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martedì 10 luglio 2012

Vittima due volte della rivoluzione sovietica

Mandel’stam sa far parlare le cose: gli insetti, i materiali, i segni grafici, la luce nelle sue infinite varietà. Da antologia qui la pagina sull’eloquenza della partitura musica, o del balletto, la mezza pagina sulle note di lettura a margine, o sulla vita dello “scandalo”. Ma è singolarmente afono nel testo che si vuole il più interessante di questa raccolta, quello del titolo. Si voleva ancora nel 1980, quando Einaudi ne produsse la prima edizione italiana, ora rivista da Daniela Rizzi, con brio - e con l’aggiunta della “Quarta prosa”, l’autodifesa di Mandel’stam dall’accusa di plagio nella traduzione di “Till Eulenspiegel”, pubblicata infine nel 1988, cinquant’anni dopo la morte. La vita sociale e politica a Pietroburgo nel primo decennio del Novecento, gli anni dell’adolescenza di Mandel’stam, si deve leggere con centinaia di fastidiose e insignificanti note.
Non si sopportano più i microcosmi politici che animavano la città - gli –ismi del sovietismo si estendono qui al bazarovismo (dal protagonista di “Padri e figli”, il romando di Turgenev, a sua volta positivista, nichilista) e al manilovismo (dal Manilov delle “Anime morte”). Per il rifiuto della politica che va con quest’epoca, forse. O per la “inutilità” di tanta passione democratica, inconsistente, incapace – il fatto ormai è incontestabile che la sola politica è quella che “parla alle masse”.
E dire che Mandel’stam non è un trinariciuto. Quando non stringe il cuore, rivoluzionario prima del tempo, a ragion veduta, e deluso già nel 1923: “«Per me, per me, per me», dice la rivoluzione. «Ciascuno per sé», replica in risposta il mondo”. Vittima doppia, si può dire, della rivoluzione sovietica, poiché finirà, dopo vari confini, in un gulag nel 1938. Venendo da una normalità che gli fu peraltro sempre impossibile, con una famiglia ma senza una casa: partendo per la villeggiatura i genitori lasciavano i mobili in deposito, e in autunno li montavano nel nuovo appartamento in affitto. Nomade a Pietroburgo, dunque.
Qui Mandel’stam non ha lo scatto che lo fa amare in altre prose. “Quando è rovesciato sul dorso e si accinge al salto, l’elaterio piega all’indietro testa e torace, di modo che l’apofisi pettorale, sporgendo all’esterno, si trova all’estremità della propria guaina. Durante il processo di curvatura all’indietro, per effetto dei muscoli, l’apofisi si piega a somiglianza di una molla”. Pochi sapranno cosa l’elaterio sia, né è chiara - chiaro? - l’apofisi, ma lo scatto c’è tutto. Qui, tuffato fra le persone e i ricordi invece che sulle amate “cose”, lo scatto manca. Ma la solitudine è sempre forte, irrimediabile malgrado la qualità dell’uomo, che sa dire di no, e del critico, che lo fa amare. “Una parabola assurda”, scrive nel “Francobollo egiziano”, la terza prosa della raccolta, chiamandosi Parnok, “congiungeva Parnok alle sfarzose fughe di stanze della storia e della musica”.
Osip Mandel’stam, Il rumore del tempo, Adelphi, pp. 209 € 19

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