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domenica 4 maggio 2008

Irène e la tribù ebraica

Parigi ha tenuto a marzo la sua fiera del libro dedicata agli scrittori israeliani senza ricatti e senza invasioni, né di centri sociali né di palestinesi e islamici, e neppure di antisemiti, che pure in Francia sono tutti più consistenti che in Italia. Mentre in Italia il mite Vattimo può dire fascista Fiamma Nierenstein, figlia di Alberto, in absentia, nel salotto di Gad Lerner, in polemica con la fiera del libro di Torino che sarà dedicata anch’essa agli scrittori israeliani. E il presidente Napolitano dovrà inaugurare la fiera in privato, per motivi di ordine pubblico.
Ma il tema dell’antisemitismo riemerge all’interno della stessa cultura ebraica, in termini ancora interessanti. La coincidenza delle fiere del libro di Parigi e Torino con la polemica aperta dai primi biografi, dal “Guardian” e da “New Republic” sull’antisemitismo di Irène Némirovsky, la scrittrice recuperata come un classico dopo il successo di “Suite francese”, sessant’anni dopo la sua morte ad Auschwitz, propone considerazioni non scontate sul ruolo degli scrittori ebrei di fronte all’ebraismo.
La tribù
Su “Le Magazine Littéraire” Alain Finkielkraut esclude che si possa parlare di letteratura ebraica fuori di Israele, in una lingua che non sia l’ebraico. Finkielkraut nega “una scuola ebraica in letteratura”. Ma, facendo una panoramica degli scrittori ebrei d’America e di Francia, rileva delle continuità caratteristiche, pur nella diversità di origini e interessi. Gli scrittori ebrei nelle letterature francese, mitteleuropee, americane e inglese sono fortemente identitari. Nei personaggi, le tematiche, le filosofie di vita, e nel linguaggio. Prevalentemente negli storioni familiari. “Esiste tutta una scuola di scrittori ebrei americani che passano il tempo a maledire il padre, odiare la madre, torcersi le mani e chiedersi perché sono nati”, dice Leon Uris, lui stesso scrittore americano ebreo. Anche a riverire il padre, bisogna dire, e amare la madre.
Il problema dell’identità è che esso si complica con la ricerca dell’identità, della sua definizione e del reperimento di essa. Come di ogni altro concetto e, Heisenberg avrebbe detto, ogni entità, aggravato però da una speciale sensibilità: dall’esclusione che la ricerca dell’identità presuppone e rafforza, sia pure sotto la forma dell'autoesclusione. Ma un parallelo tra Styron e Bellow, tra Kerouac e Philip Roth prospetta una distinta comunità d’interessi e linguaggio all’interno della nazione. L’assimilazione – la lingua comune - non copre il vissuto, anche in assenza del fattore religioso. C’è anzi in quelle letterature una proclamata volontà di identificazione comunitaria, dopo la Shoah e la nascita di Israele. Per il bulk di questa produzione letteraria, quella originata dall’Europa centro-orientale, la lingua d’adozione, che non è l’ebraico e non è più l’yiddish, è veicolo prominente di assimilazione, ancorché essa sia in principio rifiutata. E tuttavia la diversità viene ugualmente affermata.
L’ebreo scrive dell’ebreo, come ognuno scrive di sé. Anche se c’è qualcosa di angusto ultimamente nello storione familiare ebraico, di obbligato, sotto la cappa dell’Olocausto e della Colpa, ferite sempre aperte. Almeno nell’ebraismo europeo: l’Olocausto ha appiattito la narrazione degli ebrei, il loro vissuto dunque, in modo anche drammatico, il revisionismo che in nome dell’Olocausto impongono Israele, da qualche anno, e la mancata liberazione (storicizzazione) della Colpa. Obbligo che non c'è nella narrativa ebraica in Israele, che resiste. E non c’è stato, per dire, in Italia: l’esibita diversità confessionale o tribale – oggi si dice nazionale o comunitaria - non c’è nella letteratura italiana, per fare una comparazione utile, anche nei casi in cui la forza delle cose l’avrebbe imposta, Primo Levi, Bassani, Natalia Ginzburg, Lia Levi, Saba. In cui Alessandro Piperno si segnala come eccezione (anche come ironia e parodia). C’è insomma una diversa condizione per la stessa tribù, in rapporto alla situazione esteriore nella quale si trova, e ai suoi segreti umori interni, la tribù sarà pure una condizione esistenziale ma è si determina nella storia.
Oggi queste realtà nazionali sono rovesciate. Una presenza pacifica altrove, seppure orgogliosamente diversa, viene negata in Italia. E' inevitabile, a tratti. Per il proselitismo che include, il cristianesimo in tutte le sue articolazioni, mentre la monogeneticità religiosa esclude, è il caso dell'ebraismo ritrovato. Ma l’ebraismo è tradizione più che religione. Oggi è senz’altro il sionismo israeliano. Che può essere riduttivo. A patto che non sia contrastato dal vizio passionale (ideologico, di schieramento) che ancora agita l’Italia, spacciandosi per politica.
L’odio di sé
Le accuse di antisemitismo contro Irène Némirovsky, prevenute magistralmente da Myriam Anissimov, la biografa di Primo Levi, nella nota a “Suite francese”, e tuttavia endemiche, si sono riattizzate con la riedizione di “David Golder” in inglese , e la preparazione di una mostra sulla scrittrice a settembre al Museum of Jewish Heritage di New York. Progetto che il Museo porta comunque avanti, con l'intento di celebrare “l’importante storia della vita di Irène Némirovsky, la sua lotta in quanto ebrea russa emigrata in Francia durante l’occupazione nazista, la sua esperienza come scrittrice e come madre, e la sua riconosciuta eredità letteraria”. L’accusa è insostenibile – non c'è accusa possibile di antisemitismo a carico di un ebreo. Ma presenta altri motivi d’interesse, l’antisemitismo è insidioso.
Il “Guardian” ha aperto la polemica a febbraio del 2007, con la presentazione del “Golder”. Alla recensione positiva di Carmen Callil sono seguite un paio di lettere di protesta e un lungo articolo di Stuart Jeffries, “Verità, bugie e antisemitismo”. Centrato sull’omissione, nella traduzione inglese di “Suite francese” di un paragrafo della nota di Myriam Anissimov, quello che comincia (p.404 dell’edizione italiana): “Quanto disprezzo di sé si può scoprire sotto la sua penna!”.
Un anno dopo, tra fine gennaio e fine marzo, “The New Republic” ha rilanciato con asprezza la polemica. Quando uscì “David Golder”, nel 1929, scrive Ruth Franklin, editorialista del settimanale, “il fascismo europeo era ben odioso e abbastanza minaccioso”. La giornalista accusa l’autrice di “trafficare nei più sordidi stereotipi antisemiti”, e la dice “la vera definizione dell’ebreo che si odia”, che parlava male degli ebrei per accattivarsi i direttori dei giornali di destra per i quali scriveva, e che scrisse addirittura al maresciallo Pétain per evitare la deportazione. Una che collaborava col settimanale di destra “Gringoire”, xenofobo, e a Parigi era amica di Jacques Chardonne, scrittore cattolico, autore di “L’amour du prochain”, sulla pace tra la Francia e la Germania (che Mitterrand però amerà), e Paul Morand, “la cui moglie fu in amicizia con la moglie dell’ambasciatore tedesco durante l’occupazione”. E ancora: “Gringoire” nel 1938 pagò a Irène Némirovsky 64 mila franchi, pari a 23 mila dollari. Una lunga filippica, in testa alla quale il settimanale fotografa la scrittrice non col naso adunco, poiché non ce l’aveva, ma lo stesso sgradevole. E a conclusione della quale, commentando la deportazione e la morte di Irène a Auschwitz, l’accusatrice scrive: “In un’ironia che potrebbe essere venuta direttamente dalla sua narrativa, Némirovsky sarebbe morta sola in un paese dell’Est, lontana dalla famiglia, lasciandosi dietro una fortuna in manoscritti – così adempiendo fino alla fine all’incomprensibile destino di ogni buon ebreo su questa terra”. Non è tutto, Franklin ha perso una battuta: “David Golder” diventò un film, fu il primo film parlato francese, per ciò stesso di grande successo, e per ciò steso fomentò l’antisemitismo – la colpa fu tripla.
Due mesi dopo il giornale dà la parola alla traduttrice inglese, Sandra Smith, alla sua editrice in America, Lexy Bloom, di Vintage Books, e agli autori della secondo biografia della scrittrice, pubblicata otto mesi fa in Francia, Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt. Sandra Smith, che si dice essa stessa ebrea, difende la scrittrice spiegando che la conversione fu solo opportunismo, e che la famiglia di Irène “si sentiva ebrea ed era orgogliosa della sua tradizione”. I biografi spiegano l’ovvio: Irène non ebbe un’educazione ebraica, non parlava nemmeno l’yiddisch, e non andava in sinagoga (ci andò per il matrimonio per compiacere il marito e i di lui parenti), ma era e si sentiva ebrea, nel senso di Sartre: “Qualcuno che gli altri considerano un ebreo”. Le accuse di Franklin gliele aveva già mosse Nina Gourfinkel, della “Nouvelle Revue Juive”, nel 1930, alla quale la scrittrice così rispose: “Dicono che sono antisemita? È assurdo. Sono io stessa un’ebrea e lo dico a chiunque voglia ascoltarmi!”. Le caricature di ebrei ci sono anche in Singer, Aleichem, Shalom Asch, perfino nell’ “Ultimo dei giusti” dell’uomo giusto Schwarz-Bart (e in Heine, perché no, e nei tanti ebrei austriaci, o in Albert Cohen, atrocissima).
Franklin si basa, oltre che sulla lettura del “Golder”, sulla biografia della scrittrice pubblicata nel 2006 da Jonathan Weiss, “immensamente chiarificatrice”, “importante e prodigiosamente indagata”. Che invece secondo i successivi biografi francesi ha parecchi buchi. Il professdor Weiss si è tenuto fuori dalla polemica su "New Republic". Nel 2007, sollecitato dal “Guardian”, non si era sbilanciato: “Credo sia giusto dire che si era alienata dalle sue radici ebraiche, ma dirla una che si odia è troppo”. Ruth Franklin si spiega il rinnovato interesse per Némirovsky col fatto che “Suite francese” non si occupa di personaggi ebraici. Aggiungendo un altro svarione: solo dal 1939 in poi la scrittrice evitò di dare materia all’antisemtisimo. No, “I cani e i lupi” è del 1940 ed è una storia ebraica. Piena di ebrei dal naso adunco, ossessionati dal denaro, fraudolenti. Con due eroi ebrei belli, pieni dell'idea di bello, ma incapaci di felicità.
Un Dio del futuro
Lo scandalo non è nuovo. La biografia di Philipponnat e Lienhardt è noiosa ma in proposito chiara. La questione posta da Ruth Franklin non è pretestuosa, seppure non nel senso da lei sollevato. Némirovsky divenne scrittrice riconosciuta e affermata in Francia col suo secondo romanzo, che è appunto "David Golder". In grazia esattamente dell'antisemitismo, che fece scandalo, pur nell’antibolscevismo antisemita dell’epoca. Tuttavia, ricordano i biografi, la scrittrice ancora ignota si meritò le recensioni di due critici molto autorevoli, Benjamin Crémiux e André Maurois, per “la profondità morale”. I quali, aggiungono, anch’essi erano ebrei. Lo stesso “The Nation” nel 1931 aveva dato conto del successo in Francia del “Golder” in termini lusinghieri. Con la figlia Denise, che cura la memoria della madre, Philipponnat e Lienhardt dicono la novella “una variante dell’Ecclesiaste nel campo della grande finanza”. E spesso ripetono che “la derisione era più forte di lei”, anche l’autoderisione. Avrebbero potuto concludere che l’autrice Némirovsky è “vittima” della sua resurrezione, con la dolente “Suite francese”, lei era stata tutt’altro. Era una giovane molto russa, anche se ignorante della lingua e della cultura russa, viziata in famiglia, nelle amicizie, nella vita sociale, fino al matrimonio e anche dopo, autodidatta vorace, che l’ebraismo vedeva nella forma della miseria – del ghetto, della shtètl – e se ne spaventava. Non diversamente l’atterriva la madre vogliosa di vita e di amanti, di un egoismo e un’avarizia inimmaginabili.
Il “Golder”, di cui, ricordano i biografi, “critici infastiditi accolsero freddamente le caricature”, è anzi il problema attorno al quale girano Philipponat e Lienhardt, che hanno lavorato in stretto contatto con Denise Epstein, la figlia d’Irène ancora vivente, e sulla documentazione in suo possesso. Per un paio di fatti storici che bisognerebbe riscoprire. Il primo concerne gli anni 1920 e, ora che il sovietismo è svanito, si può dire: l’acuta sindrome antibolscevica in Francia dopo la rivoluzione (ma anche in Germania, in Inghilterra, in Germania), diffusissima, persistente. Che ai bolscevichi accomunava gli ebrei, ritenuti gi artefici e gli animatori della rivoluzione: di ogni personaggio del bolscevismo, Lenin incluso, si trovavano nomi e passati ebraici. Di questa sindrome era tanto più infetti i russi emigrati. E tra essi anche gli ebrei. Una sindrome persistente anche negli anni 1930, sebbene contrastata dalla grande inventiva del Comintern, dell’apparato propagandistico di Willi Münzeberg.
“Fantasio”, il periodico satirico cui Irène si rivolse per pubblicare i racconti, i suoi primi abbozzi, di “Nonoche”, la ragazza sventata a metà tra Chéri e Zazie, era specializzato nell’antibolscevismo, con corteo di maschere antisemite. Le quali in Némirovsky sono anche calchi dei fratelli Tharaud, scrittori ora dimenticati che lei privilegiava quali esponenti dello “spirito francese”, o delle “buffonerie” allora in voga di Paul Morand, “Lewis e Irene”, e “Je brûle Moscou”. Sul tema, come lo sintetizzò Albert Londres, lo scrittore di viaggi, che pure era progressista, dell’invasione degli ebrei, o meglio degli Orientali, il Siberiano, il Mongolo, l’Armeno, l’Asiatico, e l’Ebreo, cacciati dalla rivoluzione, un po’ puzzolenti, e inassimilabili.
In subordine, un’argomentazione dei biografi più sottile, meno evidente di questa, ma non meno vera: i russi ebrei emigrati, specie quelli ricchi (ma non solo: Bove, Legrand, Ela Triolet…), come del resto molti russi poveri non ebrei, Berberova e molti altri, s’identificavano immediatamente con la Francia, e la Francia non discriminava l’“ebreo francese”. Per scrivere il “Golder”, Irène Némirovsky si è molto documentata, i biografi sono anche troppo precisi su questo, sui contratti di Borsa, il mercato del petrolio, i traffici finanziari col regime bolscevico. Ma anche, volendo delineare dei personaggi ebrei, sulle abitudini religiose e alimentari ebraiche, e sul quartiere allora ebraico del Marais a Parigi. Come una qualsiasi anatomista, cresciuta per caso in una famiglia di ebrei, sposi ed ebrei peraltro per caso.
Frequenti erano peraltro allora nelle cronache le vicende spesso molto avventuristiche di uomini d’affari ebrei. Il padrone della Shell Henry Deterding, su cui David Golder è modellato, ben più che sul proprio padre di Irène. Il banchiere belga Alfred Loewenstein, stella di Biarritz negli anni in cui la giovane Irène vi folleggiava con la non amata mamma: partito da Londra sul suo Fokker, Loewenstein non vi si trovò più all’atterraggio a Bruxelles – Golder scomparirà anche lui, ma durante un traversata in mare, come poi scomparirà, negli anni 1980, il magnate britannico Maxwell.
Il secondo fatto storico che si trascura, e i biografi invece tratteggiano, è l’antiparlamentarismo – forme variegate di fascismo – diffuso nella Francia degli anni 1930. Che anch’esso rinfocola l’antisemitismo. La Crisi americana fu seguita a Parigi dal collasso di alcune banche di uomini d’affari ebrei – il caso più famoso è Stavisky ma molti patrimoni sparirono in altre disavventure. I due pregiudizi, antibolscevico e antiparlamentare, si risolsero in antisemitismo acuto nel 1936 del Fronte Popolare socialcomunista, guidato da Léon Blum, ebreo eminente.
Dalla lettura dell’insieme dei romanzi e dei racconti, che ormai sono quasi tutti ripubblicati, non emerge in Irène Némirovsky una dominanza del tema semitismo. Esso rientra in tanti romanzi e racconti, oltre il “Golder”: questo “I cani e i lupi”, “La proie”, “Un bambino prodigio”, “Il ballo”. Ma vi è anche chiaro che la sua ossessione è al contrario l’esclusione, quando non l’odio, basato sulla razza. Che nelle sue lettere e dichiarazioni, oltre che nelle opere, lei mostra di avere personalmente sofferto a Parigi, città pure accogliente e benefica. A suo modo, in negativo, essa non nega ma riafferma l’orgoglio tribale, l’essere uguale e distinto.
Iréne pubblicava i suoi racconti e romanzi su “Candide” e “Gringoire”, riviste di destra, come Colette, ma anche su “Le Matin” socialista, su “Le Peuple”, quotidiano della Cgt, il sindacato comunista, e su "Marianne", periodico di sinistra. E teneva agli apprezzamenti di Brasillach come di Kessel. “Le Peuple” pubblicò “David Golder” a puntate. Dello stesso romanzo Duvivier fece un film di successo, con Harry Baur, senza scandalo, così come senza scandalo si fece un film da “Il ballo”. L’accusa di antisemitismo mossa da Ruth Franklin a Irène Némirovsky muove in realtà, più che dai suoi racconti e romanzi, dal fatto che ha cercato in tutti i modi l’integrazione nella società francese. Di cui era un’autrice affermata. Ma che viveva una stagione sciovinista e infine l’ha respinta, lei come tutti i suoi ebrei. Anche questo è per lei materia di narrazione: il rifiuto francese negli anni 1930 dei diversi, italiani compresi, e soprattutto degli slavi, i levantini, gli ebrei. Pesa nel capo d’accusa anche l’abiura, il battesimo - ma non dichiaratamente, per “correttezza politica”. Insomma, la colpa d’Iréne Némirovsky è stata di voler uscire dalla tribù.
C’è una speciale sensibilità negli Usa all’antisemitismo, con vittime illustri fra gi stessi ebrei, da Arendt a Mailer e Philip Roth - e Simone Weil, per questa colpa ignota negli Usa. Da parte di ebrei che magnificano la loro assimilazione con l’identità comunitaria, orgogliosa e gelosa qual è delle tribù primitive, esclusiva, feroce. Ma quello dell’odio di sé ebraico è ora il problema più generale dell’ebraismo, cioè delle vittime della storia, nella quale non hanno colpa se non di esistere. Questo odio è assurdo dopo l’Olocausto, ma non prima. Quando l’ebreo, anche prima dell’assimilazione, anche in regime di interdizioni, si poneva alla pari della maggioranze – questa è una storia che aspetta ancora di essere esaminata, come testimonia lo scandalo per uno dei suoi primi ricercatori, Ariel Toaff. C’erano ebrei insofferenti della propria condizione, per motivi religiosi, ideali, sociali, familiari, come c’erano e ci sono cristiani anticlericali, meridionali antimeridionali, neri antiafricani, oltre che faziosi di ogni genere, specie in politica.
Quanto al battesimo, lo stesso Weiss conviene che fu una scelta non opportunista, non dettata dall’invasione tedesca. La conversione di Iréne Némirovsky è tutta nella speranza della vita eterna che il Dio cristiano dà e quello ebraico no, un’umanità che si vuole vincente, oltre la morte. Gli ebrei sono rappresentati ne “I cani e i lupi”, il romanzo ora ripubblicato, “senza speranza nella vita eterna”. L’ebreo, dice, anche laico, si sente sempre minacciato “da un dio terribile”.
Scultura
Tutto tardi per Irène, anche le accuse. Vittima di Lenin, poi di Hitler, quindi della guerra fredda, il destino incredibile d’Irène Némirovsky in nemmeno quarant’anni di vita resta il paradigma più calzante, nella sua assurdità, del Novecento. Feltrinelli ne aveva tentato il recupero subito alla caduta dei muri, nel 1989, con “Come le mosche d’autunno”, ma il disgelo è stato lento – un racconto che non racconta nulla se non se ne compartisce l’incomunicabile nostalgia, e anche questo, il “dovere della memoria”, è forse un ultimo guizzo di Novecento. La sua è la disperazione comune a chi non ha più radici.
"I cani e i lupi” è un racconto denso alla lettura, specie oggi che si scrive come si girano i film in inglese d’accatto, nell’età dell’acquario e della globalizzazione, di mondi vaghi e personaggi senza spessore, giusto per il plot, che sia mirabolante. Némirovsky scrittrice di oggi è singolarmente controcorrente. Presa dai suoi personaggi, che digeriva con una tecnica speciale di lenta ruminazione, per presentarli al lettore quasi in carne. Oggi si direbbero estremizzati o eccessivi: nettamente disegnati, sottolineati, insistiti, a tutto tondo, scolpiti. Ma tutti a loro modo complessi, sotto l’apparente univocità, per una chiave di lettura plurima che ne spiega la rilettura, ne fa la durata. La protagonista di “Jezabel” è una donna innamorata dell’amore, del “piacere di essere amata”. La protagonista di “I cani e i lupi” vive un’esperienza meno tipica, più incerta, ma è forte della certezza dell’arte nel troiaio della storia. E sempre con la capacità inconsueta e caratteristica della scrittrice di drammatizzare la fredda moneta, tanto ne conosce bene i meccanismi: la banca, la speculazione, l’insolvenza - “David Golder” fu pubblicato lo stesso anno del Grande Crack, nel 1929. Di un realismo non di programma (ideologico) né ottimistico. Con la consueta capacità fabulatoria, che sul quotidiano, e il linguaggio piano, costruisce memorabilia.
Irène debuttò diciottenne, quando era ancora gestita dalla madre in ogni occorrenza, secondo i biografi, drammatizzando le cose viste. Compresa la madre. La quale viaggiava a Biarritz e a Nizza in alberghi di lusso, e la figlia confinava in una pensione con la governante. Compresi molti ebrei dal naso adunco, o comunque affilato, ossessionati dal denaro. E molti buoni borghesi cristiani meschini e razzisti, anche se ricchi. Alla madre, oggetto di derisione ne “Il ballo”, fatua e vuota, che nella figlia vede un richiamo di ciò che non sopporta, l’età, l’intelligenza, l’affettività, e perfino il sesso, sono dedicati in “Jezabel” una serie di epiteti: “Una madre fredda, severa, una vecchia bambina imbellettata e mezza matta, ora frivola, ora terrificante”, “una donnetta gelida e scarna, dagli occhi verdi”.
Il lungo racconto è un giallo, con sorpresa conclusiva, ma i capitoli centrali sono il duro conflitto tra Irène e la madre al momento della maturità della figlia. Le due donne poi si odieranno, al punto che la nonna si rifiuterà non di accudire ma anche solo d’incontrare le due figlie d’Irène orfane di Auschwitz. Il nome della protagonista è Gladys, Jezabel ricorre, non specificato, nel titolo e in un paio di passi, eco della Gezabele biblica crudele. E sarebbbe un romanzo antifemminista, altro nonconformismo di Irène, se non fosse antimmamma. Contro “le donne del crudele Fragonard”, dall’occhio fatale. Contro la donna cioè nella sua immagine, e il non invecchiare come il tema della sua vita, della vita di una donna.
Autobiografismo“I cani e i lupi” è raccontato un po’ di fretta nella seconda parte. Ma è anch’esso una storia speciale. Oltre che importante per la questione dell’odio di sé ebraico, dell’antisemitismo ebraico. “Come tutti gli ebrei, Harry”, il protagonista, “nutriva per i difetti tipici della sua razza un’avversione più profonda, più sentita, di quello che potevano suscitare in un cristiano”: Irène stessa pone il problema. In termini oggi non più veritieri, dopo il sacrificio degli ebrei, e la loro integrazione piena nelle società nazionali e nella società delle nazioni. Ma all’epoca non senza rischi. La stessa autrice si difende in anticipo, in nota alla prima edizione del 1940, affermando il suo diritto a scrivere “una storia di ebrei”, con i loro pregi e i loro difetti, perché “in letteratura non ci sono argomenti tabù”.
"I cani e i lupi" esce sei mesi prima delle leggi razziali francesi. Ma già nel romanzo ci sono le persecuzioni: un personaggio minore ne è vittima, col lavoro forzato e i campi di concentramento. L’albergo in Francia è pieno di spie. E gli ebrei non graditi sono espulsi. Non c’è odio di sé, e non c’è illusione, non c’è di che. Insomma, è una storia di ebrei. Che è la sua, dell’autrice, rappresentata nel lui e la lei del romanzo. Irène è un poco Ada, la protagonista, pittrice non bella ma di forte personalità, che solo riusciva a “scavare con ostinazione e ferocia dietro volti tristi, cieli cupi, per coglierne i segreti nascosti”. Ed è Harry, il giovane ricco e fortunato che non si vuole ebreo. Cosciente di dire cose sgradevoli in un momento delicato, anche se la Francia non aveva ancora leggi razziste
È la storia di un amore tra ebrei ricchi e ebrei poveri, tra Kiev e Parigi, tra l’abiezione e la dignità, seppure negata. Tra la felicità e la disperazione in muto concorso: l’infanzia a Kiev, la naturalizzazione rifiutata a Parigi, entrambe vissute nell’incertezza e nell’inquietudine. La materia ebraica è talvolta attenuata dall’ambiente parigino, europeo, cristiano, più spesso accentuata. Ma Dio è diverso per gli ebrei poveri e per i ricchi, e per la borghesia piccola e media, Irène ne fa un trattato in mezza pagina. E quello dei cristiani può essere bestiale, dei cristiani poveri: il capitolo VII fa rivivere il pogrom, una parola vuota di significato in italiano, ma che per quasi un secolo ha rappresentato l’abiezione europea, il non detto della democrazia, lo sciacallaggio dei poveri, soldati inclusi.
Singolare fortuna ebbe “I cani e i lupi”, pubblicato nello stesso anno 1940 in estratto dal "Journal de l'Université des Annales", influente nella prima metà del Novecento, con tirature anche di duecentomila copie, una rivista di diffusione colta. Appena pochi mesi prima delle leggi antisemite del governo francese, nell’ottobre 1940. E resta come un fermo immagine, un attimo prima della catastrofe, un monumento al mondo com’era un attimo prima. Il ritorno di Irène Némirovsky è anche un recupero ideale - freudiano - di quel minuto prima.
Iréne Némirovsky, I cani e i lupi, Adelphi, pp.234, €18,50
Jezabel, Adelphi, pp.194, €16,50
“Le Magazine Littéraire”, aprile 2008, Les juifs et la littérature, €6,40
“The New Republic”, 30 gennaio 2008, Scandale française, di Ruth Franklin

1 commento:

sabina ha detto...

Eccellente analisi di una scrittrice purtroppo quasi dimenticata.Complimenti davvero.