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mercoledì 4 luglio 2012

Secondi pensieri - 106

zeulig

Anima – È il foro della comunicazione? Nel senso di Machado, il poeta: “La moneta che maneggiamo/ si deve forse conservare,/ m quella che è nell’anima/ se non si dà si perde”. È il modo d’essere plurale, piuttosto che singolare e esclusivo, e anzi sociale.
In questo senso Internet ha un’anima. Come ogni forma di scrittura.

Intellettuale - Platone piace, non può che essere oggetto di culto, ma per quello che è, un favolista, un po’ vate, non un amante. Perché tanto attaccamento? Perché le sue mitografie anticipano l’essere dell’intellettuale, la famosa classe che lui ha inventato. Che si costruisce in modo semplice: non rinunciare ai minuti privilegi, tra essi l’abitudine, e appellarsi all’aristocrazia dello spirito. E fa dire a Madame de Merteuil, per quanto cattiva: “Come molti intellettuali, è profondamente stupido”.

Cesare Garboli, che l’intellettuale voleva – volle, per una breve stagione - proletario, aveva ragio-ne: più proletarie di tutte sono le attività intellettuali, lavoro non pagato, una schiavitù, seppure volontaria. Pensare o scrivere non sono un lavoro nel vocabolario e l’opinione, sono ritenuti e si vogliono uno svago, roba da dilettanti. Mentre sono l’occupazione più assidua, minuto per minuto, giorno per giorno, senza soste né vacanze, vengono idee pure la notte, sia la scrittura creativa, poesia, filosofia, o politica, d’occasione, di scopo, più spesso senza retribuzione, nel più puro stile stakhanoviano, volontaristico. C’è piacere evidentemente in questa professione, all’opposto che nel puttanesimo, ma allora sorge il problema: perché? per cosa perdersi?

L’intellettuale produttore di Garboli è Sisifo, anche se Benjamin vi contribuisce - era un mite, accettava tutto: la poesia non è merce, non si consuma, non si fa in serie, non si butta, o la musica e, in parte, la filosofia, il teatro, il cinema, di cui i rifacimenti non vengono mai uguali, i quadri, i romanzi. Ma c’è al fondo una resistenza, una logica dura. Oppure ovvia, ma fuori dello spirito del tempo.

Il sogno di Prometeo è tipico sogno intellettuale, dell’immaginare più che del fare.

Il laico che crede Prometeo più grande di Gesù crede in realtà nel proprio limite.

Mito – Friedrich Schlegel lo vuole la fisica dell’antichità. Non senza ragione. Il legame è in Schlegel strumentale - serve a lui personalmente, “creatore” con Hölderlin, Schelling e Hegel del romanticismo, ad affermare l’inverso, la Bellezza come creatrice di Verità. Ma è dalla Verità che emerge la Bellezza, dalla scienza della natura e delle azioni, che vanno penetrate.

Storia - La causa è postuma nella storia: è la proiezione al rovescio di Schopenhauer. Lo storico materialista di Benjamin, virile, fa scoppiare il continuum della storia, senza rinunciare al presente, che blocca fermando il tempo, e gli altri lascia a perdersi nel bordello dello storicismo con la puttana “c’era una volta”. La storia è una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma il tempo saturo di presente. Ma il materialismo vince se la teologia lo anima. In sé non è niente, è il burattino che vince agli scacchi perché mosso dalla figura nascosta che degli scacchi è maestra.

Simonide, dice Plinio, inventò la tecnica della memoria. La difesa della memoria, ha scoperto Jünger, è il grande tema della civiltà occidentale. Ma per Simonide funzione della poesia è occultare, e non, come in Omero o Esiodo, svelare – ecco dunque Heidegger: è lo svelarsi che vela, l’alétheia.

Fino a Erodoto la storia è stata un progetto mitico – pure dopo, secondo il dottor Bernhard. I greci, popolo felice, secondo Camus non avevano storia: la colonna dorica era di legno – di pietra era in origine quella egiziana. E dunque la nostra storia – la memoria, gli annali, il destino, il progresso – in origine non è nostra? E la filosofia, che è storia anch’essa, dice Hegel: è il ricco prodotto della ragione attiva, pensiero momentaneo. La storia è filosofia tratta dagli esempi, diceva Dionigi di Alicarnasso. Erodoto che, padre della storia, è stato anche padre della menzogna. E la memoria che annulla il tempo. E quindi la storia.

La storia, si sa da Hegel, è morta, essendo la verità, o la razionalità, e un immenso mattatoio. È interpretazione, sul filo dell’intuizione, sorretta da testimonianze, anche mute. Si può ritenerla inutile, la nostalgia, l’animosità, la voglia di rifarla. Il Santayana proverbiale, “chi non la conosce la ripete”, l’intende migliorativa, rispetto a Monaco, il Vietnam. Praga. Ma la storia è conservatrice. Non reazionaria, non di necessità: è scettica, la storia come le discipline storiche, sulla stessa sua logica e razionalità. Di cui Hegel dice pure: la storia è la rivelazione, e il regno di Dio. Poveretto. Magari in forma di destino. Di magia. O analogia. La morfologia di Spengler.

Traduzione – Più di tutto fa la filosofia, dal greco, dal tedesco. Si prenda un testo di Heidegger sulla storia. “La rappresentazione storicizzante della storia come successione di eventi impedisce di sperimentare in quale misura la storia vera è sempre, in un senso pienamente essenziale, presenza”. Che sembra concetto intraducibile, e quindi incomprensibile: la Gegen-wart è tutt’altra cosa da presenza, il non-c’era-del-non-c’è, e non si può tradurre in altro modo. Ma presenza è avvenire, in quanto esigenza dell’iniziale. Ciò che “ha una storia” è coinvolto nel divenire. Ciò che “ha una storia”, egualmente, può “fare storia”. Storia significa inoltre la totalità dell’ente, che col tempo muta e, distinguendosi dalla natura, abbraccia le vicende e le sorti degli uomini. Infine, è “storico” pure il tramandato come tale - “Lo svolgimento della storia cade nel tempo”, avrebbe detto Hegel: “Solo il presente è, il prima e il dopo non sono. Ma il presente concreto è il risultato del passato ed è gravido di avvenire. Il vero presente è quindi l’eternità”. Abbiamo storia, continua Hidegger, solo se sin dall’inizio essa diviene l’essenza della verità. La storia è avvento di ciò che non ha cessato di essere. E il genitivo, nel caso, è soggettivo: avvento da parte di ciò che non ha cessato di essere.
Essendo Heidegger un filosofo tedesco, avrebbe l’obbligo a questo punto di aprire una lunga parentesi, su “vero” e “concreto”, su “presente vero” e “presente concreto”, su “essenza” e su “verità”. Nonché sulla traduzione, che è la vera lettura, direbbe Ortega y Gasset, quella che riempie “i silenzi del testo”, dal greco al tedesco, e dal tedesco alle altre lingue. Anche per il dubbio, a fronte dello scarso ascolto di Heidegger in Germania, che la sua filosofia pervasiva sia opera dei traduttori. I quali, i francesi per primi, stanchi o impossibilitati a comprendere, tradurrebbero parola per parola, producendo nel suo campo filosofia come una forra di giardini promiscui, dilettevoli per abbondanza, carnosità, mistero, se non per le geometrie.
Storia “vera”, sembra Luciano. Anche avvento è concetto complesso, essendo religioso o portentoso. Un dubbio ce l’ha lo stesso filosofo: l’enigma della storia risiede in ciò che significa essere storico. Lui ha la soluzione: “Potrebbe darsi che i fenomeni della vita, che per il loro senso fondamentale sono “storici”, siano comprensibili solo “storicamente””. Ma “il passato resta chiuso al presente per tutto il tempo che l’Esserci non è esso stesso in modo storico questo presente. La storia è lo specifico storicizzarsi nel tempo dell’esistente”. Il passato sentito come storicità è altra cosa che il compiuto, è qualcosa a cui si può ritornare. “Si chiama storia qualcosa che non è la storia; poiché tutto si dissolve nella storia bisognerebbe, dice l’attualità, rifarsi al sovrastorico. Il passato come vera storia è ripetibile nel come…”. E insomma, “la storia è rara”.

zeulig@antiit.eu

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