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sabato 20 febbraio 2010

Non ci resta che la Chiesa, contro l'antipolitica

Un saggio pieno di fermenti - contro le intenzioni degli editori? Un saggio del 1923 (già tradotto nel 1986, da Edizioni Giuffré) che segna il ruolo della Chiesa in Europa e nell’Occidente che ora si nega: la perpetuazione dell’Auctoritas, o senso dello Stato (su cui molto scriveranno in questo dopoguerra Chabod, Alessandro Passerin d’Entrèves e Hannah Arendt), la derivazione di tutti i diritti individuali o di libertà (di coscienza, associazione, congregazione, stampa) dalla religione o libertà di culto, la difesa della persona e del mondo contro l’interesse economico e la sua razionalità a basso voltaggio. Per la speciale complexio oppositorum che Schmitt deriva da Cusano, la “forma politica” della Chiesa – che fonda anche la critica più insidiosa alla Chiesa romana, oggi detta del relativismo (“l’opportunismo senza limiti”): assolutista e democratica, dogmatica e misericordiosa, di “virile resistenza” e “femminea arrendevolezza”, patriarcale e patriarcale. In questa complexio la Chiesa evita "La politicizzazione totale della vita dell'uomo", come definirà il totalitarismo un altro pensatore a essa vicino, Augusto Del Noce. Il suo segreto, dice Schmitt, è “di rimanere dentro l’esistenza concreta, di essere piena di vita e tuttavia razionale nel grado più alto”, una peculiarità basata “sulla rigorosa attuazione del principio di rappresentazione”. La Chiesa è l’ultima delle “figure rappresentative”, unificanti, l’imperatore, il cavaliere, l’eremita (mistico, monaco): “Tanto sola che chi vi vede soltanto forma esteriore può dire, con motto epigrammatico, che essa rappresenta soltanto la rappresentazione” (p. 39). Ma questa è la sua forza, “la forza della rappresentazione”: la Chiesa è, si vuole, “la concreta rappresentazione personale di una personalità concreta” (p. 37). Come ora Ratzinger, cent’anni fa Schmitt ridava alla Chiesa la ragione: ci vogliono dunque i tedeschi per riportare la ragione a Roma. Il curatore Carlo Galli, che pure è stato tra i primi a riproporre l’eretico Schmitt trent’anni fa, dà invece del trattatello una traduzione svogliata, e l’autore relega nella postfazione all'opportunismo, all’antisemitismo, al nazismo, all’antiliberalismo, e insomma alla reazione, con Donoso Cortès, de Maistre, Bloy, Maurras. Senza darne peraltro i motivi, che non possono esserci se dopo novant’anni il saggio è solo vero. Non mancano i consueti lampi di Schmitt. Sull’anticapitalismo di Paolo VI e Giovanni Paolo II: “Il razionalismo economico è tanto lontano da quello cattolico che può suscitare, contro di sé, una paura specificamente cattolica” (p. 30). Sull’intellettuale: “L’intellettuale fu rappresentativo soltanto in un’epoca di transizione, cioè durante la lotta contro la Chiesa”. Sull’opinione pubblica. “Ci si aspetta che la vita pubblica si governi da sé”, attraverso l’opinione pubblica, la quale però è dominata dai media di privatissima proprietà: “In questo sistema nulla è rappresentativo e tutto è affare privato”. Anche il politico, il politico dell’economico. Un saggio pieno di speranza. La più grossa sorpresa è l’evidenza di oggi, l’antipolitica, che non è un fenomeno italiano, e non di oggi: l’economico esclude il politico (p. 35 e il par. successivo: “È impossibile una riunificazione fra la chiesa cattolica e l’odierna forma del capitalismo industrialistico”). Non è, non più episodica, sul genere dell'Uomo Qualunque, roba da mariuoli e capipopolo, ma il dominio dell'interesse e il potere del denaro, nello spettro che va dall'"arricchitevi", magari facendo l'elemosina, alla corruzione. 
Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Il Mulino, pp. 96, € 10

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