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domenica 20 luglio 2008

Leone Ebreo, tra Lullo e Spinoza

Un ebreo e una cortigiana. I trattati d’amore che avevano fatto la prima letteratura europea e italiana nel Duecento sono lasciati nel Cinquecento infine ai marginali. Ma tali solo in un’ottica otto-novecentesca, i marginali non lo erano alla loro epoca, e questa è la sola verità della storia - né si sapeva, o si reputava, la stagione dei Ficino e Pico della Mirandola alla fine. 
Tullia d’Aragona, che vantava come padre il cardinale Pietro Tagliavia d’Aragona, arcivescovo di Palermo, e come madre certa la più celebre cortigiana di Roma, Giulia Ferrarese, fu cresciuta nello stesso mestiere e anch’essa apprezzata nell’ambiente. Ma soprattutto innamorò gli intellettuali dei suoi anni, dopo il 1530, come la biografia di Zilioli, allegata al volumetto, dettaglia. Un romanzo del 1992, “In virtù della follia”, sulla Roma di Paolo IV Carafa, l’ultima riscossa dell’italianità, la rappresenta in finale, ai suoi ultimi giorni nel 1556, di soli quarantasei anni, con tutti i fatti certi che la concernono. Aveva vissuto ai Prefetti, davanti al palazzo del cardinale de’ Carpi, ma passava gli ultimi giorni nella bettola di un parmigiano a Trastevere, Mattia Moretti. A essa segni di affetto testimoniava ancora Elia Manisco, un giovane poeta, ebreo. In attesa di fare testamento, seppure di povere cose, presso il notaio maestro Virgilio Grandinetti. “Occhi belli,\occhi leggiadri, amorosi e cari,\più che le stelle beli, e più che il sole”, l’aveva detta Girolamo Muzio. Altri versi, firmati “Mopso”, indovino e argonauta della mitologia greca, forse Speroni, sono più diretti: “Bella Tirrenia mia,\morbida più che tenera vitella.\Apri, Tirrenia, le rosate porte,\e scopri il caro seno,\apri il giardino d’amor, dimostra al sole\i dolci pomi e gli adorati gigli,\le belle membra tue morbide e bianche\più che il cacio novello e più che ‘l latte”. Tullia vantava conoscenze alla corte d’Este, avendo vissuto a Ferrara con la madre, tra i dogi di Venezia, tra i duchi di Firenze, i gonfalonieri di Siena, i vicerè di Napoli. E rapporti con i migliori letterati dei suoi anni, il duca Cosimo, Muzio, Molza, Razzi, Benedetto Varchi, notaio, Lasca, Bembo, Speroni, Bernardo Tasso, Giulio Camillo, Filippo Strozzi, Claudio Tolomei, Ercole Bentivoglio. 
La vicenda di “In virtù della follia” ruota attorno a un banchiere immaginario di nome Abravanel, la reputata famiglia ebrea sefardita, di cui Leone “Ebreo” Abravanel fu esponente emerito nel primo Cinquecento, non l’ultimo. Laterza, cui si deve l’ultima edizione di Leone Ebreo, quella di Santino Caramella del 1929, nella formidabile collana “Scrittori d’Italia”, lo ripubblica rivisto da Delfina Giovannetti, con un breve saggio di Eugenio Canone. Lo propone come un reagente, “in un’epoca appiattita sull’attualità”, che vuole immaginare “alla ricerca di senso”. Come un ultimo messaggio nella bottiglia, benché curato e raffinato, non osando rifare gli “Scrittori” - per chi?
“Testo misterioso e poco letto” dice Canone i “Dialoghi d’amore”. Da qualche tempo sì, ma come tutti gli studi rinascimentali. Ai "Dialoghi" Giovanni Gentile assegna, nei suoi “Studi sul Rinascimento”, "un posto cospicuo nella nostra letteratura”. Documentando una fioritura di studi sugli stessi, nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli anni in cui scriveva - gli "Studi" sono del 1936.
Era un altro mondo il Cinquecento, che la fama di Leone Ebreo, pubblicato postumo nel 1535, venticinque edizioni in sessant’anni, con traduzioni in latino, spagnolo e francese, prolungò fino a Giordano Bruno e a tutto il Seicento. Le fonti dei “Dialoghi” comprendono la migliore filosofia greca e araba, con Maimonide e la kabbalah. Ma anche l’Italia del Quattrocento, Pontano, Ficino, Giovanni Pico. Fonti note cui peraltro bisognerebbe aggiungere, per tratti semantici comuni e calchi evidenti, Raimondo Lullo, che del resto era noto ancora nel Quattrocento nella cultura iberica da cui la famiglia Abravanel proviene.
Don Isacco Abravanel, padre di Leone, fu erudito, filosofo, esegeta biblico, uomo politico e uomo d’affari. Discendente di una famiglia con radici in Siviglia, Toledo e Valencia, figlio del tesoriere del re del Portogallo, dov’era nato nel 1437, a Lisbona, fu a sua volta consigliere finanziario del re Alfonso V. Alla morte di Alfonso nel 1481 fu costretto a emigrare. Si recò in Spagna, dapprima a Siviglia e poi a Toledo. Segnalandosi ai Re Cattolici, fino a divenirne nel 1490 il consigliere finanziario. Ma due anni dopo i decreti per la conversione forzata lo costrinsero a emigrare di nuovo. Forse fu a Salonicco, ma lo ritroviamo a Napoli, alla corte del re Ferrante e di suo figlio Alfonso. Seguì i reali di Napoli in Sicilia nel 1495, dopo l’invasione di Carlo VIII.
Si disperse in questa occasione la famiglia. Il figlio Leone si diresse a Genova, per poi tornare a Barletta e a Napoli, medico personale nel 1501, don Gonsalvo de Cordoba, “il Grande Capitano”, i re di Spagna avendo soppiantato gli aragonesi di Napoli. Samuele si spostò a Ferrara. Isacco non ritornerà a Napoli: da Palermo passerà a Corfù e quindi a Venezia, dove visse otto anni, morendovi rispettato nel 1508. È seppellito a Padova, vicino al rabbino della città, Minz. Molte della sue opere bibliche furono tradotte e diffuse nel mondo cristiano. 
Don Isacco è noto come commentatore biblico prolisso e scontato. Ma anche come critico dei commenti che usa, e degli stessi testi biblici, per fatti non etici o per difetti stilistici o lessicali. Facendo degli innovativi paralleli tra la struttura sociale e politica della Bibbia e quella dei suoi tempi. Dialoga spesso con gli esegeti cristiani. Per questo aspetto, la capacità di rileggere i testi sacri alla luce del mondo contemporaneo, e della sorte degli ebrei nella dispersione, 
Isacco Abravanel è tuttora in considerazione tra i sionisti integristi. Aveva uno spiccato senso della storia. E soffrì forse più degli altri correligionari la condizione di esiliato, i decreti di conversione forzata avendone troncato l’assimilazione ordinaria, per essere suddito spagnolo leale e di più lunga data di tanti altri. Samuele ha più degli altri fratelli, medici e letterati, ereditato il gusto di famiglia per gli affari, dopo un’educazione agli studi talmudici in Salonicco. Grazie soprattutto al padre Isacco, ma anche alle attività sue e di sua moglie, la cugina Benvenida, gli Abravanel a Napoli raggiunsero rapidamente grande considerazione.
Samuele fu non solo fortunato in affari ma “uomo savio e di fede”. Benvenida è forse il personaggio di maggiore spicco in quegli anni della famiglia Abravanel, cugina e cognata di Leone, avendone sposato il fratello più giovane Samuele. Il romanzo “In virtù della follia” la rappresenta quale donna “presa dai contemporanei a modello di virtù e di grazia femminile e reputata saggia e coltissima”. A lei “il Vice Re di Napoli don Pedro affidò, benché ebrea, l’educazione della seconda figlia Eleonora di Toledo, andata sposa a Cosimo I dei Medici, duca di Toscana”, la gentildonna del “Ritratto con cane” di Alessandro Allori. 
Donna Benvenida “era famosa, al dire dell’avventuriero e falso messia David Reubeni suo beneficato – vantava, creduto, un regno in Arabia, da liberare con una crociata contro i turchi (il controverso personaggio rivive ultimamente, con Benvenida e altri straordinari caratteri, nel romanzo “Il Messia” di Marek Halter) – fin nella Palestina per la generosità e la grande pietà”. La sua biografia, che posteriormente al romanzo si va ricostituendo con enfasi, l’attesta impegnata a sostenere le “cause ebraiche”, in particolare a dotarne gli istituti di beneficenza. Al suo attivo mettendo anche il riscatto di “oltre un migliaio di ostaggi ebrei” – dai barbareschi, è da presumere. In questa attività si erano già segnalati Isacco e lo stesso padre di donna Benvenida, Giuda.
Leone è il secondogenito di Isacco, letterato come il padre e di professione medico. In rapporto di vicendevole stima col padre. Giuda scrisse prefazioni affettuose, in forma di dedica, per ciascuno dei libri del padre, don Isacco lo dice “senza dubbio il più grande filosofo della sua generazione in Italia”. Testimonianza rocciosa contro il vezzo ultimo di ritagliare la cultura ebraica dai contesti nei quali si elaborò, sempre prensile. Ma molto si sa della famiglia di Isacco Abravanel nella storia del Cinquecento, niente di Leone. Dove visse, quando morì, se ebbe famiglia, fu innamorato, lavorò per qualcuno. Si può supporlo gaiamente l’amico del curatore Lezi, che tanto per lui faticò, ma non cambia molto. I “Dialoghi” non dimostrano niente, si dimostrano, sono un modo d’essere e un attestato del modo d’essere: quello di dire la vita evitandola. Che è poi il segreto del platonismo, la sua verità e la sua spinoziana virtù.
Tutto è congettura attorno a Leone, sui secondi venti-trent’anni di vita, e per l’ambiente culturale con cui fu in contatto, ma le cose note sono robuste, alcune registrate nella Cronologia del volume. Negli ultimi tempi ascritto alla cultura ebraica, Leone fu parte dell’establishment del tempo, come sicuramente attesta la pubblicazione postuma. La seconda e terza edizione dei “Dialoghi” recano anche l’indicazione che si era convertito al cristianesimo. Il fatto è rifiutato oggi, per la ragione che un figlio di Isacco Abravanel, “l’ultimo grande commentatore biblico dell’ebraismo medievale”, non si converte. Lo stesso Isacco lamenta che il nipote figlio di Leone sia stato battezzato a forza, bambino, su ordine dei re di Spagna. Ma Leone è cristiano verosimile, era nel filone centrale della cultura dell’epoca, dove ebbe estimatori (Varchi, Doni, Piccolomini) e critici (Muzio).
Per gli stessi motivi si rifiuta oggi l’ipotesi che Leone abbia scritto in italiano: secondo Dionisotti il testo dei “Dialoghi” reca toscanismi che sono da attribuire al curatore Lenzi. Il che non esclude che il curatore sia stato anche editore. Ma si preferisce far prevalere l’ipotesi, sempre per l’autorità di Dionisotti, che Leone abbia scritto in ladino, lo spagnolo degli ebrei della penisola iberica, poiché una delle copie cinquecentesche dei “Dialoghi”, alla British Library, è in tale lingua. Poco importa che Leone avesse lasciato la penisola iberica un vent’anni prima, prima della sua vita adulta e del tutto indipendente dalla famiglia, e che i "Dialoghi" siano stati subito tradotti in più lingue. D’altra parte si ritiene che siano stati i “Dialoghi d’amore” a introdurre il platonismo del Rinascimento in Spagna. Ce ne sono tracce evidenti in Cervantes.
“Casto soggetto d’amore” definisce i “Dialoghi” il primo curatore, Mariano Lenzi, nella dedica ad Amelia Petrucci, nata Borghese, poetessa, poi morta giovane nel 1542, “a donna casta che spira amore”. All’insegna del “concordismo”, che la filosofia antica ritrova integrale nelle Scritture. Compreso l’androgino di Platone: il primo Adamo fu “maschio e femmina senza distinzione” - con dettagliato riconoscimento dell’amore omosessuale che lo fa includere ultimamente tra le icone gay. Molto si parla dell’origine dell’amore, tra gli angeli, la “divina coppulazione”.
I tre dialoghi, “D’amore e desiderio”, “De la comunità d’amore”, “De l’origine d’amore”, sono in realtà di scarso appello per qualsivoglia lettore, se non mistico. O storico della cultura: Leone è in più punti fonte di Spinoza, della sua summa, l’“Etica”. Una discendenza in questo caso riconosciuta ed esplorata, per ultimo da Gentile. Che fa grande caso, tra gli studi specialistici cui si riferisce, del “Benedetto Spinoza e Leone Ebreo” di Edmondo Solmi.
Spinoza possedeva una copia in spagnolo dei “Dialoghi”. Dai quali ha preso il concetto e il termine dell’Amor Dei intellectualis, spiega Solmi: la saggezza vi nasce “dall’amore di Dio”, ed è la fonte della felicità umana. E dell’amore di dio verso se stesso nelle sue creature, aggiunge Gentile. L’influsso di Leone fu anche forte, secondo Gentile, su Giordano Bruno. L’amore, che nel secondo dialogo è il principio dominante di ogni forma di vita, nel primo nasce dalla Ragione, ma dalla “Ragione eroica”. Il terzo dialogo, che prende due terzi del libro, riguarda “l’amore di Dio”, che copre tutta l’esistenza, ed è “la coesione dell’universo”.
È qui che Leone diventa un’icona gay, per aver risposto alla domanda su chi sono i genitori dell’amore con la nascita di Cupido e il platonismo dell’androgino. Ma il platonismo è biblico: “Il primo uomo è fatto, come dice la Bibbia, a immagine e similitudine di Dio, maschio e femmina”. Secondo la lettura tradizionale (maschilista?)e nulla più: “Ciascuno di loro ha parte mascolina perfetta e attiva, cioè l’intelletto, parte femminina imperfetta e passiva, cioè il corpo e la materia”.
Un aspetto moderno è la ripresa dell’oressi aristotelica, o appetitio scolastica, il desiderio insomma. Definito come il “conoscimento” che precede l’innamoramento. Anche Dio “desidera quel che manca a quel che ama”. Nella selva dell’epoca lussureggiante di accadimenti e storia, e nella quasi secolare tradizione dei trattati d’amore, i “Dialoghi” sono l’attestato di una rinuncia. Così come Spinoza, secondo Unamuno, ha scritto il librone dell’“Etica” per dimostrare a se stesso, la verità della sua ultima proposizione: la beatitudine non è la ricompensa della virtù ma la virtù stessa.
Tullia d’Aragona, Della infinità d’amore, La Vita Felice, pp.125, € 8,50 
Leone Ebreo, Dialoghi d’amore, Laterza, pp.377, € 38

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