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lunedì 25 maggio 2009

Se Pinelli è una vittima ma non si può dire

Titolo evocativo per un testo fumoso, come l’avvio. Sofri ha l’orgoglio di avere documentato e argomentato la morte di Pinelli. Ma è anche qui lezioso, come nei terribili processi prevenuti che lo hanno condannato a 22 anni per omicidio. E come forse era nello spirito di Lotta continua, il movimento da lui fondato nel 1967. Se non che Sofri, e cioè Pinelli, sono al cuore del tradimento dello Stato che ora si vorrebbe cancellare: nei giorni terribili di Piazza Fontana in cui morì “l’anarchico”; prima, con le bombe che “gli anarchici” non avevano colocato e innescato; e dopo, quando alla fine il terrorismo si organizzò – di cui gli stessi movimenti, tra essi Lotta continua, saranno vittime.
Sofri apre il libro con l’Italia di fumo. Mentre invece non c’è mai stata, nella storia recente, repubblicana, un’Italia più solida, più determinata, e perfino unita, destra e sinistra politiche insieme, di quella del 1968-1969. Furono anni di rivoluzione sostanziale, in piazza e nelle istituzioni, l’unica vera (cioè rivoluzionaria: per il meglio e per tutti) dell’Italia, sicuramente della Repubblica. Animata da gente vera, che prospetta e attua cose vere, il nuovo diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, il sistema sanitario nazionale, e la democratizzazione delle furerie. Contro cui la sbirraglia ha lottato con durezza, e ha vinto. Non più in caserma, che era il luogo suo proprio e invece si era anch’esso democratizzato, ma nei tribunali, che non si sono ancora defascistizzati, fra ermellini e stato etico, fra i padroni, e nei giornali loro servi. Ma questo non si può dire. Gli stessi nuovi compagni di Sofri non lo consentono, nella politica e nei giornali, che ereggono pavidi monumenti a Calabresi, trinariciuti oggi quando non avrebbero nessun obbligo a esserlo - trinariciuti per vocazione allora? da vera sbirraglia.
C’è talmente tanta malafede e protervia nei magistrati che si occuparono di Piazza Fontana e di Pinelli che sembrano incredibili, perfino in uno Stato di polizia. E cosa non si dice e non si scrive oggi di strafottente, luridamente bieco, nei giornali, altro che l’ironia lieve di cui Sofri si compiace: lo sa bene l’amico e compagno di Sofri, Mughini, che ha cavalcato l’onda quando Sofri seppe prenderla, e oggi va in giro a dire “per fortuna che la nostra generazione ha perso”, di cui non frega nulla a nessuno, ma è paravento all’affermazione, non richiesta, che Sofri fu l’assassino di Calabresi. In paginate degli stessi giornali che hanno guidato la strategia della tensione, e nella serva Rai. Qui in una trasmissione apposita, col supporto di Giovanni Fasanella, altro compagno di Sofri, senza contraddittorio e senza vergogna. Non è una partitella dell’amicizia che si è giocata e si gioca, né un match d’allenamento. Dall’altra parte non ci sono sparring partner compiacenti ma gente che picchia duro, sopra e sotto la cintura, anche se nei libri e nei talk show - Sofri dovrebbe saperlo che la parole sono pietre. È così che si fa, è così che la realtà avviene: una sola è la verità, l’alibi è falso se Mughini lo dimostra falso, sia pure con un soffio, un raglio, un’occhiata sbieca, un ghirigoro della mano inanellata.
Basterebbe dire le cose come stanno. Pinelli non era un demente e non era uno sconosciuto. Era l’anarchico più in vista di Milano, conosciuto, in una stagione in cui la questura era alla caccia degli anarchici, per l’equilibrio e l’impegno pacifista. “Un uomo mitissimo, alieno dalla violenza, di cuore onesto e mani pulite”, riconoscerà un tardo giudice milanese. Un morto dentro la Questura di cui ai familiari è impedito di accertare le cause della morte. Mentre Calabresi aveva sbagliato tutte le indagini sugli attentati del 1969, e sbagliò, molto, su Piazza Fontana. Pinelli è stato assassinato, anche se non è stato tenuto a testa in gialla finestra: fermato illegalmente, sottoposto per tre giorni e tre notti a interrogatorio, torturato, al dire dei suoi custodi, tutti anime molto buone e candide, con false informazioni (“Valpreda ha confessato”, “il tuo alibi è stato sconfessato”).
Sofri fa ancora l’angelico invece che attaccare fumante, come dovrebbe fare ogni buon cittadino. Forse per voler stare in linea con le confuse strategie che la post-ideologia vuole (quanta ideologia non si spreca oggi!). Ma è la strategia processuale che non lo ha esentato dalla scritta condanna per terrorismo. Le domande a cui rispondere sono semplici: c’è conformismo? C’è. C’è opportunismo? C’è. C’è illegalità legale? C’è stata e c’è. Lo sanno tutti, perché metterli dalla parte del torto? Tutti sanno riconoscere un prefetto fellone e un buffone giornalista, anche se si fanno reciprocamente i salamelecchi. Freda e Ventura non sono stati accertati responsabili di 17 dei ventidue attentati del 1969, da aprile a dicembre, praticamente senza conseguenze? E il loro sodale Giannettini, non era un agente dei servizi segreti? Tutto questo in Sofri non c’è, se non per una-due righe, in nota. Le note, leziosamente compilate alla De Quincey, sono ancora in tono con la controinformazione, quale usava trent’anni fa. Ammiccante per mancanza di prove cartolari. Mentre ormai tutto è dichiarato e esibito.
E così, con tutta la “chiarezza” che pretende in questo libro, Sofri lascia tutto al forse che sì forse che no. Allo schema consueto ormai da vent’anni, da quando il compromesso storico morente tentò di salvarsi in tribunale: c’è chi accusa e chi non si difende. Anche, certo, perché è impossibile, non in tribunale. E anche questo è parte della realtà: l’onestà è fuori luogo tra gli squali. Ora in più c’è il mercato, della verità compresa e dell’onore, e non è più cosa di destra, anzi, in tv e nei giornali, e alludere è insensato. Il libro di Mughini, falso, è invece inflessibile: Sofri ha fatto uccidere Calabresi - grande retorica, nevvero, tra cotali eletti amici, spiegare con dispiegamento di pagine come lo stesso Sofri abbia riconosciuto, affermato, sostenuto, di essere stato il mandante se non il killer del commissario.
Non ci sono state le bombe a Milano nel 1969, prima e dopo l’autunno caldo, alla Fiera e alla Banca dell’Agricoltura? Ci sono state. Chi le ha messe? La questura di Milano e il ministero dell’Interno hanno detto “gli anarchici”. Per errore? No. Che ragione aveva Calabresi di fermare personalmente e incolpare Pinelli? Nessuna. Era il fermo di Pinelli illegale? Lo era. Il giudice D’Ambrosio attribuì a Pinelli un alibi falso, ciò che è falso. Né c’è stato il “malore attivo” con cui D’Ambrosio si è lavato le mani, di uno che sta alla finestra a prendere l’aria e ha un giramento di testa, una vertigine che lo tira verso il basso: tutti i custodi dicono che ci sono stati uno sbattimento di finestra e un salto. Perché il sensibilissimo, religiosissimo, Calabresi non si scusò e fu anzi insensibile con la vedova? E chi ha detto a Montanelli e Feltri che Pinelli era un confidente di Calabresi? Chi ha ucciso Calabresi? Marino, che dopo sedici anni, e varie richieste di soldi a Sofri, si è pentito e ha confessato. Ma le confidenze di un pentito non vanno raccolte da un singolo ufficiale come fece il colonnello dei carabinieri Buonaventura: è regola basilare di polizia giudiziaria.
Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, pp.288, €12
Giampiero Mughini, Gli anni della peggio gioventù, Mondadori, pp.184, €18

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