male gnoseologico (la curiosità trasformata da dissipazione in virtù), estetico (l’emozione, la metafora, il mito, l’esotico, il selvaggio, il fanciullesco, il femminile), morale (il peccato originale pegno di libertà, l’asocialità come creatività, Nietzsche: la ribellione è creatività), fisico (la fatica, il lavoro, la stessa penuria in Malthus), metafisico (mutamento). Mentre il bene tradizionale viene trasformato in male.
Marquard ha due pagine magistrali sul bisogno di Dio, spiegato da Leibniz nella Teodicea”, le cui insufficienze saranno addebitate nel secondo Settecento da Kant all’uomo e da Fichte alla storia, dopo che Rousseau aveva rilevato il distacco della cultura dalla natura, e il terremoto di Lisbona nel 1755 gli aveva dato ragione. Mentre nel 1764 debuttava la letteratura horror, e nel 1965 la filosofia della storia. Il progresso è Dio, dicevano Hegel e Tocqueville. Non può esserlo, obiettava Ranke, altrimenti chi è nato prima è discriminato. Ma si restava sempre in quell’ambito. Marquard ritrova nella contemporaneità tutti i motivi della teodice prima del disincanto, che la “Teodices” di Leibniz sistematizza: il risarcimento, la compensazione, l’esonero. Singolare recupero. Non immotivato. La “tribunalizzazione della storia” vedendo (Melloni, p.47) “non solo come figura che sostituisce e secolarizza la teodicea, ma come un concreto appello del diritto penale e perfino costituzionale alla storia, affinché essa legittimi l’adesione e l’identità politica, in quel vuoto dello ius publicum europaeum presentito da Carl Schmitt”. Una nuova forma di teodicea, laica, per riempire il vuoto della secolarizzazione.
La tribunalizzazione è il tentativo della storia secolarizzata di darsi una morale. Una debolezza, che Melloni condanna d’acchito: “Sicché, alla fine, dopo aver certo esonerato l’uomo con la stessa fragile eleganza con cui la teodicea esonerava Dio, non ci si ritrova fra le mani una tesi filosofica, ma un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale”.
Marquard, Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, pp.162, € 16

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