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sabato 20 giugno 2009

Ballard che “creò” Reagan

A quarant’anni dalla prima stesura, a venti dalla seconda, arricchita di un’appendice e di note, le atrocità di Ballard non decollano. Se non per la parte che Ballard disprezzava, la divulgazione scientifica – di paralogismi, peraltro, di psicologia, evanescenze di evanescenza. Lo scrittore, che è morto il mese passato accreditando nelle memoria una vita e un’opera legata agli eventi, l’infanzia in Cina e in campo di concentramento giapponese, la morte della moglie giovane, una vita di periferia accanto ai figli da accudire e crescere, una vita normale, forse non aveva il tragico freddo nelle corde. O questo può solo essere esercizio di testa.
Traven-Ballard si propone di rappresentarvi “una serie di psicopatologie immaginarie… come se sperasse in questo modo di riepilogare la morte della moglie”. Una forma di elaborazione del lutto, e in questo senso, come storia di amore, muove qualche corda. Per il resto si legge, con difficoltà, per l’aneddotica, e per le note e l’appendice della riedizione. Quarant’anni fa Ballard “creava” Reagan, in un testo del 1967 ripreso per il libro. Ipotizzava l’alleanza tra islam e femminismo militante, con chador disegnato da Yves Saint-Laurent (che lo disegnerà!), “la guerra a cui le case cinematografiche avevano nuovamente dato inizio in Vietnam” (lo hanno fatto). Vedeva a Miami “una buona città per essere assassinato” , un posto “dove sembra che nessuno si ricordi chi è, e la cosa non gli importa affatto”. Vent’anni fa disegnava il Mediterraneo settentrionale come una città ininterrotta lunga cinquemila chilometri, da Gibilterra a Glyfada (Atene). Le visioni dunque si realizzano, ma è vecchio realismo.
La riedizione del 1989 è arricchita delle atrocità della chirurgia estetica (“Il lifting della principessa Margaret”, “La plastica mammaria riduttiva di Mae West”). E della “Storia segreta della terza guerra mondiale”, che non c’è stata ma è come se ci fosse stata. Tutte cose realistiche. Come le lunghe note, didascaliche e quasi giornalistiche. Ma l’assunto non decolla, il “matrimonio tra Freud e Euclide”. Dopo quarant’anni resta inspiegato, il libro come molto Ballard. Come il surrealismo, di cui Ballard è qui cultore ossessivo: il suo inner space vaga come i sogni. La libera associazione è immaginazione – Ballard la dice “pornografia”, all’epoca era assatanato.
L’assunto è semplice, con semplicità lo spiega Ballard nella stessa pagina in cui spiega che Einstein, “questo grande matematico svizzero”, è un pornografo: “La scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”. Appellandosi a Lautréamont. Ma la scienza non è (ancora) immaginazione-pornografia.
In più punti nel testo e nelle note sono ricordati i “Mondo cane” di Jacopetti come affini al progetto. Negli anni Sessanta Ballard progettava un mondo de-realizzato, ridotto ai suoi moti neuronali (“icone neurotiche sulle autostrade spinali”), alle fibrillazioni, a “un momento dopo dell’homo sapiens” (dopo la terza guerra mondale) che in realtà è un momento prima. Un progetto ambizioso, per il quale approfondì quanto sapeva da quasi medico e da quasi pilota da combattimento. Con l’ambizione dichiarata però di rifare Jarry, anche più ubuesco benché freddo. Ballard adotta il nome dello scrittore anonimo Traven (anche Travis, Trabert, Talbot) per vagare sotto la percezione delle cose: l’incidente automobilistico, l’assassinio di Kennedy, Hiroshima, il Vietnam, le cronache. Il tutto per flash, echi, rinvii insoliti, specie del minuscolo: frammenti di oggetti, lacerti di corpi o di memorie, tristezze subitanee e foje. La scrittura come scomposizione di immagini, e le immagini come lettura – molto variabile, per punto di vista, illuminazione, taglio, contrasti.
Curioso oggi, ma ci fu un’epoca, cinquant’anni, quarant’anni fa, in cui il letterato era un ricercatore, senza scandalo, insaziato di esperimenti e scoperte, in Francia, in Germania, negli Usa, in Gran Bretagna, e perfino nell’Unione Sovietica e in Italia, in riviste, mostre, happening, manifestazioni pubbliche e libri, alla ricerca di nuovi moduli, linguaggi, significati - si innovava ancora di più al cinema, arte popolare per eccellenza, e alcuni film di Godard del 1966-67 trattano le stesse cose di Ballard, “La Cinese” o, gli incidenti automobilistici, “Weekend” (di cui è straordinaria la diversità da “Crash”, il film che Cronenberg realizzerà nel 1996 dall’omonimo racconto in cui Ballard ha ampliato alcuni lampi di “La mostra delle atrocità”: più che due epoche, sono due mondi diversi). “La mostra delle atrocità” ne resta probabilmente la sola traccia in commercio.
Il tentativo, Ballard spiega nelle note alla riedizione, è di “decodificare alcune delle grammatiche trasformazionali”, i nessi che si costituiscono, tra le cose, gli eventi e le possibilità, per dna, abitudine, sensibilità. Ma questo iperrealismo del “sotto” non è diverso dalle superfici o le apparenze della pop art – Warhol è per Ballard già un cimelio, un classico. E, pur avulso dalla realtà (il Vietnam vero, Khomeini, Tienanmen, la caduta del Muro), si segnala per l’insight realistico. Altro esempio e l’orrore dei testi clinici, della psicoterapia, della chirurgia estetica, che Ballard si diverte a ricostituire. I materiali accumulati gli sono venuti buoni per le note, ma non di più. La radicalità delle immagini non è creativa, e riconferma che l’arte non è fantasia pura, sregolata. Ma come documento è terribilmente vero. “Ecco perché voglio fottere Reagan”, del 1967, quando Reagan era governatore della California, l’attacco preventivo alla politica spettacolo, nel 1980 era già distribuito, senza i titoli, a sostegno di Reagan alla Convenzione repubblicana che poi lo candidò – e Reagan battè facilmente Carter, uno dei presidenti più attivi e produttivi del Novecento (è pure vero che Reagan, democratico per una vita, aveva lasciato il partito di Roosevelt nel 1962, di fronte alla insipienza dei fratelli Kenedy a Cuba, e che nella campagna repubblicana del 1964, candidato Goldwater, si era segnalato per un discorso elettorale in tv, "L'ora delle scelte", che "Time" aveva giudicato "l'unico segno di vivacità in una campagna elettorale piatta").
Notevole, rileggendo “La mostra delle atrocità”, è il rovesciamento che il probizionismo etico sta operando sui tabù. Per sbarazzarsene, Ballard proclamava quarant’anni fa pornografia anche la guerra, gli incidenti stradali, e gli assassinii politici. Ma oggi, nel neo puritanesimo del mercato, tutto questo è rappresentabile (dicibile), perfino in tv, cioè per strada, l’unico interdetto resta sul sesso – l’unica cosa che non si può far vedere è un coito. Il concetto di pornografia forse va rivisto, che non è violenza: la violenza non è tabù.
J.C.Ballard, La mostra delle atrocità

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