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mercoledì 10 agosto 2016

Letture - 269

letterautore

Dante  - La “scala” di Maometto non sarà quella dell’illuminismo massonico? Asín Palacios, il religioso studioso di “Dante e l’islam”, non conosceva il “Kitāb al-Mirāj”, noto dalle traduzioni in latino e francese come “Libro della Scala”. L’accostamento è stato operato da Enrico Cerulli, un diplomatico - governatore per alcuni mesi nel 1939, subito dopo l’occupazione italiana, dello Scioà, e poi per un anno dell’Harrar, bandito dall’Etiopia indipendente come criminale di guerra. Cerulli lo ha proposto all’attenzione nel 1949, ma lo aveva rinvenuto “nei primi anni Quaranta”. Si cautelava, non escludendo letture comuni, a Dante come a Maometto, sicuramente quella dell’Antico Testamento. Ma di più ricordando le tante connessioni “tra la leggenda islamica e le ascensioni giudaico-cristiane apocrife di Mosè, Enoc, Baruch e Isaia”. Il suo “Libro della Scala” è stato pubblicato con notevole apparato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1970, regnante Paolo VI, un papa molto vicino ai laici.
Il Dante islamico è del filone esoterico.
Cerulli, poi ambasciatore in Iran, ne riportò varie sillogi di ta،ziyè, i drammi sacri sciiti, da lui conferiti alla Biblioteca Vaticana.

Era l’italianità per gli irredenti. È tuttora l’Italia all’estero, nelle istituzioni culturali, negli studi, nella caratteriologia nazionale, anche la più sguarnita, quella della pizza e del mandolino. Per la passione politica e poetica, per l’irrequietezza, per l’intelligenza religiosa – che ora si trascura o aborre - proteiforme..

Dizione – Gli otorino dismettono le ansie e le diagnosi di sordità precoce a chi non “segue più” la tv. Un po’ perché il sonoro della maggior parte dei televisori piatti è infame. E un po’ perché la dizione dei tanti sceneggiati è incomprensibile. Si fa infatti una differenza tra i notiziari, i cui conduttori devono aver seguito corsi di dizione, dalle fiction in cui bisogna essere solo un personaggio da gossip per recitare, il più in fretta possibile, vomitare le quattro parole.
È un segno dei tempi? La volgarità, forse. Chi comanda sa bene che deve farsi capire. Il consiglio di Demostene è vecchio, ma non è trascurabile: “Solo tre cose contano nella retorica: la dizione, la dizione, e ancora la dizione”. Nella retorica, cioè nell’arte di parlare al prossimo.

Richard Harris ne fa il cavallo di battaglia di Cicerone nel romanzo storico “Imperium”: a scuola dai retori greci, in particolare di Apollonio Molone, avvocato originario di Alabanda – la città dell’Asia Minore che Hölderlin evoca nell’“Iperione”. Molone nel romanzo allena Cicerone un po’ al modo di Zeman, obbligandolo a sfiancarsi – con la recitazione ininterrotta di poemi, pezzi di commedie, pezzi di tragedie, “mentre percorreva senza fermarsi una ripida salita”: “Cicerone si irrobustì i polmoni e imparò a pronunciare il massimo numero di parole con una sola espirazione”.Ma persuasivamente. “Per la parte relativa all’emissione vocale, Molone scendeva con lui fino alla spiaggia di ciottoli. Lo allontanava di una cinquantina di passi (la distanza massima alla quale può arrivare la voce umana) e lo faceva declamare sullo sfondo sonoro del mugghio e della brezza marina, quanto di più simile vi fosse al mormorio di tremila persone all’aperto o al borbottio di centinaia di uomini in conversazione al Senato”.

Gioia – C’è un “Inno alla gioia” anche di Pietro Mascagni, “giovane autore”. Fuori giro, ma almeno una volta l’Inno di Mascagni è stato eseguito, il 27 marzo 1882, al teatro degli Avvalorati a Livorno. Mascagni aveva diciannove anni. L’inno è quello di Schiller, musicato da Beethoven e Ciakovskij, in traduzione italiana, di Andrea Maffei.
In realtà è quasi un’opera, la prima al mondo di un allievo di conservatorio, un’ora e un quarto di musica per assoli e coro.

Giornale - La lettura del giornale Proust dice “”atto abominevole e voluttuoso”. Abominevole perché “leggere il giornale è caricarsi di tutte le disgrazie e i cataclismi dell’universo durante le ultime ventiquattro ore, le battaglie che sono costate la vita a cinquantamila uomini, i crimini, gli scioperi, le bancarotte,  gli incendi, gli avvelenamenti, i suicidi, i divorzi, le crudeli emozioni dell’uomo di Stato e dell’attore”. Piacevole perché, “a noi che non siamo interessati”  tutte queste disgrazie, “trasmutate, per nostro uso personale, in un regalo mattinale, si associano eccellentemente, in modo particolarmente eccitante e tonico, all’ingestione raccomandata di alcune sorsate di caffelatte”. Proust sorprende sempre – rispetto a quello del santino.

Grande guerra – Il trionfo dell’idea di nazione la vuole anche Junger, “La geurra come esperienza esteriore”, 1925, ora in “Scritti politici e di guerra”, come la prevalente pubblicistica storica. In realtà dell’idea di “primato nazionale”. “Dopo il tracollo”, nota, in Germania “si è tentato di far passare la grande ondata di entusiasmo, che allora aveva sollevato ciascun singolo ben al di sopra di se stesso, per una sorta di psicosi di massa”. Ciò è falso: “Allora la massa si rese consapevole dell’idea di nazione al di là di ogni forma, e questo comune soggiacere a un’idea evocò – proprio alla fine di un tempo che aveva fatto di tutto per riconoscere come credibile solo il visibile – quell’impressione possente, inaudita ed estranea a qualsiasi esperienza che nessun di coloro che l’hanno vissuta potrà mai dimenticare”.
Non fosse per lo “Stato guglielmino”, che “tramontò in quanto non seppe essere all’altezza di quelal grande prova di forza”. Lo Stato guglielmino e non la Germania: l’idea di nazione-primato era sempre viva.

Lingua doppia – In letteratura (poesia, romanzo) si può dire “positiva” – in opposizione alla “lingua biforcuta” degli indiani western. Accanto agli esempi illustri di scrittori che a un certo punto decidono – o tentano – di scrivere in un’altra lingua, che sentono più consona, Joyce, Pound, Lahiri in italiano, in inglese Conrad, in francese, Beckett e i tanti rumeni, Ionesco, Cioran, Éliade, Horia, su “Repubblica” Raffaella De Santis censisce un congruo numero di italiani che scrivono e\o pubblicano in altra lingua: Luca Di Fulvio, che ha un editore tedesco benché scriva in italiano, Gilda Piersanti, che vive a Parigi da trent’anni e scrive i suoi gialli – storie romanacce - indifferentemente in italiano e in francese, Francesca Marciano, che invece vive e lavora a Roma ma scrive i romanzi in inglese, Monaldi & Sorti, coppia anche nella vita, che vivono a Vienna e pubblicano in Olanda, su persone e cose indifferentemente italiane (anche una vita di Malaparte), viennesi, olandesi.
Marciano ama viaggiare, e scrivere in una seconda lingua dice un abito mentale, come parlarla. Con in più un effetto di estraniamento - non nel senso brechtiano: “È una forma di reinvenzione. Mi sento più leggera, scrivo in uno spazio vuoto che non ha testimoni, dove non mi porto dietro bagagli o costrizioni”. La lingua doppia sarebbe cioè favorevole alla narrazione pura – nel senso in cui ora la si intende, avulsa, anche asettica.
Notevolissimo è il fenomeno dell’adozione di una lingua per effetto dell’immigrazione, volontaria e\o forzata. Volontaria per via di matrimonio, o di studio, o di scelta di vita. Numerosissimi sono gli stranieri, di nascita e formazione, che scrivono in italiano: oltre a Edith Bruck e Helga Schneider, i casi di maggiore spicco, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e numerosi altri, soprattutto del Nord Africa e dell’Est Europa. 

Maigret – Porta la bombetta! a Antibes, ne 1932. Questo cambia tutto, non può essere Gino Cervi, né Cremer. E la indossa, la porta al’indietro, in avanti, la toglie e la mette, anche se al Sud fa caldo. Vero è che vive e esercita per 41 anni, dal 1931 al 1972, quando Simenon decise di non scriverne piu, ma immutabile. E non sarà un po’ calvo? Veste anche inamidato, la camicia ha col solino. Il personaggio seriale è  l’attore che lo impersona – Montalbano è Zingaretti, e i caratteristi siciliani. O anche di Simenon si può fare a meno della filologia?
Le incongruenze del resto sono nate col genere, con Sherlock Holmes. Tante in quel caso che è stato, ed è, difficile impersonarlo in un attore, in un’immagine.  

Mare – Non s’immagina se non si vede? Jünger ricorda quando, “uomo dell’interno”, vide il mare la prima volta: “Fui deluso dalle onde: mi aspettavo che fossero almeno cento metri di altezza. Non erano alte nemmeno come le torri, come pretendevano i libri”. Un Robinson Crusoe nato sperduto nell’oceano non potrebbe dire altrettanto della terra, poiché deve avere un punto fermo.
Si può vivere senza. 

letterautore@antiit.eu


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