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lunedì 16 febbraio 2009

L'opinione pubblica in epoca plebiscitaria (3)

(Il testo che segue, sull’irrilevanza dell’opinione pubblica con le nuove tecniche dell’informazione in epoca plebiscitaria, è il § 74 di “Der Arbeiter” di Ernst Jünger, pubblicato nel 1932 e riproposto, su iniziativa di Heidegger, nel 1963(l'ultima edizione italiana è di Guanda, 2004))

Bisogna ancora aggiungere due parole sul fatto che la ricettività intellettuale della categoria passiva che costituisce il vero pubblico dei lettori tende con una grande rapidità verso una forma che esclude senza speranza ogni influenza dell’intelligenza liberale. Tutte le questioni culturali, psicologiche e sociali annoiano incredibilmente questa categoria, che è altrettanto incapace di percepire il raffinamento dei mezzi d’espressione. L’intelligenza di questa categoria, uscita in bella unità da tutti i ceti della vecchia società e che prolifera ogni giorno di più, ha un bell’impadronirsi dei più sottili dettagli tecnici con molta penetrazione e sicurezza, non resta meno indifferente e ogni genere di conversazione che renda la vita preziosa all’individuo. È una modifica dell’intelligenza che corrisponde a un paesaggio differente, in seno al quale l’ideale di cultura borghese non sa ormai che accrescere la sofferenza in proporzioni inaudite. Ci sarebbe quasi da provare talvolta pietà per queste intelligenze che hanno sempre più difficoltà a produrre esperienze uniche, se si pensa che, nel migliore dei casi, una tale performance sarebbe percepita come una specie di assolo di sassofono sentimentale.
Tutti gli elementi di questa situazione emergono ancora più chiaramente nei mezzi d’informazione tipici che bisognerà considerare i mezzi del XXmo secolo, la radio e il cinema. Non c’è niente di più divertente dei tentativi di certi burattini di sottomettere ai criteri di un concetto liberale della cultura dei mezzi così univoci, concreti, e destinati a compiti radicalmente diversi – questi personaggi che si prendono per critici della cultura e non sono che i garzoni parrucchieri della civiltà. Un colpo d’occhio superficiale su questi mezzi basta già a mostrare che non può trattarsi di organi della libertà d’opinione in senso tradizionale. Tutto ciò che è semplice opinione si rivela qui al contrario inessenziale al massimo. Questi mezzi dunque sono così inadatti a giocare un ruolo come strumenti di un partito come lo sono a conferire risonanza all’individuo. L’ambiente in cui l’individuo può agire è distrutto dalla semplice esistenza della voce artificiale e del fermo immagine prodotto attraverso la luce. Qui solo il tipo(1) può agire, perché esso solo è in rapporto con la metafisica di questi mezzi. Se si portano sempre più i giudizi sulla qualità tecnica è che al fondo si tratta di apprezzare in che misura si è già giunti alla padronanza di una lingua di un’altra natura. Il giudizio che decide che un film è “buono” o “cattivo” è fondato su presupposti che non sono né morali, né legati a concezioni del mondo o a mentalità. Che si tratti di una storia d’amore, di un film poliziesco, o di una propaganda bolscevica, si apprezza soltanto il grado di riuscita nella padronanza dei mezzi tecnici. Ora, questa padronanza è una legittimazione rivoluzionaria - una rappresentazione cioè della figura del Lavoratore con l’aiuto di mezzi grazie ai quali questa figura mobilita il mondo.
Si tratta qui degli organi che una volontà di un’altra natura comincia a crearsi. In questo spazio, gli atomi non riposano in quell’anarchia latente che è la condizione della libertà d’opinione e che ha finito per provocare situazioni in cui l’azione di questa opinione si annulla da sé, perché la diffidenza generica prevale sulla ricettività. Ci si è abituati ad accogliere ogni notizia prevedendo già la smentita che seguirà. Siamo giunti a una tale inflazione della libertà d’opinione che l’opinione è svalutata prima ancora che ci sia il tempo di pubblicarla. La disposizione degli atomi ha perduto il carattere univoco che regna in un campo di forza elettromagnetico. Lo spazio presenta una unità chiusa, e si è sviluppato un istinto sempre più selettivo per le cose che si vogliono sapere e per quelle che non si vogliono sapere.
Sarebbe d’altronde sbagliato pensare che si tratta qui unicamente di una rafforzamento della centralizzazione, nel senso, per esempio, in cui la persona assoluta sapeva porsi al centro delle cose. Nello spazio totale non c’è, in questo senso, centro né residenza, che sia la residenza del principe o dell’opinione pubblica, così come ha perduto ogni importanza la differenza tra la città e la campagna. Meglio, ogni punto possiede potenzialmente il significo di un centro. Questo è qualcosa di angosciante, che richiama il lampeggiare muto delle luci d’allarme quando un settore qualsiasi di questo spazio – che sia un’area minacciata, un grande processo, un evento sportivo, una catastrofe naturale o la cabina di un aereo – diventa d’improvviso il centro della percezione e, insieme, dell’azione, e quando si forma attorno ad esso un cerchio denso di occhi e orecchie artificiali. Il fenomeno possiede qualcosa di molto obiettivo, di molto necessario, e i suoi movimenti somigliano a quelli che un ricercatore constata con il suo telescopio o microscopio. Giustamente, lo sgomento s’impadronì del mondo quando si seppe nel 1932 che la radio aveva organizzato in Manciuria un sevizio d’informazione diretto sul campo di battaglia. Quando si guardano le attualità politiche che fanno parte dei compiti d’informazione del cinema, è chiaro che comincia svilupparvisi un altro genere di comprensione, un altro genere di lettura. Il varo di una nave, un dramma in miniera,una corsa automobilistica, una festa di bambini, l’impatto delle granate che partono e cadono su qualche punto della terra devastandolo, l’alternanza di voci entusiaste, gioiose, eccitate, disperate, tutto questo è captato e restituito da un mezzo di precisione impalcabile, e presenta un condensato che dà a vedere l’insieme dei rapporti umani sotto una luce diversa.
Va da sé che l’opinione pubblica deve apparire qui come una realtà intieramente diversa. L’opinione pubblica rende giustamente tabù i campi decisivi, in modo che la libera opinione non possa prenderli nel suo campo visivo. Le modiche che si producono nel paesaggio inducono in errore, fanno dimenticare che non disponiamo per osservare che di una sola finestra, di un unico dettaglio.
Bisogna inoltre dire che da una parte l’individuo tenta ancora oggi di servirsi dei media in un senso inadatto alla loro natura, e che d’altra parte la loro perfezione crescente svela sempre più chiaramente questa natura. Non si tratta qui di mezzi distrazione – e anche quando ne hanno l’apparenza, bisogna considerare che le distrazioni, l’organizzazione di grandi giochi, si presentano sempre più nettamente come un compito di ordine pubblico, e dunque come una funzione del catetere totale del lavoro.
Il senso decisivo del fenomeno deve apparire come una trasformazione degli strumenti sociali in strumenti pubblici, che gli agenti utilizzano in quanto organi pubblici. In uno spazio molto chiuso, molto prevedibile, in cui la simultaneità, l’univocità e l’obiettività dell’esperienza vissuta si accrescono, l’opinione pubblica appare una grandezza modificata; allo stesso modo la categoria umana decisionale ha perduto ogni rapporto con la libera opinione per il fatto di segnalarsi su presupposti razziali. S’intuisce già oggi che si compie qui un tipo di conio che la libera opinione non è mai stata capace d’instaurare, un conio che comanda fino all’espressione del viso e al suono della voce.
(1)Sul tipo v. nota alla puntata precedente.
(Fine. Le precedenti puntate sono uscite il 28 e il31 gennaio)

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