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domenica 5 ottobre 2008

Il mondo com'è (12)

astolfo

Borghesia – Ma non è una classe. Non la muove alcun interesse comune: al borghese non frega nulla né della patria né della famiglia, per non parlare di Dio, e nemmeno della conservazione, volentieri si approprierebbe del vicino e comunque si compiace della sue disgrazie.
È più vera come classe non classe. Che sempre è in piedi, malgrado le crisi, le guerre, i comunismi, e se stessa (l’avidità, l’intemperanza, l’anarchia), perché è elastica per essere amorfa.

Capitalismo – È aneconomico, cioè non razionale. C’è l’equivoco di Adam Smith (sul quale Marx s’è impantanato coi suoi elogi), che però parlava di tutt’altro. Certo non della razionalità che si vuole del mercato, che invece non ne ha alcuna, se non il guadagno dei pochi (più forti, astuti, fortunati). Ma il mito della razionalità purtroppo resta fortissimo, malgrado la storia e, appunto, il mercato, con le crisi ricorrenti e dolorose.
È un insieme di meccanismi, intesi a massimizzare l’interesse del più gran numero, che però può essere ristretto, e talvolta è nullo. Proprio perché non ha razionalità (economicità). Razionalmente per il ricco il benessere di tutti è un bene, la crisi un male, ma non per il capitalista. C’è naturalmente impresa e impresa. Allora, si può dire che il motore del capitalismo va bene con le marce basse, quando si costruisce con applicazione, per poi divagare alle marce alte. Questo anche quando si applica allo spirito d’azienda, quello che gli americani chiamano corporate spirit, che può diventare una forma di corporativismo, dei fringe benefits, dei premi di produzione, e delle opzioni, i salari miliardari legati agli utili trimestrali, che ne consacrano il carattere dispersivo. Se ne parla meglio però liberandosi del politicamente corretto. Andando alla radice della cosa e parlandone liberamente, senza censure – senza le residue ideologie, del mercato, o mercatismo, e dello statalismo.
È da dubitare che il capitalismo sia un’inclinazione dello spirito o conformazione mentale. All’inizio del Novecento il capitalismo ascese alla dignità di forma dello spirito in omaggio all’invadente psicologismo. Il Novecento è il secolo della psicologia: tutto vi si riduce, il sesso, l’economia, la malattia, la fisica perfino e la matematica, che uno penserebbe ancorate a realtà solide e logiche stringenti. Bergson l’aveva detto, che il Novecento sarebbe stato il secolo psichico, dopo l’Ottocento pieno di macchine. È stato altrimenti, il Novecento s’è riempito di morti. Ma lo psicologismo è un ritorno della fantasia, sotto le sembianze scientifiche che mascherano il secolo, e nulla se ne può dire di disdicevole. Se non per il capitale, che non è creativo. È usura, speculazione, truffa, rapina, è stato conquista, pirateria, compagnia delle Indie, fulgida e sordida, e vuole pelo, dentro e fuori, fin sugli occhi, le unghie, i denti. A danno di chi opera, risparmia e ha bisogno di sperare, dei fantasiosi, degli indifesi, delle vedove. E dei concorrenti. Vuole segreto e violenza, anche bruta, senza calcolo. E quando la natura è malvagia ogni abbellimento è traditore.
Si sa per certo, la statistica lo attesta, che il capitalismo non produce più beni, non più del socialismo, per dire, o delle società primitive. La famosa concorrenza è una guerra non tra le aziende, col concorso dei consumatori a schiera, che porterà al prezzo più basso possibile, al salario più elevato, e quindi al massimo di consumi, produzione e reddito, ma fra chi vende da un lato e i lavoratori-consumatori dall’altro. Il capitalismo, o moltiplicazione del denaro attraverso il denaro, non produce. Questo lo sa perfino Pinocchio. Perché l’albero del denaro non esiste? Perché non è un albero: non ha radici, non ha linfa. Wall Street, con i suoi milioni di miliardi giornalieri, non crea un bottone. Fa giochi di prestigio, fa apparire masse di denaro, e le fa sparire, lasciando forti dosi di malinconia.
È una passione, questo sì, che può raggiungere l’intensità della follia, la stessa del giocatore d’azzardo che esce di notte e il mondo riduce al panno verde e alle mani grassocce del croupier, vivendo di tensione nervosa. Analogamente il capitalismo: è capace di costruire monumenti di trecento piani, o di mille, perché no, provoca guerre, deruba milioni di persone contemporaneamente, fa scomparire in un attimo il lavoro di generazioni e di centinaia di migliaia di uomini, senza nemmeno leccarsi i baffi, giusto per il frizzo. In queste condizioni il motore del ca-pitalismo, che è lo spirito di azienda, è debole: la carriera e il salario non costituiscono motivazioni sufficienti. Né basta a sovrastare la tetraggine del lavoro ripetitivo il mito del progresso. Al contrario, nel lungo termine vi si aggiunge l’ inquietudine di lavorare contro la società.
In quanto meccanismo il capitale è anodino, ma lo muove l’avidità. Gli fu data dignità di fattore dell’accumulazione da Marx, con generosità eccessiva. Marx si lascia andare a un duplice slittamento. Parla di capitalismo ma pensa al potere. E su questo rovescia l’invidia dello sconfitto del ‘48. La deriva è attestata dalla conclusione: il lavoratore non è artefice ma schiavo. Mentre è assolutizzato un fenomeno, il potere, che non ha coerenza né costanza, giacché esclude ogni considerazione di fine, interesse compreso, e se persiste è in virtù del suo camaleontismo. Senza contare che, come Proudhon obiettò, la schiavitù non può formare uomini liberi. Altra cosa è produrre. Che non è avvitare bulloni. È una forma mentale. Comune alla casalinga che organizza la vita quotidiana e al manager che organizza il lavoro di centomila persone. Anche al capitalista che lo finanzia, perché no: ognuno risolve a ogni istante sistemi di equazioni a più variabili, che si tratti di fare la spesa al mercato o di lanciare un prodotto.

Impero - È solo forza. Più o meno ragionata, più o meno “economica” (logica, conveniente per il più gran numero), ma se non ha la forza non vince – convince solo in quanto vince. L’impero “giuridico” romano usava la forza in forme radicali, la distruzione di città, la deportazione di popolazioni (epiroti, apuani, ebrei). L’offensiva americana contro l’islam radicale non convince, in Iran e in Afghanistan, perché non è forte: contenuta, con regole d’ingaggio limitative, evidenzia gli effetti negativi dell’aggressione e annulla i vantaggi della liberazione.
La forza non è l’accumulo di mezzi e armi, ma l’uso conclusivo degli strumenti di aggressione. È questione aperta se gli imperi cadono per la forza dei nemici, oppure per debolezza interna. Ma ogni impero ha sempre nemici forti, ognuno ogni volta per motivi suoi pericoloso, è la forza interna che regge l’impero. Che non ha nessuna “naturalità”, ha bisogno appunto della forza.

Reagan – È stato il presidente americano di minore prestigio e personalità a creare il “mondo americano”. Veniva dall’America sconfitta in Vietnam e – senza guerre – ha sconfitto il comunismo sovietico. Dappertutto instaurando il suo sistema di valori, del mercato: nella produzione, nei consumi, nelle logiche politiche e etiche.

Usa – Sono l’unico paese russoviano: la volontà generale vi si realizza. Per il robusto senso della nazione. Nel paese geneticamente più raccogliticcio.
L’America è finita si dice, è vuota, è un agglomerato di masse informi, dai linguaggi insignificanti. Ma questo perché è considerata un’appendice dell’Europa cristiana e liberale,. Invece è un’altra cosa. Che non solo sta sempre in piedi, ma forma e informa il mondo – non per l’atomica. È l’impero nella capacità di fare impero. È anche, dal punto di vista della scienza politica, una riedizione integrale dell’impero romano. E non per i campidogli, ma per il dominio virtuistico – e virtuale – della legge, la remoteness del comando, l’inflessibilità. Con la scelta del Nemico, la blandizie e la minaccia, la durezza di fondo. Un impero eminentemente politico, ennesima sconfessione di Lenin e di un secolo di dottrina. Anche se i benefici economici, benché indiretti, sono sempre stati elevati e duraturi, prima con la guerra fredda, l’asse Usa-Europa, poi con la globalizzazione, l’asse Usa-Cina.

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