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lunedì 18 gennaio 2010

Quanta resistenza a Hitler, ma non si dica

Continua e finisce lo Jünger aneddotico dei diari di guerra, con aspetti che si ricordano poco della Liberazione, quanto può essere ingiusta. Lo stesso Jünger fu interdetto dalla pubblicazione dopo la guerra fino al 1949, dalle autorità britanniche di occupazione - mentre peraltro in Francia veniva pubblicato, anche l’inedito “La Pace” del 1943 (1947), e celebrato, come con Heidegger. Ma di tutto questo non c’è cenno qui. La prima redazione di questo terzo diario di guerra uscì nel 1958, molto tardi rispetto agli altri due, col titolo “Jahre der Okkupation”, e ancora senza convincere lo stesso autore. Jünger era ancora perplesso sull’opportunità di dire le orrende impressioni della sconfitta, benché amareggiato dalle vessazioni delle autorità britanniche, che non consideravano “sufficiente” il suo antinazismo: l’“Occupazione” ebbe quindi circolazione limitata, e non ne fu consentita la traduzione. La nuova redazione trae il titolo dal Libro di Isaia – le lettura della Bibbia scandisce le giornate dell’autore nel 1945. Questo terzo volet è però il più jungheriano dei primi due, tra l’aneddoto, il taglio della storia, la filosofia, la lingua.
Tra le curiosità c’è Goebbels, che Jünger vede al momento del passaggio dal comunismo a Hitler. Ed è una delle sorprese di Jünger in questo diario, la riflessione che la sinistra si subordina la destra (se la subordinava prima del 1989) in tutto il mondo a partire dalla rivoluzione del 1789, eccetto che in Germania, “dove ha fallito fin dall’inizio”. Insieme con le tante altre, che non deluderanno i lettori di Jünger: la primogenitura del male banale, la globalizzazione che promuove i localismi (“i popoli, spogliandosi della pelle che è lo Stato nazionale, non appariranno che più marcatamente nella loro condizione propria, la cultura del paese natale”), la biografia come un giardino, il linguaggio geroglifico delle piante e gli animali, l’uso delle droghe, la natura irriducibile a Darwin, la saggezza tibetana delle asimmetrie, la vivisezione residuo del "vecchio mondo feticista", la libertà espressa, “nelle contrade dove regna una raffinateza particolare, in Toscana per esempio”, da un saluto ripetuto uguale, ma diverso nelle sfumature. E quella specialità tedesca su cui non si è riflettuto, dei rivoluzionari conservatori a braccetto con i comunisti: Jünger ricorda qui la Società per lo studio dell’economia pianificata sovietica, Arplan, di Arvid Harnack e Friedrich Lenz, alle cui discussioni partecipavano, con lui e Ernst Niekisch, anche intellettuali comunisti – Jünger cita Lukáks, c’erano anche Wittfogel, Toller. Oltre al salotto aperto in casa del Dottor Goebbels, prima di Hitler naturalmente, dove i comunisti spesso erano anche ebrei. Con la sottospecialità, di cui Jünger è alfiere: non magnificare la resistenza, sconfina col tradimento, pur lodando "il coraggio nella guerra civile", con l'esempio di Niekisch. Della Società per lo studio dell'economia Jünger omette la parola “sovietica”, e non cita Harnack, personaggio pure di spicco, perché fu giustiziato a fine 1944 come spia di Stalin.
La cautela si spiega così, è qui uno Jünger soprattutto amareggiato dalla Liberazione. Dalla libertà di saccheggio e violenza a Est, dalle deportazioni in massa di diecine di milioni di tedeschi, dalla pace preclusa. La colpa collettiva, riflette, va su due binari: compartire la colpa del vicino, del familiare, di ogni altro tedesco, e accettare la vendetta delle vittime. Ma la vendetta, oltre certi limiti, opera per un inoppugnabile revanscismo. Di cui pone le basi, ricordando l’estensione della resistenza in Germania sotto Hitler: “Credo che in nessun altro esercito, nei suoi stati maggiori, la situazione giuridica del proprio paese in guerra sia mai stata giudicata più severamente”.
Non ci sono grandi eventi. Lo scrittore smobilitato legge le Scritture, Vico, Dostoevskij, Tallemant des Réaux, le "Mille e una notte", coltiva l'orto, scava e secca la torba per l'inverno, ospita ogni notte sfollati, ordina la corrispondenza, ricorda le tante volte che la Gestapo lo ha interrogato o perquisito, talvolta ricorda il "fratello fisico", senza nome, prigioniero all'Ovest, la mamma e la sorella disperse all'Est, mentre per il fratello amato Friedrcih Georg si mette in viaggio. E tuttavia si fa leggere. Più di tutto essendo uno stilista, direbbe Céline: "Il tedesco ha preso fluidità, e questa evoluzione dura ancora. Si possono tirare le frasi fuori dal crogiolo come dal vetro,per vedere con che grado di leggerezza la massa si dissolve in gocce". Con i soliti lampi, gli jungheriani tagli nella storia. Uno è attualissimo e verissimo, in Iraq e Afghanistan, il fallimento inevitabile della "liberazione" di un paese informe: "La gestione di un paese conquistato è tanto più semplice quanto più esso è coltivato, minuziosamente organizzato. Si spiega così il successo di Alessandro nell'impero persiano, il fallimento di Napoleone in Russia e in Spagna". Nazionalrivoluzionario sempre, ma più considerato, e sempre distillatore prodigioso della lettura lenta.
Ernst Jünger, La capanna nella vigna, Guanda, pp. 280, € 20

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