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mercoledì 8 giugno 2011

La posta di Eco e quella di Pynchon

Il disprezzo della letteratura. Della scrittura significante. Del lavoro letterario. A opera degli “operatori” della letteratura. Certe storie sono talmente tirate via (i Templari) che non fanno nemmeno venire il latte alle ginocchia. È una sfida al lettore, un’irrisione? Del fogliettone, secondo Eco, solo lo spasso è la ragione. È lo sguardo emolliente che Eco ha gettato su tutta la comunicazione, da Mike a Moana, che viene riprodotto tal quale nei suoi personaggi redattori editoriali, cinici. Dei Bouvard e Pécuchet insolenti. Ma senza radici, motivazioni, pregiudizi a cui ancorare il disprezzo, e naturalmente – siamo Eco – senza cattiveria.
Una cattiva azione senza il profumo della malvagità, o del moralismo – o la malvagità è questa mancanza di passione? Esemplare dello small talk milanese, fatto di pizzicorini da periodico femminile. Un trionfo, se si vuole, della letteratura Cederna, senza l’intelligenza della medesima, che si rivela negli argomenti. Trionfo in tutti i sensi, poiché si è venduto e si vende in quantità inimmaginabili. Potenza degli apparati editoriali, tristezza delle redazioni noiosamente leggere - l’Eco di domani potrà ricavarne più di un dottorato di ricerca.
È costruito sul procedimento analogico: la corrispondenza, il sincretismo, la memoria digitale? Ma come appendice a una brutta antologia dell’esoterismo. E la lingua dei telegiornali che ci fa qui? La Rai ci è obbligata per camuffare la stretta dipendenza politica. Umberto Eco che cosa nasconde? Forse nulla, a parte il probabile – bonario certo – ghigno.
Nella prefazione (“Chi manoscrive è perduto”) a Fabio Mauri, “I 21 modi di non pubblicare un libro”, Eco lamenta lo spreco di energie, tempo e soldi per l’afflusso di inediti alle case editrici. Ma qui la parte della casa editrice parallela, quella che pubblica i fanatici dell’esoterismo, a pagamento, è l’unica che si possa leggere. Se “Il Pendolo” fosse arrivato per posta, scritto da un altro, non sarebbe finito lì? E ancora, sempre al capitolo della posta, forse l’unico incanto del “Pendolo”: quanto Eco ha pasticciato sul Pychon del “Lotto 49”? Che probabilmente egli stesso ha fatto tradurre e annotato? Lì c’era un po’ più di metafisica (e d’incanto narrativo, naturalmente), qui un po’ più di menate, ma l’idea non è malvagia. Posto cioè che il maggior narratore del dopoguerra è praticamente anonimo, se non inesistente (e ha scritto anche un “Under the Rose”…).
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault

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